venerdì 30 novembre 2012

E.A. Poe scopritore di una nuova malattia dello spirito:la modernità


di Francesco Lamendola

Il pubblico, specialmente il pubblico europeo, possiede una percezione parziale dell’opera di Edgar Allan Poe: la sua notorietà come scrittore di racconti del mistero e del terrore è così grande, ampliata anche dal cinema che si è impossessato di quei soggetti, da aver messo decisamente in ombra un altro aspetto della sua produzione: quella lirica.

Leggere le poesie di Poe, immaginando di ignorare l’identità del loro autore, rappresenta una delicata e suggestiva escursione in una provincia artistica leggiadra e nostalgica, pervasa dal rimpianto della Bellezza ideale che il mondo materiale, e specialmente il mondo moderno, con le sue brutture e il suo affarismo, sembra avere irrimediabilmente compromesso; si resta un po’ sorpresi nel confrontare questo poeta delicato e un po’ platonizzante, che vibra al più lieve tocco della Bellezza, sensibile come un rametto di mimosa, al cupo autore di racconti orrorifici come «La maschera della morte rossa», «Il cuore rivelatore» o «La caduta della Casa Usher».

D’altra parte, c’è un tratto caratteristico e inconfondibile nelle liriche di Poe, dal notissimo - e forse troppo celebrato - poemetto «Il Corvo» («The Raven») alla raffinata, nitida poesia «A Elena» («To Helen»), lieve come un impalpabile sogno ad occhi aperti - o magari chiusi, chi può dirlo?, l’atmosfera onirica si presta a tali giochi di specchi fra realtà e fantasia -: vogliamo dire l’attenzione alla pulizia stilistica, la sapienza della struttura lessicale e compositiva, la ricercatezza formale, simile ad un prezioso lavoro d’intarsio e di compasso; tanto da suggerire l’idea che non di poesia sentimentale si tratti, romanticamente intesa, ma di una poesia intellettualistica, razionalmente pensata ed impostata, secondo i canoni rigorosi del “secolo dei lumi”.

È un’impressione che va ridimensionata, tenendo conto che nel Poe lirico esiste un sapiente gioco di contrappunti e di armonie fra la dimensione istintiva, passionale, sentimentale - o, come lui dice, immaginativa -, e quella logica, razionale, “scientifica”; e che il pregio maggiore delle sue poesie consiste proprio nel sapiente dosaggio e nel raro equilibrio che egli riesce ad ottenere fra le ragioni del cuore e quelle della mente; nella linea, del resto, di altri grandi pre-romantici, a cominciare dal nostro Ugo Foscolo, e specialmente il Foscolo dei sonetti.

Abbiamo accennato alla “scientificità” dei procedimenti poetici di Poe, pur subordinati ad una concezione generale del fatto estetico che è d’impostazione idealistica, per la quale le cose sono le ombre o i riflessi di una realtà ulteriore, sovrannaturale o, comunque, non umana, secondo la lezione del mito platonico della caverna, ma anche dello Shakespeare dei sonetti, dei “romances” come «La tempesta» e di alcune struggenti e delicate commedie, a cominciare da «Sogno di una notte di mezza estate» («A Midsummer Night’s Dream»).

Ebbene, il rapporto con la scienza è un’altra preziosa chiave di lettura per accostarsi alla produzione lirica di Poe. Egli non è nemico della scienza, anche se, sulla scia di altri grandi lirici anglosassoni, in particolare del “visionario” William Blake, le rimprovera aspramente di aver gettato un’ombra desolata sul mondo, strappando il velo della poesia e imbruttendo la realtà, ingrigendo gli orizzonti della vita; ma tale rimprovero non è rivolto alla scienza in quanto tale, per la quale, anzi, egli nutre un vivo e sincero interesse e al cui metodo logico ritiene che anche il poeta debba attingere, per non parlare del prosatore (e si pensi ai suoi racconti di genere investigativo, come «I delitti della Rue Morgue», caratterizzati da un rigoroso impianto razionale e deduttivo); bensì alla scienza presuntuosa e arrogante, in definitiva allo scientismo, che pretende di assolutizzare il proprio sapere e di ridurre al rango di saperi di seconda scelta quelli propri alle altre forme di conoscenza del reale, a cominciare dall’arte medesima.

Poe, dunque, non rifiuta la scienza in se stessa, così come, si potrebbe aggiungere, non rifiuta la modernità in quanto tale; ne rifiuta semmai la bruttezza, il cinismo, l’utilitarismo esasperato, il produttivismo cieco, il materialismo grossolano, la pretesa totalizzante a livello estetico, etico e filosofico; rifiuto deciso, intransigente, donchisciottesco, se si vuole, e quindi ingenuo e velleitario, ma non per questo meno sincero, non per questo meno sofferto e umanamente significativo, perché testimonia la crisi e il dramma di una civiltà faustiana che si vede presa nella propria vertigine ed esita, brancolando, sull’orlo dell’abuso, a imboccare sino in fondo la strada di un “progresso” senz’anima, foriero di sempre nuove, sconvolgenti sottomissioni dell’anima alle ferree leggi del Logos calcolante e strumentale.

E che altro è, del resto, la “caduta” della Casa Usher, se non la nemesi di un progresso disumano e accecato dall’umano orgoglio, che non riconosce limiti né misura alla propria “hybris” e che pretende di farsi legge e norma infallibile e inderogabile di ogni agire umano, di ogni pensare, di ogni sentire, come se nulla vi fosse oltre a ciò che la mente razionale può accumulare, manipolando gli enti senza sosta, sovvertendo le leggi naturali, capovolgendo il giusto rapporto fra la vita e il suo insopprimibile bisogno di bellezza?

Tutto questo appare evidente nella “protesta” di Poe, ché di una autentica protesta si tratta, ora esplicita, come nei racconti, ora implicita, come nelle poesie; ma sempre si tratta di una pretesta ferma e intransigente, non tanto in nome della nostalgia del passato pre-moderno (tentazione che, peraltro, fa sovente capolino, specie nelle liriche, in particolare sotto le forme di un richiamo alla grazia impareggiabile del mondo classico), quanto piuttosto in nome di una umanità che, pur confusa e smarrita, non è disposta ad abdicare a se stessa, al proprio sentimento di ciò che è umano, ai diritti sacrosanti della “imagination”, della fantasia creatrice di bellezza.

Così sintetizza la questione Tommaso Pisanti nel suo saggio introduttivo all’opera poetica del grande scrittore americano, «E. A. Poe poeta» (E. A. Poe, «Tutte le poesie», a cura di T. Pisanti, Roma, Newton Compton Editori, 1982, 1990, pp. 15-21):


«Già da fanciullo “mentre era azzurro tutto l’altro cielo”, Poe vide una nuvola prender forma di demone (“of a demon in my view” (“Alone”). E lungo una tale direzione si svilupperà, più tardi, la “selvaggia visionarietà di “The Haunted Palace” (Il Palazzo stregato) e - meno compatta - quella di “Dream-Land” (Terra di sogno), col terribile, soffocante senso di una duplicità e anzi ambigua e stregata “doppiezza” angelico-demonica. Perché se il “demonico” s’accumula in Poe inizialmente come per un’intensificazione della disperazione stessa, interviene e subentra poi anche una specie di contorto sadismo “dello spirito” e dell’immaginazione, che conosce le sue orge non meno di quello fisico-corporeo. Poe vede insomma la vita come divorata e spazzata via dal gigantesco “Verme trionfante” di “The Conqueror Worm”: e ne piangono gli angeli stessi, “pallid and wan”, “pallidi ed esangui”.Nell’intollerabile tensione, Poe si volgerà anche alla Vergine, invocherà Maria: in “Catholic Hymn” (corretto poi in “Hymn”), con suggestione forse dantesca o byroniana (“Don Juan”, III st. 101 ss). Naturalmente, è sempre da tener presente quanto d’impulsivo, d’immediato, quanto dell’istinto e della multilateralità dell’attore-istrione e, al limite, di mistificatorio è in Poe. Il poeta vive, “trasognato, giorni estatici” (“And all my days are trances”), dirà in “A una in Paradiso”. Certo, Poe fu “evasivo”, “disimpegnato”: ma nel senso della “immaginazione angelica”, disincarnata, indicata da Allan Tate. Il suo esplorare la surrealtà non si risolve poi infine, tuttavia, in una più sottile conoscenza d’una più globale, estesa realtà? […]

Le poesie riservano tutto un più largo spazio, rispetto ai racconti, a quella componente dell’ardore per la Beltà, a un mito d’armonie remote e perdute […]: ardore e mitopoiesi classico-platonica soffusi d’ombre orfico-pitagoriche, e con qualche finale riverbero, magari, pur sempre goticheggiante.Una componente, questa, fondamentale, che stacca comunque Poe dalla dimensione, diciamo, soltanto “gotica” e romantico-hoffmaniana per accostarlo anche al nitore d’una linea e d’una mitizzazione classico-neoclassica, alla linea di Hölderlin, di Keats, di Foscolo: come nella splendida, esemplare “To Helen” […], pubblicata già nel 1831 e poi continuamente ricesellata. […]

E a difesa dei vecchi miti e, leopardianamente, degli “ameni inganni”, anche Poe lamenta, nel sonetto “Alla scienza”, che il “progresso” abbia tutto ingrigito e livello, che la Scienza con le sue ali “grevi” (“dull”) abbia “sbalzato Diana dal suo carro” e “scacciato l’Amadriade dal bosco” e “strappato la Naiade al flutto / l’Elfo al verde prato e me stesso infine / al sogno estivo all’ombra del tamarindo”. Ma è solo un’accentuazione particolare : giacché Poe è in realtà vivamente sensibile allo sviluppo scientifico, nella misura in cui esso è, innanzi tutto, collegato con una “mind” lucido-geometrica e anche per quanto può offrire, di nuove aperture e di nuovi strumenti, all’esplorazione e all’osservazione sottilmente operate dall’occhio e dalla mente umani (e nella mente umana). Insieme al rimpianto quindi Poe ingloba in sé un attento, tenace interesse nei riguardi della lucidità dei metodi e dei procedimenti, una ferma attenzione alla rigorosità del linguaggio matematico-scientifico, al linguaggio del pensiero e delle definizioni, che possono offrirgli materiali e stimoli proprio per il lato di rigorosità e di definizione laicizzante che egli intende dare alla sua macchina stilistica. […] Si tratta, naturalmente, di un uso “strumentale” della scienza, proprio al fine di ristabilire quella riunificazione tra il sensibile e il soprasensibile che è il supremo proposito di Poe e il supremo proposito della poesia, secondo Poe: nel quale resta nettissima, s’intende, l’avversione alla scienza come pretesa sistematica di spiegazione e interpretazione puramente ed esclusivamente logico-razionale. […]

Anche se, alla base, è la “prescienza estatica” che dà il primo scatto, è all’intelletto e alla “tecnica” che tocca poi partecipare per il fattuale concretarsi della poesia. “Non vi è peggior errore che il presupporre che la vera originalità sia semplicemente questione d’impulso e d’ispirazione. Originalità è combinare in modo attento, paziente e comprensivo”. Poe è insomma tutt’altro che immerso nella totalità romantica, resta anzi legato ad eredità settecentesche, “è un razionalista del Settecento con inclinazioni occultistiche”, ha perfino scritto il Wellek. […]

Il senso della “combinazione” non deve tuttavia indurre ad eccessive, facili accuse di “cerebralismo” e “meccanicità”. Lawrence scrisse perfino che Poe “è quasi più scienziato che artista”. Ma i meccanismo che Poe mette in movimento puntano a un “effetto”, cioè a risultati: d’eccitazione e d’intensa emotività.

Poe fu insomma scopritore- può dirsi ancora, e concludendo, con Emilio Cecchi - “di una provincia che non è quella del’orrido, dell’ossessivo, ma è semplicemente la nuova provincia dell’arte d’oggi. Solo una delle nuove province, a voler precisare. E fra tentativi e approssimazioni, se si vuole. Ma è innanzi tutto in se stessa, nella sua intrinseca composizione che la poesia di Poe va riletta e ripensata: una lampeggiante associazione di “gotico”, di tradizione classicista e di inquietanti fosforescenze anticipatrici, sì, ma già “poesia” per se stesse.»

In questo senso, e sia pure forzando, ossia andando oltre, la stessa interpretazione del Cecchi, ci sembra di poter concludere che Poe, e specialmente il Poe lirico, tanto meno conosciuto, ma non meno interessante del Poe narratore, si possa considerare come lo scopritore non solo di una nuova provincia dell’arte, ma di una nuova malattia dello spirito: la modernità.

Negli stessi anni di Kierkegaard, anch’egli leva la sua voce per protestare contro il cancro della società massificata, petulante, presuntuosa, che, forte dei propri successi tecnici ed economici, pretende di imporre il suo dominio tirannico sui regni dello spirito e sui diritti inalienabili dell’io individuale. Poe, dunque, fratello in spirito di Kierkegaard: chi l’avrebbe detto? Eppure è così.

Certo, la protesta di Poe è quella di un poeta: non possiede né la forza, né il rigore del grande filosofo danese. Davanti alla bruttezza che minaccia la vita fin nelle sue intime radici, Poe non sa cercare rifugio se non nelle braccia della donna idealizzata; ed ecco le numerose donne angelicate: Elena, Elizabeth e le altre. Fragile rifugio, quale potrebbe cercare un bambino spaventato da un brutto sogno: «Io vivevo tutto solo / in un mondo di dolore, / e la mia anima ristagnava immobile, / finché la bella e gentile Eulalia non diventò mia timida sposa» («Eulalia»). Ma la vita, è altra cosa...

giovedì 29 novembre 2012

Lasciati spiare...dai manichini!


tratto da Azione Tradizionale

Un manichino “intelligente”, cioè in grado di riconoscere il consumatore. Manichini dotati di fotocamere con riconoscimento facciale e in grado di raccogliere informazioni sulle persone che passano loro di fronte, in particolare età, razza e genere. Capaci di misurare l’afflusso dei clienti in base alla fascia oraria e di capire da quali oggetti sono maggiormente attratti, sulla base del tempo di stazionamento davanti alla vetrina. Ora, tranquillo. E pensa che questa tecnologia è applicata solo ed esclusivamente per innocui fini commerciali… Sei sicuro?

(La Stampa) – Quando si dice l’ingegno italiano. Sta facendo il giro del mondo, specie nelle testate che si occupano di tecnologia la notizia, lanciata da Bloomberg,di come alcuni grandi marchi di abbigliamento stiano utilizzando nei loro negozi dei manichini messi a punto dalla società Almax, di Mariano Comense.

Non si tratta di esemplari qualunque, ma di prodotti della linea Eye See, pupazzi dalle fattezze umane dotati di fotocamere con riconoscimento facciale e in grado di raccogliere informazioni sulle persone che passano loro di fronte, in particolare età, razza e genere. Capaci anche, grazie al software sviluppato dall’azienda Kee Square, spin off del Politecnico di Milano, di misurare l’afflusso dei clienti in base alla fascia oraria e di capire da quali oggetti sono maggiormente attratti, sulla base del tempo di stazionamento davanti alla vetrina.

Costano 4.000 euro ciascuno e, secondo quanto rivelato dal Ceo Max Catanese a Bloomberg, finora Almax ne ha venduta qualche dozzina: i manichini bionici hanno già trovato impiego in cinque catene di abbigliamento, compresa, secondo alcuni,Benetton.

La multinazionale veneta ha però smentito, affermando di adoperare sì, manichini di Almax, ma non quelli dotati di fotocamera.

I benefici per i commercianti riguardano la possibilità di personalizzare il servizio sulla scorta dei dati immagazzinati con si sistema Eye See: i casi citati sono quelli di un negozio che, notando che la gran parte della propria clientela pomeridiana era composta da ragazzi, ha introdotto una linea di vestiti pensati apposta per loro; in un altro esercizio, constatato che i clienti che entravano dopo le 16 erano per lo più asiatici, sono stati assunti dei commessi in grado di parlare cinese.

Non mancano però perplessità sul fronte della privacy: per quanto in molti negozi esista già un servizio di videosorveglianza, i consumatori vengono avvertiti di essere filmati e le telecamere sono solitamente visibili. Senza contare che si suppone che il monitoraggio venga effettuato per motivi di sicurezza, per prevenire furti, non per catalogare la clientela. Finora comunque Almax non sembra aver incontrato resistenze legali; anzi pare volersi spingere ancora più in là: la società comasca starebbe lavorando a un sistema per dotare i manichini, oltre che di vista, anche di udito, per origliare i commenti dei passanti sull’abbigliamento dei pupazzi e targettizzare ulteriormente l’offerta.

mercoledì 28 novembre 2012

Intellettuali e potere


di  Massimo Fini

L’Italia è in crisi, l’Europa è in crisi, l’occidente stesso è in crisi. Non è solo una crisi economica a minacciare le società occidentali, ma anche un impoverimento dell’universo culturale e l’insano rapporto che lega gli intellettuali al mondo della politica. Ne parliamo con Massimo Fini, che prima di altri denunciò nel 1986, dalle pagine de L’Europeo, la questione morale che affligge gli intellettuali.

Lei ha scritto forse prima di altri della corruzione degli intellettuali (economica, morale ed intellettuale), quale vero segno di collasso di un paese, prima ancora della corruzione dei politici. Quali sono le doti secondo lei che un intellettuale deve avere nel suo rapporto con il pensiero politico, prima ancora che con la politica?

L’intellettuale naturalmente deve conoscere, tanto più se si occupa di questioni politiche e non di letteratura, il pensiero politico: la storia del pensiero politico e il pensiero politico del suo tempo. Il rapporto col potere politico è molto semplice: l’intellettuale deve giudicare a 360 gradi. Non è che se una cosa mal fatta la fa qualcuno che si inserisce nel suo solco di pensiero, allora si glissa sopra, mentre se la fa qualcuno avverso a quel tipo di pensiero si picchia duro. La critica deve essere a 360 gradi anche laddove nei principi di fondo si concordi. 

Lei ha fatto riferimento a quello che potremmo definire una lottizzazione politica della società, una sorta di feudalizzazione, nella quale anche l’intellettuale rischia di essere risucchiato. Questo è un po’ il pericolo…

Esattamente. Ed è quello che è successo in modo clamoroso in Italia. L’intellettuale invece deve essere uno che non appartiene a nessun feudo. Deve essere un libero pensatore, ma ciò non toglie che abbia alle sue spalle una Weltanschauung. Deve però avere le mani libere nella critica o, eventualmente, nell’elogio.

Pasolini, in quel famoso editoriale apparso sul Corriere della Sera “Cos’è questo golpe? Io so”, diceva che l’intellettuale deve avere il coraggio della verità. Deve saper dire la verità. È ancora possibile parlare di verità (alla quale si può aggiungere la giustizia) senza cadere nel dogmatismo?

Quale sia in assoluto la verità nessuno lo sa a parte quelli che credono in dio. L’intellettuale deve semplicemente dire onestamente quello che pensa, e non è detto che sia in assoluto giusto, a prescindere da qualsiasi legame di tipo partitico o, se vogliamo, per usare l’espressione che ha usato lei, feudale. Pasolini è un buon esempio, nel senso che diceva quello che pensava. Non è detto che tutto quello che pensava Pasolini fosse giusto, ma era il punto di partenza che era giusto e onesto. L’intellettuale, ma anche il giornalista, non dovrebbe essere legato a gruppi di potere, altrimenti non fa più il giornalista o l’intellettuale. Ad esempio un giornalista dell’Unità degli anni ’50 – lì giustamente poiché dichiarato – non faceva il giornalista, ma il propagandista.

Da tempo oramai il ruolo degli intellettuali è stato soppiantato da quello dei giornalisti, degli opinionisti e addirittura dagli spin doctors come “maestri di pensiero”. Allo stesso tempo la politica sembra progredire senza una reale visione organica di quale futuro voler raggiungere. C’è una relazione tra questi due processi? Ovvero, la politica non guarda più tanto lontano perché è venuto a mancare chi pensasse il mondo in una sua forma organica? Il Principe è rimasto senza Consigliere, per riprendere il titolo di questo dossier?

La figura dell’intellettuale in senso proprio, per lo meno in Italia, è scomparsa. Non mi sentirei di citare un nome di un intellettuale a livello di Pasolini o di Bertrand Russell. Non c’è più la figura dell’intellettuale, ma c’è anche qualcosa di peggio: al mondo occidentale manca un pensiero filosofico. L’intellettuale in genere è un trasmettitore tra filosofia e realtà. Non c’è ora un pensiero filosofico che orienti in linea generale la politica e il presente. In occidente, morto Heidegger, non è più nato un filosofo. Non solo, ma direi che gli opinion maker, che una volta erano gli intellettuali, ora sono i conduttori di trasmissioni televisive o cantanti o cose di questo genere. Conta molto di più l’esposizione mediatica piuttosto che altre doti. Ho detto prima che non ci sono intellettuali in Italia. In realtà ci sono ma non contano niente. Se pensiamo ai pochi filosofi che esistono in Italia – Giorello per dirne uno – la loro parola conta uno rispetto a un rutto di un cantante di prima linea.

Pensa che questo abbia a che fare con l’indebolimento delle autorità statali rispetto alle forze economiche? Che, per dirla in altra maniera, l’intellettuale si sia eclissato perché non c’è più la possibilità di incidere efficacemente sui rapporti umani e sociali, che per forza di cose ora sono di natura globale, attraverso una pratica di “buon governo”?

Questo senz’altro, ma sempre solo per quanto riguarda l’occidente, perché per altri luoghi potrebbe essere diverso. È fuor di dubbio che per esempio la cosiddetta globalizzazione abbia divorato e distrutto le identità nazionali, da cui poi nascono i fermenti intellettuali. Prendiamo il fascismo: sì, è stato una dittatura, ma è stato una dittatura che ha anche espresso al proprio interno pensieri o fenomeni estremamente interessanti. Basti pensare che noi siamo stati in quegli anni i primi nel design industriale. È chiaro che questo sistema economico tende a omologare tutto a un pensiero standard, che è poi il suo o, meglio, che è quello del meccanismo del pensiero di sviluppo che ci sta sotto. È quindi molto difficile avere un pensiero quando ce n’è uno così potente, che non è neanche un pensiero, ma è un meccanismo, che è unico. Quindi, in un sistema di questo genere, l’intellettuale fa grandissima fatica a emergere perché come minimo viene emarginato, spinto ai margini estremi del sistema. Non è che di intellettuali non ce ne siano stati in occidente negli ultimi anni. Penso in Francia a Baudrillard o Virilio. Però stanno ai margini del sistema e la loro parola conta molto poco.

La crisi economica ha rimescolato le carte. Crisi è però un momento di scelta. Quale spazio pensa ci sia nel futuro prossimo per gli intellettuali, quelli dal pensiero olistico e onesto?

Sì, potremmo dire che crisi è anche sinonimo di rinascita. È indubbio che la crisi economica induce non solo gli intellettuali ma anche le persone comuni a riflettere sulla vita che si sta conducendo. Non solo adesso che è un’epoca di vacche magre, ma sulla vita che si sta conducendo anche quando le cose economicamente vanno bene. Ovvero: se è una vita, questa, degna di essere vissuta. Non è una cosa che riguarda in sé gli intellettuali, ma riguarda la massa. Mai come in quest’epoca sento le persone riflettere sul modello di vita, non perché adesso c’è la crisi, ma sul modello di vita in quanto tale, cioè quello sintetizzato nelle parole produci-consuma-crepa. La crisi aiuta il pensiero, non c’è dubbio. Se si pensa a un momento critico, come quando si usciva dalla guerra, sì vittoriosa ma con mille problemi come è stato il ’19 e il ’22 e ciò che ne è seguito, si vede che da un punto di vista culturale ci sono notevolissime espressioni. Lo stesso vale per la Germania e per l’Europa intera. Gli anni ’30, che per certi versi sono anni di crisi, sono stati anni estremamente fecondi dal punto di vista culturale e questo penso possa ripetersi adesso che c’è questa grande crisi. Il pensiero non nasce da un benessere beota, nasce in realtà da un disagio, quasi sempre. Siccome adesso il disagio c’è – non è ancora così profondo come sarà tra non molto – sicuramente produrrà pensieri. Ripeto, non riguarda solo l’intellettuale, ma riguarda la gente normale. L’intellettuale aiuta a porsi dei dubbi, ed è questa la vera funzione dell’intellettuale. Una verità obiettiva non esiste e il dovere dell’intellettuale è porre dubbi su quello che è il pensiero dominante, o i meccanismi dominanti, come in questo caso.

martedì 27 novembre 2012

I miti sull'attacco israeliano a Gaza...



di Juan Cole

1. I falchi israeliani descrivono se stessi come impegnati in un “processo di pace” con i palestinesi cui Hamas si rifiuta di aderire. Invece Israele si è rifiutata di smettere la colonizzazione e il furto di terra palestinese per un periodo abbastanza lungo per potersi impegnare in negoziati fruttuosi con loro. Israele annuncia regolarmente nuove costruzioni di case nella zona palestinese della Cisgiordania. Non c’è alcun processo di pace. E’ una finzione israeliana e americana. Parlare di un processo di pace significa dare copertura ai nazionalisti israeliani che sono decisi ad arraffare tutto quello che hanno i palestinesi e ridurli a profughi privi di mezzi di sostentamento (ancora una volta). 

2. Azioni come l’assalto a Gaza non possono ottenere uno scopo strategico genuino a lungo termine. Vengono avviate per assicurarsi che gli ebrei-israeliani siano i primi a sfruttare le risorse fondamentali. Dimostrare la forza contro i palestinesi crea un pretesto per ulteriori invasioni di terra e creazione di colonie sulla terra palestinese. Cioè, l’azione militare contro il popolo di Gaza è una tattica diversiva; il vero scopo è la Grande Israele, un’asserzione di sovranità israeliana su tutto il territorio che una volta era governato dal Mandato britannico della Palestina. 

3. I falchi israeliani presentano la loro guerra di aggressione come fatta per “auto difesa”. Però Il capo dei rabbini di Israele ha ammesso alla televisione, che l’attacco di Gaza in realtà ‘aveva a che fare con l’Iran.’ 

4. I falchi di Israele demonizzano i palestinesi di Gaza definendoli “cattivi vicini” che non accettano Israele. Però il 40% della popolazione di Gaza è costituito da rifugiati che in massima parte vivono in campi profughi, discendenti di famiglie della Palestina del periodo precedente al 1948 e che hanno vissuto lì da migliaia di anni. 

Erano stati espulsi da quella che è ora Israele nella campagna di pulizia etnica sionista del 1948. Gli israeliani vivono adesso nelle loro case e coltivano la loro terra, e i palestinesi non hanno mai avuto alcun risarcimento per i crimini di cui sono stati vittime. (pdf) “Il fatto che Israele non sia riuscita a fornire un risarcimento ai rifugiati palestinesi nei sei decenni scorsi è una lampante violazione della legge internazionale.” Israele non accetta il diritto che ha la Palestina di esistere, anche se chiede costantemente che tutti, compresi i Palestinesi profughi e che vivono in regime di occupazione, riconoscano il diritto di Israele di esistere. 

5. I falchi israeliani e i loro cloni americani dipingono Gaza come uno stato straniero, ostile con cui Israele è in guerra. Di fatto, invece, la Striscia di Gaza è un piccolo territorio di 1,7 milioni di abitanti occupato da Israele (una situazione a cui concorrono l’ONU e altri organismi internazionali). Israele non permette a Gaza di avere un porto o un aeroporto , né di esportare la maggior parte di ciò che produce. I palestinesi non possono lavorare circa un terzo della loro terra, che Israele tiene riservata per sé, come zona cuscinetto di sicurezza. In quanto territorio occupato, è coperto dal Regolamento dell’Aja del 1907 e dalla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 per il trattamento delle popolazioni in regime di occupazione da parte dell’occupante militare. Il bombardamento indiscriminato dei territori occupati da parte dell’occupante è chiaramente illegale secondo la legge internazionale. 

6.I falchi israeliani si considerano vittime innocenti della sconcertante rabbia palestinese di Gaza. Israele, però, non soltanto ha tenuto i Palestinesi di Gaza nella più grande prigione all’aperto del mondo, ma li tiene sotto un regime di blocco illegale che per alcuni anni mirava a limitare la loro nutrizione senza comunque farli del tutto morire di fame. Ho scritto in precedenza: 

“Il blocco del cibo ha avuto effetti reali. La crescita di circa il 10% dei bambini palestinesi di Gaza di meno di 5 anni, è stata bloccata dalla denutrizione. Un recente rapporto dell’organizzazione Save the Children (pdf) e di Medical Aid for Palestinians ha trovato che, inoltre, l’anemia è diffusa e colpisce oltre due terzi di neonati, il 58,6 di bambini in età scolare, e oltre un terzo di madri incinte.” 

Se una qualsiasi potenza straniera accerchiasse Israele, distruggesse il porto di Haifa e l’aeroporto di Tel Aviv, e impedisse che le merci israeliane venissero esportate, che cosa pensate che farebbe Israele? Ah, già, , è scortese considerare sia i Palestinesi che gli Israeliani come esseri umani uguali. 

7. I falchi israeliani demonizzano i residenti palestinesi di Gaza come seguaci di Hamas, una milizia del partito della destra religiosa musulmana. Metà dei palestinesi di Gaza, però, sono minorenni che non hanno mai votato per Hamas e che non possono essere ritenuti collettivamente responsabili di quel partito. 

8. I falchi israeliani giustificano la loro aggressione ai palestinesi sulla base dell’autodifesa. Israele, però, è un paese di 7,5 milioni di persone, ha carri armati, veicoli blindati, artiglieria, elicotteri d’assalto, e aerei da guerra F 16 e F18, oltre a 400 testate nucleari. Gaza è un piccolo territorio occupato che ha 1,7 milioni di abitanti, che non hanno armamenti pesanti, soltanto vecchi fucili e alcuni razzi in gran parte inoffensivi. (Israele parla di centinaia di razzi lanciati da Gaza verso Israele dal 2012, ma, fino al recente attacco di Israele, non avevano ucciso un solo israeliano, sebbene abbiano ferito poche persone lo scorso marzo quando i combattimenti tra palestinesi e israeliani sono aumentati). Gaza è una minaccia per Israele come era stato una minaccia il Trankei Bantustan per l’Apartheid in Sudafrica. In quanto alle minacce realmente asimmetriche da parte di Gaza contro Israele, potrebbero essere affrontate dando ai palestinesi uno stato e ponendo fine al blocco loro imposto oppure, nel peggior scenario, il contro terrorismo invece che le campagne di bombardamenti indiscriminati. 

9. I falchi israeliani confermano che sono stati provocati ad attaccare. In realtà, però, Ahmad Jabari, il capo di Hamas che gli israeliani hanno assassinato all’inizio di questa settimana, era stato impegnato in colloqui con gli Israeliani riguardo a una tregua. Le uccisioni fatti con lo stratagemma dell’apertura ai colloqui di pace sono garanzia che non ci sarà nessun ulteriore colloquio. 

Sebbene la maggior parte dei media americani siano un settore di sostegno del Partito Likud, di fatto il mondo è sempre più stufo dell’aggressività israeliana. I boicottaggi e le sanzioni probabilmente aumenteranno nel tempo,lasciando i falchi israeliani in una situazione di deficit economico.

lunedì 26 novembre 2012

FIRENZE: L'ITALIA CROLLA, GLI STUDENTI NO!




FIRENZE: CASAGGì E MOVIMENTO STUDENTESCO NAZIONALE: SIT-IN PER IL DIRITTO AL FUTURO DAVANTI AL LICEO RUSSELL NEWTON. CENTINAIA DI STUDENTI CON LA DESTRA GIOVANILE AL GRIDO: “L’ITALIA CROLLA, GLI STUDENTI NO!” 

Questa mattina una cinquantina di militanti di Casaggì e del Movimento Studentesco Nazionale, la sigla che raccoglie gli studenti vicini al “centro sociale di destra” fiorentino, hanno fatto un presidio davanti al Liceo Russell Newton di Scandicci, esponendo bandiere tricolori e un grande striscione con la scritta: “L’ITALIA CROLLA, GLI STUDENTI NO!” e scandendo slogan contro il governo Monti, la carenza di fondi per la scuola pubblica, i tagli all’istruzione e l’omologazione culturale.

“La nostra – spiega il responsabile fiorentino del MSN Anthony La Mantia – è una mobilitazione che inizia oggi e durerà per alcuni mesi. Siamo e saremo presenti in tutte le scuole della nostra provincia e della nostra Nazione perché crediamo che sia nostro dovere sensibilizzare una generazione che tutti hanno dato per morta, ma che invece ha il dovere di reclamare un futuro”.

“Stiamo assistendo – prosegue La Mantia – ad una svendita della scuola pubblica, in un momento di crisi e di paura; stiamo sopportando tagli e politiche di austerità, mentre la classe politica banchetta; stiamo assistendo a migliaia di proteste che i media continuano ad ignorare; stiamo assistendo un impoverimento generale, con migliaia di famiglie senza casa e senza lavoro e un paese in mano a speculatori e banchieri”.

“Il nostro sit-in di questa mattina – prosegue il referente del Movimento Studentesco Nazionale – è stato applaudito da centinaia di studenti, molti dei quali hanno scelto di unirsi spontaneamente alla protesta per condividere con noi la voglia di assaltare il futuro e di aprire una nuova fase di partecipazione e mobilitazione intelligente e costruttiva”.

“Siamo e saremo in tutte le scuole – conclude La Mantia – per restituire agli studenti la capacità di sognare e di agire, liberamente e senza imposizioni. Ci saremo perché vogliamo una scuola in grado di creare Uomini e non automi; una scuola che esalti i valori dell’identità nazionale e della memoria condivisa, che faccia studiare i nostri coetanei su libri di testo privi di faziosità, che educhi e formi prima di omologare. Ci saremo perché crediamo che sia necessario ristabilire l’autorità della cultura e svecchiare questo sistema di istruzione fatto di rendite di posizione e demagogia. Ci saremo e ci siamo, perché dalla nostra parte stanno migliaia di studenti, ragazzi stufi di questo deserto e pronti a costruire un tempo migliore con le armi delle idee e del confronto”.




domenica 25 novembre 2012

In ricordo di Yukio Mishima


                                               25 Novembre 1970

                                   “Chiru wo itou yo ni mo hito ni mo 
                              sakigakete chiru koso hana to fuku sayoarashi.”


                              “Non importa cadere. Prima di tutto. Prima di tutti. 
                               E’ proprio del fior di ciliegio cadere nobilmente 
                                              in una notte di tempesta.”


(Poesie di addio al mondo, Yukio Mishima)

sabato 24 novembre 2012

Cittadini=criminali. In Italia è spirale di tirannia

di Ugo Gaudenzi (Rinascita)

“Arresto differito” e “daspo”. Questi i primi due strumenti - il primo (“parzialmente risolutivo” , però) di fatto già applicato, l’altro “allo studio”- che il ministro “tecnico” Annamaria Cancellieri ha intenzione di applicare per rendere mansuete le manifestazioni in piazza.
Mancano evirazione o asporto delle ovaie e poi le cellule del terribile tumore della protesta popolare saranno definitivamente rimosse dal corpo sociale. Così gli oligarchi potranno continuare senza pericolo di sorta ad affamare la nazione e a creare nuovi privilegi. E se c’è qualcuno che non intende adeguarsi, peggio per lui. D’altra parte, per questo pugno di “Eletti”, la volontà dei cittadini, il loro diritto a contestare scelte che suicidano in massa la nostra comunità, è un abuso da reprimere.
I cittadini? Semplici bovini che devono adeguarsi e avviarsi senza ritrosie e, anzi, di buon grado verso la macelleria sociale.
Il ministro dell’Interno, non a caso scelto tra i burosauri dell’apparato del Viminale, è stato ieri mefistofelicamente chiaro, in aula al Senato.
Preceduto di qualche ora dalle esternazioni allarmistiche del suo capo di polizia Manganelli (quello che ha evocato “tempi difficili” e riconiugato la teoria degli opposti estremismi, sempre cavalcata da chi vuole tutelare le poltrone della casta), il ministro Cancellieri ha parlato di una “situazione di grande preoccupazione” (comunque “prevista da mesi” perché questo governo diffusore di miseria l’aveva messa in conto...).
Dunque ecco i primi strumenti in arrivo: arresto differito e “daspo” (arresto differito per chi fa politica). Naturalmente un provvedimento da “adottare al più presto” contro i “violenti”: cioè manifestanti e “istigatori”, cioè tutti i “non graditi” a Lor Signori.
Il partito unico delle banche, dell’usura e degli ascari destro-centro-sinistri è dunque irremovibile, è deciso: la libertà non passerà.

venerdì 23 novembre 2012

Alain de Benoist: verso una primavera dei popoli europei



da il Secolo d'Italia

Come da diritto commerciale, Mario Monti amministra il concordato preventivo dell’Italia per conto della Germania, che a sua volta agisce su mandato americano, con la 

connivenza franco-britannica. Esclusa da ogni vero direttorio mondiale, l’Italia ha difeso la sua esigua sovranità sopravvissuta alla Guerra civile europea 1918-1945 e alla Guerra fredda 1948-1989. 

Essa ha ormai solo una sovranità sospesa, più che quella limitata di un tempo. Ma neanche i Paesi vicini stanno troppo bene. Per alcuni pensatori, l’Unione europea (Ue) è solo la Confederazione Germanica dell’Euro, pseudonimo del marco. 

Certo l’Europa dei popoli non è nata; è nata invece l’Europa del denaro, della quale Alain de Benoist scrive in “Sull’orlo del baratro. Il fallimento del sistema denaro” (Arianna editore), che ha presentato nei giorni scorsi a Bergamo e a Milano.

Alain de Benoist, lei viene in Italia quasi ogni trimestre da 40 anni. Le pare che essa sia ancora una democrazia?

«Se non sbaglio, un colpo di Stato ha portato al potere Monti, che non ha legittimità democratica, non essendo mai stato eletto dal popolo».

Prima c’era un governo, ora c’è la governance…

«… il cui ideale è governare senza il popolo. Benché la democrazia abbia come principio la sovranità popolare, la si fa sfociare in oligarchie di tecnocrati e banchieri».

Fine della democrazia?

«Nel sistema attuale è quasi impossibile fare retromarcia: gli Stati si sono sottomessi ai vincoli dei mercati finanziari, i soli a fare prestiti agli Stati, da quando le loro banche centrali non possono farne più».

Continui, per favore.

«Grazie al Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e all’adozione quest’anno del Trattato su stabilità, coordinamento e governance (Tscg) dell’Ue, i parlamenti nazionali non possono più decidere il bilancio. Un attentato alla sovranità nazionale, ma anche alla democrazia».

E ora che fare?

«La crisi continua, ma le politiche di austerità ne scaricheranno i costi su classi medie e popolari, senza essere efficaci. Generalizzeranno la miseria, senza permettere agli Stati di sdebitarsi. Le misure adottate rinvieranno solo le scadenze, mentre i popoli soffrono e insorgono».

Non è grottesco che figure come Monti, espressioni della prima Repubblica, passino per immuni dalle colpe dei politici che li hanno usati fin dagli anni ‘60 e ‘70?

«In effetti i piromani – come chi orbita attorno a Goldman Sachs – hanno finito col nominarsi comandanti dei pompieri. Perciò siamo sull’orlo del baratro, per dirla col titolo del mio libro».

Vede somiglianze tra l’Italia e altri Paesi europei?

«I governi sono diversi, ma ovunque la crisi ha gli stessi effetti. E ovunque il debito esplode, i redditi crollano, i servizi pubblici smettono di funzionare».

In una campagna elettorale ancora abbastanza recente Hollande diceva: “La finanza è il nemico”…

«… ma, appena è stato eletto, Hollande ha fatto la politica di Sarkozy. Ha firmato il Tscg e 
ha aumentato l’Iva».

E la Germania?

«Va meglio grazie alle esportazioni, che però avvengono specialmente nei Paesi dell’area dell’euro. Quando essi saranno rovinati, ridurranno le importazioni…».

Qual è la sua interpretazione della crisi?

«Il mio libro mostra il passaggio dalla crisi del debito privato a quella del debito pubblico. Stati già in deficit si sono massicciamente indebitati per aiutare le banche, chiedendo prestiti a privati per soccorrere altri privati!».

Una situazione surreale. Siamo a una crisi del capitalismo tra le peggiori o a qualcosa di peggio?

«La crisi attuale è più grave di quella del 1929. Innanzitutto perché è realmente una crisi mondiale, poi perché oggi il capitalismo è essenzialmente speculativo e finanziario, totalmente de-territorializzato».

Mi spieghi meglio.

«Resa possibile dalla globalizzazione, la de-territorializzazione va di pari passo con la de-localizzazione. Ciò spiega l’abbattersi della crisi sulle classi medie».

Che non sono più quelle di una volta.

«No, perché non beneficiano più di parte dei profitti, come all’epoca dei capitalismi nazionali».

Dunque?

«Siamo a una crisi strutturale, non congiunturale, del capitalismo, cioè del sistema del denaro».

In Francia molti scorgevano nel Mec, poi nella Cee, infine soprattutto nell’Ue l’Europa tedesca.

«I sovranisti (fautori delle sovranità nazionali, ndr) non avevano torto nel prevedere il fallimento dell’euro».

Perché?

«Perché Paesi con strutture economiche di livello divergente non possono avere la stessa moneta, specie se dal tasso troppo alto (l’euro è ricalcato sul marco)».

Mi ha detto quando i sovranisti non hanno torto. Quando hanno ragione?

«Quando denunciano le perdite di sovranità nazionali, non compensate dall’emergere di una vera sovranità europea».

Quando i sovranisti hanno torto?

«Quando credono che tornare alle valute nazionali risolva i problemi. Le sfide attuali sono su scala maggiore che quella dello Stato-nazione».

Che cosa i sovranisti in Francia e certi leghisti in Italia non vedono?

«Ostili all’Europa, e non solo all’Ue, non vedono che, rompendo l’ordine oggi egemone, un’altra Europa sarebbe possibile».

giovedì 22 novembre 2012

La filosofia di Apple? I soldi non puzzano (di morto)


Tratto da Azione Tradizionale

Apple ha velocemente risolto il problema dei suicidi e delle proteste dei propri lavoratori sfruttati dello stabilimento Foxconn di Taiwan in tempi celerissimi. Come? Rimpiazzandoli con dei robot che non chiedono aumenti di stipendio e lavorano 24h senza protestare. Ma a te cosa importa?! Devi già pensare a come pagare le rate del nuovo Iphone…

(Wall Street Italia) – Foxconn, la gigantesca azienda del Taiwan che fabbrica apparecchiature per i dispositivi Apple, Hewlett-Packard, Dell, e Sony, ha da poco iniziato a sostituire i propri dipendenti con dei robot,come sottolinea CNET

Dopo una serie di suicidi avvenuti nell’azienda a causa delle difficili condizioni di lavoro dei propri dipendenti, Terry Gou, capo e fondatore della Foxconn, ha fatto questa scelta affermando di voler migliorare l’efficienza e di voler combattere gli aumenti richiesti dal personale.

I primi 10 mila robot, rinominati “Foxbots”, sono già arrivati, altri 20 mila sono previsti per la fine dell’anno. Il costo è stato tra i 20 e i 25 mila dollari, ovvero all’incirca tre volte il salario annuale di un normale dipendente della Foxconn.

Questa azienda, che ha 1,2 milioni di dipendenti in tutta la Cina, è stata accusata in passato per il suicidio di diversi dipendenti e per lo sfruttamento del lavoro minorile.

La maggior parte dei suicidi sono avvenuti con persone che saltavano dai palazzi aziendali, la compagnia ha, per questa ragione, deciso di installare delle apposite reti per evitare altri casi e ha inoltre deciso di aumentare lo stipendio ai propri dipendenti del 25%.

mercoledì 21 novembre 2012

Meloni: "Che errore ex An dietro ad Alfano..."

Nonostante Casaggì abbia scelto, ormai da tempo, di fare un passo di lato rispetto alle strutture di partito e alle logiche interne delle correnti e delle fazioni, vogliamo pubblicare un'intervista di Giorgia Meloni, candidata alle primarie del centrodestra in opposizione al segretario Alfano e alla cricca di politicanti e lacchè che lo circondano. Pubblichiamo quest'intervista non solo perchè riteniamo Giorgia Meloni una delle poche persone con una storia politica e una presentabilità di tutto rispetto, ma perchè crediamo che abbia perfettamente compreso le manovre, gli equilibri e i giochetti che stanno dietro al sipario della cosiddetta "democrazia interna" del principale partito di centrodestra. Uno spunto di riflessione interessante, a prescindere dalle appartenenze politiche (o partitiche) di ognuno. 

«Scendo in campo per evitare al PdL un’elezione farsa». «La Russa e Gasparri sbagliano a blindare il segretario. Sarà una sfida vera e dura».

L’intervista a Libero Quotidiano di Tommaso Montesano

Giorgia Meloni, ha visto il sondaggio di Libero? Per i nostri lettori, al momento è lei la candidata premier del Pdl. Angelino Alfano è secondo…«Un risultato che non può non gratificarmi e che certifica l’interesse che stanno suscitando, presso i nostri elettori, primarie vere basate sul confronto tra linee politiche. Ma leggere tutto attraverso i numeri è un errore».

Però sono proprio i numeri a rivelare che la sua candidatura ha dato la scarica ad un Pdl che pareva orientato a incoronare Alfano senza scosse… «Invece io ho sempre detto che per il nostro partito sarebbe stato inutile tenere primarie al cloroformio. Quelle nelle quali il nome del vincitore c’è già. Senza confronto né dibattito».

Il duello con Alfano è già iniziato. «Al Pdl serve una competizione il più possibile serrata, ma leale. È nell’interesse di tutti. Solo risvegliando la fiducia degli italiani delusi da noi riusciremo a rafforzarci. Ci possiamo arrivare solo con primarie credibili».

Che ne pensa dei suoi ex colleghi di An, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri in primis, che mettono in guardia dalla proliferazione dei candidati? «In questa fase si tratta di pre-candidati. Vedremo quanti porteranno le firme richieste. A tale proposito, ribadisco quanto sostenuto nei giorni scorsi: 10mila sottoscrizioni sono poche. Alfano ha ragione: le primarie non devono essere una fiera delle vanità. Avevo proposto, infatti, di alzare la soglia a 20mila. Non sono stata ascoltata».

Ad oggi, tuttavia, i candidati sono circa una dozzina: troppi, secondo la gran parte del PdL. «Io credo che, una volta fissati i parametri per le candidature, nessuno di noi debba sindacare le scelte dei partecipanti. Saranno i nostri elettori, con il loro voto, a stabilire chi è all’altezza e chi no».

È delusa che gran parte dei dirigenti provenienti da An, a partire proprio da Gasparri e La Russa, si sia schierata con Alfano? «No, non sono delusa. L’avevo messo in conto. Si tratta, però, di una scelta che non condivido. Blindare Alfano, magari con il 90% dei consensi, quando il Pdl secondo i sondaggi è al 15%, indebolisce il segretario. Non lo rafforza. Per questo dico che la mossa che ho fatto io, quella di candidarmi, l’avrebbero dovuta fare altri».

Alessandro Cattaneo, il sindaco di Pavia leader dei «formattatori del Pdl», ha accusato Alfano di essere il candidato dell’apparato. Anche lei si sente una guastatrice? «Una delle ragioni che mi hanno spinta a candidarmi è proprio la distanza che avverto tra la nostra nomenklatura e il territorio. In queste ore sono sommersa dai messaggi di chi mi scrive perché vuole partecipare a questa avventura. Gente che non conosco, che mi chiede informazioni su come raccogliere le firme e come aprire un comitato elettorale».

Quali saranno le parole d’ordine della sua campagna elettorale?«Rigenerazione, sovranità, meritocrazia. Senza paura. Dobbiamo dare voce a chi fa politica onestamente e consentire al popolo italiano di scegliere i propri rappresentanti a tutti i livelli. A partire dal governo, che non ci deve essere imposto né dalle banche, né da Bruxelles».

Torniamo ad Alfano. Secondo lei se non raggiunge il 50% dei consensi deve rinunciare alla candidatura? «Insisto: il problema non sono le persone, ma la credibilità della competizione. Se la gara è serrata, autentica, e non una farsa, chi ottiene un voto in più degli altri vince. Non esistono soglie di legittimazione. Più le primarie funzionano, maggiore valore acquisterà l’eventuale vittoria di Alfano. Che resta il favorito».

Sa che si dice in giro? Che sotto sotto la sua candidatura non dispiaccia soprattutto a Silvio Berlusconi… «Io corro per far vincere le mie idee. Nel Pdl finora c’è stata poca attenzione per il precariato, le città e le regioni, l’ecologia, il divario digitale, il futuro dei giovani, la costruzione dell’Europa dei popoli, la denatalità, l’etica pubblica. E mi candido per vedere quanto valgono, queste idee. Lo faccio da sempre: non mi appassiona gestire le sconfitte. Altri discorsi non mi interessano».

A proposito di sconfitte: Alessandra Mussolini si è già tirata fuori. Quella Mussolini che aveva ironizzato sulla sua candidatura. «La notizia non suscita in me alcun interesse».

martedì 20 novembre 2012

La violenza è legittima contro chi è violento



di Massimo Fini

L'eterna questione della violenza. La violenza è sempre illegittima ? Evidentemente no. È lecita quella che si oppone a un’altra violenza. Nel diritto penale di uno Stato si chiama “legittima difesa”. Nel mondo politico si considera legittima la violenza popolare quando si esercita contro un regime repressivo,dispotico,dittatoriale. Nessuno dubita che la violenza delle “primavere arabe” sia stata legittima.

Il primo a porsi la domanda è stato Seneca: è lecito uccidere il tiranno? (il filosofo pensava a Nerone, anche se sbagliava bersaglio perché Nerone è stato il più tollerante degli imperatori romani).

Comunque la risposta che si diede Seneca e, dopo di lui, si è incaricata di dare la Storia è: sì, è lecito uccidere il tiranno. È legittima, anzi necessaria, la violenza in guerra dove vale ciò che è vietatissimo in tempo di pace: uccidere. Anche se col processo di Norimberga si è affermato un principio assai ambiguo: legittima è la violenza dei vincitori, non quella dei vinti per la quale è stato creato un reato di nuovo conio: “Il crimine di guerra”. Il generale Kesselring si prese dieci anni di reclusione perché a Cassino aveva osato resistere, per otto mesi, agli Alleati. Uno dei crimini addebitati al generale serbo-bosniaco Mladic - autore di ben altri efferati delitti - è di aver assediato Sarajevo. (Ma da quando in qua, in guerra, non è lecito assediare una città nemica? Annibale assediò Sagunto per otto mesi e quando, dopo 17 anni, i Romani lo andarono a prendere nella villa dove si era rifugiato non intendevano processarlo per “crimini di guerra”, ma eliminare un nemico che ritenevano ancora pericoloso. Comunque il grande generale li anticipò bevendo il veleno che teneva da sempre racchiuso nel suo anello).

Tutte le principali rivoluzioni democratiche sono nate su bagni di sangue. Borghesi contro nobili e contadini alleati, con una certa ragione da parte di questi ultimi perché la micragnosità economica dei nuovi proprietari borghesi si rivelerà molto più pesante della svagata e arruffona amministrazione nobiliare. Durante la Rivoluzione francese furono compiute atrocità spaventose (altro che gli “stupri etnici”, si stupravano anche le morte come l'infelice marchesa di Lamballe secondo il racconto di Restif de la Bretonne). Ma nessuno dubita che quelle violenze furono legittime.

Il problema della violenza si pone oggi per le democrazie che, come ogni Stato moderno, della violenza hanno il monopolio. È lecita una violenza popolare contro un regime democratico? In linea teorica no.

In democrazia, ogni cinque anni, tu vai a votare chi pensi rappresenti meglio le tue idee e i tuoi interessi. Se non ti soddisfa, alla successiva tornata voterai qualcun altro. Che bisogno c'è della violenza? Il fatto è che quasi tutte le democrazie rappresentative non sono democrazie, ma sistemi di minoranze organizzate, di oligarchie, di caste, politiche ed economiche, strettamente intrecciate fra di loro che, nella più piena legalità formale, possono sottoporre a ogni abuso, sopruso, violenza il cittadino che a esse non si è infeudato. Non sono democrazie ma la loro, non innocente, parodia. Se, come ha auspicato Grillo, i giovani poliziotti si unissero ai loro coetanei in maglietta, contro “i responsabili che stanno a guardare sorseggiando il tè” sarebbe rivoluzione. Legittima se vittoriosa, criminale se perdente. Questo è ciò che ci insegna la Storia.

lunedì 19 novembre 2012

GIORGIA MELONI: MI CANDIDO PER RESTITUIRE DIGNITA' AGLI ITALIANI!



E' giunta oggi la candidatura di Giorgia Meloni alle primarie del centro-destra. Una candidatura da molti attesa, che noi guardiamo con grande interesse. Giorgia Meloni rappresenta certamente un'anomalia positiva nel panorama politico italiano: è giovane, ha una storia di militanza politica che non ha mai rinnegato, ha posizioni vicine ad una destra sociale e identitaria che non risparmiano critiche all'attuale sistema tecnofinanziario, al predominio delle banche e dell'economia sulla politica reale. 

Le sue proposte, da sempre, vertono nella direzione della giustizia sociale e della partecipazione popolare dal basso, attraverso gli strumenti del confronto e del coinvolgimento. Oggi, nelle interviste che ha rilasciato immediatamente dopo aver depositato la propria candidatura, ha dichiarato: "Mi candido perché l’esperienza di Monti è stata fallimentare. Perché bisogna restituire agli italiani il diritto di scegliersi i governi dai quali farsi rappresentare e non farseli dettare dalla casa Bianca, dalle cancellerie europee e da nessun altro".

E' una sfida difficile quella al brutto e al vecchio, ma vale la pena combatterla.

Palestina,scambio epistolare tra poeti,Darwish e al-Quasim su patriottismo e identità

tratto da Barbadillo.it


Darwish , durante la sua residenza a Parigi, ebbe uno scambio di corrispondenza con il poeta Samiĥ al-Qasim, rimasto a vivere nel suo villaggio di ar-Ramah, in Galilea; le lettere scambiatesi dai poeti furono chiamate da qualche letterato “Lettere fra le due metà di un’arancia”. Dai seguenti estratti di queste lettere, come ha commentato lo scrittore palestinese Emil Habibi, si nota che, così come gli uccelli avvertono l’arrivo della tempesta, così i due poeti ebbero il presagio dello scoppio della prima Intifada.

“Un conforto? Esiste sempre un lieto fine … non perderemo la speranza, almeno per le generazioni future. O caro amico, ci è sufficiente dipingere con l’inchiostro dell’anima e con il sangue della poesia una chiara freccia (spero che sia chiara), che indichi la direzione giusta verso il nostro carrubo, il nostro ulivo e i fiori della nostra splendente prugna” Samiĥ al-Qasim; ar-Ramah 29/06/1986

“La fine di questa notte non ha termine?……E il feto formato dentro questo utero infermo, ha potuto salvarsi dal malessere?……Io non propongo una risposta, ma torreggio su un deserto……Come si chiamerebbe l’isola se si asciugasse il mare?……Non propongo una risposta, ma torreggio su un deserto”. Maĥmud Darwish; Parigi 22/07/1986

“E che cosa ancora?… forse non è giunto il momento in cui l’affanno della domanda venga ricompensata dal sollievo della risposta? …qui giunge la nostra parte. Riconquistiamo il grido di quel passato martire: Porta la tua croce e seguimi!!…Quanto a noi vedemmo e ci agitammo, comprendemmo e ci infuriammo, credemmo e ci rivoltammo. Questa massa umana piegata sulla sua schiena iniquamente, proditoriamente e ostilmente si raddrizzerà di nuovo e sorgerà un unico uomo, malgrado tutti i mostri civilizzati radunati contro di noi. Noi abbiamo bisogno del nostro antico fuoco- con la sua schiettezza- perché esso è la peculiarità intima nel nostro profondo, è come il granello di sabbia che si nasconde nel profondo della perla”. Samiĥ al-Qasim; Haifa 27/07/1986

“Hai ragione. Hai ragione: abbiamo bisogno urgente della prima fede e del primo fuoco. Abbiamo bisogno della nostra semplicità. Abbiamo bisogno del primo insegnamento della patria: Resistere con tutto ciò che possediamo di tenacia ed ironia. Con tutto ciò che possediamo di furore. Nei momenti critici aumentano le profezie. Ed eccomi vedere il viso della libertà accerchiato da due ramoscelli d’ulivo”. Lo vedo sorgere da un sasso”. Maĥmud Darwish; Parigi 05/08/1986

“Un anno nuovo, è veramente così ?……E come contiamo i nostri anni? ……Iniziamo la nostra cronologia con l’anno dell’elefante[1]. E che questo sia l’anno dell’accampamento. Quanto all’anno prossimo, troveremo un nome bello ed elegante in misura inversamente proporzionale a ciò che attualmente viviamo, nazione e popolo, terra e cielo, uomini e poeti”. Samiĥ al-Qasim; ar-Ramah 21/01/1987

“E’ stata la prima permanenza a proteggere la patria dallo svenimento. Voi all’interno siete la forza materiale dell’identità nazionale e culturale. E l’interno ha un prestigio che supera l’incantesimo, perché e’ l’interno che ha dato alla causa palestinese la forza del miracolo”. Maĥmud Darwish; Parigi 05/10/1987

domenica 18 novembre 2012

La violenza (per sua natura) non è carina


di Marcello de Angelis (Secolo d'Italia)

Dopo gli scontri di mercoledì impazza il dibattito surreale sul grado di negatività di mazzate e calci in faccia. Sono sempre stato sorpreso dai piagnistei di chi, uscito di casa attrezzato di tutto punto per affrontare epici scontri, finisce il giorno dopo a mostrare i lividi alla maestra con la pretesa di essere coccolato e compatito. Protestare, anche in modo duro, se si ritiene che si stia realizzando un torto, ci sta. Di generazione in generazione, è sempre accaduto. Ma se uno scende in piazza con rabbia è perché è convinto di avere di fronte un nemico della giustizia e quindi dovrebbe dare per scontato che quello si comporti in modo ingiusto. Se io voglio fare il rivoluzionario non posso pretendere che il potere che voglio abbattere sia con me gentile e corretto. Se lo fosse, dovrei il giorno dopo nutrire dubbi sulla correttezza della mia radicale opposizione. Se io uscissi di casa per prendere a bastonate i poliziotti e quelli si comportassero con correttezza e cortesia, forse vorrebbe dire che il potere odioso che combatto non è poi così odioso. E dovrei tornarmene a casa senza gloria. La lotta dura si può fare (con o “senza paura”) ma deve essere adeguata al nemico contro cui si lotta. Uno non può incendiare le case perché c’è la disoccupazione. In quel caso si fa una cooperativa. Né se c’è un problema di accesso al credito. In quel caso si fa un fondo di mutuo soccorso. Si possono occupare le case, le scuole, le fabbriche, senza bisogno di ricorrere alle molotov. Sicuramente non si rischia di ammazzare o farsi ammazzare per la riforma della scuola. C’è chi ha affrontato torture o è stato ucciso perché pensava di dover liberare un popolo o una Patria. Piagnucolare perché il poliziotto non è stato così cortese da prendersi le sassate senza farsi rodere il chiccherone è un po’ piccino.

sabato 17 novembre 2012

Iraq e Afghanistan,le vere sconfitte di David Petraeus


di Massimo Fini

La vicenda che ha portato alle dimissioni del direttore della Cia David Petraeus, già comandante delle forze americane in Iraq e in Afghanistan, è un’espressione tipica della sessuofobia americana (quasi un contraltare rovesciato, di quella islamica), società matriarcale dove tutto può essere tollerato tranne una relazione extraconiugale. Dunque l’Fbi ha scoperto che Petraeus, sposato, aveva avuto rapporti sessuali con un’avvenente ricercatrice e, en passant, giornalista, Paula Broadwell, quando costei era "embedded" nelle truppe americane in Iraq e in Afghanistan. In nessun modo l’Fbi ha potuto dimostrare che la Broadwell sia venuta in possesso, e nemmeno che potesse materialmente farlo, a causa di questa sua relazione privilegiata con Petraeus, di documenti o informazioni riservati.
C’erano stati solo dei rapporti sessuali, punto e basta. Ma sotto la pressione dei media e dell’opinione pubblica Petraeus è stato costretto a dimettersi. E lo ha fatto in modo che ricorda i processi staliniani degli anni Trenta dove le vittime, con un sottile lavorio psicologico, non solo erano indotte a confessare quello che non avevano fatto ma anche quello che, ipoteticamente, avrebbero potuto fare, situazione mirabilmente e drammaticamente scritta da Arthur Koestler in quel terribile libro che è "Buio a mezzogiorno". Infatti nella sua lettera di dimissioni diretta a Obama, David Petraeus non solo ammette la sua colpa, se tale è, cioè la relazione con la Broadwell ma, cospargendosi il capo di cenere, afferma che un militare che tradisce la moglie non è più affidabile perché, allo stesso modo, potrebbe tradire il suo Paese.
David Petraeus avrebbe dovuto essere "dimissionato" molto prima della sua relazione con la Broadwell e per ragioni un po’ più serie. Petraeus passa per essere stato il vincitore della guerra all’Iraq. In realtà, dopo aver provocato, direttamente o indirettamente, 750mila morti, ha lasciato quel Paese in una situazione disastrosa, con un’endemica guerra civile fra sunniti e sciiti che causa centinaia di morti quasi ogni giorno. Ma questo potrebbe non interessare gli americani, molto attenti alla propria pelle ma indifferenti a quella altrui. Il fatto è che con la pseudodemocrazia instaurata a Bagdad gli sciiti, che sono il 62% della popolazione, si sono impadroniti del Paese. E gli sciiti iracheni sono fratelli gemelli di quelli iraniani (stessa religione, stessa antropologia, stessa gente). Il risultato è che oggi a controllare i tre quarti del territorio iracheno è proprio l’Iran, cioè il capintesta dell’"Asse del Male" che gli Usa combattono dal 1980, dalla crociata dello Scià. Davvero un bel colpo.
Ma il capolavoro negativo Petraeus l’ha compiuto in Afghanistan. Nel maggio del 2009, non riuscendo in alcun modo ad avere ragione dei talebani, nonostante l’uso massiccio dei Droni (cosa che fa imbestialire gli afgani e li compatta agli insorti) e sospettando, non a torto, che i loro capi, compreso il Mullah Omar, si nascondessero nelle aree tribali pakistane, al confine con l’Afghanistan, costrinse l’esercito di Islamabad a lanciare una devastante offensiva nella valle di Swat, pakistana. Dopo una settimana di bombardamenti i morti non si contano. Si possono invece contare i profughi. Sono un milione. Diventeranno due milioni nei giorni successivi. È un regalo agli integralisti. Dai campi profughi centinaia di ragazzi si dichiarano pronti a fare i kamikaze. L’offensiva nello Swat ha svegliato il fino ad allora dormiente talebanismo pakistano molto più pericoloso, per intuibili ragioni, di quello afgano. L’offensiva nella valle di Swat fu di una violenza inaudita, senza precedenti anche per i livelli di questi Paesi segnati dalla guerra. E per gli americani fu un boomerang. Ma oggi David Petraeus non paga per questa spietatezza insensata. Paga per uno dei pochi atti umani della sua vita. Aver ceduto alle emozioni di un amore.