sabato 30 novembre 2013

Passato,presente e futuro…


di Mario M. Merlino


Dopo un lungo peregrinare, carico di suggestioni, ci si rende conto come non sia in Oriente da ricercare la fonte – o le fonti – della saggezza ma qui in questo nostro Occidente, magari volgendosi a Nord da dove sarebbero scese le genti arie. Così la pensava lo scrittore Hermann Hesse e su questo mito – o certezza – Adriano Romualdi fondava il suo convincimento di una necessaria e inevitabile rinascita e riscossa europea. Nel celebrare il solstizio d’inverno, grandi roghi a forma di ruota e di svastica venivano accesi nelle gelide notti, la morte e la vittoria sulle tenebre del Sole – quel Juppiter Sol Invictis per i Romani – eternizzava la speranza e la fierezza, la speranza appunto della ‘resa dei conti’, la fierezza d’essere dalla parte di coloro che, avendo mantenuto salde le radici, avrebbero ottenuto il premio più ambito per un guerriero, la vittoria. Così i miti portati in piazza urlati a squarciagola disegnati sui muri con la vernice rossa da un magma informe e degenere, ‘cortigiani, vil razza dannata’, vittime di eco perverse di una ideologia del basso, sarebbero impalliditi, si sarebbero disfatti, si sarebbero mostrati nella loro natura bugiarda e inconsistente.

(Un arrogante asmatico argentino erede della razza dei conquistadores inforestato nella selva boliviana, un volto scheletrico di orientale con rada barbetta lunga e bianca emerso dalle risaie indocinesi, un cinese dal sorriso sornione e funesto agitante il libretto rosso fitto di una sequela di massime becere e banali, il russo dagli occhi mongoli e il pizzetto luciferino nella testa un tumore maligno tornato in Russia in un vagone piombato, i folti baffi del georgiano e tutto il suo volto ad esprimere una crudeltà volitiva e assoluta da seminarista e rapinatore di treni… Tutti costoro – con in testa il grande guru talmudico e profetico dalla capigliatura leonina – come avrebbero potuto resistere quando si sarebbe levata in alto e dispiegata al vento la bandiera e compatte si sarebbero serrate le file di quella nuova generazione di uccisori di serpenti? Nella notte già si udivano lontani i tamburi rullare…).

Europa… Dal 1945, in quei primi di maggio, quando la capitale del Reich era ormai ridotta ad un ammasso di rovine e sul Reichstag veniva innalzato il rosso vessillo con la falce e il martello, la Finis Europae, un crepuscolo degli dei, mentre gli ultimi difensori cercavano scampo nei cunicoli della metropolitana. Difensori con la divisa delle WaffenSS ma provenienti da tante parti del continente con un duplice intento: la crociata antibolscevica e la costituzione del nuovo ordine. Entrambi con le armi in pugno. Anche qui un mito per la nuova generazione di giovani europei – ‘un Panzerfaust sulla spalla si scrive la storia’ –.

(12 dicembre 1969, torno verso casa per via Tuscolana, in compagnia di Riccardo. Mi fermo a telefonare da una cabina a Sandro G., che abita nei pressi, per farmi restituire I leoni morti di Saint-Paulien. Poche ore dopo agenti dell’Ufficio Politico in borghese suonano alla porta di casa. I leoni morti, un capretto tra le sbarre… Pochi anni fa, forse ultimo viaggio d’istruzione a Berlino. Ci fa da guida un latino-americano con perfetta conoscenza dell’italiano, egli, pensando di solleticare le vanità di un professore dai capelli lunghi e la camicia a scacchi fuori dei pantaloni, mi bombarda – e, con me, gli alunni – facendo sfoggio e mostrando tutte le tracce e gli attestati delle nefandezze della Germania nazista. Ovviamente ci porta davanti al vecchio Reichstag, ora sede del Parlamento tedesco, continuando a snocciolare il rosario dei crimini… Alla fine mi viene a noia e, allora, giù con tutte le nozioni intorno a quei luoghi, un perimetro difeso e conquistato solo dopo tre giorni di combattimento, un fiume in piena, a farlo impallidire tossire nervoso rianimarsi entusiasmarsi arruolarsi, mi auguro, in coloro che non ci stanno più…).

Ecco: è da qui che il cammino, tortuoso confuso imperfetto quanto si voglia, della gioventù del dopoguerra s’è mossa alla ricerca di un orizzonte più grande, cammino a cui va riconosciuto il merito d’essere, di volta in volta, per quella – un’Europa di trecento milioni di uomini, l’Europa-Nazione, l’Europa delle Patrie, strade d’Europa (la canzone e il libro) – e contro quella che oggi si manifesta – il potere finanziario delle banche un parlamento privo di carisma gli egoismi commerciali le sudditanze agli USA un’intrinseca debolezza –.
(A giorni un convegno perché ci si chieda cosa essa rappresenti per le varie comunità del ‘nostro’ mondo e come vorremmo che essa si realizzi nella nostra mente nel nostro cuore nella nostra azione. Ne parleremo, ne riparleremo).

venerdì 29 novembre 2013

Sabato in piazza la Rete No Muos: “Vogliamo essere liberi sovrani e apartitici”...



di Geza Kertezs (barbadillo.it)


No Muos contro No Muos? A quanto pare sì, dato che il“Movimento No Muos” ha organizzato dei presidi contro la manifestazione apartitica indetta sabato pomeriggio a Palermo dalla “Rete No Muos”. Una decisione che ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica come si può leggere nei numerosi forum sul web, dove in tanti stigmatizzano l’idea della contromanifestazione su un tema – l’opposizione all’installazione dei sistema radar Usa – considerato patrimonio di tutti i siciliani.

Ma andiamo con ordine. «Dietro la decisione di porre un muro tra le diverse sensibilità di chi si oppone all’installazione delle mega antenne militari sul territorio di Niscemi, c’è la volontà, assolutamente non celata da parte del “Movimento No Muos” (connotato ormai a sinistra, ndr), di capitalizzare le voci di una protesta che dovrebbe avere per la sua natura territoriale “un valore assolutamente trasversale e unitario”. Così gli organizzatori della “Rete No Muos” rispondono a chi invita ad opporsi alla manifestazione organizzata per sabato a Palermo. Un tentativo monopolizzante confermato nel testo dell’invito a contro-manifestare lanciato su Facebook dal Movimento. Si legge infatti: «Nel rispetto della nostra storia e del nostro percorso politico, pretendiamo quindi che nel corteo non siano utilizzati i nostri simboli e le nostre bandiere. Invitiamo la stampa – viene puntualizzato – a non utilizzare immagini di repertorio delle manifestazioni NO MUOS per pubblicizzare l’evento del 30».

Ed è appunto il rischio di strumentalizzazioni politiche che ha portato le sigle aderenti alla “Rete No Muos” a indire una manifestazione in cui la presenza di vessilli partitici è assolutamente bandita. Un’opzione che, stando a quanto riferiscono gli organizzatori del corteo di sabato, è maturata dopo la scarsa partecipazione popolare della manifestazione indetta a Palermo il 28 settembre. Evento, nel quale, l’eccessiva a presenza di bandiere chiaramente connotate, è stata ritenuta imbarazzante dagli stessi abitanti di Niscemi.

Spiega infatti Stefano Di Domenico, portavoce della Rete No Muos: «Quello di sabato sarà un corteo pacifico e gioioso, senza l’esposizione di bandiere politiche, partitiche o sindacali. Questo sarà proprio il tratto distintivo rispetto ad altre manifestazioni contro il Muos, degli scorsi mesi, che hanno portato alla strumentalizzazione politica del movimento ed al progressivo allontanamento di tanti cittadini».

«Nonostante la mancanza di fondi – fa sapere Di Domenico – tanti cittadini si stanno organizzando da molte città siciliane con carovane di auto per raggiungere Palermo. Sono, inoltre, in corso da giorni assemblee all’interno delle scuole palermitane in stato di agitazione sul tema del Muos in vista del corteo di sabato. Ne sono certo – sottolinea – sarà un momento di pura gioia».

“Liberi e Sovrani” è dunque il motto che la Rete No Muos ha scelto come filo conduttore dell’evento. Una dicitura netta chiamata a sottolineare come la battaglia contro il Muos di Niscemi sia, in primo luogo, una battaglia per la libertà e la sovranità di una terra che – spiega il portavoce – «per troppi anni si è piegata alle volontà degli Usa, accettata supinamente dalle istituzioni nazionali e regionali».

Il nodo delle contromanifestazioni non turba affatto i preparativi dell’evento indetto per sabato: «Chi in queste ore invita i cittadini a non partecipare al corteo – spiega ancora il portavoce della “Rete No Muos” – non fa altro che dividere il fronte No Muos facendo soltanto il gioco di Crocetta e degli Usa. Il corteo di sabato sarà il punto di partenza per la costruzione di un movimento, finalmente trasversale e libero da qualsiasi ideologia escludente, che sappia coinvolgere i siciliani in una lotta che ancora non è persa ma che anzi è ancora tutta da giocare».

giovedì 28 novembre 2013

Il pensiero di Leopardi? Uno Zibaldone di verità...



di Marcello Veneziani (Il Giornale)


Nessun altro autore ha saputo riflettere così profondamente sulla condizione umana. E nessun pensatore che seguì, da Schopenhauer a Nietzsche, superò il suo punto di arrivo...

Come sarà accolto Leopardi in versione anglo-americana? È sbarcato in doppia edizione, britannica e statunitense, con la traduzione del suo ciclopico Zibaldone. Arriva in America dall'estrema, profondissima Europa come un Corpo Estraneo, un relitto mediterraneo naufragato nell'Atlantico, un alieno del pensiero tragico che sbarca senza permesso di soggiorno nelle terre del pragmatismo e dell'ottimismo.

Nessun autore ha saputo guardare in faccia la verità della vita e del mondo come Leopardi. Ci sono più grandi filosofi, grandi scienziati e forse poeti più grandi, ma nessuno ha svelato la condizione umana con la sua implacabile e acutissima lucidità, senza concedere ripari. La sua opera è la più alta rivelazione della condizione umana; oltre c'è solo la Rivelazione divina. Il pensiero che s'inoltrò sulla sua strada e affrontò i suoi temi - Schopenhauer, Nietzsche, l'esistenzialismo - non superò il suo punto d'arrivo, se non mediante il salto nella fede. La sua visione della vita e del mondo esclude che anche il dolore, come la gioia, possa essere un pregiudizio soggettivo che altera la sostanza pura della vita, il suo gioco cosmico al di là del bene e del male; a noi tocca solo scommettere che sia solo caso nel caos o destino che si collega a un ordine. Leopardi si ferma alla disperazione che precede la scommessa e degrada la scommessa a illusione. E tuttavia Leopardi è il poeta e il pensatore più religioso della modernità. Religioso non vuol dire credente né devoto. La sua è una visione radicale e universale sulla vita in rapporto alla morte e al dolore. Leopardi resta religioso anche nella disperazione: il desiderio ardente di morire che accompagnò sempre la sua breve vita non lo indusse al suicidio. 

Corteggiò la morte per anni, la invocò tante volte, ma non si lasciò mai conquistare dall'idea di togliersi la vita. Perché, spiegò nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, suicidandosi «tutto l'ordine delle cose saria sovvertito». La certezza che tutto sia connesso in un ordito, è l'essenza propria della religio e l'idea che infrangere quell'ordine sia il supremo sacrilegio è quanto di più religioso si possa pensare. Che poi dietro la Trama del cosmo, dietro l'ordine di tutte le cose, ci sia un Autore o un'Intelligenza e che dopo la morte vi sia la resurrezione, questo riguarda la fede, non il pensiero di Leopardi. In lui lo scacco della Fede non segna il trionfo della Ragione, perché il naufragio riguarda ambedue: da qui il suo pensiero tragico, divergente dai Lumi e da ogni storicismo, progressismo o razionalismo. E da qui la sua ultrafilosofia, che al sistema filosofico preferisce il canto, la poesia, lo zibaldone di pensieri sparsi. Perché è rivolta alla vita e al mondo, non alla pura teoria. Oltre che religioso, il pensiero di Leopardi ha una relazione intensa con l'amor patrio. Sono tante le pagine leopardiane contro il paese natio, contro l'Italia e gli italiani cinici e ridenti, privi di costumi; tutto il pensiero leopardiano e la linea che poi ne discese condannò la retorica patriottarda e le sue pompose finzioni. Ma è come se volesse rendere l'amor patrio più vero ed essenziale, antiretorico, privo di fanfare, raccolto nella gloria dei «nostri padri antichi» e nel rimpianto di tanta altezza caduta «in così basso loco». Risuona l'amore per l'Italia nei suoi versi e affiora una concezione eroica della vita, che si esprime nel culto dei vinti.

Anche il Leopardi in fuga dalla casa paterna, dalla famiglia e dai suoi precetti, dedica poesie, lettere e pagine di un amore intenso e raro al suo Carissimo Signor Padre che poi diventa Mio Caro Papà, a sua sorella Paolina, a suo fratello Carlo. Un amore tenerissimo verso la famiglia, non privo di asprezze e rigetti, ma autentico. La famiglia resta l'alveo affettivo leopardiano, la sua solitudine non può essere concepita se non in rapporto alla sua famiglia. Al di sopra dell'amore per la famiglia, per la patria e per la religio, non c'è che l'amore disperato per la verità. Se deve scegliere tra Dio e il Vero, tra la Famiglia e il Vero, tra l'Italia e il Vero, Leopardi sceglie senza indugi il Vero. Sul piano storico Leopardi colse l'importanza dei pregiudizi e delle illusioni, detestò la politica giacché gli individui «sono infelici sotto ogni forma di governo». Sul piano etico Leopardi lodò la nobiltà dell'inutile, la gloria delle imprese vane. Sul piano estetico riconobbe commosso il primato della bellezza ma sul piano umano contraddisse l'ideale classico del bello e buono, notando che la bellezza insuperbisce chi la possiede mentre la bruttezza incammina verso la virtù. Il pensiero negativo di Leopardi ha un approdo finale: è l'Oriente, inteso come il luogo simbolico in cui si dissipa ogni illusione legata all'individuo per rifluire e disciogliersi nel grembo assoluto della Natura. Oblio immoto del mondo «e già mi par che sciolte/ giaccian le membra mie, né spirto o senso/ più le commuova, e lor quiete antica/ co' silenzi del loco si confonda» (La vita solitaria). La tragedia del vivere per Leopardi risiede nell'individualità che separa dal tutto; viceversa la salvezza, o almeno la pace, è rientrarvi sciogliendosi nel tutto, estinguere la vita individuale nell'oceano dell'essere. «E il naufragar m'è dolce in questo mare»... Prima di poetare sulla vita e sulla morte, Leopardi adolescente le affrontò sul piano della filosofia; prima d'illuminarsi di luna e d'infinito, studiò gli astri e il cosmo. 

Versi che sembrano sgorgati da stati d'animo provengono da lontano, da studi precoci e pensieri sofferti. Stringe il cuore leggere i tanti passi in cui Leopardi confessa il suo disagio di essere al mondo e di sentirsi rifiutato. Ma se non fosse stato gobbo, brutto, respinto da Silvia e irriso dalla gente, se avesse avuto una vita e un corpo come gli altri, avrebbe mai raggiunto quelle altezze e quelle profondità? Su quali sentieri lo avrebbe dirottato la vita? Non dobbiamo, con la morte nel cuore, benedire crudelmente l'amore negato, il corpo deforme, per i doni sublimi che provocarono? Del resto lui stesso era consapevole del nesso tra bruttezza e grandezza e si dispose a barattare la vita con la gloria: «Voglio essere infelice piuttosto che piccolo e soffrire piuttosto che annoiarmi». «Il ritratto è bruttissimo: nondimeno fatelo girare costì, acciocché i Recanatesi vedano cogli occhi del corpo (che sono i soli che hanno) che il gobbo de Leopardi è contato per qualche cosa nel mondo». Ma pure alla gioia Leopardi aspirò invano: «Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita; il mondo non mi par fatto per me». Inadeguato al mondo, senza di consolanti vie di scampo, Leopardi mise a nudo la verità della vita. Benché solitario, resta il più fraterno tra i poeti e pensatori. Nei secoli fratello. E ora Brother James.

mercoledì 27 novembre 2013

Teo Mammucari scherza su piazzale Loreto. Ed è rivolta sul web...



di Annamaria Gravino (Secolo d'Italia)


Irriverenti, va bene. Ma fino a che punto ci si può spingere per cercare la battuta facile? Un esempio lo ha fornito la puntata di ieri de Le Iene, durante la quale Teo Mammucari, parlando di calendari, ha detto che quello di Mussolini è l’unico che si può mettere a testa in giù. Il riferimento a piazzale Loreto in un contesto cabarettistico ha provocato una dura reazione sul web e in particolare sulla pagina facebook del programma e sul profilo twitter di Mammucari. Per avere un’idea di ciò che si è scatenato basti dire che in poche ore i commenti al post della puntata sono arrivati quasi a quota 400. Si va dagli insulti all’augurio per il conduttore di ritrovasi lui a testa in giù, ma si passa anche per la frequente, amara constatazione sullo «squallore» di quella battuta. E se c’è chi si complimenta per la trovata, molti sottolineano il fatto che ci vorrebbe più rispetto per i morti e per la storia d’Italia. Certo è che la battuta di Mammucari, che poi vuol dire la battuta degli autori del programma, dimostra se non altro una rara superficialità, una incapacità di elaborare che forse è peggio e più preoccupante perfino di certe manifestazioni di quell’antifascismo militante per cui la morte, se è di un fascista, non solo non merita rispetto, ma va accolta con favore, possibilmente anche con dileggio. Non sembra sia questo il caso.

Le Iene non sono un programma militante, sono un programma mainstream, che come tale ha spesso la tendenza alla banalizzazione o alla facile provocazione. Ma di facile, nella faccenda di piazzale Loreto, non c’è proprio nulla. Quell’episodio, non a caso ancora dibattutissimo e soggetto a interpretazioni e revisioni anche a sinistra, rimanda a temi complicatissimi: sul piano strettamente italiano, per esempio, dalla riflessione sulla storia del secolo scorso alle radici della nostra democrazia; su un piano più universale, dalla sorte che spesso tocca al corpo del nemico, tanto più se è stato il capo, all’anima bestiale che muove le folle nel momento della sconfitta di un regime. La sorte dei corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci è storia di oggi molto più di quanto si pensi. Intanto perché non è stata storicizzata, è qualcosa di cui ancora non si sono capiti fino in fondo portata e significato. Poi perché, ancora oggi, è diffusa l’idea che del corpo del nemico si possa fare scempio impunemente. Che anzi, forse, si debba fare scempio come atto liberatorio, come affermazione di forza, come negazione di una umanità che tanto più va svilita quanto più ha rappresentato il proprio specchio. Gli italiani che amarono e seguirono Mussolini furono pronti a sputare sul suo corpo o per lo meno ad accettare che questo avvenisse né più né meno di quanto gli iracheni, appena ieri, hanno fatto con Saddam Hussein. Da qualunque prospettiva si voglia guardare – umana, civile, politica, storica – in questo c’è qualcosa di profondamente tragico e smisurato, che dovrebbe rendere inaccettabile per chiunque l’idea di farne battute da share.

martedì 26 novembre 2013

Chatwin, il viaggiatore inquieto...



di Marcello Veneziani


Il grande autore nomade è una presenza che si sparge ovunque nel mondo. Ma per lui "il ritorno offre una pienezza di senso che l'andata da sola non ha"...

Bruce Chatwin non è uno scrittore ma uno stato d'animo che si è fatto zaino di cuoio, piedi, occhi e visione del mondo. Il fascino di Chatwin eccede quello dei suoi stessi libri, il suo mito scavalca le sue opere. Chatwin è forse l'unico autore che si lascia amare non per i libri ma per il candore avventuroso dei suoi sguardi alla vita, alla terra, ai popoli; e per i suoi passi verso l'originario, per il caldo e il freddo che avvertiamo con lui, per la passione del sole, del sud e del lontano, il suo «rinomato sguardo azzurro acido» come egli stesso scriveva. Ma concorrono al mito anche la sua morte precoce, le leggende e le dicerie, l'icona del suo volto come quello di un Che Guevara biondo che non sogna la rivoluzione ma cerca, in solitudine, l'essenza divina nella vita errante.

Chatwin è diventato metafora dell'irrequietezza e allusione a una vita ubiqua. Chatwin è la Patagonia, l'India e l'Australia, ma anche il Mediterraneo e la Grecia. Nei titoli delle sue opere, anche postumi, c'è già il suo mito e il suo programma di vita: Le vie dei canti, Anatomia dell'irrequietezza, Che ci faccio qui? che è diventato il blasone dell'erranza ma la sua origine - oltre Rimbaud - è in una battuta di De Gaulle a Churchill durante il suo esilio a Londra che Chatwin cita. La vita e le opere di Chatwin sono disseminate nel paesaggio; Bruce si sparge nel mondo, nei luoghi che vede, nelle persone che incontra, nelle atmosfere che descrive. Volano le sue pagine nell'aria, si slegano dal dorso e dall'autore e vivono e respirano tra gli alberi, nei sentieri, nella luce e nel mare. «Vedo le vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli. Uomini che hanno lasciato una scia di canto ovunque sono andati».

Mi sono perso nelle sue lettere e nella sua vita, raccolte ne L'alternativa nomade, edita ora da Adelphi ma uscita tre anni fa in edizione originale (di cui ha già scritto su queste colonne Stenio Solinas). È la parabola di un ragazzo di otto anni che si conclude con un ragazzo di 48 anni, lo stesso stupore nei suoi occhi celesti. Una parabola che segui con crescente pathos fino alle ultime dolorose lettere; la sua malattia, il suo disperato ottimismo, la sua fede sorgente e la sua morte. Con lo stesso titolo, che è poi di un'opera irrealizzata di Chatwin, uscì nel '94 in Italia la biografia di Nicholas Murray edita dal Settimo Sigillo.

La promessa della sua vita è in tre righe scritte a Michael Cannon: «Cambiare è l'unica cosa per cui vale la pena vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere e mal di cuore». Altrove aveva notato che ci sono scrittori che funzionano solo a domicilio, con la seggiola giusta, gli scaffali di libri e dizionari, e ora un computer; e ci sono altri come lui, che invece scrivono solo quando sono immersi nella vita e camminano nel mondo. L'intera sua esistenza, con la sua opera, è condensata in una lettera a Tom Maschler, qui proposta ma fu già pubblicata in Anatomia dell'irrequietezza. Dopo aver confessato la sua impossibilità di stare un mese nello stesso posto, Bruce così descrive la sua dromomania: «Non ho nessuna ragione economica per muovermi, e avrei tutte le ragioni per star fermo. I miei moventi, dunque sono materialmente irrazionali... ma poi sono tirato indietro da un desiderio di casa. Ho una coazione a vagare e una coazione a tornare - un istinto di rimpatrio, come gli uccelli migratori». In un libro-intervista ad Antonio Gnoli, La nostalgia dello spazio, Chatwin dice: «Il ritorno offre una pienezza di senso che l'andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo alla nostra irrequietezza». L'andare e il tornare come inspirare ed espirare, moti vitali per dare fiato alla vita e anima al corpo... Chatwin diceva che anche gli aborigeni australiani dopo aver errato lungo tutto l'anno tornavano a intervalli stagionali nei loro luoghi sacri per riprendere contatto con le radici ancestrali, fondate sul tempo del sogno. Un modello di vita arcaico ma che si addice bene all'età della globalizzazione: nomadi e spaesati avremo sempre bisogno di un luogo che avvertiremo come la nostra casa e la nostra radice autentica, dove abita la nostra origine e palpita il nostro sogno iniziale. Sarà la musica a riportarci a casa.

Chatwin detesta l'Europa opulenta che si va a suo dire «maializzando», sempre più grassa e inerte, ottusa. «L'involuzione culturale è dieci volte più rapida di quella genetica». Ma Chatwin parla con disprezzo pure «dell'allegra cultura hashishistica» degli hippie per i quali auspica la galera. Nel viaggio Bruce non cerca come loro l'allucinazione e l'utopia ma la radice vera e profonda della realtà, la verità della vita, rispondendo alle sue molle interiori. Cerca i nomadi «per sete di Dio», annota in un taccuino quando si rifugia in un convento sul Monte Athos e partecipa toto corde alla vita monacale e ha un'esperienza spirituale così profonda da non riuscire a scriverne. Le sue pagine migliori, le più intense, sono forse quelle che non scrisse. Ci sono esperienze che non si possono tradurre in arte e in parola senza falsarle.

Chatwin ha un rapporto controverso col giornalismo, scrive articoli «alimentari» come li definiva Prezzolini; detesta «l'iridescente mediocrità» della stampa e la condanna all'oblio delle idee buone mescolate alle cattive. Ma, aggiunge, c'è da considerare l'affitto e i beveraggi... Però riconosce che il giornalismo insegna a uno scrittore l'indispensabile arte della condensazione e la tecnica del cacciatore di storie. E l'origine economica non toglie qualità ai suoi reportage.

Le lettere più struggenti sono quelle che precedono la morte, lettere avvolte nella malattia negata, l'Aids, nel desiderio di tutelare i suoi famigliari dalla verità sulla sua omosessualità e nei propositi di riprendere a viaggiare, mutando vita. C'è tutto il suo desiderio di donare, di pregare, di credere, di compiere esorcismi e atti votivi per guarire miracolosamente. «Spero d'essere stato martoriato da Dio» scrive a Gertrude Chanler, annunciando d'aver compiuto il salto nella fede. Rimpiange di non esser diventato monaco, si professa credente nel rito orientale dei cristiano-ortodossi e annuncia di voler devolvere tutti i suoi beni agli ammalati. Estremi atti per propiziare celeste benevolenza su di lui. Una messa greca accompagnò la sua cremazione. Era il 20 gennaio del 1989 quando i suoi viaggi mutarono direzione ed ebbero per destinazione le vie del cielo, lasciando lungo il passaggio una scia di canti.

lunedì 25 novembre 2013

Giornata contro la violenza sulla donne


Nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne non v'è cosa migliore che ricordare alcune delle Donne migliori, quelle che seppero sacrificarsi per un'Idea senza chiedere niente a nessuno.

È morto a Torino il filosofo “irregolare” Costanzo Preve: da Marx alla critica all’euro...



di Valerio Goletti (Secolo d'Italia)

È morto a Torino il filosofo Costanzo Preve. Era nato a Valenza (Alessandria) nel 1943, aveva settant’anni ed era ormai malato da più di un anno. Date le sue origini – la madre era armeno ortodossa – ha chiesto di essere sepolto con il rito greco-ortodosso. Una decisione che solo in apparenza contraddice la sua professione di ateismo: infatti Preve, marxista irregolare isolato e criticato dalla sinistra, lontano dalla politica dai primi anni Novanta dopo un intenso periodo di militanza, apprezzato e studiato oggi dagli ambienti della destra antiglobalista, aveva compiuto in piena libertà un percorso che l’aveva trasformato in profondità anche sul piano spirituale. Nella prefazione al carteggio con Luigi Tedeschi, in uscita a breve per Area 51, Stefano Sissa scrive che il suo obiettivo era quello di contrastare sia l’odierno capitalismo sia il nichilismo divorante che contraddistingue la nostra epoca. Non stupisce perciò ritrovare un pensatore come Preve tra quanti hanno difeso Ratzinger dall’attacco dei salotti laicisti. In proposito scriveva che il relativismo «piace solo agli intellettuali sradicati, ma essi sono meno del 3% della popolazione globale. Il rimanente 97% è angosciato dalla morte di Dio, e dal fatto che essa viene sostituita dal circo mediatico, dalla simulazione televisiva, dall’incontinenza pubblicitaria, dalle mode pilotate e dallo spettacolo porno. Ridotta l’intera filosofia a smascheramento delle illusioni metafisiche (…) effettivamente la religione torna ad essere il deposito del senso complessivo delle cose».

Era aperto al dialogo con tutti, e soprattutto – per quell’attitudine curiosa che caratterizza sempre i veri studiosi – con gli ambienti a lui lontani: di qui il confronto con un intellettuale come Alain de Benoist (il cui frutto è stato il libro del 2006 Il paradosso Alain de Benoist, Settimo Sigillo) e di qui anche l’accusa di “rossobrunismo” lanciatagli dai “compagni” che lo hanno visto pian piano distanziarsi dal materialismo dialettico di Marx. Preve era studioso non solo di Marx ma anche della filosofia della Grecia classica, di Spinoza, di Fichte, di Hegel e di Lukács.

Il percorso seguito da Preve – spiega Edoardo Zarelli, altro intellettuale anticonformista convinto, come Preve, che destra e sinistra siano categorie da superare – parte da Marx e giunge al comunitarismo, contesto fondativo di un nuovo umanesimo. Libero dall’osservanza dei dogmi delle varie chiese ideologiche, Preve riteneva che non ci fosse più bisogno dell’antifascismo (criticava il fanatismo di chi considera il fascismo una sostanza ontologica “diabolica”) e si è sempre sottratto al gioco degli opposti estremismi, collaborando con tutti coloro che gli offrivano spazio per diffondere le sue idee sulla geopolitica, sulla filosofia, sulla metapolitica. Un cammino che lo ha portato ad essere vicino al pensiero euroasiatista e a criticare l’euro predicando la necessità di recuperare le sovranità nazionali. La sua libera ricerca, trasversale e priva di pregiudizi, gli ha procurato l’ostilità dell’ambiente di provenienza. L’impossibilità di definirlo, infine, ha fatto sì che venisse ignorato dal mainstream mediatico. L’ultimo suo libro – ne ha scritti oltre quaranta – è Una nuova storia alternativa della filosofia (Petit Plaisance, Pistoia) al cui centro c’è l’uomo come “animale politico” la cui identità va ricostruita per superare l’alienazione economicista.

domenica 24 novembre 2013

Il nuovo abito del Potere si chiama Matteo Renzi

di Sebastiano Caputo (L'Intellettuale Dissidente)


Le elezioni europee sono di fatto sempre più simili a quelle Oltreoceano. Lo stesso linguaggio “democratico” che giura il falso, le stesse menzogne, gli stessi termini come “crescita”, “libertà” e “progresso” volti a sedurre gli elettori e mascherare le derive del mondo capitalistico. I talk show, la cultura hollywoodiana del leader-supereroe, gli slogan propagandistici, le orazioni svuotate di contenuti, i candidati che gareggiano come cavalli da corsa per poi cadere nell’oblio della storia quando a soccombere sono i finanziatori, veri manovratori della partita.


“Il fenomeno Renzi è molto più interessante di quello di Vendola perché Vendola non è una novità, ma è solo un riadattamento del vecchio “doppio discorso”, retorica estremista a parole e disponibilità all’opportunismo nei fatti, ma anche nei simboli, nel linguaggio, nella comunicazione”.

Costanzo Preve

Da quando l’elite si è consolidata Oltreoceano alla fine del Settecento, gli Stati Uniti sono diventati un laboratorio culturale nella misura in cui la loro evoluzione ha sempre anticipato le scelte che avrebbe fatto prima o poi l’Europa. Precursori del mondo occidentale. Esportatori di un modello sociale dotato di un codice linguistico (il “politically correct”), etico (l’ideologia libertaria del Sessantotto) ed economico (“Washington Consensus”), e retto da una sovrastruttura intoccabile: la democrazia parlamentare.

Nonostante il termine “democrazia” sia nato ad Atene, l’Europa ha preferito importarlo da Washington, copiando per filo e per segno il modo statunitense di fare politica. Le elezioni europee sono di fatto sempre più simili a quelle Oltreoceano. Lo stesso linguaggio “democratico” che giura il falso, le stesse menzogne, gli stessi termini come “crescita”, “libertà” e “progresso” volti a sedurre gli elettori e mascherare le derive del mondo capitalistico. I talk show, la cultura hollywoodiana del leader-supereroe, gli slogan propagandistici, le orazioni svuotate di contenuti, i candidati che gareggiano come cavalli da corsa per poi cadere nell’oblio della storia quando a soccombere sono i finanziatori, veri manovratori della partita.

Negli ultimi decenni c’è stata di fatto la volontà di creare un bipolarismo perfetto in tutti gli Stati continentali sul modello anglosassone (progressisti/conservatori) e statunitense (repubblicani/democratici) proprio per non lasciare spazio a chi propone una “terza via” o un’alternativa valida alle due facce del libero mercato. Per compensare questo deficit “democratico” (solo due scelte possibili) e dissimulare la finta alternanza tra i due poli maggioranza, si è così dato al popolo-elettore l’illusione della partecipazione democratica attraverso le primarie di partito, un sistema nato appunto in Pennsylvania (Usa) nel 1847 per poi diffondersi a livello nazionale.

La democrazia – “governo del popolo, dal popolo, per il popolo” – si è trasformata in “un’oligarchia crematistica” – “governo di pochi ricchi, finanziato da terzi, per conto di terzi” – dove il popolo viene illuso quotidianamente da una retorica di responsabilità e partecipazione. Responsabilità e partecipazione che vengono ripetute in maniera martellante da tutto l’apparato mediatico quando l’establishment rischia di saltare in aria: il governo delle larghe intese, per intenderci.

Lo stesso identico fenomeno si sta registrando in Italia. L’ascesa del Movimento 5 Stelle – proposta alternativa che per il momento non si è dimostrata forza risolutiva – ha messo in guardia un Potere impopolare (a confermarlo è stato il tragico risultato di Scelta Civica di Mario Monti alle elezioni di febbraio) che per sopravvivere ha dovuto ufficialmente mettere d’accordo tutti: il centrodestra e il centrosinistra. Potere che, nonostante la figura “nuova” di Enrico Letta, non è riuscito a placare il dissenso popolare e che oggi deve cambiare abito. Serve un potere più “giovane, moderno, sottile, amichevole”. Un uomo di sinistra che parli come uno di destra, che non abbia letto Marx, che sappia confrontarsi con la Finanza. Un uomo di “rottura”, capace di rottamare il vecchio apparato di partito, ma che al tempo stesso riesca a conservare lo status quo: l’establishment neo-liberale.


Matteo Renzi ha tutti i criteri che il Potere oggi richiede: una sintesi neo-democristiana tra il centrodestra e il centrosinistra. Trainato dalla stampa nazionale e montato come un cavallo da corsa da finanzieri,industriali,manager di multinazionali,banchieri e fondazioni, il “rottamatore” è il grande favorito delle primarie del Partito Democratico che si svolgeranno l’8 dicembre di quest’anno. Nei circoli del Pd il sindaco di Firenze è davanti a Cuperlo, Civati e Pittella. Nei circoli delle decisioni irrevocabili, è stato nominato già da qualche anno leader indiscusso del Partito Unico. Il Potere ha il suo nuovo abito, si chiama Matteo Renzi.

Post Scriptum: Avete presente il completo sportivo dei calciatori? Marchiati dai calzettoni al borsone? Bene, è necessaria una legge che obblighi i politici ad indossare un abito blu contrassegnato dagli sponsor che li finanziano durante la campagna elettorale.

sabato 23 novembre 2013

Nelle fiamme infernali

di Michele Fabbri (Centro Studi La Runa)

Nell’Inghilterra del XVIII secolo prendeva forma il sistema di potere destinato a trionfare nel mondo contemporaneo: nel 1717 nasceva la Massoneria e, parallelamente ai “lavori” dei “Liberi Muratori”, e talvolta intrecciati a questi, si svolgevano le attività degli “Hell-Fire Clubs”, i “Clubs delle fiamme infernali”.

Si trattava di società segrete il cui scopo era l’esercizio sistematico del vizio e della perversione: una vera e propria scuola di disimpegno etico e di istigazione alla delinquenza che doveva dare corposi frutti in futuro fino a generare lo scenario di corruzione morale delle democrazie contemporanee, nonché l’abominio della società multicriminale, nella quale il legislatore non distingue più tra comportamenti giusti e sbagliati, e rovescia il rapporto tra vittime e carnefici!

Ovviamente il vizio esiste fin dalla notte dei tempi, ma con gli “Hell-Fire Clubs” esso diventava quasi la condizione distintiva di chi faceva parte di un gruppo di potere.

Il più recente studio dedicato all’argomento è il saggio di Evelyn Lord The Hell-Fire Clubs, un libro di piacevole lettura e ricco di informazioni, che rivela al pubblico un pezzo di storia sorprendente e raramente affrontato dagli studiosi.

Gli aristocratici inglesi del ‘700 si stavano rapidamente adeguando ai canoni di vita della civiltà mercantile, e cominciavano a strutturare una classe dirigente adeguata ai tempi nuovi. La Massoneria è la più celebre, ma non l’unica, fra le istituzioni che caratterizzano il nuovo clima culturale: l’idea di fondo era quella di creare un tipo umano che abbandonasse le vecchie appartenenze di casta, di religione, di razza, per spianare la strada a un mondo in cui il commercio e il denaro fossero gli unici valori. Da qui all’abbandono di qualsiasi punto di riferimento morale il passo era breve.

Evelyn Lord individua il più lontano antecedente dei Clubs infernali nella vicenda del gruppo denominato “The Damned Crew”, testimoniato attorno al 1602, una banda di teppisti che fu protagonista di disordini e che sembrava agire solo per il gusto di compiere azioni criminali. Un’inchiesta rivelò che si trattava non di una banda di delinquenti comuni, ma di uomini appartenenti alla nobiltà.

Un salto di qualità avvenne nel periodo successivo al 1660, con la restaurazione seguita al periodo di Cromwell. Vero e proprio mattatore della scena era il celebre poeta John Wilmot, conte di Rochester, scrittore maledetto il cui stile di vita era basato sulle sbronze, sulle orge e sulle risse di strada…

Sulla scia di Wilmot i nobili inglesi cominciavano a frequentare abitualmente festini a base di alcool e prostitute (inutile dire che la sifilide mieteva vittime a man bassa!). Si sviluppò pertanto anche una reazione a questo fenomeno, e si costituivano associazioni per la riforma dei costumi che si proponevano di salvaguardare i valori cristiani e la pubblica decenza.

Nel 1712 un altro avvenimento scosse la società inglese: una banda terrorizzava le notti di Londra con aggressioni e atti di teppismo, creando uno scenario da “Arancia Meccanica” ante litteram. Si trattava dei “Mohocks”, un nome probabilmente ispirato alle tribù di pellerossa sulle quali allora gli europei cominciavano a fantasticare, attribuendo ai “selvaggi” attitudini delinquenziali. Ma in realtà ancora una volta si constatò che i delinquenti venivano dall’élite sociale…

Le polemiche tuttavia non si spegnevano, tanto che nel 1721 venne emanata una legge per le repressione della blasfemia e delle profanazioni. L’emanazione della legge non era casuale: proprio in quel periodo, infatti, si diffondeva l’espressione “Hell-Fire Club” poiché i giornali dell’epoca riferivano chiacchiere insistenti su queste inquietanti associazioni. Il primo personaggio riconosciuto come animatore di un club delle fiamme infernali fu il duca di Wharton. Si diceva che alle riunioni presiedute da questo nobile dissoluto si facessero brindisi al diavolo e orge sessuali. Si diceva anche che le donne coinvolte nei festini mettessero un cuscino sotto il vestito per simulare la gravidanza della Vergine Maria, in modo da aggiungere un tocco ulteriormente blasfemo a questi raduni. Ad ogni modo nel 1722 sembra che Wharton abbia abbandonato queste attività per dedicarsi a un’altra sua passione: la Massoneria, nella quale fu Gran Maestro fino a quando nel 1724, stancatosi anche delle attività di loggia, fondò il club dei “Gormogons”, il cui fine era quello di…ridicolizzare la Massoneria! In effetti a volte questi clubs infernali parodiavano non solo i riti religiosi ma anche quelli massonici.

In anni successivi Wharton viaggerà in Europa, e in Spagna si innamorerà di una dama di compagnia che sposerà alla morte della moglie, convertendosi al Cattolicesimo. Sempre in Spagna partecipa all’assedio di Gibilterra combattendo contro l’armata inglese e ricevendo, quindi, una formale accusa di alto tradimento. Durante un soggiorno in Francia invia una lettera alla stampa inglese in cui denuncia la corruzione imperante nel governo britannico! Wharton morirà nel 1731 senza fare rientro in patria.

In questo periodo si ha notizia di attività legate agli “Hell-Fire Clubs” anche nella provincia inglese e in Irlanda, nonché nelle prestigiose università di Oxford e Cambridge dove tali attività si mescolavano alla diffusione di idee illuministe sulla critica della religione.

Lo stile di vita dissoluto cominciava a diventare tipico dell’alta società ed Evelyn Lord rintraccia gli elementi comuni che caratterizzavano i membri dei clubs infernali, il più evidente dei quali era il cosiddetto “Grand Tour”. Era abitudine della nobiltà inglese mandare i rampolli in viaggio nelle principali corti europee, per motivi di istruzione e per preparare i giovani a carriere politiche e diplomatiche. Nel corso di questi viaggi non mancavano certo le occasioni di divertimento: in particolare l’Italia era particolarmente apprezzata in quanto terra del buon vino e delle belle donne. Non meno ambiti erano i territori dell’Impero Ottomano dove si favoleggiava sulle avventure erotiche negli harem…

Al ritorno in patria si formavano dei club il cui fine era di riunire chi aveva viaggiato in certi luoghi. I più famosi erano la “Società dei Dilettanti” per chi era stato in Italia, e il “Divan Club” per chi era stato nell’Impero Ottomano. Ovviamente il fine di tali associazioni era quello di continuare le piacevoli gozzoviglie di questi turisti di lusso!

Uno di questi personaggi decise di fare le cose in grande: Sir Francis Dashwood nel 1751 affittò l’abbazia di Medmenham, un vecchio convento abbandonato. L’abbazia divenne il luogo di raduno dei compagni di merende di Dashwood, che partecipavano addirittura con un abito monastico confezionato per l’occasione per dedicarsi alla religione della gola e della lussuria…

Sulla porta dell’abbazia c’era scritto il motto dell’abbazia di Thélème di Rabelais: “Fay ce que vouldras”. Per gli improbabili frati di Medmenham si prevedeva anche un periodo di noviziato prima di poter avere accesso alla cerchia più ristretta.

Le attività che si svolgevano a Medmenham erano testimoniate in maniera diretta o indiretta da un filone di stampa scandalistica e libertina che era in gran voga all’epoca.

Sempre Dashwood approntò nella sua tenuta personale un giardino con tempietti dedicati agli dèi pagani, con particolare attenzione a quello di Venere, la cui struttura imitava la forma anatomica della vagina! Inoltre aveva creato delle gallerie sotto il giardino che considerava come il proprio regno infernale: si vociferava che in quelle cavità si celebrassero Messe Nere…

Si hanno notizie di attività dei clubs infernali anche in Scozia. Verso il 1732 le fonti ci informano sull’esistenza di una società denominata “Beggar’s Benison”, il cui simbolo era un sesso maschile; pare che la principale attività dei membri fosse…la masturbazione di gruppo!

A proposito di questa società l’autrice avanza l’ipotesi che all’interno del “Beggar’s Benison” fosse conosciuto il celebre classico dell’erotismo Fanny Hilldi John Cleland, molto prima che fosse noto al pubblico, poiché il resoconto di una riunione menziona il romanzo almeno dieci anni prima della sua pubblicazione.

Sempre in Scozia ci sono attestazioni di un club femminile denominato “Jezebels Club”, che pare fosse costituito dalle prostitute di Edimburgo per rendere le loro attività accettabili per il senso comune. Resta comunque il dubbio che questa società fosse solo un’invenzione letteraria per stimolare le fantasie erotiche maschili.

Per quanto riguarda le colonie americane, che di lì a poco si ribelleranno alla madrepatria, è presumibile che associazioni del genere abbiano avuto un qualche spazio, anche se le fonti al riguardo sono molto frammentarie.

All’inizio dell’800 la moda degli “Hell-Fire Clubs” è decisamente in declino: l’Inghilterra è impegnata in una lotta all’ultimo sangue contro Napoleone e il clima culturale è ormai decisamente romantico: le menti e gli spiriti sono orientati in altre direzioni…

Tuttavia le vicende degli “Hell-Fire Clubs” sono tutt’altro che secondarie nella formazione della mentalità moderna: le abitudini delle classi dirigenti contemporanee non sono molto diverse da quelle dei nobili inglesi del ’700, anzi si potrebbe dire che all’alcool e al sesso si sono aggiunte le droghe! Si tratta di comportamenti che vanno ben al di là di una sana goliardia…

Gli appartenenti ai clubs infernali erano indifferentemente cattolici, anglicani, calvinisti, appartenevano indifferentemente ai partiti dei “Whigs” o dei “Tories”, e molti di loro erano membri del parlamento: le analogie coi potenti di oggi sono più che evidenti…

venerdì 22 novembre 2013

La lettera. Sardegna e solidarietà: non di sola crisi vive la dignità del nostro popolo



a cura di Emanuele Ricucci (Barbadillo)


Così ti trovi a scrivere. Da inerme spettatore. Sai che l’unico gesto utile è la solidarietà che nasce nel profondo delle corde dell’anima. Sai, in ogni caso, che essa non può bastare. Partecipai come soccorritore a L’Aquila. Ad oggi la vita mi impedisce di farlo in Sardegna. Nella profondità dei miei pensieri capisco che questo si, sarebbe stato utile. Mi trovo a scrivere. Tristissimo. Ferito dentro. Si, nel 2013, mi sento abbattuto da italiano. Non ho legami con la Sardegna, ne personali ne d’amicizia, se non quello di fratellanza che sorge dall’appartenenza allo stesso popolo; una connessione ideale, a questo punto riscopertasi profonda, con un popolo che ha la pelle dura. Le fiamme d’estate. L’acqua in inverno. Incendi ed alluvioni. Questa volta potente. Troppo. Che serve il mio paese facendo giurare fedeltà ad una Repubblica che, ad oggi, disconosce, dimentica i suoi figli, ai migliori ragazzi della sua terra, così controversamente unita al senso d’Italia, al grido di “Avanti Forza Paris”. Avanti, tutti insieme.
Così mi piace identificare il popolo sardo. Così mi piace vivere quel senso di coesione marmorea che inquadra gli italiani. Così L’Aquila, l’Irpinia, L’Umbria. Così i montanti, lenti e pesanti, assestati dalla storia e dalla natura ai fianchi della nostra terra. Così, oggi. Olbia. La Sardegna.
Questo siamo. Rughe in volto. Instabili come molecole spinta da energia. Ma forti fratelli che rispondono agli squilli di tromba. Alle urla. In Italia, la cavalleria alleata arriva sempre. Poi le lamentele, gli scandali, la corruzione. Le risate e gli affari. Le poltrone e la mancata organizzazione. La speculazione e l’ipocrisia. Ma quando la terra trema, in quel secondo. Quando l’acqua scorre, vomitando fango. La forza del mio popolo esce prorompente. La stessa che compone un’identità impercettibile ma reale. La stessa dei nostri nonni nel ricostruire la loro dignità e le mura di un paese di collina dopo la pioggia di bombe.
Mi rivolgo alle istituzioni. Quelle. Non scappate. Non vi nascondiate. Siete tutori e rappresentanti del nostro popolo. Sempre. Anche quando vi è dura o scomodo pensarlo. Anche ora sia rabbia e sdegno, per voi. Anche ora si invochino i migliori principi della moderna democrazia. Anche ora si vada incontro ai tempi che cambiano. Anche ora sia Lutto nazionale. Dignità nazionale. Legame nazionale. Fratellanza Nazionale.
Forza Sardegna. Non c’è montagna che non sappiate scalare. “Avanti Forza Paris”

Firmato Un fiero italiano

giovedì 21 novembre 2013

Un'Italia senz'anima dove tutti cercano di rubare a tutti

di Massimo Fini

I poliziotti rubavano ai ladri. E' quanto emerge da una complessa indagine della magistratura milanese a carico di tre agenti della Polfer di Lambrate, ora arrestati, nella cui disponibilità sono stati trovati 140 chili di hashish, 4 di cocaina oltre a 50 mila euro. In sostanza i poliziotti sottraevano la refurtiva ai trafficanti e se la tenevano. E' vero che in Italia siamo ormai abituati a tutto (anni fa si scopri' che il comandante della Guardia di Finanza, Del Giudice, preposto alla vigilanza sulla frontiera italo-svizzera, era anche il capo dei contrabbandieri) ma la notizia fa ugualmente una certa impressione. Il questore di Milano Luigi Savina si è affrettato a dichiarare: ”Il comportamento di alcuni non puo' inficiare il lavoro di migliaia di agenti che ogni giorno svolgono il loro dovere con sacrificio e dedizione”. Sono d'accordo, io ammiro i magistrati e i poliziotti che continuano a fare il loro mestiere con coscienza e passione, rischiando spesso la vita (soprattutto i secondi, ma anche i primi) pur sapendo benissimo che, nella maggioranza dei casi, è del tutto inutile (Un paio di anni fa avendo assistito per tre giovedi' notte a fila a furibonde risse fra immigrati 'chicanos' in piazza Duomo, a Milano, con la polizia che stava a guardare a pochi metri, mi avvicinai al tenente che comandava il reparto e gli chiesi:”Perché non intervenite?”. “Se intervengo mi becco una coltellata e quelli, dopo qualche giorno, tornano comunque fuori. Percio' finché se la fanno fra di loro ci limitiamo a controllare che la rissa non debordi”). Scontate pero' le doverose parole del questore di Milano è indubitabile che la corruzione abbia investito ampi settori delle forze dell'ordine. Proprio nel giorno in cui Savina rilasciava queste dichiarazioni, a Napoli altri tre poliziotti venivano arrestati per millantato credito e abuso di ufficio. E se sono corrotti i poliziotti, vocati per mestiere al 'law and order' vuol dire che la corruzione è ormai penetrata a fondo nel tessuto sociale. Basta leggere il giornale di quello stesso 8 novembre in cui sono stati arrestati i tre agenti felloni della Polfer: a Nola è stata scoperta una maxi-truffa ai danni delle assicurazioni automobilistiche in cui sono coinvolte quattrocento persone, fra cui 52 medici (non dei quaraquaquà ma, come recita il provvedimento della Procura, “noti professionisti operanti nelle strutture pubbliche e private”) e 12 avvocati. A parte i politici, nazionali, regionali, provinciali, comunali, di cui ci sono noti da tempo i fatti e soprattutto i misfatti, non c'è ambito, professione, mestiere, attività, in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori un marcio che sgomenta quegli italiani che, con grande sforzo su sé stessi, sono riusciti a rimanere onesti in un contesto che cade moralmente a pezzi. Tre anni fa cosi' concludevo l'introduzione a un mio libro, 'Senz'anima', che racconta, attraverso i miei articoli, molti dei quali apparsi sul Gazzettino, le vicende italiane dal 1980 al 2010: “Un'Italia inguaribilmente corrotta, nelle classi dirigenti come nel comune cittadino, intimamente, profondamente mafiosa, come sempre anarchica ma senza essere divertente, priva di regole condivise, di principi, di valori, di interiorità, di dignità, di identità. Un'Italia senz'anima”.

mercoledì 20 novembre 2013

Roma, il liceo che sul libretto scrive "genitore 1" e "genitore 2"




di Enrico Paoli (Libero)

No, non è affatto un liceo come gli altri. Anzi, come gli altri licei romani d’elite, quelli dove “l’intellighenzia de’ sinistra” ha studiato e dove ora manda figli e nipoti, il Mamiani è strutturalmente costretto a dover esser un passo avanti agli altri per non restare indietro. In tutto e per tutto. 

Sarà per questa ragione che al posto di “padre” e “madre”, sul libretto delle giustificazioni degli studenti dello storico liceo classico della Capitale, ci sarà la dizione “genitore 1” e “genitore 2”, come aveva chiesto il ministro Cecile Kyenge, scatenando un’ondata di polemiche. E così dopo Bologna, che ha battuto tutti sul tempo adottando la soluzione “neutrale” per i moduli d’iscrizione alle scuole del comune, la dizione uno e due sbarca nella Capitale, seppur su un semplice libretto. L’importante, stando al regolamento scolastico, è che la firma riportata nella giustificazione sia la stessa depositata in segreteria. La novità, essendo stata introdotta da quest’anno, ha costretto i dirigenti del liceo a ristampare tutti i libretti, dicendo addio a mamma e papà. Volendo essere veramente progressisti, in barba alla Costituzione e alle regole condivise, un po’ di euro spesi così non sono un problema. Anzi, «è stata una scelta delle famiglie», spiega la preside dello storico liceo Tiziana Sallusti.

Insomma, per i radical chic essere un passo avanti è una necessità, che va al di là della logica e del dibattito politico. In fondo il Mamiani è sempre il liceo di “Porci con le ali”, uno dei simboli del ’68, il liceo della borghesia di Prati, della “Roma bene” progressista e che vanta tra i suoi alunni dal Nobel Emilio Segrè ai fratelli Muccino, da Altiero Spinelli a Nicola Piovani, tanto per fare qualche nome. 

E allora «genitore 1 e genitore 2 non vuole essere un’offesa a nessuno, sia ben chiaro, meno che mai alla famiglia», spiega la preside, «non c’è nulla di più prezioso di una madre e di un padre, ma non si può fare finta di non vedere che oramai più della metà dei nostri studenti vive in famiglie allargate, dove uno dei due non è il genitore naturale, ma si prende cura del ragazzo come se lo fosse». Certo, i vertici dell’associazione Gay Center giudicano «positiva» la scelta della preside, che «va nella direzione giusta anche per non discriminare i genitori gay e lesbiche», afferma Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center .Ma se la famiglia è un bene, e un padre e una madre sono quanto di più «prezioso» c’è, come sostiene la preside del liceo Mamiani, perché eliminarli, anche solo dal libretto della giustificazioni? Al di là dell’evidente contraddizione con le parole della preside, c’è qualcosa che non torna. 

E i conti non tornano a tanti. «Ogni ragazzo nasce da un padre e da una madre», afferma Antonio Affinita, direttore generale del Moige, suscita perplessità la scelta di cancellare la parola madre e padre sui libretti di giustificazioni, peraltro senza coinvolgere, in una scelta democratica e condivisa tutti i genitori nella scuola». «Sono temi che toccano le identità delle persone, con questa scelta si discriminano i genitori che ancora si sentono padri o madri e non genitore 1 e genitore 2». Ancor più duro il commento di Fabio Rampelli, vicecapogruppo di alla Camera di Fratelli d’Italia. «Un’idiozia ideologica che Fdi contrasterà in ogni modo». A partire proprio dalla scuola.

Le nipotine delle femministe in piazza: i pannolini ai bebè non li cambiamo solo noi



di Gabriele Farro (Secolo d'Italia)


Negli anni Settanta le femministe manifestavano con le forbici in mano, come segno di insofferenza per l’organo sessuale maschile e come segno di rivolta contro quello che veniva definito il «potere fallocratico» che si era andato radicando nei secoli. Adesso, più modestamente, in Francia le “nipotine” di quella generazione di donne arrabbiate, insorgono contro la nuova segnaletica ritenuta sessista per indicare le toilette all’aeroporto parigino di Orly: il reparto fasciatoio si trova infatti nei bagni per le donne e il cartello arancione riproduce in modo stilizzato un bebè disteso mentre viene cambiato dalla mamma (una figurina con la gonna come quella usata per le toilette femminili). Per le femministe si tratta di «un simbolo inequivocabile della ripartizione dei compiti in una società patriarcale». I grandi discorsi di 40 anni fa hanno lasciato il posto a polemiche meno impegnate e più “liberatorie”: quelle che intendono rivendicare anche il dovere dei padri di effettuare un’operazione che da sempre è appannaggio delle signore in ogni latitudine e in ogni longitudine di questo pianeta. Ma le donne che si definivano “l’altra metà del cielo francese” non sono le sole ad avere manifestato la loro contrarietà sull’argomento in questione: in un articolo pubblicato su un blog del quotidiano Le Monde sono stati riportati anche gli interventi di alcuni papà per i quali questa segnaletica non è rappresentativa di un’epoca in cui “i padri cambiano i pannoloni tanto quanto le madri”. Tanto quanto… sembra un po’ troppo, ma è certo che qualcuno arriva anche a dirsi infastidito dal dovere andare a Orly nei bagni per donne per poter cambiare il proprio figlio. Più appropriati, secondo le femministe, sarebbero cartelli come quelli presenti in Danimarca in cui il bebè figura da solo e il fasciatoio è presente anche nelle toilette maschili. Come si dice, a chi tocca non si ingrugna.

martedì 19 novembre 2013

L’intervento. La vendita del patrimonio di Telecom l’ennesimo treno che perde l’Italia

di Stefano Conti (Barbadillo)

La vicenda Telecom racchiude in sé il paradigma perfetto della classe dirigente industriale e politica dell’Italietta. Il management di Telecom di questi anni si è dimostrato in larga parte quello degli sprechi, come dimostra la gestione allegra di benefit e premi, erogati anche a fronte di colossali flop commerciali, per dirigenti e manager, compresi quelli che, in qualsiasi altra azienda sarebbero stati cacciati via per manifesta incapacità.

Quello della “finanza creativa”, che gonfiava i numeri degli abbonati e delle carte prepagate per far centrare gli obiettivi legati ad un lauto riconoscimento economico, i famigerati MBO (acronimo inglese di management by objectives), sempre ai soliti dirigenti e manager rampanti. Quello delle frodi, come dimostrano le oltre 500mila sim false con il processo a Milano, con accuse varie tra cui l’associazione per delinquere, la ricettazione di documenti identità e false dichiarazioni liberatorie sul trattamento dei dati personali.

Quello che svendeva il patrimonio immobiliare, circa seicento edifici, alla Pirelli-Re Estate per poi riaffittarlo. Immobili che Pirelli avrebbe poi conferito a fondi immobiliari come Tecla e Berenice, che a loro volta sarebbero stati ricomprati dalla Pirelli insieme alla banche americane Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan Stanley, e nuovamente conferiti in una newco. Quello, arcinoto, dello scandalo relativo alle intercettazioni illegali da parte di un gruppo della sicurezza informatica aziendale durante l’era di Tronchetti Provera.

E all’indomani della presentazione del Piano Industriale 20014/16 da parte del Cda abbiamo pensato di trovarci di fronte ad una sorta di deja-vu leggendo della vendita e del riaffitto di ciò che resta dell’enorme patrimonio immobiliare e delle 12.000 torri di trasmissione (le cosiddette stazioni radio base), nonché della svendita di Tim Argentina, puntualmente realizzata dopo qualche giorno.

E sul futuro occupazionale dell’azienda è calata una cortina di silenzio. I piani di societarizzazione di Telecom in diverse aziende, o per dirla più chiaramente di spezzettare il colosso telefonico con tante cessioni di ramo, sono solo il preludio alla perdita di migliaia di posti di lavoro entro tre anni al massimo. Questo ha rappresentato fino ad ora la politica di esternalizzazioni messa in campo dall’azienda, azioni per la quale Telecom è stata ripetutamente condannata dai tribunali di mezza Italia.

In questa vicenda l’assenza della politica è a dir poco sconcertante. A rimetterci saranno ancora una volta i lavoratori e i circa 500mila piccoli azionisti risparmiatori che rappresentano l’85% del capitale, estromessi dall’emissione del prestito convertendo da 1,3 mld di euro che è stato offerto solo ai grandi azionisti come il fondo americano Blackrock (a tal riguardo vi è stata un’ispezione della Guardia di Finanza ed è stato aperto un fascicolo dalla Procura di Roma) e soprattutto l’Italia che, probabilmente, perderà l’ennesimo treno per rilanciare una parte dell’economia e ridurre i costi della P.A. attraverso gli investimenti nello sviluppo della banda larga nel “leggendario” progetto dell’Agenda Digitale.

*segretario nazionale Ugl Telecomunicazioni

lunedì 18 novembre 2013

La vita di Adele: il meschino trionfo della banalità


di Andrea Chinappi (L'Intellettuale Dissidente)

Tranche de vie, Capolavoro, Toglie il fiato, Cinema di vita: così da qualche settimana viene idolatrato il presuntuoso baluardo del nuovo cinema francese, quello della realtà, della gioventù, come ci dice il regista tunisino Abdellatif Kechiche. Si, perché di realismo si tratta in effetti nel film vincitore dell’ambita Palma d’Oro “ La vita di Adele” ma è un realismo utile, ipocrita, borghese, per i più esigenti radical-chic d’Europa. La storia di due ragazze, una lesbo-militante intellettuale e matura dai capelli blu, e l’altra che si scopre lesbo ma non militante, più giovane della compagna e più ingenua,. Cinquanta anni fa vinceva lo stesso premio un’ altra pellicola presuntuosa, nel senso felice del termine, talmente presuntuosa da far parte di una stagione tra le più importanti del cinema europeo: 1963, “ Il Gattopardo”, Luchino Visconti, Neorealismo Italiano. Kechiche non apre e non chiude nulla, non si domanda cosa fa e per chi lo fa: è un democratico, certo, perché a tutti ci è concesso di vedere le belle chiome delle bellissime attrici infilarsi tra le gambe l’una dell’altra. E poi tutti giù in strada a gridare contro un sistema che non fa dipingere i capelli di blu, che non ci permettere di spogliarci nei bar, che non regala sogni ma divieti. La politica di Kechiche è un liberalismo sfrenato che si contraddice, che si annienta nei luoghi comuni e in un’estetica e in un intreccio pedanti: paffuta, golosa e infantile una, intellettuale, artista, lesbica l’altra. Borghese e conformista Adele, radical-liberal-intellettualoide Emma. Affamata di pasta e cioccolato la prima, cita Sartre e frequenta Les Beaux Arts la seconda.Una cucina e l’altra dipinge. Ottuso e pregiudicante il contesto della castana, dove gli insulti e le paure di essere stati violati dall’amica strana dilagano tra le amiche etero, variopinto fino alla banalità ( l’amico attore che sogna l’America, le accese discussioni su Klimt e Schiele, locali gay e ritratti) il contesto della blu.

La telecamera è fissa sulla dolce bocca di Adele, che si sporca, che mastica, che si appoggia su labbra e su cose, ma che non parla. L’inquadratura è asfissiante, indaga il personaggio, lo rende reale, fa dimenticare di trovarsi nella sala di un cinema. Bisognerebbe ringraziare Kechiche per averci provocato questa illusione, ma bisognerebbe anche ricordargli che il cinema è poesia, arte, che è finzione che fa immaginare e sperare. Il tema è l’amore, non ci sono dubbi; l’obiettivo è dimostrare che l’amore lesbico non ha niente di meno dell’amore eterosessuale, anzi forse è anche meno banale. E bravo allora Kechiche, per questa etica rivoluzionaria e in qualche modo cruda. Ma dov’è questo amore? Non si parla di amore. Le due ragazze parlano con gesti disinibiti, si confrontano con occhiate maliziose, cercano il loro amore nei corpi dell’altra e lo giustificano con sogni erotici. L’estetica del film è ingiustificabile: le uniche scene girate non in primo piano sono le scarne sequenze in cui il regista tunisino ci spiega come due ragazze lesbiche fanno sesso, che sanno anche avere orgasmi come noi, banali eterosessuali, perfettamente simmetriche e compatibili, capacissime e fiere. Il messaggio è: modernismo e libertà! Liberi di amare chi si voglia, ma che abbia i capelli blu e che facciate un bel po’ di sesso. La durata del film si aggira sulle tre ore, poco meno di un Titanic e più de “ Il Gladiatore”, la musica è completamente assente e le interminabili scene animalesche e assolutamente pornografiche ( il film è vietato solo ai minori di 12 anni!) in cui le giovani donne si amano rendono voyeur anche lo spettatore più innocente, danno fastidio anche a quello più abituato. Femministe di tutto il mondo dove siete ora? Non eravate contro la mercificazione della donna? Eccolo lì il corpo giovane delle due ragazze venduto come arte aggiudicarsi il premio per il miglior azzardo e a omaggio di una legge che non a caso fu varata un mese prima dell’uscita del film.

Insieme al recentissimo “ Giovane e Bella” del regista François Ozon, il film del franco-tunisino Abedellatif Kechiche rappresenta la nuova frontiera del cinema francese, fatto di gioventù svogliata, interessata ma non interessante, di corpo ( assolutamente nudo), di sesso per soldi o per amore, e di quella sfumatura dubbiosa, enigmatica, irrisolta che chiude e purtroppo legittima il senso di entrambe le opere.

Alitalia in picchiata


di Giuliano Augusto (Rinascita)


Perché sottoscrivere un aumento di capitale al buio, quello di Alitalia per 300 milioni di euro, che servirà soltanto a prendere tempo prima dell’inevitabile tracollo patrimoniale e finanziario, quando è invece molto più semplice non fare nulla ed aspettare che la compagnia di bandiera italiana crolli e si trasformi in una filiale della consorella di oltralpe? Questo si sono detti i dirigenti di Air France-Klm che non hanno alcuna intenzione di mettere mano al portafoglio per salvare una situazione che è considerata irrimediabile. Un no deciso a partecipare all’aumento di capitale ( in tal modo i francesi scenderanno dal 25% al 10%) ed uno altrettanto deciso no al piano industriale. Un no accompagnato da considerazioni tra il salomonico e la presa in gira visto che una nota dei franco-olandesi afferma che Air France-Klm “conferma il suo impegno a restare un partner leale e serio di Alitalia, nella continuità della partnership industriale in corso”. Della serie: tanto alla fine Alitalia diventerà una filiale di Air France. Non è un caso che senza l’apporto di Parigi aumenterà l’impegno dei soci bancari (Intesa-SanPaolo) ed in tal modo sarà reso meno indolore il momento nel quale gli stessi si libereranno delle proprie quote azionarie che verranno indicate come “non strategiche”.
Come previsto, il piano industriale è improntato al principio delle “lacrime e sangue” e come tale in grado di tagliare massicciamente i posti di lavoro (all’inizio si parlava di 4 mila esuberi, ora sono “soltanto” 2 mila) e di cancellare o ridurre molti voli nazionali, si parla di un totale di 19, specie su tratte senza troppi passeggeri (vedi la Roma-Venezia dove un volo giornaliero verrà soppresso). Il piano industriale prevede, bontà sua, un rafforzamento delle tratte internazionali ed intercontinentali che poi sono quelle che assicurano i maggiori ricavi. Ma poi contiene la riduzione delle retribuzioni di circa un 20% sia per gli equipaggi che per il personale a terra. Verranno tagliati 6 voli giornalieri sulla Roma-Milano e 2 sulla Roma Catania. Il no di Air France è stato giustificato con la considerazione che si tratta di un piano troppo ambizioso e per realizzarlo occorre confrontarsi con tanti soggetti, soprattutto per quanto riguarda “le indispensabili misure di ristrutturazione finanziaria” che non sono ancora presenti. Appunto. Resta infatti il problema dei soldi freschi in arrivo per compensare anni di esercizi in perdita. In mancanza dell’apporto finanziario dei franco-olandesi, e in attesa della decisione “ufficiale” di Poste Italiane, il diritto di prelazione sulle azioni inoptate è stato spostato a mercoledì 27 novembre. Sulla carta infatti il piano industriale va nella direzione giusta, quella di ridurre i voli sul breve e medio raggio e di aumentare al contrario quelli internazionali ed intercontinentali. Il nocciolo del problema è qui, in questa nuova fase che ristabilirebbe una prospettiva di potenziale risanamento finanziario. Ma che proprio per questo non piace ad Air France-Klm che, contrariamente alle dichiarazioni di facciata che ostentano rispetto per il presente ed il futuro di Alitalia, vorrebbe ridurla al livello di compagnia regionale, i cui aerei al massimo volano in Europa. Una filiale di Air France destinata inevitabilmente a scomparire per fusione o incorporazione dentro il gruppo franco-olandese. Con tutti i prevedibili danni potenziali anche per le nostre esportazioni.
A tenere banco nel frattempo è la veemente protesta dei sindacati che hanno annunciato una dura protesta nel caso dei 2 mila-4 mila esuberi annunciati. Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, ha sostenuto che è assurdo parlare di esuberi senza un piano industriale. Si tratta delle stesse rimostranze che la Cisl si è ben guardata dal fare in presenza del pseudo piano industriale della Fiat che dal punto di vista occupazionale è stato catastrofico.
Senza Air France, almeno per il momento, si sono rifatte sotto Aeroflot, Air China ed Etihad, la compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti. Se i cinesi appaiono interessanti ed interessati nell’ottica del rafforzamento italiano in un mercato dalle enormi potenzialità, i dirigenti di Aeroflot hanno detto che potrebbero diventare soci, e poi forze soci di maggioranza, soltanto sulla base di un serio piano industriale e finanziario, visto che a Mosca si pensa che Alitalia sia complementare al mercato russo.

venerdì 15 novembre 2013

ENNESSIMO RAID ANTIFASCISTA A CASAGGì FIRENZE: QUALCUNO VUOLE ALZARE I TONI?


In questi giorni, con i soliti pretesti, l'ambiente antagonista ha deciso di rialzare i toni e ricominciare a praticare l'antifascismo nelle sue forme più naturali, cioè quelle della minaccia e del vandalismo notturno. In cinque giorni Casaggì è stata oggetto di due raid, entrambi compiuti in piena notte, che hanno sporcato le mura. Le scritte, una delle quali è riportata sopra, sono un triste revival degli anni di piombo: il richiamo alle P38, a pochi giorni dal duplice omicidio di Atene, suona emblematico e paradossale al tempo stesso. Domani, poi, i centri sociali hanno indetto un corteo antifascista che partirà da Piazza Savonarola alle ore 15. Restiamo convinti, come sempre, che non si debba cedere di un metro alle provocazioni. Ringraziamo i consiglieri comunali e regionali di Fratelli d'Italia per la solidarietà espressaci e riportiamo per intero il loro comunicato.

FRATELLI D'ITALIA: "VERGOGNOSE LE SCRITTE CHE INNEGGIANO ALLE P-38 DI FRONTE ALLA SEDE DI VIA FRUSA". "QUALCUNO GIOCA AD ALZARE I TONI DELLE SCONTRO POLITICO, MA SU CERTE COSE NON SI SCHERZA"...

Queste le dichiarazioni del consigliere comunale Francesco Torselli e dei consiglieri regionali Giovanni Donzelli e Paolo Marcheschi di Fratelli d'Italia:

“Per la seconda volta in pochi giorni, anche oggi, i militanti del Centro Sociale di destra "Casaggì Firenze" hanno trovato la facciata della sede di Via Frusa, che ospita il movimento, coperta di scritte spray (così come anche altri edifici vicini) contenenti offese e minacce.

Nei giorni scorsi i ragazzi avevano reagito responsabilmente all'ennesima bravata notturna di qualche annoiato cronico, armandosi di vernice e pennello e cancellando gli insulti, ma questa volta abbiamo deciso di denunciare noi l'accaduto, vista la gravità delle minacce comparse sui muri. Leggere inni alla P-38 fa venire i brividi, oltre a riportarci alla mente periodi troppo bui della storia recente del nostro paese e crediamo che queste cose non possano passare inosservate. 

Temiamo che qualcuno abbia interesse nell'alzare i toni dello scontro politico, magari per distogliere l'attenzione da una situazione politico-governativa disgraziata che sta imbalsamando il paese. Siamo convinti che su certe cose non siano ammessi lo scherzo e la goliardia ed esprimiamo ovviamente tutta la nostra solidarietà ai ragazzi di Casaggì ed ai militanti di Fratelli d'Italia che si ritrovano ogni giorno nella sede di Via Frusa”.