giovedì 30 ottobre 2014

Ricordo di Mario Zicchieri, ucciso dai killer antifascisti a soli 16 anni


di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

«Era morto un fascista, non valeva la pena di guastarsi l’appetito o rovinarsi la cena. Era morto unfascista, andava in fretta sepolto: avevan paura anche di un morto…». Questa canzone del gruppo alternativo Zpm era stata scritta per Sergio Ramelli, il giovane missino assassinato a sprangate a Milano da elementi di Avanguardia Operaia, ma si adatta benissimo anche a Mario Zicchieri, “cremino” per i suoi camerati, sedicenne del Prenestino ucciso a fucilate davanti la sezione delMsi di via Gattamelata da killer a tutt’oggi sconosciuto. Ramelli ea stato ucciso pochi mesi prima,Mikis Mantakas lo stesso, e il 29 ottobre toccò a Cremino. Le Brigate Rosse, e in genere tutti i gruppi della sinistra estremista, teorizzavano da tempo la necessità di incutere terrore nei fascisti del Msi perché, spiegarono qualche anno dopo, nonostante le bombe, gli incendi, le aggressioni, i ferimenti, non mollavano né davano segni di cedimento. E infatti era proprio così: i giovani del Msi e del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del partito, non cedettero mai, si difesero e continuarono a propagandare le loro idee e continuarono a tentare di cambiare il mondo. Neanche dopo la strage di Acca Larenzia (anch’essa impunita, come gli omicidi diCecchin, Di Nella e tanti altri) la comunità missina arretrò, anzi. E così fu al Prenestino, quartiere rosso (benché costruito dal fascismo) dove il Msi ebbe sempre una sede sin dall’immediato dopoguerra. E nel quartiere gli attivisti del Movimento Sociale svolsero sempre una intensa attività sociale, politica, culturale. Attività che i comunisti di qualsiasi tipo non avevano mai tollerato, perché poi funzionava.

Un quartiere difficile

Solo un anno prima, in occasione del 25 aprile, c’era stata un’aggressione armata contro la sezione del Msi, a suon di bombe molotov, revolverate e accettate (nel senso di colpi di accetta). Neanche allora i ragazzi erano scappati, ma avevano ripreso la loro attività in favore delle fasce sociali più deboli con rinnovato vigore. Finché – è stato raccontato molte volte – in un primo pomeriggio di 39 anni fa si ferma una Fiat davanti alla sezione, ne scendono due ragazzi ben vestiti, che sparano sui giovani che si trovavano davanti al portone, uccidendo Zicchieri e ferendo gravemente Marco Luchetti. L’auto poi fugge, inseguita da un iscritto al Msi del Prenestino che però dopo pochi metri viene minacciato con le armi e costretto a desistere. L’allora segretario della Penestino Gigi D’Addio apprese la notizia nei locali della Federazione, in diretta, perché qualcuno telefonò al partito dicendo quanto era accaduto. D’Addio, che ancora oggi al ricordo si commuove, prese la sua vecchia Dyane e dal centro arrivò in pochi minuti, guidando come un folle, alla sede, dove apprese tutto. Fu subito assaltata la vicina sezione del Pci, i cui membri non c’entravano nulla, alcuni ragazzi missini entrarono nella sezione comunista e malmenarono i presenti, sull’onda di una comprensibile reazione emotiva: occorre ricordare che in quegli anni ai funerali dei missini partecipavano solo i missini, nessun esponente politico né nazionale né locale, veniva mai a portare il suo cordoglio. I partiti dell’arco costituzionale – il “sistema” dicevamo noi missini – glielo proibiva. E così andò avanti per oltre dieci anni.

Intimidazioni continue contri i missini

Ma non so di nessuno che se ne andò dal Msi per questo motivo, per questa discriminazione odiosa, per questa emarginazione vergognosa. Cremino aveva solo sedici anni: non poteva essere colpevole di nulla, se non di avere un’idea controcorrente, alternativa ai partiti del consociativismo che hanno rovinato l’Italia, e i cui effetti di malgoverno li stiamo pagando ancora oggi. In questi 39 anni Mario Zicchieri è stato sempre ricordato dai suoi amici e camerati, e così è anche stavolta. Pochi anni fa, recentemente, l’amministrazione comunale guidata da Gianni Alemanno gli ha dedicato un giardino nei pressi, la cui lapide commemorativa è stata più volte distrutta dagli antifascisti. E i “fascisti” ogni volta l’hanno ripristinata…

mercoledì 29 ottobre 2014

Per Putin, ma non perché sia il Buono



di Luciano Fuschini (Il Giornale del Ribelle)

Gli USA hanno conquistato il mondo anche grazie alla propaganda abilissima, nella quale è maestra Hollywood. Lo schema della propaganda hollywoodiana è quello dello scontro finale fra il Buono e il Cattivo. Non è scontato che sia così in tutte le culture. Il duello finale dell’ Iliade, quello fra Ettore e Achille, tutto è tranne che lo scontro fra il Buono e il Cattivo, fra il Bene e il Male.

Nell’uso politico che si fa dello schema Buono-Cattivo, oggi il Cattivo è, per tutto il pensiero unico liberal-social-demo-progressista, Putin.

I pochi che riescono a sottrarsi alla macchina propagandistica, per reazione tendono a santificare il capo della Russia. Lo esaltano settori della destra europea e ora anche Salvini. Non è il caso di farlo, se vogliamo restare raziocinanti.

Putin era un giovane e brillante agente del KGB sovietico. Gli agenti del KGB non erano cavalieri senza macchia. Come leader politico, Putin ha assunto il ruolo del restauratore della potenza russa strumentalizzando cinicamente la questione cecena. Dopo una serie di attentati che colpirono la stessa Mosca, attentati di oscura matrice almeno quanto alcuni che hanno suscitato fondati interrogativi in Occidente, in cui forse manine e manone dei servizi segreti hanno avuto un ruolo, Putin proclamò davanti alle telecamere che avrebbe “scovato i terroristi perfino nel cesso”. Assurse alla statura di grande capo con queste parole e queste abili pratiche propagandistiche. Sulla scomparsa di alcuni giornalisti critici verso il suo potere, si addensano sospetti mai del tutto fugati.

Ha liquidato con maniere spicce alcuni oligarchi che gli facevano ombra, mentre ne ha innalzato altri che gli facevano comodo. Anche nella gestione della vicenda ucraina ha mostrato spregiudicatezza e cinismo. La popolazione russofona delle regioni orientali sarebbe stata piegata in pochi giorni dal pur scalcagnato esercito di Kiev se non ci fosse stata l’intromissione di soldati russi senza divisa e di armi russe. In omaggio al nobile principio dell’ “autodeterminazione dei popoli”, spesso proclamato ma raramente osservato, sarebbe giustificabile il distacco della minoranza russofona da Kiev, ma l’osservanza rigorosa di quel principio ovunque, sconvolgerebbe il quadro politico. Per esempio in Bulgaria c’è un’importante minoranza turca. Ne facciamo un altro staterello indipendente? Uniamo quelle popolazioni alla Turchia, creando un altro focolaio di guerra in Europa? In Romania e Serbia vivono minoranze ungheresi. Facciamo un altro stato indipendente, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero? Si potrebbe continuare a enumerare casi di questo tipo.

Dunque, Putin si è mosso in modo spregiudicato anche in Ucraina. Non è il Buono di uno schema che voglia opporsi a Hollywood assumendone la logica.

D’altra parte, se c’è qualcuno che non avrebbe il diritto di protestare, costoro sono i responsabili delle nazioni di Occidente e della NATO. Autoproclamandosi “la comunità internazionale”, bombardarono Belgrado per costringere la Serbia a rinunciare a una sua provincia, il Kosovo. Precedente gravissimo, avvertito subito come tale dai pochi che non hanno portato il cervello all’ammasso. Si faceva strame di ogni traccia di diritto internazionale, in particolare quella “non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi” che sarebbe l’unica via per prevenire le guerre. Bisogna usare i verbi al condizionale perché anche quel principio è solo una bella frase, che raramente nella storia ha trovato riscontro nei fatti.

La realtà vera è che in politica, e in particolare nella relazione fra Stati, vige l’unica regola della legge del più forte.

L’Occidente non ha alcun diritto di indignarsi per i comportamenti di Putin, non solo per il precedente del Kosovo e per una serie di aggressioni sulla base di pretesti menzogneri. Non può farlo anche perché ha cavalcato e provocato i disordini in Ucraina per escludere la Russia dalla Crimea, quindi dal Mar Nero e in ultima analisi dal Mediterraneo, come ritorsione allo smacco subìto per opera di Putin in Siria. A gioco sporco si risponde con gioco sporco, quando i rapporti di forza, l’unica cosa che conta al di là dei bei princìpi mai osservati, sono cambiati.

La demonizzazione di Putin era iniziata prima che esplodesse la questione ucraina. I capi dell’Occidente, escluso Letta che forse per questo ha pagato un prezzo, non andarono a Soci in occasione delle Olimpiadi invernali proprio in segno di protesta, accampando motivi del tutto pretestuosi, come una legge che si limitava a proibire la propaganda in favore dei gay in presenza di minori. L’evidenza è che Putin disturba solo perché vuole sottrarre il suo Paese al dominio imperiale.

Del resto, volendo tornare a qualche pallida giustificazione di diritto, hanno più ragioni storiche le pretese russe sull’Ucraina (fra l’altro la prima capitale della Russia fu proprio Kiev) che quelle albanesi sul Kosovo, in cui solo di recente si era andata costituendo una maggioranza di lingua albanese. E la resistenza russa a una pretesa di dominio mondiale da parte dell’imperialismo anglo-americano è una causa che merita considerazione e sostegno.

Concludendo, siamo con Putin non perché sia il Buono, ma per considerazioni di natura storica e di contingenza politica. Tutto qui. Non è la Sfida all’O.K. Corral, non è il pistolero buono che elimina il malvagio. Lasciamo questa rozzezza alla robaccia che ci viene da oltre Oceano, alluvione di spazzatura.

venerdì 24 ottobre 2014

La globalizzazione dei sentimenti



di Pier Francesco Miccichè (L'Intellettuale Dissidente)

Che il capitale cerchi ogni giorno di indirizzare i nostri acquisti, cancellando sempre più le differenze locali e nazionali in materia di produzione, non è certo una novità. Banner e spot dei social sono da qualche tempo automaticamente programmati per orientarsi con sempre maggior precisione verso gusti e preferenze espressi dai “mi piace”, “segui” e dalle parole digitate sui motori di ricerca; un sistema per “individuarci” come l’intersezione delle potenziali fette di clientela di centinaia di aziende.

Ciò che fa davvero inorridire, tuttavia, è che un sistema non dissimile di categorizzazione venga attuato ogni giorno, silenziosamente, anche per i nostri sentimenti e stati di umore, spesso raccolti all’interno di pochi schemi comuni alle masse telecomunicanti. Smiles, emoticons, sigle ad esempio, nascono pochi decenni fa inizialmente come puro appannaggio dei giovani per disertare il linguaggio “lento” e formale degli adulti, ed esprimere in modo sintetico e diretto la propria condizione o la propria attività; oggi, rischiano di diventare il paradigma di una “globalizzazione dei sentimenti” in rapida espansione. Certo nulla di scandaloso se il loro utilizzo si limita alle conversazioni veloci, magari verso chi ci conosce già particolarmente bene, e a cui presto potremo con maggior dettaglio esprimere il nostro umore o chiedere i nostri suggerimenti. Ma non è affatto sempre così. Da alcuni mesi, Facebook ha introdotto e suggerito la possibilità di descrivere, con ogni status, la propria condizione emozionale del momento anche con una sola smile (seguita tutt’alpiù, da un aggettivo già “confezionato”), proponendo cento differenti emoticons. Comunicare il proprio umore agli amici deve essere facile, semplice e soprattutto immediato: poco importa se in questo modo si riduce l’intera sfera emozionale del soggetto alla “faccina” più adatta. Non solo, perché lo stesso principio si applica anche per la propria condizione sentimentale, le proprie esperienze, in taluni siti anche per il proprio sesso, dove la scelta raramente è fra sole due alternative. Possibile che l’universo comunicativo e sentimentale di ognuno di noi debba miseramente ridursi ad un numero di banali stereotipi caratteriali? Il serio rischio è quello di ridurre facilmente ogni persona al (nemmeno troppo complesso) algoritmo di gusti, posizione sociale, umore, stato sentimentale, in base al quale suggerire la pubblicità più adatta o i contatti che più potremmo desiderare aggiungere e conoscere.

La spersonalizzazione dei media non si ferma infatti al numero di “mi piace” di foto e pagine fan (quasi si trattasse di un criterio per valutare il proprio livello sociale o addirittura per fondare -o meno- la propria autostima); ogni aspetto della vita, piuttosto, deve divenire possibile elemento di un “biglietto da visita”: anche quelli più straordinariamente delicati e privati. Pochi riflettono sull’inquietudine che comporta la suggerita catalogazione delle nostre esperienze più intime o -in alcuni casi- di maggior drammaticità: Facebook propone di poter “registrare” con data e nota personale persino il cambio del nostro credo, le fratture delle nostre ossa, la rimozione dell’apparecchio per i denti, il primo bacio o la perdita di una persona cara (con tag del deceduto annessa). Qualsiasi avvenimento significativo, deve, insomma, diventare di pubblico dominio e fruizione: la nostra vita nelle mani delle aziende che devono sapere ciò che facciamo per decidere come dobbiamo spendere ciò che guadagniamo e come dobbiamo trascorrere il tempo a nostra disposizione. Esperienze straordinariamente significative e fatti contingenti sono parimenti livellati sul medesimo piano di importanza, tutti parte di un dominio di pubblica ed immediata ricezione che riduce al minimo la necessità di un contatto sociale diretto con l’altro, facendoci abortire anche la naturale curiosità che potremmo provare verso chi ancora non conosciamo particolarmente bene.

Sia chiaro che chi scrive non demonizza i social network, riconoscendo soprattutto le enormi potenzialità che questi possiedono. Facebook, WhatsApp, Twitter, non fanno in realtà che rideclinare ed ingigantire fenomeni umani vecchi di secoli: il desiderio di popolarità, la vanità, la tendenza al gossip. Ma rischiano di distruggere il fascino e la complessità della vita umana riducendola ad un elenco di tipi umani, quasi fossero caratteri di una commedia Plautina. La posta in gioco non è affatto irrilevante. Non è un caso che un mercato come quello della poesia, arte e gioco sottile d’espressione per eccellenza, viaggi ai minimi storici mentre tecnologie e social media collezionino un andamento in controtendenza rispetto al mercato attuale.

Vuol davvero l’uomo ridursi alla dignità di ciò che compra, farsi egli stesso merce ed esprimersi nei gradi di proprietà, capacità, gradimento misurabile?

martedì 21 ottobre 2014

Questo Bel Paese alluvionato dai soliti ignoti: noi



di Massimo Fini

Genova. Parma. Grosseto. Trieste. L'Italia cade in pezzi. Ogni autunno, ma ormai anche in altre stagioni, ci sono alluvioni del tipo di quelle cui stiamo assistendo in questi giorni. E ogni volta si grida allo scandalo e si additano al ludibrio delle genti i responsabili che possono essere, a piacere, il sindaco, il governo, la burocrazia, il Servizio metereologico che ha sbagliato le previsioni, la Protezione civile che non è intervenuta in tempo e con mezzi adeguati. Ogni volta questa o quella Procura apre un fascicolo contro ignoti per 'disastro colposo'. E proprio in questo termine, 'ignoti', sta la chiave dell'intera faccenda. Perché i responsabili non sono né i sindaci, né il governo, né il Servizio metereologico, né la Protezione civile. Responsabili siamo noi tutti, vittime comprese, che abbiamo accettato e accettiamo senza fiatare, senza un guaito, anzi cercando ciascuno di trarne la propria piccola o grande convenienza, un modello di sviluppo demenziale che non poteva portare che al dissesto idrogeologico. Certo si può tamponare meglio questa o quella situazione, ma non salvare la baracca. Sarebbe come se si pretendesse di impedire il naufragio di una nave che ha perso la chiglia infilando un dito in un foro del fasciame. Un processo di cementificazione, di deforestazione, di ogni tipo di oltraggio alla Natura che dura da più di mezzo secolo non si recupera né in un giorno, né in un anno, né in dieci, ma con cinquant'anni di retromarcia. Questo però nessuno, governi o cittadini, vuol sentirselo dire. E chi lo dice, e magari lo scrive, è considerato un folle, un antilluminista, un abbietto antimodernista. Ci si ostina a continuare per una strada che non ci vorrebbe molto a capire dove vada a parare: in un collasso finale devastante, di cui quello ambientale è solo un aspetto. L'Economia, con l'ancella Tecnologia, prevale su tutti e su tutto, anche sul più elementare buon senso. L'edilizia è in crisi. Bene, vuol dire che perlomeno si smetterà di costruire. E invece no, si costruisce ovunque, a manetta. A Finale Ligure, un tempo, con Celle, Albisola, Spotorno, Noli, Varigotti, Borghetto, Alassio, Bordighera, delizioso borgo di pescatori della Riviera di Ponente, ora ridotta ad un'unica striscia di cemento da Genova a Ventimiglia, non si vedono che cartelli 'vendesi' di case rimaste vuote, eppure si sta costruendo ancora, sul mare. Solo i cinesi -ma verrà anche il loro turno- ci han superato: costruiscono grandi città dove non abita nessuno. Milano ha avuto da sempre pochissimi spazi vuoti (eppure ai primi del Novecento l'architetto Van de Velde avvertiva: «Una città è fatta di pieni ma anche di vuoti») e adesso sono stati riempiti anche quelli in nome di quell'idiozia dell'Expo. Le Esposizioni Universali -la prima si tenne a Londra nel 1851- avevano un senso quando altri erano i mezzi di comunicazione, non nell'era di Internet. Che sarebbe stata in gran parte solo una speculazione malavitosa lo si sapeva da subito (adesso non ci resta che sperare, a titolo punitivo, in Ebola).

Intendiamoci, l'Italia è inserita nel modello di sviluppo occidentale e ci sarebbe voluta molta lungimiranza (forse solo il fascismo, almeno in teoria, la ebbe) per tenersene fuori. Però sono convinto che, fra i Paesi europei, il processo di industrializzazione sia stato particolarmente rovinoso per noi. Perché il nostro territorio, così vario, dalle Alpi alla cerniera degli Appenini al delta del Po alle coste, è geologicamente fragile, così come fragili sono il nostro straordinario paesaggio e la ricchezza artistica, frutto dell'opera delle generazioni che ci hanno preceduto, che non abbiamo saputo preservare. Ce lo siamo alluvionati da soli il nostro bel Paese. Le 'bombe d'acqua' (dei normali temporali) cadute su Genova e altrove c'entrano poco.

lunedì 20 ottobre 2014

Costume. I “radical chic” ieri e oggi. Chi erano e come si sono evoluti


di Giuseppe Balducci (Barbadillo)

In un articolo fiume intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”*, apparso sul New York Magazine del giugno 1970, Tom Wolfe, scrittore e giornalista americano, introduce nel mondo della carta stampata l’espressione, destinata a grande successo, “radical chic”. L’occasione è data da un party sontuoso organizzato da Felicia Bernstein, moglie del musicista Leonard. Il tutto ha luogo in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Molte personalità della cultura e dello spettacolo newyorchese vi prendono parte. L’intento della serata è raccogliere fondi da devolvere al gruppo marxista leninista “Pantere Nere”. Gli aneddoti che si tramandano dell’evento sono davvero esilaranti. Per rendere l’idea: al fine di scongiurare eventuali dissapori con gli ospiti afroamericani, Felicia, la padrona di casa, pretese che i camerieri dovessero essere tutti bianchi. Ai camerieri fu dato poi ordine di servire tartine al Roquefort.

Di lì a poco l’espressione “radical chic” approdò in Italia ripresa da Indro Montanelli. Sul Corriere, rivolto a Camilla Cederna, che si era occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, Montanelli definì la gioranlista “rappresentante del magma radical-chic”; stanca del “mondo delle contesse”, la Cederna si stava dedicando anima e cuore per la causa degli anarchici.

Esquerda festiva, Red set, Gauche caviar o Bourgeois-bohème, Salonbolschewist, Aristerà tu saloniù, Champagne socialist, Smoked salmon socialist, Radikal elegance, Esquerda caviar, Izquierda caviar e, per finire, in America, Limousine liberal.

Chi è il radical chic?

Generalmente di sinistra, ricco, ha abitudini da ricco in contraddizione con i suoi pensieri, ostenta infatti idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale (cit. Wikipedia). Dal vocabolario Treccani apprendiamo che l’espressione “radical chic” è composta dall’inglese radical «radicale» e dal francese chic ossia «elegante», e designa “che o chi, per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali”; per intenderci, “una borghesuccia che fa la radical-chic”. Francesco Maria del Vigo ha stilato invece una lista di dodici punti, un vademecum imprescindibile, per smascherare i nuovi radical chic. Dai tempi di Felicia i “radical” si sono “evoluti” diffondendo in maniera copiosa il loro verbo, ma con una capacità mimetica davvero deludente; basta qualche accorgimento, e il radical chic è bell’e smascherato.

Ormai 2.0, al pari del suo antenato analogico il Nostro è pervaso da un desiderio di prevalsa, da una sorta di propensione a distinguersi dai più. A titolo di esempio: a una comunissima immagine del profilo Facebook, per lui certamente "low brow", il “radical” preferisce invece “frammenti di film di qualche regista polacco mai distribuiti fuori dalla circonvallazione di Varsavia”, intento com’è a far sfoggio della sua cultura, e pur di primeggiare sul popolino incolto e ovviamente “berlusconiano”. Il radical poi non può fare a meno della sua reflex, e le foto delle vacanze “vanno bene solo se si è nel terzo mondo o in un campo profughi”, ritratti però “con sguardo” rigorosamente “corrucciato”, oppure “camuffati da indigeni (…) nell’atto di solidarizzare con gli abitanti del luogo”.


Ormai largamente diffuso, il germe radical chic interessa gran parte dell’establishment culturale italiano e si estende fino alle rinomate casalinghe di Voghera, rappresentanti però del folto pubblico degli aspiranti radical chic. Solitamente di estrazione piccolo-borghese, questi ultimi possono essere benissimo racchiusi nell’immagine, coniata da Pietrangelo Buttafuoco, della "professoressa col cerchietto", emanazione diretta del ‘68 e della riforma Berlinguer. Avida di luoghi comuni, è solita soddisfare la sua sete di sapere guardando nel week-end Fabio Fazio, maestro del radical chic televisivo. E’ indubbio il virus del “radical chic” ha intaccato gli strati sociali più insospettabili. Ma c’era d’aspettarselo: come scrive Alberto Arbasino ne “La vita bassa” i radical-chic sono “talmente storici che anche il pubblicaccio più ordinario adora” i loro “manifesti di protesta e denuncia così impegnata e griffata. Anche se poi le gazzette” le impaginano “fra le spa e spiagge estive e i gossip telefoninici”.

*In Italia l’articolo di Wolfe è stato pubblicato in volume dalla casa editrice Castelvecchi con il titolo “Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”.

venerdì 17 ottobre 2014

Arriva in sala “Cristiada”, il western religioso che racconta la persecuzione dei cristiani in Messico da parte del regime di Calles



di Valeria Gelsi (Secolo d'Italia)

Un appunto lo hanno fatto sia i critici sia gli storici: il film è molto orientato sulla lotta, tanto che alcuni lo hanno definito un “western religioso”. Al netto di questa concessione alla spettacolarizzazione, però, quegli stessi critici e storici hanno riconosciuto a Cristiada il merito di aver portato al grande pubblico una di quelle che si possono definire “pagine di storia strappate”: la ribellione dei cristiani del Messico contro le persecuzioni del regime laicista del massone Plutarco Elìas Calles. «Il film concede molto alla battaglia cappa e spada, più che alla puntuale ricostruzione degli avvenimenti, ma nel complesso rende bene il clima di quegli anni», ha spiegato adAvvenire lo storico Mario Iannaccone, autore anche della monografia Cristiada. L’epopea dei Cristeros in Messico. La vicenda risale agli anni Venti quando una rivolta di popolo, che coinvolse ricchi e contadini, si oppose prima nelle piazze e poi con le armi alla feroce applicazione delle leggi anti-clerticali voluta da Calles. Il film vanta un cast di eccezione, del quale fanno parte tra gli altri Andy Garcia, Peter O’Toole ed Eva Longoria. Prodotto nel 2012, è considerato il più impegnativo lavoro cinematografico messicano. Negli Stati Uniti è stato salutato con entusiasmo anche dalla critica liberal e nella laicissima Francia, dove è approdato a maggio, ha raccolto 80mila spettatori in due mesi. In Italia arriva in questi giorni, con una programmazionde città per città: Milano e Torino hanno aperto la strada, poi toccherà a Bologna (il 21 ottobre), a Firenze (il 24), a Ferrara (il 27), a Padova (il 28), a Napoli (il 29), a Genova (il 4 novembre) e a Roma (il 5). Una scelta della casa di distribuzione, la Dominus Production, che ha deciso di scommettere sulla pellicola, che nel nostro Paese era rimasta orfana anche dopo l’anteprima in Vaticano di due anni fa. «Facciamo i produttori privilegiando i film che abbiano, come questo, dei valori. Qualcuno dice che siamo un po’ folli nel far uscire questo film a Natale, ma io credo che certe cose vadano viste», ha spiegato Federica Picchi della Dominus, che ha previsto anche delle anteprime con i rappresentanti delle realtà culturali, politiche e religiose e delle proiezioni per studenti. Una curiosità: il film rende omaggio al personaggio storico di José Sanchez del Rio, che si unì alla lotta e fu torturato e ucciso a 15 anni per non aver voluto rinnegare la propria fede. E che nel 2005 è stato beatificato da Benedetto XVI.

giovedì 16 ottobre 2014

Evita Perón: il significato di un simbolo dell’Argentina moderna


di Francesca Penza

Sono trascorsi duecento anni dalla formazione del Primer Gobierno Patrio, il primo governo indipendente della storia dell’Argentina, seguito alla Revolución de Mayo – la Rivoluzione di Maggio – guidata dal creolo Manuel Belgrano. Duecento anni in cui si sono succeduti presidenti, dittatori e giunte militari, così come sono cambiate, negli anni, le forme di governo e la stessa nomenclatura dell’attuale Nazione Argentina.

E l’Argentina sceglie un simbolo per festeggiare la sua indipendenza. Un personaggio, una donna amata e contestata: Evita Perón.

Maria Eva Duarte de Perón nacque il 7 maggio del 1919. Figlia illegittima di Juan Duarte, piccolo proprietario terriero, conobbe già da bambina stenti e miseria che superò soltanto quando con la famiglia – sua madre ed altri quattro fratelli – si trasferì a Junin, in seguito alla morte di Duarte. La relativa serenità economica non le impedì di sviluppare una personalità curiosa ed intraprendente che la portò, quindicenne, a trasferirsi a Buenos Aires, dove conobbe Agustín Magaldi, il cantante di tango che la aiutò a divenire attrice per la radio e per il cinema. Proprio mentre registrava una telenovela radiofonica conobbe il futuro presidente, il generale Juan Domingo Perón. Le nozze si celebrarono nel 1945. Quello stesso anno Evita guidò una manifestazione per la liberazione di Perón, arrestato in ottobre per le sue attività contrapposte agli interessi militari. Fu la consacrazione politica di Evita. Per i successivi sette anni il Presidente poté fare affidamento sul suo carisma e le sue capacità. Nel 1957, dopo aver lottato a lungo con un cancro al collo dell’utero, Eva morì.

Non è difficile comprendere come mai si parli ancora di lei.

È facile paragonare la sua vita a quella dell’eroina di un romanzo d’appendice: origini illegittime e modeste che la portarono ad affrontare i pregiudizi dell’alta borghesia argentina, ma anche a schierarsi con le classi meno abbienti; una carriera nel mondo dello spettacolo con un contorno di relazioni più o meno torbide, testimonianza del suo innegabile fascino; l’aver sposato un uomo e una causa, dando fondo a tutte le sue risorse per sostenerli; l’essere morta prematuramente, sconfitta da un male moderno e “democratico”.

I descamisados – termine che vuol dire scamiciati e che viene usato per indicare i lavoratori che manifestarono davanti al palazzo presidenziale per il rientro di Perón dal confino – videro in Evita una paladina, un personaggio vicino alla politica che finalmente si mostrava interessata alle vicende del popolo.

La classe politica vedeva in Evita l’incarnazione del giustizialismo peronista.

Nonostante la vita coniugale subisse alti e bassi, Evita non mancò mai di collaborare allo sviluppo del programma di governo del Presidente e non perse mai di vista i temi sociali: creò la Fondazione che porta tutt’ora il suo nome, attraverso la quale si fece carico di diffondere istruzione e salute.

Il ramo femminile del Partido Justicialista – Partito Giustizialista (parola derivata dalla fusione di “giustizia” e “socialismo”) fondato dallo stesso Perón nel 1947 – riscosse con Evita il suo più grande successo ottenendo il suffragio universale: ai lavoratori che già nel 1946 avevano appoggiato Perón, nel 1951 si aggiunsero le donne.

Tuttavia non possiamo ignorare come gran parte degli impegni politici e sociali di Evita siano nati da impeti personali e da un orgoglio fuori dal comune.

La stessa Fondazione Eva Perón nacque perché le dame dell’Organizzazione di Beneficenza Argentina rifiutarono a Evita il ruolo di presidentessa, da sempre assegnato alla First Lady.

Anche dopo aver investito milioni di dollari della Fondazione in opere destinate a migliorare le condizioni sociali, sanitarie e culturali del popolo argentino Evita non guadagnò le simpatie dei molti esponenti dell’alta società argentina, per lo più contrari alla politica peronista, che la ritenevano un’arrivista, poco più di una prostituta, impegnata soltanto nell’affabulare il popolo.

Nemmeno dopo la sua morte ebbe pace: la sua salma fu più volte traslata e sepolta in diversi luoghi – anche in Italia – con un nome fittizio.

Da Joan Baez a Madonna, il cinema e la musica l’hanno ricordata e omaggiata. Spesso la si sente nominare insieme a Margaret Thatcher e Indira Gandhi e sempre quando si tratta di ricordare donne che hanno “portato i pantaloni”, amate per questo e contestate per lo stesso motivo.

Ma che significato ha, nell’Argentina moderna, la scelta di Evita Perón come simbolo dell’indipendenza? Per rispondere a questa domanda è necessario considerare una molteplicità di fattori economici, politici e sociali.

I circa quaranta milioni di abitanti, distribuiti sui quasi tre milioni di chilometri quadrati che costituiscono il territorio argentino, hanno alle spalle non solo il retaggio coloniale tipico dei paesi del Sud America, ma anche una situazione economica altalenante e spesso disastrosa: difficile dimenticare il tasso di inflazione nel 1983 pari al 3000% o il grande tracollo finanziario del 2001. Tutto questo nonostante la quantità di petrolio estratto – che rende l’Argentina indipendente sotto il profilo energetico – e le ingenti esportazioni di prodotti agricoli e alimentari evidenzino la grande ricchezza di risorse del paese.

La situazione politica argentina è sempre stata complessa e soggetta all’ingerenza delle forze militari, responsabili dell’epurazione di centinaia di oppositori del regime instaurato dal generale Jorge Raphael Videla nel 1976: il buio capitolo dei desaparecidos, che si concluse solo nel 1983, quando oltre 30mila dissidenti, di cui si era persa ogni traccia, furono dichiarati morti. Sempre nel 1983 il neo presidente Raúl Alfonsin, dell’Unión Civica Radical – Unione Civica Radicale, partito di centro-sinistra – annunciò l’inizio dei procedimenti giudiziari a carico dei militari responsabili della violazione dei diritti umani durante gli anni della dittatura.

Se consideriamo la storia dell’Argentina dal 1862, anno in cui diviene Nazione Argentina, possiamo contare trentadue governi provvisori e dodici dittature militari su un totale di cinquantuno legislature, dato sufficiente a comprendere la natura fragile dei governi costituiti.

Il 1983 è l’inizio di una serie di governi di sinistra che guideranno il paese sotto la bandiera del giustizialismo.

Questo successo del populismo peronista, che deve molto all’impegno e al carisma della stessa Evita, è da ricercarsi prevalentemente nei rapporti tra il peronismo e la classe operaia dovuti alla nascita di una nuova fascia sociale che affondava le proprie radici nella cultura rurale priva di ideali politici forti tali da impedire a questi “nuovi operai” di essere affascinati dalla figura piuttosto paternalistica di Perón, che per certi versi ricalcava il modello sociale mussoliniano, che lo stesso Presidente e sua moglie dichiararono in più occasioni di apprezzare.

Il populismo di Perón sembra quindi derivare dallo sfaldarsi dei normali flussi di commercio e dalla crisi del comparto agro-alimentare. Da questo la crescita del proletariato urbano che vede nella moglie del Presidente uno spirito affine, quel proletariato che ha fatto di Perón l’antesignano del populismo più moderno e spicciolo.

È una scelta colma di significati quella di riversare su Evita Perón un enorme carico simbolico. Alla luce degli sviluppi interni all’Argentina, l’immagine di Evita offre un esempio di abnegazione ai ruoli istituzionali e di attenzione verso tutti gli strati sociali che erano stati il cuore pulsante del giustizialismo.

Evita, simbolo e voce dell’indipendenza argentina: una chiara rivendicazione dell’equità del giustizialismo; una figura moderna soprattutto perché donna; un’immagine in cui forse gran parte dell’Argentina vorrebbe tornare a specchiarsi.

*Francesca Penza, dottoressa in Scienze della comunicazione, collabora con “Eurasia”

lunedì 13 ottobre 2014

Alla fine ha vinto Marx.Siamo tutti uguali:individualisti e nichilisti



di Marcello Veneziani

Marx ha vinto e vive con noi. Non è una boutade o un paradosso, è la realtà. Il marxismo separato dal comunismo -e la sua utopia scissa dalla sua profezia - è lo spirito del nostro tempo. Viviamo in piena epoca marxista. Non mi riferisco solo alla crisi economica presente né solo al fenomeno previsto da Marx ed ora effettivamente avverato della ricchezza concentrata in poche mani, con una minoranza sempre più ricca e ristretta e una maggioranza sempre più vasta e povera.

Dobbiamo rifare i conti con Marx, e non solo perché ci siamo formati in un’epoca - come scrive Dürrenmatt - in cui «essere marxisti era una specie di dovere» - un dovere che noi trasgredimmo. Ma soprattutto perché il marxismo impregna il nostro oggi. Scrive Marx nel Manifesto: «Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti». È la prefigurazione più precisa della nostra epoca. Il marxismo fu il più potente anatema scagliato contro Dio e il sacro, la patria e il radicamento, la famiglia e i legami con la tradizione; una teoria che si fece prassi pervasiva. Fu una deviazione la sua realizzazione in paesi premoderni, come la Russia e la Cina, la Cambogia o Cuba. Contrariamente a quel che si pensa, il marxismo non si è realizzato nei paesi che hanno abbracciato il comunismo, dove invece ha fallito e ha resistito attraverso l’imposizione poliziesca e totalitaria; si è invece realizzato nel suo spirito laddove nacque e si rivolse, nell’Occidente del capitalismo avanzato.

Non scardinò il sistema capitalistico, ma fu l’assistente sociale e culturale nel passaggio dalla vecchia società cristiano-borghese al neocapitalismo nichilista e globale. La società dei consumi, dei desideri e dei mondi virtuali ha realizzato, nella libertà, il compito e la definizione che Marx dava del comunismo: «è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». L’utopia comunista è stata realizzata a livello planetario, ma sul piano individuale e non collettivo, come invece pensava Marx. Nel segno dell’individualismo di massa e non del comunismo e della sua abolizione dello Stato, della proprietà privata o delle diseguaglianze. Non sconcerti questa lettura individualistica di Marx. Nell’Ideologia tedesca, Marx dichiara che il fine supremo del comunismo «è la liberazione di ogni singolo individuo» dai limiti locali e nazionali, famigliari e religiosi, economici e proprietari. Il giovane Marx onora un solo santo nel suo calendario: Prometeo, l’individuo eroico e liberatore. Uno dei primi scopritori dell’essenza individualistica che si celava dentro la buccia collettivista di Marx fu Louis Dumont in Homo aequalis.

La società capitalistica globale ha realizzato le principali promesse del marxismo, seppur distorcendole: nella globalizzazione ha realizzato l’internazionalismo contro le patrie; nell’uniformità e nell’omologazione ha inverato l’uguaglianza e il livellamento universale; nel dominio globale del mercato ha riconosciuto il primato mondiale dell’economia posto da Marx; nell’ateismo pratico e nell’irreligione ha realizzato l’ateismo marxiano e la sua critica alla religione; nel primato dei rapporti materiali, pratici e utilitaristici rispetto ai valori spirituali, morali e tradizionali ha realizzato il materialismo marxiano; nella liberazione da ogni legame organico e naturale ha realizzato il prometeismo marxista nella sfera individuale; nella società libertina e permissiva ha inverato la liberazione marxiana dai vincoli famigliari e matrimoniali; e come Marx voleva, ha realizzato il primato della prassi sul pensiero. Il marxismo, fallito come apparato repressivo a Est, si è realizzato come radicalismo permissivo a Occidente, separandosi dal comunismo anticapitalista, messianico e profetico. E ora si realizza anche nell’Estremo Oriente, in Cina e Corea, nella forma del mao-capitalismo, il comunismo liberista.

La spinta ideologica del marxismo si condensa in forma di mentalità; la sua avanguardia intellettuale assume il controllo del potere culturale, come una setta giacobina che vigila sulla conformità al politically correct; mentre nei rapporti sociali ed economici, il marxismo si conforma alla società globale e neocapitalistica di massa. Di cui è stato in definitiva la Guardia Rossa, a presidio della rimozione della Tradizione. Lo spirito del marxismo si realizza in Occidente, facendosi ideologicamente radical, economicamente liberal. Ha perso i toni violenti del marxismo - la cruenta lotta di classe e la dittatura del proletariato - lasciati alle rivoluzioni del Terzo Mondo e frange estreme d’Occidente; ma con essi ha perso anche l’anelito alla giustizia sociale e il radicamento nel proletariato e nella classe operaia. La società di massa dell’Occidente ha portato a compimento la previsione di Marx: la proletarizzazione dei ceti medi ma dopo l’imborghesimento del proletariato. La borghesia si universalizza come stile di vita e modello, ma il suo allargamento coincide col suo abbassamento di status socio-economico al rango proletario.

Quel che Marx non aveva capito era che il disincanto, la secolarizzazione, l’ateismo non avrebbero risparmiato nemmeno il comunismo e la sua vena escatologica e profetica. Arrivo a dire che il comunismo dell’est è stato sconfitto dal marxismo occidentale, col suo materialismo pratico, la sua irreligione e il suo primato dell’economia che hanno sradicato più che nelle società comuniste il seme vitale dei principi e degli assetti tradizionali. Non a caso i marxisti d’Occidente si sono convertiti allo spirito radical e liberal, all’individualismo, al mercato e alla liberazione sessuale, dismettendo la liberazione sociale. La lotta di classe ha ceduto alla lotta di bioclasse nel nome dell’antisessismo e l’antirazzismo. Anche la difesa egualitaria delle masse di poveri ha ceduto alla tutela prioritaria dei «diversi».

Il marxismo resta attivo sotto falso nome e falsa identità, quasi in forma transgenica, come spirito dissolutivo della realtà e del suo senso, del sacro e del fondamento, dei principi e delle strutture su cui si è fondata la società tradizionale. La fine del marxismo, a lungo enunciata, è un caso di morte apparente.

sabato 11 ottobre 2014

Tagli all'istruzione per sostenere l'immigrazione,vuoi restare a guardare?



Ogni giorno, in Italia, sbarcano circa 800 immigrati clandestini ai quali viene dato subito vitto e alloggio, spesso in alberghi e strutture private.
I sussidi che prendono sono talvolta superiori alle pensioni di italiani che hanno lavorato tutta la vita.
I servizi che ricevono sono quelli che molte famiglie italiane colpite dalla crisi non vedono da anni.
A causa delle decine di milioni di euro spesi da Renzi per assistere gli africani sbarcati a Lampedusa saranno tagliati fondi per la scuola e per l’edilizia scolastica.
Si parla di te, del tuo futuro e del tuo Paese.
Aiutaci a cambiare le cose cominciando dalla tua scuola.



lunedì 6 ottobre 2014

Le Sentinelle in piedi conquistano le piazze. Contestazioni da sinistra

sentinelle

tratto da Barbadillo.it

Successo e partecipazione per la manifestazione nazionale delle Sentinelle in piedi, “Cento piazze per l’Italia”, durante la quale il movimento, laico ed autoconvocato, ha espresso il proprio dissenso verso il ddl Scalfarotto sull’omofobia e verso le Il format è ormai familiare. Le Sentinelle si caratterizzano per l’occupazione sileziosa di una piazza davanti a palazzi istituzionali nella quale i militante leggono un libro
L’evento è avvenuto in contemporanea in tutte le cento piazze italiane con numeri che difficilmente si vedono in altre manifestazioni: a Milano e a Verona sono intervenuti 500 veglianti, a Modena più di 300.

Le “Sentinelle in piedi” nascono originariamente in Francia, per protestare contro la legge sul matrimonio omosessuale. A seguito delle repressioni messe in atto dal governo Hollande, alcuni aderenti alla Manif Pour Tous idearono le Sentinelle, che vegliano silenziosamente di fronte ai palazzi del potere. In Italia sono arrivate un anno fa e hanno ingrossato le loro file in occasione della presentazione del DDL Scalfarotto, dei disegni di legge su coppie di fatto e adozioni a coppie di omosessuali.

Purtroppo i media si sono curati dell’evento di domenica solo a causa delle contestazioni violente subite dalle Sentinelle. I centri sociali di sinistra e gli attivisti delle associazioni pro diritti gay non hanno digerito una mobilitazione così vasta e hanno organizzato presidi di protesta, degenerati talvolta in tafferugli, per impedire la manifestazione silenziosa e pacifica, che però a quanto pare è stata un successo.

domenica 5 ottobre 2014

In ricordo di Piccolo Attila


"Cadrò una, due volte , mille volte ancora, ma ogni volta mi rialzerò per tornare all'assalto, da uomo libero"

sabato 4 ottobre 2014

‘Patriottismo’: Rito d’amore e di morte...



di Daniele Zanghi (L'Intellettuale Dissidente)


Pochi sono a conoscenza che tra le opere di Mishima si puo’ annoverare anche un film, da lui scritto, messo in scena, interpretato, girato e prodotto. Datato 1966, questo cortometraggio di 30 minuti fu a lungo creduto andato perso, probabilmente distrutto dalla sua vedova, per poi essere riscoperto nel 2005. Lungi dall’essere una parentesi o un tentativo, o tantomeno un’opera minore, una versione propagandistica dell’omonimo racconto da cui è tratto,Yūkoku(Patriottismo) è da considerarsi come facente parte a tutti gli effetti del continuum arte-vita dell’affascinante teorico, ed effettuale protagonista, della filosofia dell’istante.
La narrazione dei fatti storici che fungono da pretesto per la presentazione del suicidio rituale viene affidata a degli intertitoli. In seguito all’Incidente del 26 Febbraio 1936, ossia un tentativo di colpo di Stato organizzato da alcuni alti ufficiali dell’esercito giapponese, al luogotenente Shinji Takeyama, amico degli insorti, viene impartito l’ordine di giustiziare i suoi stessi colleghi. Takeyama si trova nella situazione tragica per eccellenza: egli è metafisicamente bloccato, incapace sia di tradire i suoi amici, sia di disobbedire all’Imperatore. Il suo destino è segnato, l’impossibilità di scegliere una delle due forme di fedeltà lo costringe ad optare per l’unica soluzione che lo salvi dal disonore: il seppuku (taglio del ventre). Sua moglie Reiko lo seguirà nella morte pugnalandosi alla gola.
Le immagini del film, privo di dialoghi, sono accompagnate soltanto da un brano del Tristan und Isolde di Wagner. L’indefinitezza tonale dell’armonia è coerente con l’apertura emotiva dei momenti precedenti il rituale: si tratta di una stessa straziante fumosità sensuale recante pero’ un pesante senso del definitivo. Separate dal tempo e dallo spazio, le coppie Takeyama-Reiko e Tristano-Isotta sono accomunate dalla fascinazione per la notte, per il desiderio insaziabile e fatale, una fascinazione decadente per una morte voluttuosa che è al contempo una promessa di liberazione: in poche parole abbiamo uno stesso “rito d’amore e di morte”, una stessa immersione nell’irrefrenabile notte che sfocia sulla conquista dell’eternità.
Eppure Yūkoku presenta una differenza fondamentale rispetto all’estetica decadente occidentale per così dire “oppiacea”. L’ossessione dell’annullamento che vi ritroviamo esclude l’informe, il groviglio psicologico e sensuale. Tutto cio’ che freme e striscia è incompatibile con la purezza ricercata da Mishima. I suoi personaggi sono dei contemplativi, la loro visione del nulla è agli antipodi della poca lucidezza di un Tristano in preda a degli attacchi d’ira. I due amanti sono caratterizzati dalla purezza della loro intenzione: in particolar modo, ancor più dell’imperturbabilità di Takeyama, che in quanto uomo non può lasciare trasparire segni di debolezza -i suoi gesti e le sue espressioni sono freddi, egli è distante dalla cinepresa e non rivela i propri sentimenti-, colpisce la risolutezza di Reiko che riesce a vincere il suo istintivo attaccamento femminile alla vita. Ella sa verso cosa va incontro, ella ha accettato. Nel racconto originale (incluso nella raccolta Morte di Mezza Estate) si vede bene come Reiko già sapesse dal giorno del suo matrimonio che questo momento sarebbe infine potuto giungere; il mondo dell’infanzia le appare lontano e irreale considerata la pienezza identitaria che la presenza del marito le aveva sempre lasciato intravedere, e alla quale ora può anch’ella assurgere. Che la sua condotta sia in realtà il risultato di una cancellazione della sua personalità dettata dall’amore nevrotico di suo marito, poco importa -Reiko ormai ha deciso. La pellicola in bianco e nero accentua l’incarnato virginale del suo volto splendidamente sereno ed i suoi tratti sfiorano la perfezione nella scena in cui si trucca prima di suicidarsi. Una tale morte è impensabile per noi occidentali, noi che nelle tragedie abbiamo dei personaggi divoratori di dubbi.
La filosofia o meglio l’estetica che anima i due amanti va di pari passo con la severa visività di tutta la messa in scena. Il debito di Mishima nei confronti del teatro Nō è evidente, come dimostra l’essenzialità della scenografia. I personaggi si muovono in due soli ambienti: un giardino e una washitsu, cioè una stanza tradizionale giapponese, in cui campeggia un kakemono (rotolo di carta o di seta destinato ad essere appeso ad un muro) recante due caratteri che significano “fedeltà”. La perfezione formale culmina nell’inquadratura finale dei due corpi plumbei, quello di Takeyama vestito dall’abito militare e quello di Reiko dal kimono, adagiati l’uno sull’altro nella sabbia ondulata del giardino che forma un motivo circolare. Ecco, ecco gli esseri che, offerti sangue ed interiora, estirpata l’anima attraverso l’atto estremo, tornano ad essere “dolci e meravigliosi come gli Dei”*.
*dalla poesia “Le Stelle”

giovedì 2 ottobre 2014

Manipolazione del linguaggio



di Piero Cammerinesi (Il Giornale del Ribelle)

Houston, 24 Settembre 2014 - La riduzione di concetti complessi a slogan o parole-chiave è il segreto per il controllo delle masse.

“Talvolta - afferma Gustav Le Bon nel suo La psicologia delle folle - le parole più mal definite, sono quelle che fanno più impressione. Come, ad esempio, le parole: democrazia, socialismo, eguaglianza, libertà, ecc il cui senso è così vago che non basterebbero dei grossi volumi a precisarlo. E, tuttavia, alle loro sillabe è unito un magico potere, come se contenessero la soluzione di tutti i problemi. Queste parole sintetizzano diverse aspirazioni incoscienti e la speranza della loro realizzazione. La ragione e la discussione non potrebbero lottare contro certe parole e certe formule...suoni vani, la cui utilità principale è quella di dispensare colui che le adopera dall’obbligo di pensare”.

Questa ‘condensazione’ di concetti - come abbiamo visto in maniera inequivocabile negli ultimi anni - ha consentito la completa e magistrale realizzazione della falsificazione della parola. Dalla capacità di evocare magicamente delle reazioni viscerali mediante certe parole-chiave, alla tentazione di alterare - quando non ribaltare - il significato delle parole stesse, il passo è stato breve.

Partiamo dalla parola guerra.

L’asserzione ‘la guerra è pace’ di orwelliana memoria, che settant’anni fa poteva apparire come una stravaganza di un romanzo di fantasy, è divenuta oggi il mantra dei governi quando si tratta di far guerra senza dichiararla e senza aver nulla da temere da parte dell’opinione pubblica.

Ecco che una guerra di aggressione, illegale secondo il diritto internazionale, diventa “guerra di liberazione”.

Quando, poi, nel Paese che si vuole invadere, vi sono delle particolari situazioni di guerra civile - di fatto create ad arte - che portano a palesi massacri della popolazione, l’aggressione si trasforma, magicamente, in “missione umanitaria”.

Le devastazioni incontrollate di truppe mercenarie addestrate e armate per rovesciare governi legittimamente eletti, che gettano il Mediterraneo nel caos e nella guerra civile, si trasformano, come per incanto, in ‘Primavere arabe’.

I soldati che occupano e bombardano Paesi sovrani vengono definiti dai media “truppe alleate”, mentre, per converso, coloro che cercano di difendere il proprio Paese dagli invasori sono, senza mezzi termini, “terroristi”.

Ma veniamo ai giorni nostri, alla nuova ‘Crociata’ contro l’Isis, o sedicente ’Stato Islamico’, e cerchiamo di capirne di più dalle parole e dai progetti di chi questa crociata ha inventato, vale a dire il nostro Premio Nobel per…la Pace, Barak Obama.

La prima domanda che verrebbe da fare - se ancora volessimo dare un senso al termine legalità - è: ma questa guerra è legale?

Quello che salta all’occhio, esaminando gli ultimi statement, veri e propri ‘discorsi alla nazione’ di Obama, è che si è cercato di rendere impossibile - tramite una studiatissima scelta delle parole - la discussione sulla legalità o meno di questa ennesima aggressione a stelle e strisce.

Nell’ultimo statement di martedì 23 Settembre, nel quale ha annunciato le incursioni aeree sulla Siria, il presidente ha evitato qualsiasi riferimento alla propria autorità legale a ordinare questi attacchi, lasciando a un anonimo portavoce della Casa Bianca l’onere di riferire al New York Timesche l’autorizzazione per le incursioni in Siria è desumibile dall’Authorization of Use of Military Force(AUMF) del 2001 - che era stato destinato ad Al-Qaida – nonché dalla dichiarazione di guerra del 2002 contro l’Iraq di Saddam Hussein.

Che significa ciò esattamente ?

Significa niente di meno che l’autorità legale ottenuta dalla presidenza USA quasi 13 anni fa - finalizzata all’aggressione nei confronti di Al-Qaida o all’invasione dell’Iraq - oggi viene utilizzata per invadere, bombardare, distruggere qualsiasi altro Paese.

Bene, dopo la parola legale, passiamo ad analizzare un’altra parola e l’uso che se ne fa.

È il turno della parola civili.

Ora, il Pentagono oggi comunica di essere certo che non vi siano delle perdite tra i civili, nonostante alcuni credibili reportage che dimostrano il contrario, ma il punto è che la Casa Bianca ha pensato bene di ridefinire la parola civili, in modo da poter annientare chiunque e dovunque con i suoi droni.

Così i civili vivi si trasformano in...militanti morti.

Dovunque un drone annienta gruppi di persone la retorica dei media americani si riempie la bocca della parola militanti.

Ma come è avvenuta questa trasformazione?

Semplicissimo: Obama ha deciso di considerare, nelle zone soggette ad attacchi aerei o di droni - e di conseguenza denominare - tutti i maschi in età di combattere come combattenti o militanti, secondo svariate fonti ufficiali, a meno che “non ci sia una esplicita prova dei servizi di intelligence che dimostri, in modo postumo, la loro innocenza”.

Ve li immaginate gli 007 della NSA che vanno a intervistare i morti ammazzati dai droni per sapere se erano civili o militanti?

Ora passiamo alla parola imminente. 

Sempre ieri, martedì 23, il nostro Obama ha annunciato anche degli attacchi contro il gruppo Khorasan, una succursale di Al-Qaida secondo lui.

Ma chi ne aveva mai sentito parlare? E come si è arrogato l’autorità per aggredirli?

Semplice: grazie alla parola imminente.

Infatti, nelle dichiarazioni del nostro Nobel per la Pace, questi signori stavano pianificando un imminente attacco contro gli Stati Uniti. Imminente è la parola magica; basti ricordare che è la chiave di volta dell’autorizzazione che Obama si è auto-erogato per uccidere qualsiasi persona - anche se cittadino americano - in qualsiasi parte del mondo.Ecco la dichiarazione d’intenti per poter aggredire chiunque e dovunque: “A fronte di qualsiasi imminente minaccia di attacco nei confronti degli Stati Uniti, questi non hanno necessità di avere prove certe che avrà luogo nel prossimo futuro un determinato attacco in particolare nei confronti di cittadini americani”.

Dunque imminente può significare tutto e niente, come volevasi dimostrare.

Altra parola interessante, che ricorre insistentemente nei proclami della Casa Bianca è truppe di terra.

Ora il presidente, per non urtare la popolazione - che non vuole più vedere i propri figli tornare nei body bag - ha pensato bene di rassicurare la gente che nelle nuove crociate non ci saranno truppe di terra in Iraq o Siria.

Il fatto – non esattamente trascurabile – è che in Iraq le truppe di terra già ci sono con i 1600 - sempre a voler credere ai dati ufficiali - esperti militari presenti sul territorio. Si tratta di truppe scelte inserite nelle élite combattenti irachene o comunque attive nelle incursioni mirate contro i militanti.

Come fare per uscire dall’impasse?

Semplice, anche in questo caso; basta cambiare l’accezione di personale combattente.

Ed ecco che, miracolosamente, con la nuova definizione, fresca di conio, il personale combattenteresta fuori dal concetto di truppe di terra...

Elementare, Watson!

Per concludere, quando leggete i giornali o guardate i telegiornali, attenzione alle parole.

Tramite il loro uso – e abuso – si manipolano le coscienze e si altera il rapporto concetto-parola che è alla base del pensiero che utilizziamo nella nostra vita.

E se, per rassicurare quelli che ancora hanno qualche sprazzo di autonomia, i media o i governanti affermano che stanno dicendo la verità, beh, allora state certi che hanno già trasformato anche il senso della parola verità.

Scriveva Rudolf Steiner quasi un secolo fa: “Quando si vuole ottenere un determinato risultato nel mondo, risultato che deve rappresentare l'opposto della regolare direzione dell'evoluzione dell'umanità, ebbene, allora gli si dà, per così dire, un nome che significa il contrario. L'umanità deve imparare a non credere ciecamente ai nomi”.

Guarda guarda, un nome che significa il contrario...dice niente?

mercoledì 1 ottobre 2014

La franchezza del CNEL



di Fabrizio Fiorini (Rinascita)

Sarà che per il vecchio Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro tira aria di dismissione, sarà che i numeri sono quelli che sono e concedono poco spazio a giochetti e a “contabilità creativa”, ma al dimenticato Organo costituzionale occorre riconoscere quantomeno il pregio della chiarezza e della sintesi.
E’ di oggi la diffusione dei dati del “Rapporto sul mercato del lavoro 2013 – 2014”, presentato presso il “Parlamentino” di via Lubin non già da (e alla presenza di) pericolosi eversivi, ma dalle più alte cariche istituzionali e sindacali.
Questi, in sintesi, i dati emersi dallo studio, emanati proprio mentre la politichetta nazionale si baloccava con “job acts” e “riformine”:
1) il costo del lavoro, il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo”, si mantiene stabile su livelli allarmanti, ed eventuali provvedimenti tampone e di breve durata risulterebbero in ogni caso inefficaci per la ripresa dell’occupazione;
2) se il centro-nord non ride, il nostro mezzogiorno si dispera: la caduta del Pil, al confronto, nelle regioni meridionali è doppia; i settori manifatturiero ed edile in particolare si trovano ai minimi termini e difficilmente la loro situazione potrà migliorare nel prossimo e meno prossimo futuro;
3) lo stato di deflazione è palesemente conclamato: a fronte di una riduzione dei prezzi, molto marcata in alcuni settori economici, non si configura alcun incremento della domanda;
4) il potere d’acquisto dei cittadini e delle famiglie italiane, a causa di un vero e proprio arretramento della massa salariale e della disgregazione delle garanzie occupazionali, e tracollato: circa il 7% in meno in poco più di tre anni;
5) per la prima volta un Ente dello Stato mette in evidenza l’oggettiva impossibilità (logica, prima ancora che “econometrica”) che la situazione - innanzitutto quella occupazionale - possa essere sanata, anche nel lungo periodo: si tratta, sottolineano dal Cnel, di milioni di posti di lavoro perduti, di centinaia di migliaia di imprese chiuse, di un Paese in ginocchio;
6) la recessione sta conducendo a veri e propri mutamenti dei comportamenti di massa; il concetto di “povertà” è sempre più percepito dalle famiglie italiane e, fenomeno inedito, l’indigenza (reale o statistica che sia) non è più un fenomeno legato allo status di disoccupazione, ma riguarda anche gli occupati. Col solito eufemismo anglofono, la chiamano “inwork poverty”.
Quest’ultima affermazione, che riporta alla memoria gli ammonimenti poundiani, esprime la reale natura del problema. Che non è la povertà, la mancanza di mezzi, di infrastrutture, di intelligenze, di risorse. E’ l’impossibilità di accedere al mezzo per scambiarli, la moneta, anche ricorrendo all’onesto lavoro. Quella moneta di cui non possiamo disporre da uomini liberi e da popolo libero, che ci è stata usurpata dagli strozzini di Bruxelles.
Un’ultima cosa dice il rapporto del Cnel: i primi progressi, la ripresa, ci sarà; ma non ora, nel 2015. Insomma, tutto è perduto, fuorché il senso dell’umorismo.