domenica 30 giugno 2013

Fight Club non è solo un film


..non c’è nessuno che ti costringa a seguire quello che sei, e quello che sei non conta più, perché tanto la vita è solo una lunga attesa della morte, un lungo tentativo inutile di sopravvivenza. Inutile perché il corpo vive, ma le facoltà intellettuali muoiono ogni giorno, schiacciate sotto al peso dei soldi, del lavoro che non hai mai voluto fare, dei politici che non ti rappresentano e degli oggetti che ti fanno sentire ricco, benestante, ma che alla fine ti rendono solo un umile schiavo, che correndo all’impazzata diventa solo un fantoccio delle multinazionali, delle banche, le cui uniche leggi non sono morali ma sono quelle dell’ obsolescenza programmata, della sopraffazione, dell’isolamento, dell’obbedienza e della distruzione.



Fight Club: inizialmente romanzo introspettivo e pungente di Chuck Palahniuk e successivamente ispirazione per il celebre prodotto cinematografico ormai decennale firmato da David Fincher dalla posizione altrettanto critica verso una società eccessivamente fondata sul sistema bancario, consumistico e lontana dalle esigenze delle persone.

Apparentemente risulta illustrazione di un forte disagio individuale, un’invadente esplorazione della coscienza e della psiche di un impiegato, uno come tanti, intrappolato in uno sporco sistema di assicurazioni che calcola il valore della vita umana in dollari, sottostando ad un triste algoritmo comprendente numero di morti in incidenti d’auto, futuri rischi di incidente e relativi guadagni o perdite derivanti dal ritiro dal mercato di automobili mal fabbricate e insicure. L’impiegato, oppresso dal suo lavoro sintomo della malattia che un mercato infetto ha diffuso nella civiltà, soffre di insonnia, e vive in un continuo dormiveglia nemmeno degno di essere chiamato vita perché ‘’con l’insonnia niente è reale. Tutto è lontano. Tutto è una copia di una copia di una copia…’’. Per quante persone la vita è una copia, magari di una brutta copia, di un modello imposto dall’alto e di cui i primi beneficiari non sono certo loro stessi? All’inizio l’uomo cerca di curare il suo ‘male di vivere’ con una sorta di shopping therapy, comprando in maniera quasi maniacale mobili di Ikea, come se la creatività impiegata nel suo appartamento potesse in qualche modo distinguerlo dagli altri. Esamina costantemente il catalogo e compra, compra, compra chiedendosi‘‘Quale tipo di salotto mi caratterizza come persona?’’: ovviamente non funziona. Quello che a tanti può sembrare una sorta di riscatto o di rivincita è in realtà l’ennesima catena che ci stringe: anche un colorato appartamento può diventare una prigione se al di fuori di esso la personalità non si sviluppa e ‘’le cose che possiedi alla fine ti possiedono’’. L’unico modo per uscirne e dormire sonni tranquilli è visitare i gruppi parrocchiali di malati terminali, affetti da malattie di vario genere, e stringerli, abbracciarli, non certo per compassione, bensì per egoismo, e assaporare, oltre al prominente seno di Bob (un massiccio uomo affetto da cancro ai testicoli) il loro dolore, immergersi nella tristezza dell’abbandono. Proprio così, i malati sono emarginati e vivono per l’incontro settimanale con altri malati. L’abbandono dei figli, delle mogli, dei colleghi, i malati sono abbandonati dal mercato del lavoro, dalla società, e nell’oscura saletta parrocchiale sembrano abbandonati dallo stesso spirito vitale che tanto vitale non è. Estraniarsi dal suo dormiveglia e fingersi malato per osservare e vivere del dolore altrui, sì, proprio da osservatore, in una sorta di consolazione all’insegna del ‘‘c’è chi sta peggio di me’’ è la soluzione ideale per l’impiegato. Finché non incontra Marla, che come lui è sana fisicamente, non per questo estranea a una forte spaccatura psichica, e che disturba il suo metodo rinchiudendolo nuovamente nella stretta gabbia dell’insonnia e privandolo del benessere guadagnato dalla sofferenza altrui, rendendolo consapevole che lui non è altro che un impostore, fautore di una folle e falsa messinscena.

Ma non è abbastanza, tanto che l’insonne viene affiancato da un alter ego rivoluzionario, menefreghista, assolutamente anticonformista,impulsivo e pressoché nichilista Tyler Durden, uno che alle regole della società che opprime l’impiegato non ci sta. Lui produce ‘sapone’, vive in una casa abbandonata e viene visto dal protagonista come un alternativa allo schifo di tutti i giorni. Quando ‘misteriosamente’ il colorato appartamento dell’impiegato è luogo di una violenta esplosione inizia la convivenza con Tyler. E’ l’inizio del Fight Club. Il protagonista e Tyler danno vita a una serie di combattimenti clandestini e segreti. Sempre più persone sono coinvolte. L’impiegato capisce di non essere il solo a sentirsi alienato dalla propria esistenza. La violenza funge da antidoto alla monotonia quotidiana, al mancato riscatto della maggior parte degli individui. Potente valvola di sfogo sicuramente, ma per Tyler non è abbastanza. Lui punta a una vera e propria rivoluzione. Ma Tyler non è nient’altro che l’altra faccia dell’impiegato, quella nascosta, arrabbiata, esasperata, a cui non importa più nulla né delle assicurazioni né tantomeno di Ikea. Il Fight Club si trasforma nel ‘progetto Mayhem’ e non si parla più di lotte clandestine, ma di battaglie, combattute dichiarando guerra al sistema, alle banche, ai luoghi di lavoro.

Lo stesso impiegato sottomesso è incarnazione dell’ inetto sveviano e, con il prodotto del suo subconscio Tyler, dichiara guerra alla società che lo ha ridotto un solo corpo, con due anime o forse nessuna. I lottatori si trasformano in esercito, non ci sono regole se non quella di abbattere il sistema. Il sapone diventa esplosivo. Un vortice trascinatore che porta confusione, lutti, altra violenza, vandalismo; una dinamica alla quale difficilmente si riesce a stare dietro, vortice che comincia con una pistola puntata in bocca e si conclude allo stesso modo. L’evoluzione del pensiero di Tyler è coinvolgente, è sicuramente sintomo di rottura con il sistema corrotto che con la sua corruzione miete milioni di vittime, che si identificano con ragazzi, padri di famiglia, medici, professori, artigiani, artisti…tutti quanti.

Isolamento, alienazione, perdizione, esasperazione, rabbia, violenza, oppressione, assicurazioni, banche, malattie, frustrazione, abbandono, caos, estraniamento, collasso: un quadro tutt’altro che ottimista quello della società che Palahniuk propone. Ma sono termini che si trovano solo nel film o nel romanzo? Oppure ci appartengono più di quanto pensiamo? E allora si parla di un racconto frutto della fantasia di uno scrittore pessimista oppure dei risultati a cui una società con i suoi aspetti negativi portati agli estremi può condurre?

E allora si comincia a sentire una voce, simile a quella di Tyler, che ti spinge a voltare le spalle a questo maledetto sistema, a questi sballatissimi criteri di giudizio, a questa infinita e insensata classificazione delle persone in classi sociali, politiche, economiche e quant’altro. Quella voce ti grida che ‘’Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!’’ Non contano i sogni, le ambizioni, i meriti, i talenti e tutte quelle cose su cui ruotano polemiche e dibattiti in questo mondo in crisi, dove la crisi più in rilievo è quella economica, non quella di valori, non quella dell’individuo, non quella della mala distribuzione delle risorse; no è la crisi economica quella intorno a cui gira tutto. E quindi si danza e si canticchia nello stesso mondo in cui si è costretti a puntare la pistola alla nuca di un cassiere immigrato e minacciarlo di ucciderlo nel caso in cui non prosegua i suoi studi da veterinario e insegua il suo sogno. Ma a parte Tyler, frutto di una mente collassata, non c’è nessuno che ti costringa a seguire quello che sei, e quello che sei non conta più, perché tanto la vita è solo una lunga attesa della morte, un lungo tentativo inutile di sopravvivenza. Inutile perché il corpo vive, ma le facoltà intellettuali muoiono ogni giorno, schiacciate sotto al peso dei soldi, del lavoro che non hai mai voluto fare, dei politici che non ti rappresentano e degli oggetti che ti fanno sentire ricco, benestante, ma che alla fine ti rendono solo un umile schiavo, che correndo all’impazzata diventa solo un fantoccio delle multinazionali, delle banche, le cui uniche leggi non sono morali ma sono quelle dell’ obsolescenza programmata, della sopraffazione, dell’isolamento, dell’obbedienza e della distruzione.

Distruzione, è proprio questa quella che ottiene Tyler con il Progetto Mayhem (‘Progetto Caos’ nel libro). La distruzione di sé stesso, in un folle dialogo su uno dei piani alti di un grattacielo, tra lui, quello a cui non importa di morire, quello che ‘tanto il sistema si può abbattere’, e l’altra parte, quella che con il sistema ci convive, che in fondo in fondo della ribellione ha paura. E’ l’esplosione delle sedi dei maggiori istituti di credito l’obiettivo di Tyler, e da quel grattacielo ci si può godere lo spettacolo. Il dialogo diventa scontro tra le due facce opposte di un individuo che non ha retto il peso del sistema, individuo che a sua volta viene sopraffatto da sé stesso, talmente la società l’ha indebolito, che si rassegna, e che alla fine, quasi con aria serena, si gode il belvedere dell’implosione dello stesso mondo che l’ha oppresso, della metaforica distruzione dei pilastri della società completamente sbagliata in cui è nato.

Antonino De Stefano  (L'Intellettuale Dissidente)

sabato 29 giugno 2013

Comunità: l'ultima speranza...



di Alessio Mannino

L’attualità fa pena, e mi riferisco in particolare a quella italiana, paludosa, noiosa, deludente, avvilente. Mi scuseranno i lettori se oggi mi prendo una pausa dal commentare i fatti di politica interna e parlo di un oggetto scomparso dall’orizzonte del dibattito quotidiano: la filosofia. Sia chiaro: da orecchiante, quale è il sottoscritto.

La filosofia dovrebbe essere, assieme alla storia, la base culturale di un buon cittadino che vuole impegnarsi in prima persona nell’attività più alta: la politica.
In questi tempi di passioni tristi e ignoranza crassa, il personale politico non solo ha mediamente una cultura generale bassa, ma in genere sa quattro acche in croce di due materie che a scuola vengono relegate ad un ruolo secondario, inferiore all’inglese idioma della globalizzazione opprimente. Questo perché le conoscenze umanistiche, e in particolar modo le due materie di cui sopra, nonostante il bla bla dei convegni sono shit, per le esigenze del dio Mercato. E in Italia siamo ancora a livelli sopportabili, pensate un po’.

Ecco, vorrei parlare proprio dell’ideologia dominante dell’Economia (capitalismo assoluto, la chiama sulla scia di Preve l’ottimo Fusaro, uno dei pochi nouveau philosophes critici del piattume imperante: leggetevi il suo “Minima mercatalia”). Per contrastarla serve un pensiero forte da contrapporle. Ma niente sofismi, teoremi e sistemi: urge una filosofia d’azione, nel senso più ampio: filosofia politica e di vita. Perché contro l’irrazionalità del nostro modo di vivere, molto razionalista ma folle nel suo ridurre ogni cosa al costo di mercato, l’unica via di salvezza può essere la saggezza, una sapiente costruzione di concetti teorici e regole pratiche basate sul sentimento, sull’istinto di comunità, sugli insegnamenti della natura.

Di una rivoluzione come restaurazione necessitiamo come il pane. Un ordine interiore e comunitario insieme, perché gli sdegnosi “autarchi” chiusi nel proprio io non sono che il rovescio snob dell’individualismo gretto e pecoraio. Rivoluzionario, perché distruttore dell’esistente fin nella sua più intima logica, che è l’arida contabilità del denaro. Restauratore, perché in latino “rivoluzione” significa ritorno, e l’uomo post-moderno non deve fare altro, in fin dei conti, che riscoprire i suoi bisogni più elementari e umani, resi irriconoscibili dall’edonismo pompato da un’economia in perenne sovraccarico.

Il nostro non è il tempo per costruire: è il tempo per distruggere. Ma per poter fare tabula rasa dei falsi idoli, alle masse occorrono valori in base ai quali usare il martello, e per crederci bisogna vedere una luce in fondo al tunnel. La luce è una visione del mondo, fatta di poche semplici idee che chiunque possa capire e fare proprie perché le sente sue. Bando all’intellettualismo, dunque, per quanto lucido e veritiero. Abbiamo sete di una terra promessa a cui aspirare. Non un altro sol dell’avvenire o paradiso terrestre, non l’ennesimo “uomo nuovo” o impero millenario. Quel che manca per far ri-circolare il sangue nelle vene è un mito da interiorizzare, un orizzonte ideale che metta in moto la volontà, che dia l’immagine plastica della liberazione.

Mito: attenzione, non tanto, o non solo, in senso soreliano, cioè come méta irrazionale, motore di azione politica anzitutto, nel senso originario. Mito, di credenza mistica nella propria radice: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’animo umano», scriveva Simone Weil. La libertà sbracata in licenza nasconde in realtà la manipolazione più totalitaria che sia mai esistita – l’illusoria libertà di consumare l’esistenza come una merce. La direzione opposta è il recupero dell’etica. Volendo tradurre questo concetto in ambito sociale, il suo significato sta nel dotarsi del fine proprio dell’uomo-animale politico: la virtù. Bisogna tornare ad Aristotele, ricavandone l’insegnamento utile a sanare la malattia moderna dell’individualismo. Questo insegnamento, come hanno osservato già da alcuni decenni gli esponenti della corrente neo-aristotelica (non casualmente sorta negli Stati Uniti), può essere definito con la formula di comunitarismo.

Con il fallace argomento che la mia libertà finisce dove comincia quella altrui, restringono sempre di più la mia fino a schiacciarla. La Libertà è semplicemente poter esprimere ciò che si è. Il suo limite non sta nella libertà del prossimo, ma nei beni comuni, ovvero nel corpus di regole, di soggetti e di oggetti appartenenti alla comunità. Questa storia per cui posso fare tutto quel che mi pare purché non rechi danno al mio dirimpettaio presuppone una società di individui separati, isolati, auto-centrati, totalmente presi da sé stessi. È la concezione del singolo come privato, privo di legami, atomo indipendente e assoluto. Una monade leibniziana, o se si preferisce un idiota in senso greco.

Puro delirio. Gli esseri umani di ogni epoca e latitudine non sono mai venuti al mondo senza un padre e una madre, senza una famiglia, senza una società d’appartenenza, senza tradizioni, costumi, modi e visioni di vita predeterminati. Cioè senza quei fatti, dati a priori, che prescindono dal concepimento e dalla volontà. Ciascun uomo e ciascuna donna s’inserisce fin dal suo primo vagito in una trama di ciò che è venuto prima di lui o di lei, e non potrebbe essere diversamente. Il liberalismo, ideologia giustificatrice del borghese capitalista, assume invece come pre-giudizio un individuo che viene dal nulla e diviene “qualcosa” (che so: un adoratore di Satana o un geometra) esclusivamente per suo insindacabile arbitrio. Ora, questa, oltre ad essere una stupidaggine infondata e materialmente infattibile, è una belluina truffa filosofica, che come tutte le truffe danneggia il truffato, ossia chi ci crede. La sostanza che rende umano un uomo è, al contrario, la sua predisposizione alla socialità.

Solo una bestia o un dio può vivere da solo. L’uomo è, per sua natura, un animale politico. Chiaro che gli uomini, insomma, sono mediamente dei pochi di buono, guicciardinianamente fissati sul proprio particolare. Ma su questa parte individualistica, distruttiva, ferina, fa aggio di gran lunga l’altra, l’animale sociale, che si accorda, coopera, cerca il calore e la sicurezza di un insieme più grande, fa progetti e immagina opere impossibili da realizzare senza il concorso altrui.

Attenti: non è l’idealizzazione rousseauiana del buon selvaggio. Ambizione, gloria, sete di ricchezza, fame di potere, ricerca del piacere sono tutti potenti stimolanti del comunitarismo, a patto di essere limitati e incanalati al servizio della collettività. Né Hobbes né Rousseau, ma il vecchio, insuperato e buon Aristotele, che andrebbe recuperato su tutta la linea per ciò che riguarda l’etica e la politica. Pensare che ogni capacità abbia un fine che si tratta di scoprire e sviluppare al meglio, a mio parere costituisce il più onesto e bel modo di battere la disperazione del non-senso. Onesto, perché se pure, se fossimo nichilisti, presupponessimo che ogni senso, ogni ideale, ogni virtù morale è una pia illusione mistificatrice, individuare comunque una finalità interna e immanente a ciascun essere, vuol dire essere sinceri e avere i piedi per terra.

Ora, se l’ottica giusta è, realisticamente, estrarre dalla politica il suo senso intrinseco, questo non può che essere il vivere bene assieme, lo stare bene in comunità: il Bene comune. Presupposto indispensabile per metterlo in pratica è la libertà. L’uomo libero è colui che si auto-governa, che è contemporaneamente sovrano e suddito, ossia cittadino. La condizione di libero sfocia necessariamente nella ricerca di obbiettivi ritenuti validi e positivi per tutta la cittadinanza, perché altrimenti non avrebbe alcun senso, sarebbe una libertà vuota, visto che si agisce sempre in un dato contesto sociale. Si potrebbe dire: libero di far che, se non di realizzare il proprio valore secondo i valori del gruppo cui si appartiene? Sulla scia del filosofo del Liceo, il neo-comunitarista americano MacIntyre sintetizza alla perfezione questo concetto: «il mio bene in quanto uomo coincide assolutamente con il bene di quegli altri con cui sono legato in una comunità umana».

Ecco la via per superare la falsa dicotomia fra interesse privato e collettivo: la loro è una coincidenza di principio. Più mi impegno per fare il bene del mio prossimo, più faccio il mio. Più sono libero di essere me stesso, nel senso di coltivare il mio valore, maggiore è il servizio che rendo alla comunità. È un ribaltamento totale rispetto alla mentalità utilitaristica del liberale: per costui il pericolo da sventare è danneggiare l’altro, dando per scontata un’innata asocialità smentita dai fatti, mentre per il comunitarista la bussola è la libertà che diventa concreta e trova senso in attività associative e pubbliche, in scopi comuni con gli altri cittadini. Una libertà nella comunità, non fuori di essa o contro di essa.

Di qui il rifiuto radicale della grettezza, tipicamente moderna, di ridurre tutto ad una valutazione in termini di costi e ricavi, di profitti e di perdite. L’economia elevata a criterio totalizzante della vita sulla Terra: ecco l’ideologia del nostro tempo. A cui va contrapposta l’humanitas, l’etica dei valori intesi come l’eccellenza in ciascun campo. In politica, questo richiede «la capacità di giudicare e di fare la cosa giusta nel luogo giusto, al momento giusto e nel modo giusto» (MacIntyre). Non essere ricchi, belli, telegenici, raccomandati, ma bravi nelle competenze necessarie a fare politica: saper scrivere, saper parlare, conoscere la storia e le leggi, capire le esigenze popolari, immaginare soluzioni. E, prima e al di sopra di tutto ciò, lottare per il bene collettivo attraverso il conflitto tra idee – questa è la sola ragione per preferire la democrazia a sistemi di addomesticamento politico: perché dovrebbe permettere ai migliori di emergere nell’agone politico.

Il nuovo Umanesimo passa di qui, e solo di qui. E da domani torniamo a parlare del volgo profano.

venerdì 28 giugno 2013

Equitalia “blocca” il conto a un pensionato di Voghera. E da oggi c’è il Grande fratello sui conti correnti...

di Guido Liberati


L’ultima notizia choc su Equitalia arriva da Voghera. Un pensionato di 74 anni che è andato all’ufficio postale per ritirare i suoi 600 euro mensili e si è visto rifiutare la pensione, bloccata dal braccio operativo dell’Agenzia delle entrate. A dare la notizia il quotidiano La Provincia Pavese, che ha ricostruito la vicenda: il pensionato, G.S. è un ex commerciante, che nel corso dell’attività ha accumulato più di una tassa non pagata. Tra mora e arretrati il debito ha superato quota 40mila euro senza. Il pensionato non aveva beni immobili, quindi «l’esattore, a quel punto – scrive il giornale – ha tirato le somme e il denaro è andato a cercarlo nel solo posto dove poteva trovarlo, cioè sul conto corrente di G.S., tremila euro di sudati risparmi, unica fonte di entrata la pensione mensile».

La notizia arriva nel giorno in cui diventa attivo il nuovo Sid (Sistema interscambio dati) che permetterà all’Agenzia delle entrate di acquisire automaticamente le informazioni sui conti correnti degli italiani dagli operatori bancari. Secondo i dati forniti da Equitalia ammontano a 545 miliardi di euro gli arretrati accumulati dal 2000 ad oggi che l’agenzia del fisco dovrebbe riscuotere dagli italiani. A parziale consolazione dei contribuenti le nuove disposizioni contenute nel decreto del Fare che ha rimodellato l’attività della spa. Il decreto prevede innanzitutto l’allungamento dei tempi per rientrare dei debiti con il fisco. Fino ad oggi era prevista la possibilità di rateizzare per 72 mesi (rinnovabili per altri 72 se la situazione del contribuente peggiorava). Ora si arriva fino a 120 rate, cioé a 10 anni e si perde il beneficio se si saltano non più 2 rate ma 8. Entro settembre dovrà inoltre essere ridefinito il finanziamento di Equitalia, dove le spese per gli agenti di riscossione vengono attualmente coperte con un aggio all’8 per cento sulla somma riscossa (4,65% dal contribuente e 3,35% dall’ente che riscuote). Più di tutto però il decreto dispone l’impignorabilità della prima casa. Nella speranza che, episodi come quello denunciato dal pensionato vogherese, non si ripetano.

giovedì 27 giugno 2013

Scritti su Venner. Il ricordo di de Benoist: “Lo stile di un cavaliere dal cuore ribelle”

Le ragioni per vivere e le ragioni per morire sono spesso le stesse. Tale fu innegabilmente il caso di Dominique Venner che agì cercando di conciliare profondamente la sua vita e la sua morte. Scelse di morire nella maniera che, diceva, costituisse la via d’uscita più degna in certe circostanze ed in particolare lì dove le parole risultano impotenti nel descrivere ciò che si prova.

da barbadillo.it

* Stesso stile per vivere e per morire. Traducendo il discorso che Alain de Benoist ha pronunciato nella commemorazione parigina per Dominique Venner,Barbadillo.it prosegue nella diffusione di cultura non conformista e testimonia una via differente nel mondo delle idee: quella degli “eroi dell’Iliade” che “non dispensano alcuna lezione morale, forniscono esempi etici e l’etica non è certo dissociabile da un’estetica”. Venner aveva scelto di vivere come un cavaliere che “marcia e marcerà, continuerà sempre a marciare verso il suo destino, verso il suo dovere, tra la morte e il diavolo”. (michele de feudis)





Il ricordo di Alain de Benoist
Dominique Venner è morto alla fine come aveva vissuto, nella stessa volontà, nella stessa lucidità, e ciò che colpisce maggiormente tutti coloro che l’hanno conosciuto è vedere fino a che punto tutta la sua condotta di vita si pone in una linea sia chiara che diretta, una linea perfettamente rettilinea, di un’estrema dirittura.

L’onore oltre la vita

Il gesto compiuto da Dominique Venner è evidentemente dettato dal senso dell’onore, l’onore oltre la vita, e, anche gli stessi che per ragioni personali o meno, rinnegano il suicidio, gli stessi che al contrario di me non lo reputano degno, devono rispettare il suo gesto, poiché si deve rispettare tutto ciò che è fatto per senso dell’onore.

Non vi parlerò di politica. Nel luglio 1967, Dominique Venner aveva definitivamente rotto con tutti i tipi d’azione politica. Osservava, da osservatore attento, la vita politica e faceva conoscere, ben inteso, il suo sentimento. Ma credo che l’essenziale per lui fosse altrove, e molte cose già dette lo mostrano tutt’oggi fortemente.

Al di sopra di tutto Dominique Venner poneva l’etica e questa prima considerazione era già sua fin dai tempi in cui era un giovane attivista. E’ rimasta sua, finché a poco a poco il giovane attivista si è trasformato in storico, storico meditativo, come si definiva. Se Dominique Venner s’interessava fortemente ai testi omerici che riconosceva come testi fondatori della grande tradizione immemoriale europea, riteneva che l’Iliade e l’Odissea fossero innanzitutto ( l’) etica: gli eroi dell’Iliade non dispensano alcuna lezione morale, forniscono esempi etici e l’etica non è certo dissociabile da un’estetica.

E’ il bello che determina il bene

Dominique Venner non faceva parte di coloro che credono che il bene determini il bello, era tra coloro che pensano che il bello determini il bene; credeva nell’etica ed i giudizi che aveva sugli uomini non erano in funzione delle loro opinioni o idee, ma in funzione della loro più o meno grande qualità d’essere, in primis, di quella qualità umana per eccellenza che riassumeva nel termine: compostezza.

La compostezza

La compostezza è un modo di essere, un modo di vivere e di morire. La compostezza è uno stile di vita di cui aveva ben parlato ne “Il Cuore ribelle”, il suo libro apparso nel 1994 e sicuramente anche in tutte le sue opere, penso più in particolare al libro che aveva pubblicato nel 2009 sullo scrittore tedesco Ernst Junger; in questo libro Dominique diceva molto chiaramente che, se Junger ci offriva, ci offre un grande esempio, non è solo attraverso i suoi scritti ma anche perché quest’uomo, che ha avuto una vita così lunga e che è morto a 103 anni, non ha mai disatteso le esigenze della compostezza.

Dominique Venner era un uomo riservato, attento, esigente e prima di tutto esigente con sé stesso; aveva interiorizzato in qualche modo tutte le regole della compostezza: mai lasciarsi andare, mai esporsi, mai mostrarsi, mai commiserarsi perché la compostezza richiama e si allinea alla misura. Evidentemente, non appena si evoca tutto ciò, si rischia di apparire agli occhi di molti come l’abitante di un altro pianeta. Nell’epoca degli smartphones e dei Virgin Megastores, parlare di obiettività, di nobiltà di spirito, di altezza dell’anima, di compostezza, vuol dire utilizzare parole il cui senso stesso sfugge a molti, ed è senza dubbio la ragione per cui i Beoti e Lillipuziani che redigono quei bollettini parrocchiani del (ben-pensare), divenuti i grandi e potenti media, oggi sono stati incapaci in larga parte di comprendere il senso stesso del suo gesto che hanno cercato di spiegare con considerazioni mediocri.

Una forma di protesta contro il suicidio dell’Europa

Dominique Venner non era né un estremista, né un nichilista, né soprattutto un disperato. Le riflessioni sulla storia alle quali aveva dato sfogo in un così lungo tempo, l’avevano portato, al contrario, a sviluppare un certo ottimismo. Ciò che pensava della storia è che essa è imprevedibile, che è sempre aperta, che fa gli uomini e che la volontà degli uomini la fa ugualmente. Dominique Venner rifiutava il fato e tutte le forme di disperazione.

Direi paradossalmente, poiché non lo si è sottolineato sufficientemente, che il suo desiderio di morte era una forma di protesta contro il suicidio, un modo per protestare contro il suicidio dell’Europa al quale egli assisteva da tempo.

Un samurai d’Occidente

Dominique Venner non era più un nostalgico, ma era un vero storico che s’interessava, di certo, al passato in vista del futuro; non faceva dello studio del passato una consolazione o un rifugio; riteneva semplicemente che i popoli che dimenticano il proprio passato, che perdono la coscienza stessa del proprio passato, si privano con essa di un avvenire. L’uno non sussiste senza l’altro: il passato e il futuro sono due dimensioni dell’attimo presente ma non importa quali: delle dimensioni del profondo. Di conseguenza a Dominique Venner giungeva alla mente una serie di immagini e ricordi. Aveva il ricordo di eroi e di Dei omerici; aveva il ricordo dei vecchi Romani, di coloro che l’hanno preceduto sulla via della morte volontaria: Catone, Seneca, Regolo e tanti altri. Aveva in memoria gli scritti di Plutarco e le storie di Tacito. Aveva in testa il ricordo dello scrittore giapponese Yukio Mishima, la cui morte per molti aspetti somiglia profondamente alla sua e non è certamente un caso che il libro che avrebbe pubblicato, che sarebbe apparso di lì a qualche settimana e che sarà pubblicato da Pierre-Guillaume de Roux s’intitoli “Un samurai d’Occidente”: un samurai d’Occidente! Nelle immagini di copertina di questo libro, si scorge una figura, un’incisione: “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”, di Dürer. Dominique Venner ha scelto questa incisione volutamente. E’ a questo personaggio del cavaliere che Jean Cau, da un po’ di tempo, aveva consacrato un libro ammirevole che portava peraltro questo titolo: “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”. In una delle sue ultime cronache, redatte qualche giorno prima di morire, Dominique Venner ha scritto precisamente un testo in omaggio a questo cavaliere che, lui dice, marcia e marcerà, continuerà sempre a marciare verso il suo destino, verso il suo dovere, tra la morte e il diavolo.

Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo: inciso da Dürer nel 1513

Ecco cosa volevo dirvi in ricordo di Domique Venner che ora è partito in una grande caccia selvaggia, in un paradiso dove si vedono volare le oche selvagge. Lo conoscevo da cinquant’anni e coloro che l’hanno conosciuto dicono senza alcun dubbio che hanno perso un amico; credo che abbiano torto, credo che debbano sapere che dal 21 maggio 2013 alle ore 14:42 Lui sarà ormai necessariamente sempre là. Sempre là accanto ai cuori ribelli e spiriti liberi paragonati da sempre all’eterna coalizione dei Tartuffe, Trissotin e Torquemada.

(traduzione per Barbadillo.it di D.D.M.)

mercoledì 26 giugno 2013

In libreria “Fino alla tua bellezza” di Gabriele Marconi. Ecco il prologo...





Tratto da barbadillo.it


Brihuega, 16 marzo 1937. Notte.

«“A lungo mi sono coricato di buon’ora…”. Mmh, brutta cosa la vecchiaia!».
«Ma va’ in mona, tu e il tuo Proust: è questa pioggia che m’è entrata nelle ossa!».
«Non è il mio Proust», precisò Giulio, «e sei tu che non hai più il fisico».
«Tutti muscoli…».
«Vabbè che ti sei sempre lamentato del fango… Oh, è inutile che ridi perché è la verità vera!».
«No, è che stavo ripensando a Dado».
«Dado… Incredibile, eh? Ha un concetto ben strano di menefreghismo: dove c’è casino c’è lui!».
«E allora noi?».
«Noi? Perché, mi hai mai sentito dire che non me ne frega niente di niente? E tu hai mai detto una cosa del genere? È Dado che ha sempre giurato di fregarsene di tutto, e invece…».
Marco si tirò su, sedendosi a gambe incrociate sulla coperta:
«Usti, erano quasi vent’anni che non lo vedevo… io sono identico a prima, a parte il pizzo, ma lui…».
Giulio ridacchiò: «Sì, tu e il tuo gemello nascosto sotto la camicia!».
«Ci tengo ai miei addominali, dovrò pure proteggerli in
qualche maniera. Insomma, lui invece è cambiato un bel po’…
la faccia scavata, la barba, i capelli lunghi, eppure…».
«Avevamo vent’anni, amico mio. Vent’anni. Adesso ne abbiamo quasi il doppio».
«Appunto, e ci siamo riconosciuti alla prima occhiata. Non è incredibile?».

Giulio si tastò le tasche, poi frugò nella borsa di tela del Modello 33 (che tutti usavano come tascapane dopo aver tolto l’inutile maschera antigas) e pescò un pacchetto di Giuba in mezzo alle bombe a mano. Accese due sigarette e ne offrì una a Marco, quindi tirò una lunga boccata. «Se te devo di’ la mia, per me no, non è incredibile», rispose sbuffando il fumo, «certe cose restano per sempre».

«Ma stai buonino… sotto un temporale e nel bel mezzo di una sparatoria? Lui per me era un nemico, un birillo tra mille altri da buttare giù. E invece ci siamo squadrati e siamo scoppiati a ridere, mentre tutto intorno era un bordello del demonio».
«E lui? Lui che ha detto di preciso?». Giulio sapeva già tutto, ma era l’unica cosa divertente capitata da quando avevano cominciato a ritirarsi davanti a Guadalajara, perciò voleva sentirlo di nuovo e sorrise, pregustando il racconto.

Marco guardò la sigaretta, accorgendosi solo ora di averla accettata. «Assurdo», ricordò sorridendo. «Mi ha gridato: “Ma pensa te… non ti è bastata la sberla che abbiamo preso a
Fiume?”».

Ma pensa te era il biglietto da visita di Alessandro «Dado» Lazzaroni, un anarchico che con loro due aveva condiviso l’avventura fiumana al seguito di Gabriele d’Annunzio, nel ’19. E
adesso se l’erano ritrovato dall’altra parte della barricata.
«Stavo per rispondergli per le rime», continuò Marco, «ma le pallottole fischiavano di brutto, così l’ho perso di vista e dopo un po’ ho pensato più a riportare a casa la buccia che a capire dov’era lui. Comunque ti sembrerà assurdo, ma sono stato proprio contento di vederlo».

Giulio fece un anello col fumo della sigaretta e subito dopo ne infilò un altro al centro del primo (abilità che aveva appreso tanti anni addietro, durante le lunghe, noiosissime settimane di degenza all’ospedale militare di Massaua). «Perché dovrebbe sembrarmi assurdo? È un amico, gli vogliamo bene e tanto basta».

Marco ridacchiò scuotendo la testa per un altro ricordo di Dado che gli era tornato in mente. Poi si rivolse di nuovo a Giulio: «Tu quanto tempo era che non avevi sue notizie?».
«L’ultima volta al matrimonio di Nello: mi dissero che era tornato a Fiume, che si era innamorato di una ragazza di là. Pare addirittura che si fosse messo a lavorare per sposarla».

«Minchia! Nello e Dado sposati… Alla fine siamo invecchiati davvero, altro che storie».
Giulio sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere, tossendo il fumo che gli era andato di traverso.
Marco lo guardò risentito: «Cazzo ridi, scemo!».
«No, è che…», altre risate e colpi di tosse, «…mi sono ricordato di una battuta identica a questa in un film americano che ho visto al cinema l’estate scorsa. C’erano… c’erano tre amici seduti in salotto, vestiti di tweed, la pipa in una mano e un bicchiere di brandy nell’altra, il camino acceso… uno diceva “siamo invecchiati davvero, amici miei”. E tu… ahahah! Non ci posso credere! Tu che mi dici la stessa cosa con la divisa imbrattata di sangue, seduto su una coperta in mezzo al fango gelato a duemila chilometri da casa e gli aerei che mitragliano e bombardano tutto intorno!».

Marco lo guardò per un istante, poi scoppiò a ridere anche lui. Risero insieme. Risero fino alle lacrime, poi il bergamasco la chiuse là. «Bon», concluse dopo essersi calmato, «ma se non fossi invecchiato davvero, bombe o non bombe, fango o non fango, a quest’ora starei bellamente dormendo fregandomene di tutto, invece di star qui sveglio a sorbirmi le tue menate. Quindi come sempre ho ragione io, bigolo!».

martedì 25 giugno 2013

Quale futuro per il governo Letta?


di Pier Paolo Corsi (L'Intellettuale Dissidente)

Proprio ieri pomeriggio, la IV sezione penale del Tribunale di Milano ha condannato l’ex premier a sette anni di reclusione ed interdizione perpetua dai pubblici uffici poiché ritenuto colpevole del reato di concussione per costrizione e sfruttamento della prostituzione minorile. A dire di molti una vittoria della giustizia sull’individuo più amato e odiato dagli italiani, a conoscenza di pochi le probabili conseguenze, i risvolti, che tale sentenza avrà.

Innanzitutto è da notare il momento in cui la sentenza ha avuto luogo, cioè quella che per il Governo Letta si presenta come la settimana più dura, oltre alla condanna di ieri infatti c’è la scomoda situazione del ministro Idem e della sua casa-palestra, c’è la necessità di reperire due miliardi di euro per rinviare di altri sei mesi l’aumento dell’aliquota dell’iva, che altrimenti scatterebbe dal 21 a 22%, e infine la decisione da prendere nel Consiglio dei Ministri di domani sul “Decreto lavoro” da presentare in Europa per convincerla delle “buone intenzioni” del Paese.

Bisogna poi tener in conto il fatto che, nonostante Berlusconi abbia dichiarato precedentemente che l’esito dei suoi processi (tra cui il ricorso in Cassazione per la sentenza di 4 anni del caso Mediaset e il primo grado a Napoli sulla “compravendita dei parlamentari”) non avrà alcun riscontro nei rapporti con l’esecutivo, il gruppo PdL e in particolare i cosiddetti “falchi” scalpitano per vedere incrinarsi il rapporto tra i suoi ministri ed il resto del Governo. Quale pretesto migliore allora della dura sentenza emessa nei confronti del leader del loro partito? Più di qualcuno si starà già sfregando le mani e leccando i baffi al solo pensiero di nuove elezioni.

Il Premier Letta per suo conto smorza gli animi, ribadisce che le cose sono sotto controllo e che non è mai esistito un governo in cui non vi fossero discussioni per giunta accese. Per il Presidente del Consiglio non vi è alcun rischio di nuove elezioni, ma anzi egli ritiene che le cose stiano andando bene.

In realtà tale condanna di Silvio Berlusconi ha causato più di uno scossone nei rapporti PD-PdL, che di certo non sono mai stati rosei, ma anche all’interno della stessa frangia parlamentare del Popolo delle Libertà, laddove nonostante i leader siano favorevoli alla continuità programmatica e in fin dei conti anche politica del Governo, gran parte dei parlamentari scalpita e viene contenuta a stento. Del resto si parla di una sentenza politica, quando essa in realtà di politico nel vero senso del termine ha ben poco. Si potrebbe identificare più che altro come un atto che si intromette all’interno di vicende politiche, ma esso sicuramente non va ad intaccare la figura che Berlusconi si è costruito attraverso appunto un’azione politico-mediatica non indifferente, capace di spostare grandi masse di voti.

Così per l’ennesima volta in Italia è stato ribadito che la politica, quella vera, è fatta soprattutto dagli squali e non dalle sirenette, che magari attirano il popolo ma poi non riescono mai a convincerlo fino in fondo. Allora quel che resta è solo il biasimo per un uomo che è stato così deviato dal potere da autoinfliggersi in pratica una condanna e per giunta a causa di reati alquanto deprecabili.

lunedì 24 giugno 2013

L’analisi. La protesta in Brasile tra qualunquismo khmer-verdi (Silva) e “globalisti”


di Andrès Eugui

Oltre guardare con stupore le immagini televisive legate alle partite della Confederations Cup, pochi in Europa riescono a dare un’interpretazione corretta di quanto stia capitando in Brasile, dove le proteste antigovernative – anche violente – sono in atto da un paio di settimane nelle principali città dell’immenso Paese sudamericano. Per capirne qualcosa di più Barbadillo si è rivolto al giovane studioso brasiliano di politica Andrés Eugui, amico e lettore del nostro web-magazine. Ecco le impressioni e un tentativo di analisi che va al di là dei luoghi comuni da parte di chi è “sul campo”, e non da questa parte dell’oceano.

Una piccola battuta: “Che cosa sta accadendo?”. Fin dal inizio delle proteste nella città di São Paulo (capitale finanziaria del Brasile), molte persone si fanno questa domanda, anche la cosiddetta “intelligentsia” illuminata. Le proteste hanno avuto, in un primo momento, un’origine semplice: l’aumento del prezzo del trasporto pubblico. Ma quello che è accaduto dopo non si trova in nessun manuale di politica. Questa sensazione di stupore è sintomatica e rivelatrice. Rivelatrice perché è una dimostrazione di un reale “déficit” della classe intellettuale brasiliana nel capire la situazione sociale della propria patria. In Brasile c’è una vera e propria mancanza di quello che si può denominare “cultura politica”, o anzi, di “cultura metapolitica”. Che cosa intendiamo per “metapolitica”? Una buona definizione è quella proposta dal filosofo argentino Alberto Buela. Per Buela “la metapolitica è lo studio delle grandi categorie che condizionano l’azione politica. Quello studio chi permette il passaggio dalla cripto-politica alla politica pubblica”.

I cambiamenti politici nel Brasile raramente sono stati un prodotto della partecipazione delle masse popolari, e in questo si conferma una certa “regolarità” (per utilizzare una espressione di Gianfranco Miglio) della politica brasiliana. Da sempre i cambiamenti si sono prodotti non dal basso ma dall’alto. In altri Paesi sudamericani, tipo l’Argentina, è accaduto quello che molti storici hanno definito come “nazionalizzazione delle masse” (Mosse, De Felice), ma questo processo di integrazione delle masse nella politica brasiliana è stato sempre stato ostacolato dalle forze conservatrici e reazionarie.

In Brasile il primo movimento di massa è stato l’Integralismo di Plínio Salgado (un movimento di carattere fascista,ndr) negli anni ‘30/’40 del secolo XX. Il presidente Vargas, attraverso una alleanza con i settori conservatori, spaventati dalla partecipazione popolare a questo movimento parafascista, all’epoca decisero di reprimerlo sanguinosamente. Anche la eredità del cosiddetto “trabalhismo” (laburismo) di Vargas non si è mai tradotto nella partecipazione delle masse dei lavoratori. È appena un esempio della difficoltà storica, in Brasile, di una vera partecipazione popolare alla politica. Un esempio contrario: in Argentina il peronismo ha acquisito nel tempo la categoria di “cultura politica”, canalizzando le rivendicazioni delle masse per farle partecipare al destino comune della patria.

Ritorniamo alla attualità politica del Brasile. Il PT (Partito dei Lavoratori), al potere da dieci anni a livello federale (cioè del governo centrale, ndr), in un primo momento ha tentato una manovra politica nella città di São Paulo per neutralizzare l’opposizione rappresentata dal PSDB (che governa lo stato di São Paulo). Ha manovrato la sua base sociale per protestare contro l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici. Le proteste per chiedere l’abbassamento del prezzo si sono ben presto tradotte in un movimento più grande. Molti si sono resi conto che il PT, anche se in dieci anni di governo ha realizzato molto per le classi più basse, lo ha fatto attraverso una generalizzata corruzione. La sinistra, che all’inizio voleva mobilitare la propria base per una causa specifica (mettere in difficoltà il PSDB a São Paulo), ha ispirato e coinvolto altri settori per protestare contro la corruzione generalizzata. Ma le proteste non sono proteste di “popolo”.

Le forze della destra liberista in dieci anni di governo Lula/Roussef non hanno creato una alternativa politica credibile per il Brasile. Nella sua strategia gramsciana, il PT ha egemonizzato l’agenda politica, culturale e sociale in Brasile. Ora la destra liberista crede che le proteste siano una opportunità d’oro per colpire l’egemonia della sinistra “petista”; ma in realtà non ha la forza né la capacità di proporre un’alternativa “culturale”.

La forza politica che può davvero approfittare di queste proteste è invece quella rappresentata dalla ex-senatrice Marina Silva e dal suo nuovo partito “Rede” (Rete). Questa forza politica è la più pericolosa. I militanti del neo-partito appartengono alle classi urbane che si ispirano ai movimenti degli “indignados” emersi nel mondo. Marina Silva è una propria e vera khmer-verde. Tra le persone che tifano per quella che la stessa ex-senatrice definisce come “una nuova politica”, ci sono infatti banchieri, liberal-chic e globalisti di vario genere.

Il Brasile non è in crisi sociale. Le proteste si sono ben presto trasformate in un piccolo carnevale di persone che sono contro tutto e contro niente. Ma c’è un pericolo: cioè che questo movimento si trasformi in una rivoluzione “colorata”. In tal caso non possiamo prevederne i risultati. Basti pensare alla Libia, all’Iran, al Venezuela, etc. In caso di crisi sociale, un’unica forza può essere la garanzia di stabilità: le Forze Armate, che sempre hanno giocato un ruolo decisivo nel Brasile. E sarebbe una vera ironia della storia se per caso la presidente Dilma Roussef, ex-guerrigliera, avesse bisogno dell’aiuto dei suoi antichi nemici, i militari, per mantenersi al potere. Ma sarà sua la responsabilità di mantenere la pace sociale e la stabilità del Paese contro forze le forze centrifughe reazionarie e globaliste.

* laureato in Filosofia all’Università di São Paulo, analista politico

domenica 23 giugno 2013

Obama l' "afgano" e la vendetta del Mullah Omar


di Massimo Fini

Dall'inconcludente vertice irlandese fra i cosiddetti 'grandi della Terra' la notizia vera è uscita solo all'ultimo, quando Barack Obama ha annunciato ufficialmente che a Doha, capitale del Qatar, erano iniziate le trattative con i Talebani per negoziare una pace in Afghanistan. Naturalmente, per non sputtanarsi oltremisura, Obama ha affermato, attraverso i suoi consiglieri, che le trattative non saranno condotte direttamente dagli americani ma dal governo Karzai con la Commissione politica talebana che ha ricevuto l'imprimatur del Mullah Omar, il capo della guerriglia. Ma è una copertura di facciata, perchè Karzai non conta niente, è un presidente-fantoccio alle dipendenze del Dipartimento di Stato Usa. Le trattative saranno dirette fra americani e Talebani. Del resto l'annuncio di Obama arriva dopo due anni di contatti sottobanco, da quando l'Emirato Islamico d'Afghanistan aveva aperto una sua sede diplomatica a Doha proprio per poter negoziare in territorio neutro.
Peraltro non è la prima volta che gli americani cercano di agganciare i Talebani . Ci provarono già nel 2005 quando la guerriglia, organizzata da Omar, era appena all'inizio della controffensiva. Proposero un'amnistia per i guerriglieri che avessero deposto le armi. Ma gli era andata male. In pratica nessun comandante talebano si era arreso. Dei 142 leader inseriti nella 'lista nera' del Consiglio di Sicurezza dell'Onu solo 12 figure marginali avevano accettato di deporre le armi (salvo riprenderle in seguito, dopo che i missili Nato avevano ucciso un fratello o un figlio). Ci avevano riprovato nel 2010, quando ormai i Talebani controllavano il 75% del territorio. Le condizioni degli americani erano queste: «Prima i Talebani disarmano e accettano la Costituzione, poi si potrà avviare un dialogo». La proposta era estesa a tutti i leader talebani escluso il Mullah Omar considerato «inidoneo» per una conciliazione nazionale. Aveva fatto notare Wakil Muttawakil ex ministro degli Esteri del Mullah Omar: «Una volta che i Talebani avranno deposto le armi e accettato la Costituzione che cosa ci sarà ancora da discutere?». Naturalmente non se ne fece nulla. E ci avevano riprovato di nuovo costituendo un grottesco Consiglio di pace dove sostenevano che erano entrati anche alcuni leader talebani, in realtà scartine raccattate per le strade di Kabul (in quell'occasione, ridotti alla disperazione, gli Usa avevano chiesto aiuto anche all' 'arcinemico' Iran).
Tutti questi tentativi erano falliti perchè gli americani si erano sempre rifiutati di trattare con il Mullah Omar, il capo indiscusso (e prestigioso agli occhi degli afgani) della guerriglia. E la novità dell'annuncio di Barack Obama è proprio questa: gli americani piegano le ginocchia e accettano di trattare con Omar, «il mostro», «il criminale», il leader di «un movimento spaventoso, motivato da una orribile ideologia» come si espime ancora oggi il neocon Paul Berman.
L'annuncio di Obama cela, malamente, una cocente sconfitta. Degli americani e della Nato. In dodici anni di guerra, la più lunga dei tempi moderni, il più potente e tecnologico esercito del mondo non è riuscito a piegare «un pugno di criminali e terroristi» che ha anzi riconquistato tutta l'immensa area rurale dell'Afghanistan, circa l'80% del Paese. E questo è potuto avvenire perchè, come ho scritto tante volte, i Talebani, e più in generale gli insorti (agli uomini del Mullah Omar si sono aggiunti altri gruppi) godono dell'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione afgana, storicamente insofferente all'occupazione dello straniero, comunque motivata (inglesi, nell'800, e sovietici, nel 900, docent). Ma ora la situazione è di stallo. I Talebani non possono conquistare le città (Kabul, Herat, Mazar-i Sharif, a Kandahar culla del movimento talebano la situzione è un po' diversa) data l'enorme sproporzione degli armamenti. D'altro canto gli americani hanno l'assoluta necessità di venir via perchè non possono più permettersi di spendere 40 miliardi di dollari l'anno per una guerra che non potranno mai vincere. Ecco il perchè dei negoziati. Che si presentano difficilissimi. Gli americani, benchè perdenti, per levarsi dai piedi pongono delle condizioni. 1) Rottura di tutti i rapporti con Al Qaeda. 2) Fine degli attacchi in Afghanistan. 3) Riconoscimento della Costituzione del 2004. Poi ce n'è una quarta non detta: gli americani vogliono lasciare tre o quattro basi aeree per poter continuare comunque a controllare il Paese.
Sul primo punto non c'è problema. I Talebani non sono mai stati terroristi internazionali. Osama Bin Laden se lo sono trovati in casa, ce lo aveva portato il nobile Massud per combattere un altro 'signore della guerra' ,Hekmatyar. Osama Bin Laden di cui Omar non aveva alcuna considerazione (lo definiva «un piccolo uomo») è sempre stato un problema di cui si sarebbe volentieri liberato. Tanto è vero che quando nel 1998 Bill Clinton gli propose di farlo fuori si dichiaro' disponibile. Fu poi Clinton a tirarsi indietro (Documenti del Dipartimento di Stato). Se nel 2001, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, si rifiuto' di consegnarlo agli americani fu per una questione di principio e di dignità nazionale. Il governo afgano chiese infatti agli Stati Uniti delle prove che effettivamente Bin Laden era alle spalle degli attentati e una seria inchiesta internazionale. Gli americani risposero: «Le prove le abbiamo date ai nostri alleati». A questo punto il governo afgano, come avrebbe fatto qualsiasi altro governo, si rifiuto' di consegnare, su queste basi, un uomo che era comunque sotto la loro giurisdizione. In ogni caso se in Afghanistan si ripresentassero degli arabi jihadisti Omar sarebbe il primo a cacciarli a pedate, visto che a causa loro s'è giocato il potere e l'intera esistenza. Comunque, se questo è il problema, il Mullah Omar, a quanto ne so, è disposto ad accettare ispezioni dell'Onu che controllino che in Afghanistan non si ricostituiscano basi del terrore.
Quello che non puo' assolutamente accettare è la Costituzione del 2004, ispirata alle istituzioni, ai valori, ai costumi dell'Occidente. Perchè ha combattuto proprio per preservare le istituzioni della tradizione afgana, i suoi usi, i suoi valori, la sua essenza. Infine, ed è il punto più critico, il Mullah Omar vuole che alla fine dei negoziati non un solo soldato straniero calchi il suolo afgano. Non ha combattuto più di trenta dei suoi 53 anni di vita per la libertà del suo Paese, prima, giovanissimo, contro gli invasori sovietici, lasciandoci un occhio, poi contro gli arbitrii, i soprusi, le violenze dei 'signori della guerra' (Massud, Dostum, Eckmatyar, Ismail Khan) e, da ultimo, contro gli occupanti occidentali, sacrificando la sua intera esistenza, per vedersi imporre, alla fine, una 'pax americana'.

venerdì 21 giugno 2013

SOL INVICTUS!


Con le vesti di oggi copri la tua armatura,
di questa notte non avere paura
ma accendi dei fuochi nelle foreste più buie,
lungo le valli, tra nebbie e pianure.
Accendi dei fuochi in mezzo alla neve,
sulle cime più alte, tra le rocce più scure.
Sciogli ogni giorno un nodo dal cuore
e come preghiere le gocce del tuo sudore.
Non avrai più negli occhi lacrime da regalare
ma due perle nere, tra il miele ed il sale.
Accendi dei fuochi sulla sabbia del mare,
nelle dolcissime sere, tra le polvere e il pane.
Accendi dei fuochi ovunque tu sia,
quando sulla tua terra è la notte più buia.
Insegui la pace, ma non temere la guerra
e germoglierà il seme sulla tua terra.

E non starli a sentire, non starli a guardare
e sentirai la vita nei tuoi polsi vibrare.
Accendi dei fuochi nella tua mente,
nessuno è a te uguale, tutto ti è differente.
Accendi dei fuochi, rimani a vegliare
e sarà nuova luce e potrai respirare .
Scenderà questa Luna, si spegneranno le stelle,
tornerà il sole sulla tua pelle.
E se sarai solo per la tua strada
stringi la mano, impugna la spada.
Accendi dei fuochi tra il vento ed il cielo
e già nelle mani è il profumo di battaglie e di fieno.

Hassan Rohani ha vinto le elezioni in Iran...


di Pietrangelo Buttafuoco 

Hassan Rohani ha vinto le elezioni in Iran. Gli sconfitti hanno riconosciuto l’esito del voto e si sono complimentati con lui. Nessuno ha abbaiato alla luna degli imbrogli. 

“Eppure”, scrive la mia amica Amani Razie, da Teheran, “le elezioni sono state gestite dal governo di Ahmadinejad. Io mi chiedo come mai oggi nessuno tra i candidati sconfitti e coloro che li hanno votati non solo non dubita né protesta per l’esito sorprendente delle presidenziali 2013, ma si congratula persino con il nuovo presidente?”.

Azzardo una risposta. L’Iran, a differenza dell’Italia, non è affetto da badoglismo. Certo, Dio ce ne scampi da certi piritolli che ci sono e fanno felice Shaitan (ce ne sono, altroché), ma ho scoperto un dettaglio della storia iraniana, la cui realtà statuale è antica di cinquecento anni, che mi ha colpito non poco. 

All’indomani della Rivoluzione moltissimi iraniani, fedeli allo Scià, cercarono riparo all’estero. Ma quando nel settembre del 1980 l’Iraq aggredì la Persia, la maggior parte di loro, quasi tutti rifugiati in Usa, chiese e ottenne di rientrare in patria. 

Per combattere. E non certo per badogliare.

giovedì 20 giugno 2013

Quegli strani “ostacoli” che rallentano il film “Il segreto” sulla strage partigiana di Codevigo…


di Priscilla del Ninno (Secolo d'Italia)

Questo film non s’ha da fare. È stato questo l’anatema scagliato contro Il segreto, del regista padovano Antonello Belluco, professionista che ha all’attivo un curriculum di tutto rispetto, che va dall’impegno registico per Radio 2 e Rai 3, alla realizzazione del film Antonio guerriero di Dio, e poi di spot e filmati per marchi più che celebri, fino alla produzione di audiovisivi, documentari e inchieste. 

Il motivo del sabotaggio? Semplicemente la scelta della storia da raccontare, o meglio, della verità storica su cui puntare i riflettori: l’eccidio perpetrato nel ’45 da alcune formazioni partigiane a danno di militari e civili fascisti (o presunti tali). Una mattanza di cui ancora oggi sfuggono i contorni effettivi. Una strage tra le più cruente della storia bellica nazionale, compiuta in un’unica località a guerra già finita, a guerra finita con vincitori e vinti già proclamati, quando le armi e le ostilità intestine avrebbero dovute essere già deposte, in un arco temporale che va dal 29 aprile alla metà di maggio, (forse anche dopo): nessuno può stabilire con precisione la cornice di sangue che delimita l’esecuzione sommaria di un numero compreso tra 114 e 136 vittime, tra militi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), delle Brigate Nere (BN), e semplici cittadini. 

Così come nessuno ha mai stabilito la contabilità esatta della mattanza: c’è chi parla di 136 vittime, chi di 168, chi di 365, chi addirittura, in base a un documento dell’arcidiocesi di Ravenna-Cervia, ipotizza la sconcertante cifra di 900 morti. Un numero imprecisato di corpi straziati, non tutti recuperati dalle fosse comuni, che accredita i contorni numerici della strage solo sulla base di quelli identificati, (ne furono riconosciuti con certezza 114), e che ancora oggi indigna per l’efferatezza delle esecuzioni: le vittime furono trucidate per vendetta, seviziate, umiliate e poi trucidate. Di molti di loro ha scritto Giampaolo Pansa ne Il sangue dei vinti. Di moltissimi altri si continua a non sapere nulla perché quella pagina feroce delle stragi partigiane nell’Italia liberata rappresenta ancora oggi un tabù difficile da affrontare e metabolizzare. Se ne è reso conto Renzo Martinelli ai tempi delle riprese, e della distribuzione, di Porzùs, di cui addirittura si arrivò a chiedere il ritiro dalle sale. 

Se ne è reso conto Belluco, dal 2011 alle prese con la lavorazione travagliata de Il segreto, di cui ultimerà le riprese a luglio. Che spera di finire di montare entro dicembre. Che si augura di riuscire a distribuire. Una lavorazione funestata da mille pressioni e da disponibilità ritirate, condizionata già dopo i primi ciak da una concatenazione di eventi negativi, difficilmente riconducibili al caso: la rinuncia del produttore, il dietrofront degli sponsor, i contributi ministeriali e regionali che sfumano, le promesse disattese da collezionisti e addetti ai lavori che avevano garantito di mettere a disposizione materiale bellico e costumi d’epoca, le diffide legali piovute sulla sceneggiatura. 

Unica luce in fondo a un tunnel nero, la partecipazione al film di Romina Power, tra i protagonisti del plot. Progetto tormentato su cui l’attrice e cantante ha scelto di scommettere a dispetto di tutto e tutti, per tornare davanti alla macchina da presa dopo un lunghissimo periodo di assenza dal set.

mercoledì 19 giugno 2013

Germania, 60 anni fa quella rivolta dimenticata. Ma fu la prima vera “Primavera”...



di Priscilla del Ninno (Secolo d'Italia)

Sessant’anni fa la Primavera tedesca: la prima autentica primavera europea. La prima volta in cui l’Occidente vide cittadini, giovani operai tedeschi, non armati di ideologia, affrontare a sassate i carri armati. Un’immagine che molti anni dopo, nel 1989, sarebbe stata replicata da quegli scatti in piazza Tienanmen, entrati di diritto nell’immaginario collettivo: le istantanee di quello che sarebbe passato alla storia come il “Rivoltoso sconosciuto”, che a mani nude si oppone al passaggio di un plotone di cingolati, divenendo da quell’istante il simbolo universale della lotta alla dittatura. 

Una protesta che in quel caso animò un’altra insurrezione popolare: quella archiviata dalla storia come la Primavera democratica cinese, culminata nella protesta della celebre piazza di Pechino, datata – guarda caso – 5 giugno. Anche allora, mentre il mondo si inchinava al coraggio eroico di quell’identità anonima, eppure conosciutissima, in pochi sapevano che quello a cui si stava assistendo in diretta tv era un film già visto quasi quarant’anni prima: a Berlino, Potsdam, Dresda, Lipsia, Halle, Magdeburgo, Goerlitz; in tutti i centri industriali e nelle grandi città di quella Germania dell’est che, tra il giugno e il luglio del 1953, vide trasformare quello che inizialmente era uno sciopero di operai edili che protestavano contro l’aumento delle quote di lavoro, e il rischio di un taglio di stipendio, in una rivolta contro il governo della Ddr e quindi di Mosca, scatenando a lanci di sassi la prima ribellione contro il regime comunista dell’ex Repubblica democratica tedesca. 

Una contestazione avvenuta tre anni prima della più nota rivolta d’Ungheria, e ben 15 anni prima della ancor più celebre Primavera di Praga: tutti eventi, come è notorio, ciclicamente sublimati in omaggi e commemorazioni, su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro, e a cui sono state dedicate molteplici rivisitazioni cinematografiche, oltreché ricorrenze puntualmente nel calendario delle celebrazioni istituzionali. Al contrario di quanto accade da decenni a questa parte per i moti operai tedeschi dell’ex Ddr, a cui la memoria storica ha messo colpevolmente la sordina. Anche questo sessantesimo anniversario, allora, è passato quasi inosservato, snobbato dalla stampa internazionale, malgrado la cancelliera tedesca Angela Merkel – cresciuta nell’ex Germania orientale – abbia reso omaggio alle vittime di quella rivolta operaia, (fonti ufficiali parlano di più di 50 morti, altre di 125, oltre che di 15000 arresti), schiacciata con la forza dai soliti carri armati sovietici il 17 giugno del 1953. «Una data indimenticabile – ha detto il capo del governo nel corso di una cerimonia a Berlino – e una tappa significativa della storia tedesca». 

Eppure, nonostante le dichiarazioni ufficiali e l’inaugurazione di ieri nella capitale tedesca di una “Piazza della rivolta popolare del 1953”, in uno dei punti caldi di quella storica ribellione, il presidente Joachim Gauck, in un discorso al Bundestag ha rivolto un appello affinché gli eventi e i protagonisti di quei giorni del ’53 trovino un «posto» nella memoria dei tedeschi. Un «posto nella memoria collettiva» della Germania riunificata dedicato alle centinaia di cittadini dell’est insorti, vittime della dittatura comunista, prima e dopo i fatti di quel 17 giugno.

martedì 18 giugno 2013

Il G8 di Lough Erne. Il girotondo più grande del mondo...



di Francesco Marotta (destra.it)


Barack Obama si trova a Lough Erne in Irlanda del Nord. L’accordo tra USA e UE, unisce disordinatamente la tavola rotonda dei potenti. Di che accordo si tratta? Libero scambio. Ci fa capire come non sia sufficiente leggere approssimativamente i lavori del G8 in Irlanda, come una scampagnata leggera dei grandi della terra. E’ l’occasione per il primo appuntamento tra Letta e Obama e, quella dichiarazione di intenti, miscelata ad un pretesto burocratico, che unisce l’Europa debilitata dal ballo del Can-can globale a quel espediente primordiale dell’interesse. E bene sì, sul lungo periodo il rapporto dei nipoti di Trotsky (Letta governa) con l’orientamento cosmopolita e con l’istruzione “neo-egemonista” statunitense, è lampante. L’espansionismo colonialista necessita una volta per tutte la testa del vecchio continente? Obliquamente alle istituzioni politiche e giuridiche internazionali si possono ottenere risultati. Il libero scambio, non è altro che una forma di influsso planetario di cui la politica statunitense e, l’economia preponderante, una volta quella occidentale, si alimentano supportando la globalizzazione.

Da leggersi come la deregolamentazione dell’economia europea e dei suoi stati membri, in scala maggiore, dalla limpidezza nitida anche ai pochi di vista corta che si assillano giurando il contrario: l’ingresso agli investimenti americani, l’impatto già visto con lo smantellamento delle “nazionalizzate” agli investimenti in suolo europeo, italiano, affidati alla “the Holy trinity of American Barbecue”. Carne da macello per rimpinguare il riassetto a stelle e strisce dopo aver donato all’Europa l’affossamento del sistema, dell’unità dei suoi stati e delle sue genti, grazie alle sue banche d’affari. Letta ha similitudini vicine al presidente di Cipro che andò in televisione a spiegare ai suoi connazionali, come furono espropriati della sovranità nazionale, grazie, al “nuovo” unilateralismo? Macché. In concomitanza con il presidente della commissione UE, Jose Manuel Barroso, ha dato il via alle formalità e alla strategia compiuta dello standard globale.

Stupirsi ancora? Ci ha pensato il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy: “dobbiamo mobilitare tutti i mezzi possibili per combattere la disoccupazione anche perché l’anno prossimo avremo una crescita che però non sarà abbastanza per contrastare l’emergenza lavoro”. L’ennesima riprova degli equilibri e delle emanazioni dirette e quell’obbligatorietà della crescita intramontabile, dove, però, di rigore si muore e l’austerità pressante, sulle retribuzioni e sul potere d’acquisto, rendono minore le entrate fiscali. Favorendo l’annullamento industriale sulle località, le regioni, per favorirne alacremente le delocalizzazioni su scala nazionale? Sediamoci un attimo. Il girotondo più grande del mondo, il budget solidamente strutturato e, la dottrina della crescita, esulano dal diritto degli stati e di un continente? Nell’assenza di un criterio politico e comunitario efficace, quando non c’e’ da legittimare la politica altrui valida per tutti ma, quella delle consuetudini e delle culture traboccanti di potenza, d’ingegno che dovrebbero essere in grado di attraversare quel limite che è la mondializzazione.

L’economia e il libero mercato non aprono solo le porte chiuse del G8, sconfinando nel terreno fertile della crisi siriana. Letta incontrerà Vladimir Putin: partendo dalla netta contrapposizione tra il Cremlino e il rappresentante di Palazzo Chigi sugli approvvigionamenti dell’arsenale dei ribelli siriani, rimpinguato dai britannici dei “popoli liberi”, allineati neppure a dirlo, con le impellenze americane. Un duro banco di prova per il Presidente del Consiglio dei Ministri, forte dell’intrepida Emma Bonino; un incontro da trionfatori con il risveglio “dell’Orso russo”, reinvestendo sull’antico adagio: il luogo dove prolifica il consumo, le mancate relazioni, le discrepanze sociali e la malevolenza, è estendibile anche in Siria ? La città di Hamoukar, l’antica città siriana a 10 chilometri al confine con l’Iraq, vide 3500 anni la battaglia e l’assedio più antichi della Storia. Attualmente di diversa natura sono le prospettive italiane ed europee? Cedere il passo definitivamente è come cancellare la personificazione impressa nella notte dei tempi.

lunedì 17 giugno 2013

Il martirio di Giralucci e Mazzola...



di Gabriele Adinolfi

Il 17 giugno 1974 nella sede del Msi di Padova aveva luogo la duplice esecuzione dei militanti Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Un'esecuzione a freddo ad opera di un commando delle Brigate Rosse commesso apparentemente senza ragione.

Se leggiamo altrimenti quel duplice omicidio scopriamo che fu il frutto di un golpe interno alle BR da parte di chi intendeva spingerle sulla via del sangue e della tensione in contrasto con i suoi fondatori.

A maggio i golpisti interni avevano votato per l'eliminazione del giudice Mario Sossi, ma i leader storici, Curcio e Franceschini, avevano vinto il braccio di ferro e lo avevano rilasciato il 23 dopo poco più di un mese di prigionia. Cinque giorni dopo, il 28, l'ala golpista interna delle BR aveva allora proceduto all'innalzamento della tensione mediante la strage di piazza della Loggia a Brescia.

Il ministro dell'interno di allora, il partigiano Taviani, capo operativo della Gladio, aveva però immediatamente impedito alla Questura di proseguire le indagini nella giusta direzione; una serie di depistaggi contro i fascisti, opera dei carabinieri, avrebbe subito disinnescato politicamente l'effetto voluto dagli esecutori della strage di Brescia.

Uccidere qualche fascista – cosa ben più confessabile di una strage in un comizio sindacale - avrebbe però conseguito il risultato del “passaggio del Rubicone” per la lotta armata rossa; nessuno poteva infatti biasimare l'assassinio di un paio di fascisti che non avevano alcun diritto di vivere secondo la sindrome dell'ideologia dell'odio proprio agli individui inferiori.

Sicché, silenziata Brescia, Padova avrebbe inchiodato i vertici costretti ad accettare il fatto compiuto e a familiarizzarsi con azioni meno romantiche e più cruente. Così, senza che potessero immaginarne la ragione, Giralucci e Mazzola vennero letteralmente abbattuti per consentire una svolta nelle BR contro i suoi vertici.

Vertici che di lì a poco (l'8 settembre a Pinerolo) sarebbero stati catturati e neutralizzati dai carabinieri del nucleo speciale di Dalla Chiesa, costituitosi proprio durante il sequestro Sossi. Mario Moretti, il luogotenente dei registi del golpe interno, sarebbe stato intanto avvertito telefonicamente da un carabiniere e non si sarebbe recato all'appuntamento con gli altri dirigenti delle BR.

Così si ritrovò tutto in mano e lo gestì come meglio garbava ai suoi superiori e a quegli alleati strani cui non aveva detto di no (il Mossad e i suoi amici tra carabinieri e in massoneria).

Si moriva anche così e per queste ragioni. C'era gente allora così depravata e amorale che poteva commettere azioni di questo tipo e di questa portata. C'è di nuovo e oggi ha ripreso pienamente il potere. Anche per questo non dobbiamo dimenticare nulla e nessuno.

Non solo il cuore in quel duplice Presente!