martedì 31 luglio 2012

11 AGOSTO: CASAGGì AL SACRARIO DELLA RSI...



Come da tradizione, anche questo 11 agosto, Casaggì sarà al sacrario di Trespiano a portare un fiore sulla tomba dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana. L'appuntamento, sabato 11 agosto, sarà alle 11 al cimitero di Trespiano. 

DA "LA PELLE" DI CURZIO MALAPARTE:

I ragazzi seduti sui gradini di S. Maria Novella, la piccola folla di curiosi raccolta intorno all’obelisco, l’ufficiale partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa, coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffè della piazza,la squadra di giovani partigiani della divisione comunista “Potente", armati di mitra e allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l’uno sull’altro, parevano dipinti da Masaccio nell’intonaco dell’aria grigia. Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso, tutti tacevano, immoti, il viso rivolto tutti dalla stessa parte. Un filo di sangue colava giù per gli scalini di marmo.

I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino.

C’era anche una ragazza fra loro: giovanissima, nera d’occhi, e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine.

Quando avemmo udito gli spari, eravamo a metà via della Scala, presso gli Orti Oricellari. Sboccati sulla piazza, eravamo andati a fermarci ai piedi della gradinata di Santa Maria Novella, alle spalle dell’ufficiale partigiano seduto davanti al tavolino di ferro.

Al cigolio dei freni delle due jeep, l’ufficiale non si mosse, non si voltò. Ma dopo un istante tese il dito verso uno di quei ragazzi, e disse:
- Tocca a te. Come ti chiami?
- Oggi tocca a me - disse il ragazzo alzandosi - ma un giorno o l'altro toccherà a lei.
- Come ti chiami ?
- Mi chiamo come mi pare... - O che gli rispondi a fare a quel muso di bischero, gli disse un suo compagno seduto accanto a lui.
- Gli rispondo per insegnargli l'educazione, a quel coso - rispose il ragazzo, asciugandosi col dorso della mano la fronte madida di sudore. Era pallido, e gli tremavano le labbra. Ma rideva, con aria spavalda guardando fisso l'ufficiale partigiano. 

A un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro ridendo.
Parlavano con l'accento popolano di San Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo.

L’ufficiale partigiano alzò la testa e disse:
- Fa presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te.
- Se gli è per non farle perdere tempo - disse il ragazzo con voce di scherno - mi sbrigo subito - E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.
- Bada di non sporcarti le scarpe ! - gli gridò uno dei suoi compagni, e tutti si misero a ridere.
- Jack e io saltammo giù dalla jeep.
- Stop! - urlò Jack.

Ma in quell’istante il ragazzo gridò: - Viva Mussolini ! - e cadde crivellato di colpi .

"AMORE E CORAGGIO":RECENSIONE DEL DISCO DEGLI NSP




"Amore e coraggio" è il titolo del primo album degli Nsp. Un ottimo lavoro, autofinanziato e portato a termine dopo anni di sforzi e di sudore dalla formazione romana. Nove brani e un buon ritmo, per un disco che certamente farà parlare. Una nuova linfa per la musica identitaria, nel solco della tradizione rock, con sonorità accattivanti, una buona qualità di registrazione, buona esecuzione degli strumenti e buona voce. Elementi che non si trovano troppo spesso nei lavori che nascono dal basso e che solitamente vantano grande passione, ma qualità approssimative e dozzinali. Non è il loro caso.

Dirompente il primo brano ("Lma"), che molti avevano già sentito in rete o dal vivo nei concerti degli ultimi anni (quello del luglio 2009 a Casaggì, nel quale si esibirono gli Nsp, ce li fece piacere subito). Notevoli anche le altre canzoni, con buona varietà di temi e un excursus nella storia e nella identità militante della propria comunità di riferimento ("Castrum" e "Solstitium"). Da sottolineare "La mia gente", caratterizzata da un testo di livello, che meglio non poteva esprimere la tensione ideale ed emotiva che sta alla base della nostra scelta di vita. Bella anche "Cinquantatre" dedicata a Trieste e ai moti di rivolta per l'italianità e  "Renuncio", dedicata ad Evita Peron. Un plauso particolare per "Stornello". Simpatica "Archeofà" e orecchiabile "Senza Nome", con buona disposizione di strofe e rime. In tutti i brani e da sottolineare la cura negli accordi e nella sovrapposizione degli strumenti, che non fa mai perdere di livello all'insieme del suono. 

Ciò che conta di chi fa musica identitaria, poi, è la condotta quotidiana, la capacità di mettere in pratica quei concetti su se stessi, la volontà di far vivere quelle note nei gesti di tutti i giorni. E' anche per questo che consigliamo questo disco: perchè conosciamo chi lo ha realizzato.

Un grande in bocca al lupo agli Nsp.
Presto potrete acquistare a Casaggì e sentirli, sempre a Casaggì, dal vivo... 

lunedì 30 luglio 2012

LE PRIME ATTIVITA' DI CASAGGì VALDICHIANA!



Casaggì sbarca ufficialmente in Valdichiana. Dopo i lavori e le prime iniziative di questi mesi per la costruzione e la ristrutturazione della nuova sede, si parte con il primo programma, che ci accompagna fino all'inaugurazione di sabato 13 ottobre. Un calendario estivo che prevede serate comunitarie, cene sociali, proiezioni e cineforum, oltre alle consuete riunioni organizzative. 

La Comunità è in marcia, con entusiasmo e nuove energie, per una sfida politica, culturale e generazionale che farà disperare molti dei profeti del nulla, per disegnare nuova prospettive di azione e di lotta. 

Siamo in via del Poggiolo 3 a Montepulciano. E su www.casaggivaldichiana.blogspot.com e su facebook. Seguici, sostienici, unisciti a noi. 

In democrazia è vietato trattare di cose vere

di Giuseppe Turrisi

Conoscere è già rivoluzione, ma per conoscere è necessario far sapere. Questo lo si può fare solo con i mezzi di informazione, che sono i media classici (stampa, cinema, radio e tv) ed ultimamente internet.
La conoscenza è potenza, dicevano i greci, chi conosce pensa e riflette, chi non conosce si accontenta ed accetta. La conoscenza produce consapevolezza, e cambiamento, il potere non accetta cambiamento, per questo non vuole che la conoscenza si diffonda, questa potrebbe produrre rivoluzione. La rivoluzione produce sempre cambiamento. L’uomo è un animale relazionale e nella relazione c’è sempre una “reazione”. L’animale relazionale reagisce alla informazione.
L’idea porta sempre all’azione, l’idea “nuova”, “diversa”, porta sempre alla riflessione e dopo all’azione. L’idea “vera”, l’idea “nuova” porta sempre all’idea-azione. Nella natura abitudinaria dell’animale uomo se l’idea è sempre la stessa, non viene attivata la “re-azione”, ma solo l’abitudine, (scatta nel cervello subito: “questo l’ho già sentito”, e subito si spegne il riflettore dell’attenzione). L’idea nuova invece fa partire le sinapsi e scatta la parte elaborativa ed ecco che da un idea ne nasce un’altra fin quando nasce l’azione.
Il potere fa di tutto per trasmettere (programmare) sempre le stesse idee, e sopratutto di confonderle per bene, parla sempre e solo degli effetti, mai di cause, ed usa in continuazione sempre elementi emozionali, poiché la “macchina umana” se usata (programmata) con le emozioni “re-agisce” sempre alla stessa maniera (bimbo triste che piange = compassione, case diroccate e strilli = solidarietà, ansia paura = rassegnazione e affidamento, insicurezza = delega di potere, ecc). Mentre se la “macchina umana” viene usata (programmata) con le idee “nuove”, rischia di “auto-programmarsi” (consapevolezza), perché allo stimolo di una idea, il cervello risponde con un altra idea (non conosciuta dal sistema) e quindi non controllabile. Il sistema sa che per controllare la popolazione è necessario che il popolo sappia il meno possibile, e quel poco che sa deve essere scadente e soprattutto inutilizzabile (un po’ come il concetto di democrazia).
L’obbiettivo del potere quindi è fondamentalmente quello di mantenere l’impero dell’ignoranza, se il popolo ignora non agisce, fino all’ottocento primi del novecento questo bastava, dopo è stato necessario: manipolare, mediare, filtrare e soprattutto “creare” una informazione ad effetto per gestire la “re-azione” del popolo.
Tale informazione “pilotata” ha molteplici funzioni, tra cui: distruggere ogni possibile forma di “re-azione” e quindi di “ide-azione”, in modo da far accettare passivamente qualsiasi cosa venga fatta dal potere (con il principio del silenzio-assenso), poi ha la funzione di tenere occupata l’attenzione emozionale il più possibile (risse, truffe, omicidi, sesso, giochi, ecc) per evitare qualsiasi risveglio della razionalità, poi distrugge ogni tipo di relazione familiare che servivano come funzione di controllo sull’individuo, in quanto adesso il controllo deve essere totalmente sotto il sistema, poi distrugge anche l’identità che ha la funzione di dare un significato al territorio in cui si vive, distruggere l’identità (cittadino, regione, nazione, ecc) significa rompere i legami ed i riferimenti del proprio “territorio” di appartenenza ( per “territorio” si intende non solo quello fisico, ma anche culturale, sociale ed ideale), livellare l’istruzione ed imporre l’uguaglianza industriale, al fine di poter avere una massa di “macchine umane”, tutte intercambiabili e programmabili allo stesso modo.
Il potere non deve avere nessun “alter ego”, il popolo nella illusione delle “democrazie” dovrebbe essere il controllore del potere, di fatto il potere costituito non accetta il controllo del popolo ma invece potenzia il controllo del popolo per non essere controllato. Il potere è una relazione di forza, è una reazione, ed in una relazione vince chi ha più armi ha disposizione, chi ha più “re-azione”, ricordiamo che “re-azione” significa anche e soprattutto, “grado di partecipazione” all’azione. Nel gioco del potere costituito, la cosa che si nasconde, in tutte le leggi da 40 anni a questa parte, è quella di limitare fino a togliere definitivamente il grado di “re-azione” dei cittadini (relazione di potere).
I trattati di Maastricht e Lisbona (ma anche la stessa Costituzione Italiana scritta da sapienti mani atlantiche con la complicità rossa, non scherza) sono una chiara dimostrazione di come il potere, ormai in mano dei potentati finanziari e bancari, per auto-difendersi, ha sistematicamente tolto ogni potere “contrattuale” di “re-azione” del popolo.
La relazione di potere “il popolo è sovrano” (art.1 della Costituzione) nei fatti oggi è una presa in giro, e questo il popolo non lo deve sapere. La regola del “controllato” e del “controllore”, non c’è più. Oggi c’è un sistema centrale fatto da tanti sotto sistemi (potere finanziario, multinazionali, comunicazione, politica, sindacati, ecc) che ha reso il popolo, inconsapevole, inerme, ignorante ma soprattutto “non re-attivo” attraverso pesantissime e continue programmazioni mentali, proprio per esercitare incondizionatamente le proprie volontà di dominio globale con l’alibi della “democrazia”. Ancora molti pensano che la politica, gli stati, le regioni, i comuni, servano a governare il popolo, di fatto sono strumenti completamente in mano al potere finanziario che se non torchiano gli schiavi (i cittadini) di fatto diventano inutili infatti sono enti da tagliare, accorpare, da chiudere, far fallire.

venerdì 27 luglio 2012

Italia? Invidiabile la Spagna al confronto.



Nella foto: Espacio de Las Artes, Santa Cruz (Lanzarote).

di Maurizio Blondet.
Di ritorno dalle Canarie: se devo valutare da quest’angolo della Spagna che ho visto, penso che quel Paese sia meglio attrezzato dell’Italia di fronte alla crisi, e che si solleverà prima di noi. Anche là vige il disprezzo per i politici e la politica; cresce, persino più che da noi, la consapevolezza dei privilegi e del parassitismo delle burocrazie pubbliche, il che è un buon segno di vitalità politica della popolazione, che mette sotta accusa i salari sicuri degli statali mentre nel settore privato la disoccupazione è alle stelle. Ma visto come stiamo messi noi, vorrei fare il cambio. Ecco alcuni motivi:

Infrastrutture.
D’accordo, durante il boom edilizio (causato dai tassi eccessivamente bassi che l’euro «germanico» ha chiesto per indebitarsi, e dalla banche tedesche, rigurgitanti di capitali, che li hanno offerti in eccesso agli iberici) s’è costruito troppo, ed ora è scoppiata la bolla edilizia. Ma ciò che colpisce, è la quantità e la qualità delle infrastrutture progettate ed attuate dalla «politica». Se i politici spagnoli hanno rubato, non si sono tenuti tutto loro; hanno anche attrezzato il Paese per la modernità. Strade extra-urbane nuove fiammanti a Lanzarote, autostrade a quattro corsie (e gratis) a Tenerife; non una buca nell’asfalto, non un lampione bruciato, e ovviamente non un cartello perforato da gragnuole di proiettili (tipico del folklore in Sicilia e Calabria). Nella capitale Santa Cruz, che è pur sempre una cittadina di nemmeno 230 mila abitanti, grandiosi spazi culturali firmati da archistar (tipico l’auditorium ideato da Calatrava, e lo Espacio de Las Artes dello svizzero Herzog) che possono non piacere, ma testimoniano l’impegno dei pubblici poteri per la cittadinanza, ospitano mostre, biblioteche, teatri.
Due aeroporti che non sono affatto cattedrali nel deserto, anzi frequentatissimi da voli internazionali (arrivano 5 milioni di turisti – che poi tornano, al contrario di quelli che vengono in Sicilia). Immensi parcheggi sotterranei pubblici, che da noi non si sono mai fatti perchè «il Comune non ha i soldi» o «il comitato di quartiere si oppone» o non ci si mette d’accordo sulle mazzette. Un sistema-modello di trasporti pubblici: la piccola capitale canaria ha una metropolitana leggera nuova fiammante (del 2004, finanziata da Fondi UE) che tocca tutte le zone che contano, e fa’ capolinea all’Intercambiador: ossia alla grande stazione dei bus («guaguas», nel gergo locale), su sei livelli con scale mobili, da cui si può raggiungere qualunque villaggio dell’isola a prezzi popolari dopo aver lasciato l’auto nel parcheggio sottostante, che basta a 1400 veicoli.
Come dire che questo Interscambiador è una delle installazioni che mi ha più colpito? Fate un confronto mentale con una stazione di corriere o anche dei treni in Italia, dove arrivino e partano, come qui, 3500 bus al giorno: immaginate le cartacce e le cicche per terra, la polvere (e peggio) che si addensa negli angoli, gli odori di urina; immaginate i barboni che dormono sulle panchine, i mendicanti molesti, o i personaggi più loschi e pericolosi che, nelle ore notturne, abitano le stazioni italiane. Immaginate, perchè qui è l’esatto contrario: nella monumentale hall i pavimenti sono lucidi; il bar-ristorante offre bocadillos e tapas invitanti (io ci ho mangiato un pasto completo per 10 euro), anzichè quelle oltraggiose cartilagini di prosciutto risecchito che vengono vendute a peso d’oro nelle nostre stazioni da qualche innomina entità che «s’è aggiudicata l’appalto». I gabinetti pubblici, ovviamente usatissimi dai passeggeri di ogni nazione e livello sociale, sono uno  specchio, benchè gratuiti. Non ne ho mai trovato uno reso inservibile con occlusioni di carta igienica cacca e piscio, com’è regola da noi. Misteriosamente, nelle loro pareti mancano del tutto le scritte oscene che tanto rallegrano i cessi pubblici italioti. Miracolo, gli addetti alle pulizie fanno effettivamente i lavoro per cui percepiscono il modesto salario pubblico, e li vedi sempre in giro con scopino e scopa a raccogliere anche una sola cicca.
Immaginate i bus? Come minimo, direte voi, avranno l’aria scalcinata, rotta e bisunta di quelli di Roma (si sa, ci sale tanta gente, il Comune è in rosso), perchè dopotutto parliamo di isole arretrate e marginali di un Paese meno ricco e sviluppato del nostro. Macchè: i «guaguas» sembrano tutti nuovissimi, in perfetto stato di manutenzione, con aria condizionata funzionante. Ogni mattina, prima di partire, passano sotto il lavaggio-auto comunale lì a fianco, alla vista di tutti.
E non basta. Il Cabildo (l’antico Consiglio) ha mandato due emissari a Bruxelles per chiedere soldi per costruire dal nulla una linea ferroviaria. Siccome Madrid ha tagliato i finanziamenti, i due inviati di Tenerife sono andati a chiedere all’Europa di coprire il buco: dopotutto è un progetto europeo, che il Cabildo ha presentato ed è stato approvato in sede UE, e che sarà completato coi fondi europei: esattamente come la giunta della Sicilia o delle altre regioni meridionali, che non riescono ad usare i fondi europei per incapacità progettuale, o se li fanno ritirare per malversazioni (1); o che nemmeno li chiedono, perchè che gusto c’è a fare opere pubbliche su cui non si possono estrarre tangenti perchè Bruxelles ti controlla?
Taccio, per non farla troppo lunga, delle infrastrutture immateriali e culturali; dal Wi-Fi in tutti i bar e ristoranti al museo della Natura, che vale una visita non solo perchè espone parecchie mummie del popolo guancio (i nativi delle Canarie), ma per godersi un esemplare di gestione museale limpida e interessante, con tanto di «laboratori» affollati di scolari che fanno piccole sperimentazioni e imparano facendo, sotto la guida di maestri e maestre. Taccio dell’università di La Laguna, nient’affatto periferica nel sistema di studi spagnolo (che il governo sta per rendere più severo, avendo annunciato che il livello di istruzione deve migliorare). Taccio delle spiagge tutte libere e gratuite, fornite dall’amministrazione cittadina di docce, spogliatoi e Wc. E della polizia sempre presente e visibile sulle strade urbane ed extraurbane invece che imboscata negli uffici.
A Lanzarote, l’edilizia è basata su un modulo della casa tradizionale elaborato dall’artista locale Manrique, da cui nessun costruttore si discosta con fantasiosi villini da geometra; tale architettura è basata su muri bianchi immacolati, mai imbrattati da graffiti e firme di dementi come da noi; dovrei parlare delle auto che si fermano – non rallentano, si fermano – appena fai l’atto di voler attraversare la strada sulle strisce. Perspicua, e per un italiano stupefacente, l’assenza di cumuli di monnezza per le strade, di discariche improvvisate nelle scarpate, e l’assenza di vandalismi tipo cabine telefoniche spaccate e smerdate.
In una parola, vige in Spagna quella civiltà che ormai è un costume in tutta Europa, salvo che in questa Italia fiera del suo sedimento incancellabile di volgarità.

Anche il Re senza tredicesima.
Tra le misure per affrontare la crisi del debito statale, il governo Rajoy ha sospeso (ossia tagliato) la tredicesima di tutti i dipendenti pubblici. Anche la sua; anche dei membri del governo, anche dei 350 deputati e dei 266 senatori, non esclusi gli ex parlamentari pensionati. Nessuno l’aveva chiesto al Rey: ebbene, il chiacchieratissimo Juan Carlos s’e tagliato di sua sponte di 20 mila euro l’anno l’emolumento, l’equivalente della sua tredicesima. Dunque oggi il Rey, la più alta istituzione dello Stato riceve, 271.842 euro lordi annui; risulta così che un qualunque governatore italiota di regione arraffa più del redi Spagna; il direttore generale della Rai, quel tal banchiere Gubitosi messo lì da Monti, ci costa come due re e mezzo.
Il principe di Asturia, l’erede al trono, s’è tagliato 10 mila euro, in quanto il suo emolumento è esattamente la metà di quello paterno, 135.921 euro. Il capo della Real Casa, che ha il rango e il soldo di un ministro, s’è ridotto anche lui lo stipendio nella stessa proporzione dei membri del governo. Niente a che vedere con quelli che godono i direttori della Real Casa italiana, detta Quirinale, di cui basta ricordare i 2 milioni di euro l’anno, più appartamento e ufficio permanente sul Colle, dell’immarcescibile Gaetano Gifuni.
El Rey de Espana è notoriamente molto criticato per i suoi lussi, per il suo amore delle gonnelle, e per le sue cacce all’elefante in compagnia di una cacciatrice bianca che sarebbe la sua amante. D’accordo, ma a metà luglio, l’84enne Juan Carlos è partito per Mosca ad incontrare Vladimir Putin a capo di una delegazione di ministri e imprenditori iberici. Scopo del viaggio, raccomandare la partecipazione delle industrie spagnole nel progetto di TGV russo (Mosca-San Pietroburgo a 300 all’ora) che costerà 17,5 miliardi di euro. Già, perchè la Spagna possiede il know-how allo stato dell’arte: le sue linee ad alta velocità sono operative già da 25 anni, ed oggi il TGV ispanico (che si chiama AVE, Alta Velocidad Espanola) dispone in Spagna della più grande rete ad alta velocità d’Europa, e seconda solo alla Cina: 2665 chilometri. Fu il governo socialista di Felipe Gonzales a lanciare questo grande progetto strategico per l’economia spagnola; un governo che rubava come quello di Craxi, si disse; ma che fece i compiti a casa. E non si ha notizia di contestazioni dal basso, tipo No-Tav. Oggi, le imprese spagnole dell’alta velocità si sono aggiudicate il progetto per il treno Mecca-Medina, una linea che i sauditi pagheranno 6,7 miliardi di euro.

I costi della politica.
Il governo ha tagliato del 50% il sussidio di disoccupazione e dopo il sesto mese; ma ha anche tagliato del 20% le sovvenzioni ai partiti politici e ai sindacati (che si aggiunge al 20% già tagliato da Zapatero), del 30% il numero dei consiglieri degli «ayuntamientos», del 5% le paghe degli statali a cui ha decurtato i permessi sindacali e i giorni «di libera disponibilità». Tali misure incontrano un diffuso favore della cittadinanza, consapevole (l’ho già detto) che la crisi mette in questione i «privilegi» del settore pubblico, nonché la corruzione e l’impunità delle caste politiche; privilegi e stipendi e impunità che tuttavia non hanno alcuna dimensione paragonabile a quella dei pubblici italiani. Sul quotidiano ABC ho letto un commento durissimo contro i 266 senatori «che non servono a niente» e prendono – udite udite – 2813 euro al mese, a cui il commentatore unisce «una sovvenzione annuale per ogni partito, che per i due partiti maggiori ammonta rispettivamente a 3,5 milioni e a 1,5 milioni per il 2012», che però non vanno agli individui ma ai partiti; uno scandalo che il commentatore invita a «trattare con l’ascia».
La mente corre ai 200 milioni di euro che i partiti italiani si incamerano ogni anno, a dispetto di un referendum che glieli ha negati; e prende la voglia di abbracciarli, quei poveri senatori sotto accusa per 2800 euro mensili.
Anche in Spagna le «autonomie» regionali spendono e spandono – dicono gli spagnoli – senza controllo, e le più battagliere (prima fra tutti ovviamente la Catalogna) si sono opposte ai tagli del governo, minacciando ritorsioni (la Catalogna, elezioni anticipate); i governanti di Asturie e Canarie hanno annunciato che non taglieranno la tredicesima ai «loro» dipendenti. La differenza con la situazione italiana sta non solo nella levità delle cifre dei presunti sprechi (niente di paragonabile ai 5 miliardi di debiti della Sicilia in bancarotta, o i 70 complessivi contratti dai nostri comuni, o l’inaccettabile debito miliardario di Roma Capitale, inaccettabile perchè nascosto dietro bilanci truccati), ma anche nell’ostilità che le «autonomie» stanno riscuotendo in quanto, appunto, autonome nella spesa.
«Questi governi autonomi ci si sono mutati in un ariete contro gli interessi nazionali – ha scritto l’editoriale di ABC – mostrano il lato oscuro di un autonomismo che si pensa come non dovessero mai sorgere problemi di finanziamento». Le Regioni come il Lato Oscuro della Forza: come vorremmo aver sentito almeno una volta simili valutazioni in Italia.
Da questi sparsi esempi si può vedere che i governi spagnoli i compiti a casa li hanno fatti, nel complesso, molto prima di noi; ed il Paese ha le infrastrutture e la cultura per eventualmente ripartire. Se non riuscirà, sarà essenzialmente perchè è sbagliata la cura imposta dalle Merkel, è sbagliato l’euro, è sbagliato il metodo di assoggettare i bisogni finanziari del Paese sovrano agli umori dei «mercati». E forse, perchè quello che stiamo vivendo un capolinea della storia, in cui l’Europa – con tanta storia dietro – è smarrita e non sa più che fare.
L’immane disoccupazione giovanile degli spagnoli è forse un sintomo di questa fase terminale, additando un futuro di lavoro raro e precario per le masse. Basterà dire solo che i giovani spagnoli stanno reagendo con l’emigrazione di massa. E dove emigrano? Sì, 117 mila in Germania e 86 mila negli Usa; ma 368 mila in Argentina, 179 mila in Venezuela, 94 mila in Messico, 44 mila in Cile, persino 89 mila a Cuba, più che negli Stati Uniti. Insomma il vasto mondo di lingua ispanica fa’ da ammortizzatore sociale, ed è inutile far notare cosa vuol dire emigrare in un Paese dove si parla la tua lingua-madre: significa andare a fare non solo le pulizie e gli scaricatori ma fare, poniamo, il giornalista, far valere la propria laurea e le proprie qualificazioni, inserirsi nei piani alti del Paese ospite. Andare in Argentina e in Venezuela è pur sempre sfociare in quella grande «Spagna dell’anima» che dura ancora, di quel mondo che continua a vedere Madrid come la sua patria capitale. Significa non perdere i contatti con la patria di tutti. Significa poi più facilmente ritornare a casa, se riparte la crescita; laddove i nostri giovani italiani che emigrano, i migliori, non tornano più ed a hanno ragione.
È un effetto forse imprevisto di quel che resta negli spiriti del grande impero spagnolo su cui «non tramontava mai il sole». Ma l’argomento – l’impero spagnolo – è così importante, che merita presto un nuovo articolo.

1) Dai giornali di metà luglio: «l’Unione Europea ha sospeso il trasferimento di 600 milioni di fondi alla regione siciliana, motivando questa decisione con la cattiva gestione degli appalti e l’inadeguatezza dei controlli. (…) In una dura relazione di poche settimane fa i magistrati contabili avevano scritto di“eccessiva frammentazione degli interventi programmati” (troppi soldi distribuiti a pioggia anziché investiti su pochi obiettivi-chiave), di “scarsa affidabilità” dei controlli, di “notevolissima presenza di progetti non conclusi”,di “tassi d’errore molto elevati” tra “la spesa irregolare e quella controllata”,di “irregolarità sistemiche relative agli appalti”». (…) «Tra il 2000 e il 2006 l’isola ha ricevuto 16,88 miliardi di fondi europei pari a cinque volte quelli assegnati a tutte le regioni del Nord messe insieme. Eppure su 2.177 progetti finanziati quelli che un anno fa, il 30 giugno 2011, risultavano conclusi erano 186: cioè l’8,6%. La metà della media delle regioni meridionali».

giovedì 26 luglio 2012

Preparatevi all’effetto déjà vu come in Matrix.

di Adriano Scianca (Secolo d'Italia)


Il déjà vu è una falla del programma che governa le nostre esistenze e indica che qualcosa sta cambiando nella matrice, lo sappiamo bene. O almeno lo sappiamo noi appassionati di “Matrix”, il film dei fratelli Wachowski che nel 1999 ci rivelò l’inconsistenza virtuale e predeterminata delle nostre vite apparentemente perfette. Ed era proprio così che, nel complicato intreccio della pellicola, veniva spiegata la sensazione di aver già vissuto un certo evento: come un errore tecnico dovuto alla riprogrammazione in corso di Matrix. 
Qualcosa di simile deve essere in corso anche in questi mesi, perché la sensazione di déjà vu è forte come non mai. Quando si entra in un cinema e i primi film che ci vengono proposti hanno a che fare con Batman, Spiderman e 007 (anno di nascita dei rispettivi personaggi di fantasia: 1939, 1962, 1953) qualcosa, decisamente, deve essere andata storta. A Hollywood, ormai, nessuno rischia più con storie nuove, si producono solo sequel, remake e film che attingono a filoni dell’immaginario collettivo già abbondantemente arati, come quelli che riguardano fumetti o telefilm. Siamo incatenati al passato. In particolare sembra che abbiamo scelto un decennio nello specifico da reiterare all’infinito: sono gli anni ‘90. Un decennio iniziato con le terribili notizie che venivano dal Golfo Persico, dove i media ci raccontavano di miliziani iracheni intenti a strappare gli infanti kuwaitiani dalle incubatrici. Non era vero nulla, ma intanto nell’agosto del 1990 iniziava di fatto la prima Guerra del Golfo. Oggi notizie analoghe di crimini perpetrati contro i bambini ci giungono dalla Siria e staremo a vedere quando scoppierà l’ennesimo conflitto.
Noi, intanto, siamo tutti presi dalla possibile implosione di quell’Unione europea che nasceva il 7 febbraio 1992, quando veniva approvato nella cittadina di Maastricht il trattato economico e politico divenuto tristemente noto. Negli anni ’90 avevamo Tangentopoli. Oggi abbiamo il popolo viola e Travaglio, Rizzo e Stella, i gruppi anticasta su facebook, una folla instupidita che guaisce slogan manettari. Negli anni ’90 avevamo il panfilo Britannia e i governi Dini, Amato, Ciampi. Oggi il panfilo Britannia ha attraccato direttamente al Quirinale. La speculazione che nel 1992 fece tremare la lira e vide Ciampi arrancare sotto i colpi di Soros oggi si ripresenta sotto forma di spread e Mario Monti non sembra maggiormente attrezzato per l’occasione. Il “Popolo di Seattle” trova il suo clone stanco ed effimero negli indignados: massa gelatinosa di moralismo, legalismo e social network. Né potevamo farci mancare una riedizione dell’emergenza “naziskin”, con conseguente Legge Mancino, alla cui riproposizione assistiamo ogni giorno con i servizi di Repubblica sull’orda nera che travolge l’Europa. Le prime pagine, allora, erano poi occupate dal fenomeno Lega, la vera novità del momento. E anche oggi i lumbard non hanno smesso di fare notizia, sia pur facendo posto, per il dopo Bossi, al volto nuovo del Carroccio: Bobo Maroni. Déjà vu, ancora déjà vu. Come nel caso dello strappo di Gianfranco Fini, che ieri dominava i servizi di politica interna e oggi... pure. E gli equilibrismi di Casini? E gli ex Pci che cercano disperatamente un modo per essere ancora di sinistra? E i fuochi d’artificio grammaticali di Di Pietro, ieri di scena nei tribunali e oggi in Parlamento? Insomma, siamo sempre lì. Siamo sempre al palo.
Schiavi di una nostalgia canaglia che, come una zavorra, ci lega a terra. C’è di che deprimersi, decisamente. Poi uno apre il giornale e legge anche della “sua” discesa in campo. È fatta, il tempo si è bloccato. Siamo fermi al 1994 e non riusciamo a uscirne. In Matrix devono essere in corso grandi manovre. Ci resta solo da scrutare il cielo e attendere l’arrivo di Neo. Che poi vuol dire, per l’appunto, “Il Nuovo”. Solo il nuovo ci salverà dal già visto, come diceva quel film... uscito 15 anni fa e che pure continuiamo a citare. Decisamente, siamo senza speranze.

mercoledì 25 luglio 2012

Firenze: sfregiate le targhe dedicate ai martiri delle foibe.

IN ITALIA ORMAI SOLO FIRENZE CONTINUA A MANCARE DI RISPETTO A QUESTI MARTIRI ITALIANI. È ORA DI DIRE BASTA.

"Per l'ennesima volta le due targhe stradali che indicano Largo Martiri delle Foibe sono state sfregiate con della vernice. Un gesto cretino e vigliacco: cretino perchè chi si riduce a rovinare un cartello stradale per tentare di riaffermare quell'oscurantismo che per 50 anni ha avvolto questa pagina di storia non può avere altro nome, vigliacco perchè tale è chi se la prende con la memoria di donne, uomini e bambini morti più di 50 anni fa e, per giunta, pagando la sola "colpa" di essere italiani".
"Non è possibile - prosegue il consigliere - che mentre tutta l'Italia riconosce ed onora il sacrificio di questi nostri fratelli barbaramente trucidati sul finire della seconda guerra mondiale dalle truppe partigiane comuniste slave del maresciallo Tito, a Firenze vi sia ancora qualcuno che vorrebbe mantenere nell'oblio questa vicenda, continuando a considerare Tito un eroe e tutto ciò che è stato per oltre 40 anni al di la della Cortina di Ferro il "paradiso comunista", pretendendo di cancellare gli orrendi crimini che i partigiani slavi, aiutati anche da partigiani italiani, hanno commesso lungo il confine orientale".
"Ogni anno - aggiunge ancora l'esponente di centrodestra - dobbiamo vedere Firenze ospitare cortei inneggianti alla ex-Yugoslavia ed ascoltare slogan beceri in favore dell'olocausto patito da decine di migliaia di italiani a causa di quella bandiera rossa che tanto questa gente ama, in occasione della "Giornata del Ricordo" e ora anche le vigliacche azioni contro le lapidi che dedicano un largo alla memoria di questi nostri fratelli caduti".
"È veramente venuto il momento - conclude Torselli - di dire basta con questi gesti e con la tolleranza verso chi li compie. Il comune provveda immediatamente a ripulire le targhe, ma soprattutto si attrezzi, una volta per tutte, affinché certi gesti non si ripetano, oltre che a ricordare, in ogni assise possibile, l'importanza del ricordo e della memoria del sacrificio di queste decine di migliaia di nostri fratelli assassinati. Dalla scelta di mantenere il silenzio su questa vicenda, fatta dall'Italia repubblicana nell'immediato dopoguerra, ad oggi molto è stato fatto, ma di fronte a gesti come questi, dobbiamo renderci conto che evidentemente non è ancora sufficiente".

Chi combatte in Siria?

Mentre la stampa occidentale presenta l’esercito libero siriano come un’organizzazione armata rivoluzionaria, Thierry Meyssan afferma da più di un anno che si tratta invece di una formazione controrivoluzionaria. Secondo lui, sarebbe passata a poco a poco dalle mani delle monarchie reazionarie del Golfo a quelle della Turchia, che agisce per conto della NATO. Una tale affermazione controcorrente richiede una dimostrazione  argomentata…

di Thierry Meyssan (aurorasito).

Da 18 mesi, la Siria è preda di torbidi, che sono aumentati costantemente fino a diventare un ampio conflitto armato che ha già ucciso circa 20.000 persone. Se c’è consenso su questa osservazione, le narrazioni e le interpretazioni suesso variano. 
Per gli stati occidentali e la loro stampa, i siriani aspirerebbero a vivere all’occidentale in democrazie di mercato. Seguendo il modello tunisino,egiziano e libico della “primavera araba”, si sarebbero sollevati per rovesciare il loro dittatore Bashar al-Assad. Questi avrebbe represso nel sangue le proteste. Mentre gli occidentali avrebbero voluto intervenire per fermare il massacro, i russi e cinesi, per interesse o per disprezzo della vita umana, si sarebbero opposte. 
Invece, tutti gli Stati che non sono vassalli degli Stati Uniti e per la loro stampa, gli Stati Uniti hanno lanciato un’operazione contro la Siria che hanno progettato da lungo tempo. In primo luogo, attraverso i loro alleati regionali,e poi direttamente, hanno infiltrato le bande armate che hanno destabilizzato il paese, sul modello dei Contras in Nicaragua. Tuttavia avrebbero trovato un supporto molto scarso all’interno e sono state sconfitte mentre Russia e Cina avrebbero impedito alla NATO di distruggere l’esercito siriano e di rovesciare l’equilibrio regionale.
Chi ha ragione? Chi ha torto?

I gruppi armati in Siria non difendono la democrazia, la combattono.

In primo luogo, l’interpretazione degli eventi siriani come un episodio della “primavera araba” è un’illusione, perché questa “primavera” non esiste. Si tratta di uno slogan pubblicitario per presentare positivamente fatti diversi. Sebbene ci siano state rivolte popolari in Tunisia, Yemen e Bahrain, non se ne sono avute né in Egitto, né in Libia. In Egitto, le manifestazioni di piazza sono state limitate alla capitale e a una certa classe media; mai, assolutamente mai, il popolo egiziano si è sentito preoccupato per lo spettacolo telegenico di Tahrir Square [1]. In Libia, non c’era una rivolta politica, ma un movimento separatista in Cirenaica contro il potere di Tripoli, e l’intervento militare della NATO, che ha ucciso circa 160.000 persone.
La rete TV libanese Nour TV ha avuto molto successo trasmettendo una serie di trasmissioni di Hassan Hamade e George Rahme dal titolo “La primavera araba, da Lawrence d’Arabia a Bernard-Henri Levy.” Gli autori sviluppano l’idea che la “primavera araba” sia un remake della “rivolta araba” del 1916-1918 organizzata dagli inglesi contro gli ottomani. Questa volta, gli occidentali hanno manipolato le situazioni per rovesciare una generazione di leader e imporre i Fratelli Musulmani. In effetti, la “Primavera araba” è una pubblicità ingannevole. Ora, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto e Gaza sono governate da una confraternita che da un lato impone una morale, e dall’altra supporta il sionismo e il capitalismo pseudo-liberale, vale a dire gli interessi di Israele e degli anglosassoni. L’illusione s’è dissolta. Alcuni autori, come il siriano Said Hilal al-Sharifi deride oramai la “primavera della NATO“.
In secondo luogo, i leader del Consiglio nazionale siriano (CNS) come i comandanti dell’esercito libero siriano (ELS) non sono democratici, nel senso che vorrebbero “sostenere un governo del popolo, dal popolo, per il popolo“, seguendo la formula di Abraham Lincoln, ripresa nella Costituzione francese.
Così, il primo presidente del CNS fu il docente universitario parigino Burhan Ghalioun. Non era certo “un oppositore siriano perseguitato dal regime” poiché viaggiava e circolava liberamente nel suo paese. Non era un “intellettuale laico”, come si afferma, poiché era il consigliere politico dell’algerino Abbassi Madani, presidente del Fronte islamico di salvezza (FIS), ora rifugiatosi in Qatar.
Il suo successore, Abdel Basset Syda [2], è entrato in politica solo nel mesescorso, e subito si è affermato come un mero esecutore della volontà statunitense. Dopo la sua elezione a capo del CNS, ha promesso non di difendere la volontà del suo popolo, ma di attuare la “road map” cheWashington ha scritto per la Siria: The Day after.
I combattenti dell’esercito libero siriano non sono attivisti per la democrazia. Riconoscono l’autorità spirituale dello sceicco Adnan al-Arour, un predicatore takfirista che invoca il rovesciamento e l’assassinio di Assad, non per motivi politici, ma semplicemente perché è di confessione alawita, cioè, un eretico ai suoi occhi. Tutti i dirigenti identificati dell’ELS sono sunniti e tutte le brigate dell’ELS sono intitolate a personaggi storici sunniti. “I tribunali rivoluzionari” dell’ELS condannano a morte i loro avversari politici (e non solo i sostenitori diBashar al-Assad) e i miscredenti, che sgozzano in pubblico. Il programma dell’ELS è volto a porre fine al regime laico installato da Baath, SSNP ecomunisti, in favore di un regime puramente confessionale sunnita.

Il conflitto siriano è stato premeditato dall’Occidente.

La volontà occidentale di finirla con la Siria è nota ed è più che sufficiente a spiegare gli eventi attuali. Ricordiamo alcuni fatti che non lasciano dubbi sulla premeditazione degli eventi [3].
La decisione di entrare in guerra con la Siria è stata presa dal presidente George W. Bush durante un incontro a Camp David, il 15 settembre 2001, subito dopo gli attentati spettacolari di New York e Washington. Fu previsto di intervenire simultaneamente in Libia per dimostrare la capacità di agire su un doppio teatro di operazioni. Questa decisione è stata confermata dalla testimonianza del generale Wesley Clark, ex comandante supremo della NATO, che vi si era opposto.
Sulla scia della caduta di Baghdad, nel 2003, il Congresso aveva approvato due leggi che istruivano il Presidente degli Stati Uniti a preparare una guerra contro la Libia e un’altra contro la Siria (la Syria Accountability Act).
Nel 2004, Washington ha accusato la Siria di nascondere sul suo suolo, le armi di distruzione di massa che non aveva potuto trovare in Iraq. Questa accusa svanì quando venne ammesso che le armi non esistevano ed erano un pretesto per invadere l’Iraq.
Nel 2005, dopo l’assassinio di Rafik Hariri, Washington ha cercato di entrare in guerra contro la Siria, senza riuscirci, poiché aveva ritirato il suo esercito dal Libano. Gli Stati Uniti hanno poi creato false prove per accusare il presidente al-Assad di aver ordinato l’attentato e hanno creato un tribunale internazionale speciale per giudicarlo. Ma alla fine sono stati costretti a ritirare le loro false accuse, dopo che le loro manipolazioni sono state scoperte.
Nel 2006, gli Stati Uniti hanno iniziato a preparare la “rivoluzione siriana” con la creazione del Syria Democracy Program. Si trattava di creare e finanziare gruppi di opposizione filo-occidentali (come il Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo). Al finanziamento ufficiale del Dipartimento di Stato si era aggiunto un finanziamento segreto della CIA attraverso un’associazione della California, la Democracy Council.
Sempre nel 2006, gli Stati Uniti avevano affidato a Israele la guerra contro il Libano, nella speranza di coinvolgere la Siria e d’intervenire. Ma la rapida vittoria di Hezbollah sventò tale piano.
Nel 2007, Israele ha attaccato la Siria, bombardando un’installazione militare (Operazione Orchard). Ma ancora una volta, Damasco ha mantenuto la calma e non si è lasciata coinvolgere nella guerra. I successivi controlli dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica hanno dimostrato che non era un sito nucleare, contrariamente a quanto era stato detto dagli israeliani.
Nel 2008, durante l’incontro che la NATO organizza come Gruppo Bilderberg, la direttrice della Arab Reform Initiative, Bassma Kodmani, e il direttore della Stiftung Wissenschaft und Politik, Volker Perthes, esposero brevemente al Gotha americano-europeo i vantaggi economici politici e militari di un possibile intervento dell’Alleanza in Siria.
Nel 2009, la CIA ha istituito gli strumenti della propaganda in Siria come le retiBaradaTV, con sede a Londra, e OrientTV, a Dubai.
A questi elementi storici, si aggiunga che un incontro si era tenuto a Cairo, la seconda settimana di febbraio 2011, intorno a John McCain, Joe Lieberman eBernard-Henry Levy, di figure come il libico Mahmoud Jibril (allora numero duedel governo libico) e di siriani come Malik al-Abdeh e Ammar Qurabi. Fu questo incontro che diede il segnale delle operazioni segrete, che iniziarono sia in Libia che in Siria (15 febbraio a Bengasi, e il 17 febbraio a Damasco).
Nel gennaio 2012, il Dipartimento di Stato e della Difesa statunitensi costituivano la Task Force The Day After. Supporting a democratic transition in Syria, che ha scritto sia una nuova costituzione che un programma di governo per la Siria [4].
Nel maggio del 2012, la NATO e il GCC hanno istituito il Gruppo di lavoro sulla ripresa economica e lo sviluppo degli Amici del popolo siriano, sotto la co-presidenza tedesca e degli emirati. L’economista siro-britannico Ossam el-Kadi vi ha elaborato una ripartizione delle ricchezze siriane tra gli stati membri della coalizione, da applicare il “giorno dopo” (vale a dire, dopo il rovesciamento del regime per mano della NATO e del GCC) [5].

Rivoluzionari o controrivoluzionari? 

I gruppi armati non sono nati dalle proteste pacifiche del febbraio 2011. Queste manifestazioni, infatti, denunciavano la corruzione e chiedevano più libertà, mentre i gruppi armati, come abbiamo visto sopra, provengono dall’islamismo.
Negli ultimi anni, una terribile crisi economica ha colpito il paese. Ciò fu causato dagli scarsi raccolti, che furono erroneamente considerati disgrazie passeggere, mentre erano la conseguenza del cambiamento climatico permanente. A questo si aggiunsero gli errori nell’attuazione delle riforme economiche, che hanno disturbato il settore primario. Fece seguito un massiccio esodo rurale che il governo dovette affrontare, e una deriva settaria di alcuni agricoltori, che il potere aveva trascurato. In molte zone, le abitazioni rurali non si concentrano nei villaggi, ma sono disperse sotto form adi fattorie isolate, nessuno ha misurato la portata del fenomeno fino a quando i suoi seguaci si riunirono.
In definitiva, mentre la società siriana incarna il paradigma della tolleranza religiosa, si sviluppava una corrente takfirista all’interno di essa. Ha fornito la base dei gruppi armati. Questi sono stati riccamente finanziati dalle monarchie wahabite (Arabia Saudita, Qatar, Sharjjah).
Questo colpo di fortuna ha portato al raggruppamento di nuovi combattenti, che comprendevano i parenti delle vittime della repressione di massa del sanguinoso colpo di stato fallito dei Fratelli Musulmani, nel 1982. Le loro motivazioni sono spesso meno ideologiche che personali. Nascono dalla vendetta. Molti delinquenti e detenuti attratti dai guadagni facili vi si sono uniti: un “rivoluzionario” è pagato sette volte un salariato medio.
Infine, i professionisti che hanno combattuto in Afghanistan, Bosnia, Cecenia o in Iraq cominciarono ad arrivare. Al cui primo posto vi erano gli uomini di al-Qaida in Libia, guidati da Abdelhakim Belhaj in persona [6]. I media li presentano come jihadisti, cosa non appropriata, l’Islam non concepisce la guerra santa contro dei fratelli musulmani. Si tratta soprattutto di mercenari.
La stampa occidentale e del Golfo sottolinea la presenza di disertori nell’ELS. Certo, ma è per contro falso che abbiano disertato dopo essersi rifiutati di reprimere le proteste politiche. I disertori in questione rientrano quasi sempre nei casi che abbiamo citato sopra. Inoltre, un esercito di 300.000 uomini ha necessariamente tra le sue file fanatici religiosi e teppisti.
I gruppi armati utilizzano la bandiera siriana a banda verde (al posto della fascia rossa) e tre stelle (invece di due). La stampa occidentale la chiama “bandiera dell’indipendenza”, poiché era in vigore al momento dell’indipendenza nel 1946. In realtà, questa è la bandiera del mandato francese che rimase in vigore durante l’indipendenza formale del paese(1932-1958). Le tre stelle rappresentano i tre distretti religiosi del colonialismo (alawiti, drusi e cristiani). Utilizzare questa bandiera, certamente non significa brandire un simbolo rivoluzionario. Al contrario, significa affermare di voler prolungare il progetto coloniale, quello di Sykes-Picot del 1916 e la ristrutturazione del “Medio Oriente allargato”.
Nel corso dei 18 mesi di azioni armate, questi gruppi armati si sono strutturati, e sono più o meno coordinati. Così oggi, la stragrande maggioranza è posta sotto il comando turco, sotto l’etichetta di esercito libero siriano. In realtà, sono diventati gli ausiliari della NATO; il quartier generale dell’ELS è anch’esso installato nella base aerea NATO di Incirlik. Gli islamisti più estremi hanno formato le proprie organizzazioni o hanno aderito ad al-Qaida. Sono sotto il controllo del Qatar o del ramo Sudeiri della famiglia realesaudita [7]. Difatti, sono collegati alla CIA.
Questa formazione progressiva, che parte dai contadini poveri e termina con l’afflusso di mercenari, è identica a quello che si è visto in Nicaragua, quando la CIA ha organizzato i Contras per rovesciare i sandinisti, o che si è visto a Cuba quando la CIA ha organizzato lo sbarco della Baia dei Porci per rovesciare i castristi. In particolare, è questo il modello che i gruppi armati siriani rivendicano: nel maggio 2012, i Contras in cubani di Miami hanno organizzato seminari di addestramento alla guerra di guerriglia per i loro omologhi contro-rivoluzionari siriani [8].
I metodi della CIA sono gli stessi ovunque. E così i Contras siriani hanno concentrato la loro azione militare, in parte sulla creazione di basi fisse (ma nessuna ha tenuto, nemmeno l’Emirato Islamico di Bab Amr), poi sul sabotaggio economico (distruzione di infrastrutture e incendi di grandi fabbriche), e infine sul terrorismo (deragliamento di treni passeggeri, attacchi con autobomba presso siti frequentati, uccisione di leader religiosi, politici e militari). Pertanto, la parte della popolazione siriana che avrebbe potuto avere simpatia per i gruppi armati, all’inizio degli eventi, credendo che rappresentassero un’alternativa al regime attuale, si è a poco a poco dissociata.
Non sorprende che la battaglia di Damasco sia consistita nel far convergere sulla capitale 7.000 combattenti sparsi per il paese, in attesa degli eserciti mercenari nei paesi vicini. Decine di migliaia di Contras hanno cercato dipenetrare il paese. Si muovevano simultaneamente su numerose colonne di pick-up, preferendo attraversare deserti che prendere le autostrade. Una parte di loro è stata fermata dai bombardamenti aerei e ha dovuto ritirarsi. Altri, dopo aver preso i valichi di frontiera, hanno raggiunto la capitale. Non hanno trovato il sostegno popolare previsto. Piuttosto, il popolo ha guidato i soldati dell’Esercito Nazionale per identificarli ed eliminarli. Alla fine furono costretti a ritirarsi e hanno annunciato che, data la mancata presa di Damasco, avrebbero preso Aleppo. Quindi, tutto ciò dimostra che non ci sono né Damasceni, né Aleppini in rivolta, ma solo dei combattenti vaganti.
L’impopolarità dei gruppi armati deve essere paragonata con la popolarità dell’esercito regolare e delle milizie di autodifesa. L’esercito nazionale siriano è un esercito di leva, quindi è un esercito popolare, ed è impensabile che possa essere utilizzato per la repressione politica. Recentemente, il governo ha autorizzato la creazione delle milizie di quartiere. Ha distribuito armi ai cittadini che si sono impegnati a dedicare 2 ore al giorno del loro tempo per difendere il loro quartiere, sotto la supervisione militare.

Lucciole per lanterne

A suo tempo, il presidente Reagan incontrò alcune difficoltà a presentare i Contras come “rivoluzionari”. Creò per questo una struttura di propaganda, il Bureau of Public Diplomacy, affidato alla gestione di Otto Reich [9]. Questi corruppe dei giornalisti, soprattutto dai principali media statunitensi e dell’Europa occidentale, per avvelenare l’opinione pubblica. Lanciò anche la voce che i sandinisti avessero armi chimiche e che avrebbero potuto usarle contro il loro popolo. Oggi la propaganda é diretta dalla Casa Bianca dal viceconsigliere per la sicurezza nazionale responsabile delle comunicazioni strategiche, Ben Rhodes. Applica i buoni e vecchi metodi ed ha suscitato contro il Presidente al-Assad le voci sulle armi chimiche.
In collaborazione con l’MI6 britannico, Rhodes riuscì ad imporre comeprincipale fonte di informazione per le agenzie di stampa occidentali una struttura fantasma: l’Osservatorio siriano per i diritti umani (OSDH). I media non hanno mai messo in dubbio la credibilità di questa firma, anche se le sue affermazioni sono state negate dagli osservatori della Lega Araba e da quelli delle Nazioni Unite. Meglio, questa struttura fantasma, che non ha né una sede, né personale, né esperienza, è diventata anche la fonte di informazione delle cancellerie europee dal quando la Casa Bianca le ha convinte a ritirare il loro personale diplomatico dalla Siria.
Ben Rhodes ha organizzato anche degli spettacoli per i giornalisti in cerca diemozioni. Due operatori turistici furono istituiti, uno nell’ufficio del primo ministro turco Erdogan e il secondo presso l’ex primo ministro libanese Fouad Siniora. I giornalisti che lo volevano, venivano invitati a entrare illegalmente in Siria con i contrabbandieri. Si offriva un viaggio di mesi dal confine con la Turchia a un villaggio fasullo posto in montagna. Si poteva fare un servizio fotografico con dei “rivoluzionari” e “condividere la vita dei combattenti.” Poi, per i più sportivi, era possibile dal confine con il Libano, visitare l’Emirato Islamico di Bab Amr.
Assai stranamente, molti giornalisti hanno osservato loro stessi le enormi falsificazioni, ma non arrivarono ad alcuna conclusione. Così, un famoso fotoreporter aveva ripreso i “rivoluzionari” di Bab Amr bruciare pneumatici per rilasciare fumo nero e far credere a un bombardamento del quartiere. Immagini che fece mandare in onda su Channel4 [10], ma continuò a sostenere di esser stato testimone del bombardamento di Bab Amr narrato dall’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo.

Note
[1] La piazza Tahrir non è la più grande al Cairo. Era stata scelta per ragionidi marketing, la parola Tahrir si traduce nelle lingue europee in Libertà. Questo simbolo è stato scelto, ovviamente, non dagli Egiziani, perché ci sonodiverse parole in arabo per definire Libertà. Tahrir indica la Libertà che si riceve, non quella che si conquista.
[2] La stampa occidentale ha preso l’abitudine di scrivere il nome del Sig. Syda aggiungendo una “a” per “Saida”, per evitare confusione con la malattia con lo stesso nome. NdA.
[3] Il termine “premeditazione” è usato normalmente nel diritto penale. In politica, il termine corretto è “complotto”, ma l’autore non è riuscito a usarlo perché crea una reazione isterica da coloro che si applicano a credere che la politica occidentale sia trasparente e democratica.NdA.
[4] “Washington a rédigé une nouvelle constitution pour la Syrie“, Réseau Voltaire, 21 luglio 2012.
[5] “Les ‘Amis de la Syrie’ se partagent l’économie syrienne avant del’avoir conquise“, German Foreign Policy, traduzione Horizons et débats, Réseau Voltaire, 14 giugno 2012.
[6] “L’esercito libero siriano è comandato dal governatore militare diTripoli“, Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 18 dicembre 2011.
[7] Per maggiori dettagli, leggere “La controrivoluzione in Medio Oriente“, Thierry Meyssan, Komsomolskaya Pravda/Réseau Voltaire, 11 maggio 2011.
[8] “L’opposizione siriana crea la sede estiva a Miami“, Cuban News Agency, Jean Guy Allard, Réseau Voltaire, 25 maggio 2012.
[9] “Otto Reich et la contre-révolution“, Arthur Lepic, Paul Labarique, Réseau Voltaire, 14 maggio 2004.

martedì 24 luglio 2012

Svelato il mistero di Vienna: nella statua un omaggio al nazionalsocialismo.



Fonte ANSA.


Spuntano fuori due lettere scritte nel 1935 e sepolte in una 'capsula del tempo' sotto la statua del milite ignoto nella Heldenplatz di Vienna: documenti straordinari, secondo i ricercatori che da tempo le stavano cercando. Fino ad oggi erano solo voci, mai confermate: 'nella statua c'e' qualcosa...'.
In una e' contenuto un omaggio al nazionalsocialismo, nell'altra un messaggio di pace.Dopo anni di incertezze si' scoperto che il mito era vero: sotto la scultura del milite ignoto, l'opera di Wilhelm Frass che si trova nella Heldenplatz di Vienna, sono state trovate due lettere scritte nel 1935.E cosi' finalmente si e' risolto un enigma, alimentato da alcuni indizi forniti dalla letteratura scientifica, che pero' non erano mai stati verificati. Le due missive sono rimaste nascoste per ben 77 anni in una capsula metallica collocata sotto la statua del "guerriero caduto".E sono state ritrovate grazie a un intenso lavoro di equipe:hanno collaborato restauratori, storici, un notaio, ed il ministero della Difesa. Nella capsula sono stati quindi trovati due documenti inediti, datati aprile 1935. "Possiamo parlare di una scoperta sensazionale", ha detto orgoglioso in conferenza stampa il ministro della Difesa Norbert Darabos, commentando il ritrovamento.La lettera attribuita allo stesso Willhelm Frass contiene un omaggio al nazionalsocialismo, e parla della 'forza infinita del popolo tedesco'.La seconda potrebbe essere stata scritta da Alfons Riedel, forse un aiutante dello scultore. Descrive il sogno che alle generazioni future "non sia piu' necessario fare monumenti per i caduti". I due documenti saranno esaminati e consegnati al museo storico dell'esercito.

lunedì 23 luglio 2012

Non scoparmi,non ho campo!

Un catastrofico quanto reale ritratto del moderno. Liquido e infame, come ne abbiamo visti tanti. 

tratto da IL FOGLIO

Ritratto di Giuditta detta Judy. 26 anni, bella, occhi verdi, castana, formosa, sexy, alta, arrogante, benestante, venditrice, a tempo perso, di orologi da polso molto vintage, lettrice di riviste patinate, con una passione per le Porsche Carrera spyder.
Judy possiede un BlackBerry completo: chiamate telefoniche normali, messaggini, Internet, Facebook, YouTube, Twitter, chat con il mondo, webcamera, foto e cineriprese. Lei è on line anche di notte. E’, come si dice, in “continuous connection”. Passa più tempo al telefonino che a dormire. Al mattino apre gli occhi solo per guardare i messaggini e risponde mentre la cameriera le porta il caffè. Vive nel cyberspace, ha lo smartphone incorporato nella mano destra, si muove in un “ambito internettiano”, direbbe uno psicologo, che “la distacca dalla realtà”. Insomma è una drogata da telefonino, la sua cocaina elettronica.
Judy manda in media 4.000 messaggi al mese e altrettanti ne riceve, la sua vita è il BlackBerry e non può più farne a meno. Ma sarebbe lo stesso se possedesse un iPhone o un Samsung o un Nokia della stessa categoria e completezza.
Judy ha un fidanzato, anzi un amante, di 55 anni, Gerardo, che lei chiama Gerry, un finanziere molto ricco, con barca e villa in un’isola famosa. Lui è tanto possessivo quanto lei è gelida, distaccata ma attaccata al telefonino. Gerry ama portare Judy sullo yacht ma si scoccia molto per il continuo blackberreggiare, parlare, chattare con amici e amiche, escludendolo dalla sua vita. Lui le parla e lei, con l’apparecchio in mano, muove le dita sulla tastiera, risponde, ride da sola, non lo ascolta e beve distrattamente un po’ di champagne dalla flûte mentre il sole tramonta dietro Ischia. Alle domande di Gerry non risponde quasi mai e gli fa cenno di aspettare. Nemmeno al momento della cena, coi marinai in giacca bianca che servono spaghetti al pomodoro di Pachino, Judy abbandona l’infernale telefonino. Chatta con la destra e mangia con la sinistra. E la pasta si raffredda.
Gerry si sente solo, ma ha pazienza, aspetta che scenda la sera. Col drink in mano si accuccia accanto a lei sul divano, la bacia sul collo. Ma suona il telefonino. “Ti chiamo io, ora sono impegnata”, dice. E lui: “Ma chi è che ci rompe le scatole a quest’ora?”. “Nessuno, una mia amica, Lucrezia”. “Ma quante amiche hai? Ogni giorno ce n’è una nuova”. “E’ una simpatica, l’ho conosciuta su Facebook”.
Arriva la notte: baci, pochi, abbracci così così, sesso si fa per dire. Perché il telefonino vibra, si illumina e lei, preoccupata, allunga il collo verso i messaggini. “Scusa Gerry, fammi vedere chi mi sta cercando”. L’uomo è eccitato, la sta per penetrare, ma lei, nuda, con le gambe divaricate e il gran seno abbronzato e luccicante di crema, accarezza il BlackBerry e risponde a chissà chi.
Questo è quel che mi ha raccontato Gerry al bar dell’Hassler. Ma la storia non finisce qui, anche perché io voglio sapere, sono molto curioso.
Lui, trattato da mesi in questo modo, non ne può più. Ama la ragazza, le ha regalato una Porsche, l’ha portata dovunque. E in tutti i posti c’era il BlackBerry con annessi e connessi. Il tempo con Judy gli passa davanti mentre lei chatta e gli accarezza il sesso, ormai spento come un telefonino inerte. Finalmente si riprende ma, dopo pochi attimi, la donna si accorge che il telefono è scarico, non vibra più e il display non dà lampi di luce. “Scusa Gerry, vado a cercare la batteria”. E fruga nella grande borsa di Roger Vivier abbandonata su una poltrona. Judy mette in carica il telefonino e si rilassa un po’: ma per poco.
Ricominciano le vibrazioni e le risposte. Gerry non ne può più, strappa il BlackBerry dalle mani dell’amante e si avvia verso il ponte dello yacht. Lei lo insegue: “Dammelo, non fare lo stronzo. Ma che cazzo fai?”. L’uomo è quasi giunto a poppa. Il mare è calmo. La luna occhieggia fra le nubi. Gerry sente Judy venirgli addosso, lei cerca di strappargli l’apparecchio dalle mani, lo graffia. Lui resiste. E lancia l’odiato BlackBerry in mezzo alle onde. Un attimo e la vita elettronica di Judy scompare, finisce sul fondo, insieme ai segreti, ai mille volti di Facebook, agli indirizzi, ai messaggini, ai tweet, a Google, ai siti di orologi e di fashion, a Dagospia, alle canzoni preferite, alle clips, alle foto ricordo sue e degli altri.
Beviamo un Singapore Sling e io sono sempre più interessato a questa vicenda. “Dimmi, cosa è successo dopo?”, chiedo all’amico. Furente, Judy si lancia contro Jerry: “Sei uno stronzo, un fottuto stronzo”. Cerca di picchiarlo. Gli sputa in faccia. Gli morsica un braccio. Ma Gerry se ne va, la lascia nella sua disperazione e torna in cabina. E’ felice. Si è liberato da un incubo. Svegliato dal rumore un marinaio si avvicina alla ragazza sdraiata sul ponte. “Io dormo qui”, dice lei, “mi dia una coperta”. Mancano quasi otto ore al porto più vicino. L’amante ha deciso di sbarcare la signora Blackberry. E si addormenta. Lei invece non ce la fa. Non riesce a stare senza telefonino, ha una forte crisi di astinenza. Il cielo sembra il display di un cellulare e lei lo guarda sperando che vibri, che si accenda. Ma l’unica luce che arriva è quella, prima lenta e poi forte e rossa, dell’alba. Sulla barca c’è un gran silenzio. Arriva il profumo del caffè. Alle otto Gerry è sul ponte, molto rilassato. Lei: “Io vado a fare la valigia, scendo a Porto Rotondo e parto da Olbia col primo volo per Milano. Non posso più stare qui”. Lui: “Fa’ pure, la nostra storia è finita. Comunque eccoti duemila euro per il taxi, il biglietto aereo e un nuovo Blackberry”.
Così finisce questa. Ma è una delle tante che ho sentito nel mondo delle vittime degli addicted da cellulare. I maniaci del telefonino sono una nuova specie umana, diffusa in tutto il mondo, anche in Africa e nelle isole Fiji. Per strada è tutto un chattare e un telefonare. E così nei ristoranti, nel lounge, negli ospedali, sui luoghi di lavoro, in treno, sulle barche, ai bar più lussuosi o a quelli meno raccomandabili. Night and day, i fanatici non smettono mai. Ho visto le stesse scene a Roma e a New York, a Londra e a Parigi, a Shanghai e a Rio de Janeiro. I volti di questi drogati si assomigliano tutti: facce tese, occhi concentrati sull’apparecchio, dita delle mani in gran movimento. Più il consumatore di cellulare è giovane e più le mani si muovono in fretta, a una ipervelocità, inimmaginabile fino a poco tempo fa.
Nel 2008, quando Barack Obama fu eletto, gli iPhone non erano stati ancora messi in commercio. E ora hanno invaso l’universo. A Londra, città multilingue, si sente per strada un babelico ronzio in tutti gli idiomi del mondo. Sono uomini e donne che si trovano a loro agio sulla terra finché il telefonino funziona. Guai se la pila si scaricasse. Infatti la spina del cellulare è la principale preoccupazione di chi parte, di chi arriva in un posto, di chi sale sulla barca, pur piccola, degli amici per navigare. Nei party, anche i più chic, si è ormai rassegnati ai chat people. In molti posti si proibisce il dialogo al telefono.
Fidanzati e fidanzate, mogli e mariti schiacciano e rispondono, ciascuno con la loro vita in mano. La gelosia da cellulare è molto diffusa. I tradimenti via telefonino non si contano. Su Facebook si fanno conquiste, senza più misteri o blind date, visto che le facce e i corpi dei protagonisti sono in bella mostra. Gli avvocati matrimonialisti sanno quanto sia pericoloso il cellulare, quante storie siano finite per una dimenticanza, un temporaneo abbandono dell’apparecchio finito in preda al partner. Chi prende un telefonino aperto, non suo, si impossessa della vita di un altro. Leggere sul BlackBerry le e-mail, i tweet, i messaggini, è scoprire un linguaggio nuovo, essenziale, elementare ma a volte difficile da interpretare per chi non è abituato al gioco sadico e moderno delle abbreviazioni . I “cell addict” pensano, scrivono e parlano tagliando e cucendo. Quelli che raccontano al telefono sussurrano al filo, visto che sono collegati attraverso gli auricolari. Per strada mi piace captare le conversazioni, a volte le trascrivo.
Ragazza in chiesa a Bologna. “Sono a messa: pissipissi after”. Donna piacente di origine russa su una poltrona del Grand Hotel di Rimini: “Non capisco tue parole. Mamma male e tu pensi solo amore”. Ragazzino davanti a una scuola media a Pavia. “Mamma, ma dove cazzo sei che ti cerco da un’ora?”. Adolescente in t-shirt e short colorati in via del Corso a Roma: “Sai che te dico? Ma vaffanculo”. Cuoco al mercato del pesce di Cesenatico: “Se ti dico che le triglie non ci sono non ci sono”. Sacerdote in piazza San Pietro a Roma: “Hai fatto le analisi? E cosa aspetti? Speriamo in Dio”. Trentenne in Largo Cordusio a Milano: “Mamma lascia perdere i Bot”. Commercialista in attesa all’Agenzia delle entrate di Como: “Non se ne può più. Comunque rispondi alle e-mail. Non fare l’imbranato”. Bella jogger sul lungomare di Rimini: “Mandagli un messaggio e digli che è un cornuto”. Medico in corsia al Gemelli di Roma: “Butta la pasta, fra 20 minuti esatti”. Poliziotta davanti all’Arena di Verona: “Mi ci vuole un chilo di Maalox per digerire tutto sto casino”. Rossa coi tacchi a spillo all’Excelsior di Venezia: “Che noia ieri sera. Ma tu te lo sei fatto?”. Escort in piazza San Lorenzo in Lucina a Roma: “Ma hai visto che caldo? Va bene dalle nove e mezza alle undici”.
Dietro a ciascuna di queste frasi c’è una storia, un mondo coperto da un velo che il telefonino ha stracciato. Le gente per strada e altrove parla in libertà, rivela, ma anche disturba, soprattutto sui treni, dove non c’è ormai più niente di segreto. L’addiction da cellulare porta all’indifferenza totale nei confronti del prossimo. Sono gli effetti della mobile technology. Per strada quelli col telefonino ti urtano, vanno dritti, guardano avanti e non si preoccupano di nulla. A volte capita che finiscano nei guai, investiti da un’auto per un attraversamento poco attento. Io ho deciso di usare il telefonino il meno possibile e ho fatto bene. Mi ero intossicato, dormivo poco, avevo disturbi alle articolazioni della mano sinistra, l’orecchio era tutto un prurito. Ora va molto meglio e tutto è andato a posto.
Da quando ho smesso di rispondere o di fare messaggini mi sento un’altra persona. Mi sono disintossicato a poco a poco. L’ho fatto da solo. Ma negli Stati Uniti la mania è diventata, come ha dimostrato una splendida inchiesta sull’ultimo numero di Newsweek, una malattia sociale curata dagli psichiatri. La copertina del settimanale americano mostra un giovane schizzato e fibrillante. Titolo: “iCRAZY”. Sommario: “Panic. Depression. Psychosis. How connection addiction is rewiring our brains”. E adesso che ci siamo detti tutto vorrei tornare a Judy. L’ho vista in giro per via Montenapoleone, guardava le vetrine e chattava. Poi è entrata da Cova, si è seduta a un tavolo e telefonava. Poi, mentre beveva una spremuta, si è messa ad ascoltare musica dall’auricolare: batteva il tempo leggermente, col piede. Aspettava qualcuno. Era impaziente. Si è aperta la porta del caffè. Ed è apparso lui, Gerry. In quell’istante lei ha spento il telefonino e lo ha lasciato precipitare nella borsa di Roger Vivier.

domenica 22 luglio 2012

Grandi banche e agenzie di rating, l’inganno è servito.



di Marcello Foa.

Sono sempre più scettico sulle agenzie di rating e sugli studi delle grandi banche internazionali. Il problema delle agenzie di rating (Moody’s, Standard% Poor’s, Fitch) è noto e ancora oggi irrisolto: trattasi non di autorità di controllo superpartes ma di agenzie private, in chiaro conflitto di interessi, sia nei confronti delle società quotate (che sborsano cifre non indifferenti per ricevere il rating) che dei propri azionisti (come fai a dare il voto a una società, sovente una banca, che ti possiede?). Inoltre, operano in regime di oligopolio, che quasi sempre significa cartello, non sono punibili per i frequenti errori che commettono ma hanno un potere di influenza spropositato e, nei loro vari board, siedono personaggi che hanno chiare finalità lobbistiche (non a caso il premier Monti era consigliere di Moody’s). 
A mio giudizio le tre agenzie di rating non sono compatibili con le regole liberali dell’economia di mercato e sono pericolose per la loro capacità di sovvertire la democrazia e la sovranità nazionale.
Mi espongo: andrebbero messe fuori legge.
Ma anche gli studi delle grandi banche, che regolarmente provocano sensazione sulla stampa e sbalzi sensibili sui mercati, andrebbero studiati da vicino. Recentemente ho partecipato a un convegno internazionale e mi sono trovato al tavolo con il responsabile del centro studi per l’Italia e il Sud Europa di una delle 5 cinque più grandi banche internazionali. Abbiamo simpatizzato e ne ho approfittato per farli qualche domanda sulle loro modalità di ricerca. Le sue risposte sono state sconcertanti. Per ragioni di budget, quest’uomo si recava al massimo una volta all’ anno a Roma e basava le sue previsioni, su dati statistici, sulla lettura dei giornali (i soliti, naturalmente, a cominciare dal Financial Times ed Economist), sui report che riceveva dalle altre banche internazionali e naturalmente dalle valutazioni delle agenzie di rating.
Gli ho chiesto se fosse solo lui ad operare con queste modalità o se la prassi fosse comune ad altri istituti. Mi ha confermato che la maggior parte dei suoi colleghi operava in questa maniera. Dunque, il giudizio sul sistema politico, le prospettive di crescita, l’impatto di leggi e manovre è il frutto non di un’analisi accurata e originale, ma di giudizi di riporto. E infatti i report delle grandi banche, nove volte su dieci, esprimono giudizi molto simili.
E per questo andrebbero accolti nell’ unico modo possibile: ignorandoli e screditandoli, come bisognerebbe fare con le agenzie di rating. Ma i governi sono troppo pavidi e i media troppo conformisti e il grande inganno prosegue. A pagarne il prezzo siamo noi.

venerdì 20 luglio 2012

L'Europa può ricominciare. Se si parte dalla memoria



di Franco Cardini (Secolo d'Italia)

Qualche mese fa, all’inizio della crisi greca che è una crisi europea, mentre sembrava–e, non c’illudiamo, continua a sembrare ancora – che le evidentemente ancor fragili strutture dell’Europa scricchiolassero e qualcuno cominciava a parlare con insistenza di “ritorno alla sovranità monetaria” (come se, tra le sovranità che l’Italia ha perduto, ci fosse soltanto quella…), molti fra noi sono stati invasi da un cupo, profondo senso di tristezza. Parlo soprattutto per me: classe 1940, dichiaratamente europeista da qualcosa di più di mezzo secolo, per quanto le formule federalistiche allora di moda non mi convincessero né mi soddisfacessero. 
Quel che allora noi sognavamo, e dico “noi” perché non eravamo poi tanto pochi, era un’Europa che, forte della coscienza della sua unità culturale di fondo e delle tragedia che da troppi secoli aveva dovuto sopportare a causa della sua divisione, riprendesse il cammino che la Cristianità medievale le aveva indicato, quello dell’unità, e lo traducesse in termini di identità comunitaria capace di misurarsi con il mondo moderno.
Non che le forme del pensiero europeistico elaborate fra Otto e Novecento ci soddisfacessero: non ci convincevano né Saint-Simon, né Thierry, né Michelet, né Cattaneo (anche se la formula “Stati Uniti d’Europa” ci affascinava), né Coudenhove-Kalergi, né Spinelli, né Schuman: qualcuno di noi (anch’io) guardò a Thiriart, ma non era convincente nemmeno lui. Sentivamo che superare i vecchi schemi nazionali non bastava, che cercar di fondare una specie di nuovo “ipernazionalismo” sarebbe stata una follìa, ma che pur bisognava uscir prima o poi dal truce dopoguerra di un continente europeo spaccato in due a causa e per colpa senza dubbio d’una sciagurata guerra (cominciata peraltro non già nel ’39, bensì nel ’14) ma anche della volontà congiunta delle due superpotenze che, in disaccordo su tutto, con i patti di Yalta si erano trovate d’accordo però su una cosa, vale a dire che la parola Europa andava ridotta per sempre a una pura espressione geografica. 
Per questo la nuova Europa economico-finanziaria che cominciò a prender forma a partire dai primi Anni Cinquanta non ci piaceva: la ritenevamo necessaria certo, ma non sufficiente; né tanto meno primaria, in quanto ritenevamo che le istituzioni finanziarie e monetarie dovessero accompagnare se non addirittura tener dietro, ma certo non precedere quelle politiche, istituzionali, sociali e anche militari. Per questo la costosissima Unione Europea di Bruxelles e di Strasburgo, con la sua pesante burocrazia e i suoi organi parlamentari consultivi, non poteva né piacerci né bastarci. 
La crisi scoppiata già da qualche mese, e ancora in atto, ha rischiato di far volare in pezzi anche quel poco che c’era: un “poco” pesante e pletorico, ma insoddisfacente. Eppure, forse qualcosa si sta movendo. Qualcosa che ci condurrà a prender concordi atto che quella “falsa partenza” ha servito se non altro a farci prendere comune coscienza di un bisogno diffuso per quanto mai evidenziato, mai approfondito dalle forze politiche dei paesi membri della Ue. Non a caso, non abbiamo né una Costituzione – di cui non siamo stati capaci nemmeno di redigere un preambolo -, né un esercito; abbiamo sì una bandiera, anche bella, e un inno (preso dalla Nona di Beethoven) che però non possiamo cantare in quanto manca di parole adeguate. 
Eppure oggi è successo un piccolo miracolo. Il Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, ha inviato alla gente siciliana dei comuni coinvolti dallo sbarco del 1943 un messaggio per rievocare un evento accaduto sessantanove anni or sono. Un piccolo, doloroso evento: una goccia di sangue versata nell’oceano che stava affogando il mondo di quei giorni. Ma l’averlo ricordato oggi può rappresentare un giro di boa, il segno dell’inizio di qualcosa di davvero rivoluzionario e profondo.
Martin Schulz si è simbolicamente unito a un piccolo gruppo di cittadini riuniti per ricordare, con un semplice cippo, un evento doloroso e un crimine di guerra. Il massacro senza ragione, contro le leggi di guerra e contro le leggi umane e divine, di un gruppo di soldati italiani che si erano arresi da parte di un’unità delle forze armate statunitensi sbarcate in Sicilia. Un atto non solo inutile, ma anzitutto arbitrario e crudele. 
Ma perché ricordarlo solo adesso? Si chiederà qualcun altro. E che cosa volete che significhi quell’episodio, nel mare di ferocia di una guerra che assisté addirittura a veri e propri genocidi? Rifletterà qualcun altro.
Qui sta appunto la sconvolgente novità. Sempre, dopo le guerre, si tende a criminalizzare i vinti e ad assolvere i vincitori. È una legge antica forse quanto il mondo: ma divenuta, all’indomani delle prima e soprattutto della seconda guerra mondiale, un dogma inviolabile. In tempi recenti, qualche stato ha addirittura proposto ed emanato leggi demenziali tese a derubricare a crimine passibile di pena qualunque parere, comunque espresso, che potesse venir interpretato come un tentativo di rivedere alcune pagine storiche e di ridistribuire, magari alla luce di nuovi elementi e documenti, alcune responsabilità. Si è indiscriminatamente e istericamente parlato di “revisionismo” e di “negativismo”, si è confuso tra ricostruzione dei fatti e critica di essi, ci si è abbandonati a un terrorismo che in qualche caso ha lambito anche sedi politiche ed accademiche elevate. 
Oggi, Martin Schulz rompe l’omertà: e definisce per quel che è, un crimine, quel lontano atto di viltà e di ferocia che sarebbe stato chissà quante volte ricordato e stigmatizzato se fosse stato compiuto da soldati della parte che ha perduto la seconda guerra mondiale; mentre, per il fatto di essere stato commesso dai vincitori, era stato per troppi decenni “dimenticato”, rimosso. 
Certo, il presidente fa quel che può. Molte altre lapidi, sparse un po’ dappertutto in Europa, parlano analogo criptico linguaggio. I crimini commessi dalle forze del Terzo Reich sono stigmatizzabili come “barbarie nazista”. Per gli altri, aggettivi qualificativi politically correct mancano. Quale barbarie ha reso possibile i bombardamenti di Dresda e di Hiroshima? Schulz risponde in modo corretto, pur senza infrangere le regole vigenti: “la barbarie della seconda guerra mondiale”, che ci ha insegnato a tenderci di nuovo la mano, a riconoscerci come fratelli. Ed è su ciò che bisogna costruire quell’unità europea per la quale poco di effettivo fino ad oggi è stato fatto, come giorni fa ha sottolineato la stessa cancelliera Angela Merkel. Ma per far questo occorre una reale volontà unitaria: che cominci dai giovani, dalla scuola.
Mezzo secolo fa noialtri giovani universitari invocavamo la nascita di una scuola unitaria europea, nella quale tutti i ragazzi degli stati membri studiassero, nella loro lingua rispettiva, la medesima storia e accedessero a una misura comunitaria della cultura europea, nella quale Shakespeare non fosse più un semisconosciuto a tutti meno che ai ragazzi britannici e Cervantes un semignoto a chiunque non fosse spagnolo. Mezzo secolo fa chiedevamo che in tutta Europa si abolissero le intitolazioni delle piazze e strade alle vittorie nazionali e le si sostituissero con l’intitolazione alla concordia europea; che si smettesse di studiare la ristretta storia nazionale e si accedesse a un più ampio e comprensivo studio della storia europea. 
Perché dalla conoscenza nasce la coscienza, e dalla coscienza l’amore. Sono partiti i programmi Socrates ed Erasmus, importanti ma non sufficienti: poi, non si è fatto altro. Riprendiamo il cammino: partendo stavolta non dall’economia che ci ha dato l’Eurolandia, bensì dalla scuola, dalla cultura, dalla politica, dalla coscienza che un’Europa unita è più che mai quel che ci vuole per procurare un po’ di equilibrio a un mondo sempre più impazzito. Era un cammino che avremmo dovuto avviare dal ’45: abbiamo perduto quasi settant’anni. L’appello del Presidente Schulz ci suggerisce di ricominciare da capo. Subito.