mercoledì 30 aprile 2014

Centralità dell'Europa


di Luciano Fuschini (Il Giornale del Ribelle)

La globalizzazione, proiettando sulla scena internazionale altri attori, aveva fatto pensare che l’Europa stesse diventando marginale. La crisi ucraina invece dimostra che il nostro continente resta assolutamente decisivo negli equilibri mondiali.

Si presentano due possibili scenari.

Il primo è quello di un’Europa che resti saldamente agganciata agli USA, non solo attraverso il legame storico garantito dalla NATO e dalla presenza massiccia di basi americane sui nostri territori, ma dipendente dal potente alleato-padrone anche dal punto di vista energetico, rinunciando in tutto o in parte agli approvvigionamenti che vengono dalla Russia. Inoltre è in corso di definizione un trattato di libero commercio fra UE e USA, trattato che ci vincolerebbe ancora più strettamente all’Impero Atlantico.

La realizzazione di questo scenario allontanerebbe lo spettro del declino dagli USA e assicurerebbe anche per questo secolo la supremazia anglo-sassone sul mondo.

Il secondo è quello di un progressivo distacco dagli USA, tentazione che si intravede talvolta nella Germania per i suoi stretti rapporti commerciali con la Russia, per i suoi “distinguo” in occasione di imprese imperialiste come l’aggressione alla Libia e le interferenze in Siria, per l’irritazione con cui la nazione-guida dell’Europa ha reagito al datagate. Un possibile futuro governo del Front National in Francia imprimerebbe una svolta in senso anti-atlantico a tutto il continente. Si delineerebbe così uno slittamento dell’Europa verso la Russia, a sua volta sempre più collegata con la Cina, a configurare la realtà di un Impero euro-asiatico che consegnerebbe l’Impero Atlantico a un’inevitabile parabola discendente.

I due scenari dimostrano che l’Europa, con la sua potenza economica e tecnologica e con le sue centinaia di milioni di forti consumatori, resta il fattore decisivo per le sorti degli equilibri politici mondiali. Se consoliderà i suoi rapporti con gli USA, l’Impero Atlantico marittimo resterà dominante, se si sposterà verso la Russia sarà l’Impero Continentale a imporsi come nuovo blocco egemone.

Questa è la partita che si gioca in Ucraina.

Non è da escludere che si sia fatto scoppiare il bubbone per provocare l’arresto del flusso del gas russo verso l’Europa e di conseguenza troncare sul nascere ogni tentazione di volgere lo sguardo a est.

Se nel braccio di ferro la Russia si mostrerà più determinata, l’egemonia americana sull’Europa e sul mondo si incrinerà in modo forse irrimediabile.

La partita è talmente grossa, la posta in palio è talmente elevata, che i rischi di un altro ’14, dopo quello che nel secolo scorso segnò l’inizio di una tragedia che si sarebbe conclusa solo nel 1945, sono incombenti.

La storia ha assunto un passo di carica.

Il ritmo degli eventi brucia le tappe.

Dopo il crollo dell’URSS abbiamo avuto un ventennio di predominio assoluto dell’Impero Atlantico, che ne ha approfittato impadronendosi di gran parte del mondo con l’estensione della NATO ai Paesi che fecero parte del blocco sovietico, con l’aggressione alla Serbia che ha ridotto la penisola balcanica a un protettorato americano, con l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, con lo scempio della Libia, smembrando nazioni e arrogandosi un diritto illimitato a interferire nelle vicende interne degli altri Paesi, creando precedenti che ora si ritorcono contro chi li ha incautamente provocati.

Nei primi anni di questo secondo decennio del nuovo millennio, le cose stanno cambiando altrettanto velocemente. Una Russia che sembrava in ginocchio si sta riprendendo con una rapidità imprevista. Una sua sempre più probabile alleanza anche militare con la Cina permetterebbe di mettere in comune risorse economiche e armamenti di primordine, una popolazione di quasi due miliardi, col vantaggio di poter manovrare per linee interne in caso di guerra mondiale.

Non stiamo volando con la fantasia.

Stiamo prendendo atto di realtà che stanno nascendo sotto i nostri occhi.

Il mondo è davanti a un’altra svolta, e le scelte degli europei ne determineranno il corso.

La contesa per il controllo sull’Europa scatenò le due guerre mondiali del secolo scorso, la stessa contesa potrebbe essere la causa del primo conflitto globale del ventunesimo.

Sarajevo-Danzica-Kiev?

lunedì 28 aprile 2014

Primo Maggio: il valore del lavoro oltre la deriva economicista

lavorodi: Sandro Marano (Barbadillo.it)

Quel che succede a Taranto, con il peggioramento della qualità della vita in città e l’aumento dei tumori e delle leucemie infantili a causa dell’inquinamento delle fabbriche sul territorio è emblematico d’uno sviluppo indiscriminato e nocivo e ripropone ancora una volta con forza il dilemma salute-occupazione. Ma, aggiungiamo subito, falso dilemma, perché occorre domandarsi: quale lavoro?
Ci affidiamo alla pregevole e lucida analisi di Massimo Fini, che ha il dono della concisione e dell’efficacia: “Prima della Rivoluzione industriale il lavoro non era mai stato considerato un valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta, il resto è vita. (…) E’ l’Illuminismo che (…) fa del lavoro un valore, sia nella sua declinazione liberista che marxista. Per Marx il lavoro è ‘l’essenza del valore’, per i liberisti (Adam Smith, David Ricardo) è quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso ‘plusvalore’. Da questo punto di vista liberismo e marxismo si differenziano molto poco (…). E’ da qui che ha inizio la deriva economicista che ci porterà al paradosso per cui noi oggi non produciamo nemmeno più per consumare ma consumiamo per poter continuare a produrre. E un operaio deve scegliere fra lavoro e salute. O la cassiera di un Supermarket deve considerare vita passare otto ore al giorno alla calcolatrice senza scambiare una parola col cliente-consumatore. O un ragazzo deve sentirsi fortunato se lavora in un call-center. (…) Abbiamo usato malissimo la tecnologia. Avrebbe potuto liberarci dalla schiavitù del lavoro e invece l’abbiamo utilizzata per renderlo ancor più alienante, o assente proprio mentre lo abbiamo reso necessario.” (Massimo Fini, da Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2013).
Sia Marx che gli economisti borghesi, infatti, nelle loro costruzioni economiche hanno ignorato il fattore terra, hanno costruito le loro teorie a prescindere dalla terra e dalla biologia, con la conseguenza che il mondo e la vita degli individui sono diventati solo un limone da spremere nel nome del profitto o di un improbabile avvenire. La grande finanza oggi dominante prescinde perfino dall’economia reale. Oggi non è più vero che il lavoro sia sempre un valore. Occorre più che mai distinguere tra occupazioni utili e lavori non più necessari, puntando sull’efficienza tecnologica e sulla sobrietà.

domenica 27 aprile 2014

Cineforum Non Conforme: L'uomo e il denaro




Casaggì Valdichiana (Via del Poggiolo 3 Montepulciano) presenta un nuovo appuntamento con il CINEFORUM NON CONFORME! Questa volta verrà esaminato il rapporto tra l'uomo e il denaro:

-giovedì 8 maggio ore 21: IL MERCANTE DI VENEZIA

-giovedì 15 maggio ore 21: IL BOOM

-giovedì 22 maggio ore 21: GLI EQUILIBRISTI

sabato 26 aprile 2014

La retorica sulla Resistenza invase il cinema. Ma ci fu chi provò a lottare contro l’ideologia forzata



di Ginevra Sorrentino (Secolo d'Italia)

La retorica sul 25 aprile è stata prolissa materia di speculazione e rivisitazione ciclica, alimentando un dibattito storico-culturale che non poteva prescindere anche dalle sue declinazioni cinematografiche. Il grande schermo del resto, tra agiografie e demonizzazioni, si è ampiamente espresso nel corso del tempo sul tema, incrementando – da un lato – un impulso documentaristico, ma favorendo anche – dall’altro – una spinta propulsiva nella direzione della creazione di un fronte autoriale capace di opporre resistenza spettacolare alla tendenza a veicolare i messaggi che si voleva filtrassero a prescindere, spesso addirittura a dispetto di quelle che erano le intenzioni dichiarate da registi e sceneggiatori. Così, la discussione che ha tenuto banco nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra (e a tratti, perfino durante lo svolgimento stesso del conflitto) ha visto confrontarsi – e molto più spesso contrapporsi – due scuole di pensiero: da un lato, quella rappresentata da quegli autori che, dietro la schermatura degli accadimenti storici, propugnavano racconti drammatici capaci di occultare e divulgare, dietro l’apologo populista incarnato da protagonisti popolari, precisi codici ideologici; dall’altro, quella capitanata da maestri della contaminazione tra commedia e dramma – una lezione che futuri epigoni della settima arte avrebbero poi rielaborato nella grande stagione della commedia all’italiana – decisi ad affrontare la materia da un’angolazione più schietta, e decisamente più accessibile. E allora, accanto a titoli che trasudavano ideologismo come Roma città aperta di Roberto Rossellini del ’45 o Achtung Banditi! di Carlo Lizzani del ’51, che insieme a molti altri film di genere tentarono di costruire sul macro-scenario della storia un’epica popolar-politica partendo da un documentarismo d’accatto, poi strumentalizzato ad arte, figurano opere quali Un giorno nella vita di Alessandro Blasetti (1946), non per niente un maestro del neorealismo, o comeDue lettere anonime di Mario Camerini, dell’anno precedente: entrambi esempi di come riuscire magistralmente a evitare di incorrere nel rischio del cliché accusatorio e dello stereotipo fazioso.
Solo per concludere, su tutti ha volato alto, in questo contesto critico-cinematografico, il maestro Dino Risi che, in un semplice quanto efficace episodio del suo celeberrimo I mostri, del 1963, intitolato Scenda l’oblio, ritrae a tinte volutamente forti un Ugo Tognazzi in stato di grazia, già strepitoso Federale nel film di Luciano Salce, nei panni di un marito che, di fronte alla tragedia della guerra, pensa molto banalmente al rischio di perdere la propria villa. Bene, quel capitolo di quell’affresco sociale di celluloide in particolare rappresenta la summa cinefila, sferzante quanto amaramente autoironica, del monito critico al pericolo di standardizzare, secondo le convenzioni militanti, un intero genere cinematografico, magari anche rischiando l’effetto collaterale di anestetizzare le capacità critiche di generazioni di spettatori, peraltro già a rischio saturazione.

venerdì 25 aprile 2014

Lavori di pulizia dell'area del reave a Sinalunga



Questa mattina abbiamo dato inizio all’opera di pulizia dei campi e del casale tra Scrofiano e Farnetella, nel comune di Sinalunga,dove durante Pasqua e Pasquetta alcuni ragazzi avevano dato vita al “famoso” rave party che tanto ha fatto discutere.Abbiamo dedicato questa giornata a ripulire anzi ad iniziare l’opera di bonifica, dato l’enorme quantità di rifiuti (lattine, bottiglie, cartacce, sedie, tavolini rotti, ecc..)presenti nei paraggi del casale, teatro di un rave totalmente abusivo. Arrivati sul posto siamo rimasti impressionati dalla quantità di rifiuti e parlando con alcuni agricoltori del posto abbiamo potuto toccare con mano l’amarezza di chi coltiva quelle terre nel constatare la situazione dei campi circostanti. In circa 5 ore di lavoro siamo riusciti a raccogliere gran parte dei rifiuti ed a portare via circa 20 sacchi di immondizia. C’è ancora molto da fare,ma sperando che il tempo sia clemente nei prossimi giorni siamo determinati a portare via il resto dei rifiuti.Non capiamo come sia possibile permettere eventi di questo genere, completamente abusivi, senza sicurezza, senza controlli, senza servizi igienici e nella più totale illegalità. Non siamo contro il divertimento, ma siamo per il divertimento consapevole e soprattutto per il rispetto del territorio e dell’ambiente. Con questa azione abbiamo dimostrato che ci sono giovani che sono legati al proprio territorio e preferiscono rinunciare alla gita fuori porta per dedicarsi ad un’azione concreta per tutelarlo.


mercoledì 23 aprile 2014

“Zero, il mio nuovo cd ” – Intervista a Skoll


tratto da Cantiribelli

A poche settimane dalla pubblicazione di “Zero”, Cantiribelli intervista il cantautore milanese Skoll. Sarà lui stesso a presentarci questo nuovo attesissimo lavoro.

1). Caro Skoll, bentornato sulle pagine di Cantiribelli. A Maggio sarà pubblicato il tuo nuovo album “Zero”: da cosa nasce questo titolo?

Il titolo prende spunto da una canzone del disco dedicata ai caccia A6M Zero dell’aviazione nipponica della seconda guerra mondiale (una canzone, in verità, ispirata da una parte dalla tecnica di questi formidabili aerei e dall’altra dal sacrificio e dal senso dell’onore degli uomini che combatterono nei cieli del Pacifico). In realtà, essendo questo disco estremamente vario sia nei temi trattati che nell’impianto musicale, il titolo può richiamare anche ad una sorta di nuovo inizio nella mia produzione musicale. Questo lavoro è un po’ la sintesi della mia musica e un punto di ripartenza con tante cose nuove e con un impegno e un risultato, sotto ogni punto di vista, mai raggiunti prima d’ora.

2). Sulla tua pagina ufficiale di Facebook hai annunciato che ci saranno due canzoni dedicate a due donne speciali, Anita Ramelli e Clelia Pizzoni Calvi. Ci puoi anticipare qualcosa?

In Zero ho inserito il mio personale tributo a queste due magnifiche donne. L’ho fatto con due canzoni che ho voluto intitolare semplicemente con due nomi (“Clelia” e “Anita”) e che ho anche inserito vicine, una dopo l’altra, nell’ordine dei brani. Clelia Pizzigoni Calvi, soprannominata già all’epoca la “mamma d’Italia”, dedicò la sua vita alla Patria. I suoi quattro figli erano stati tutti decorati al valore durante la prima guerra mondiale per incredibili atti di eroismo e slanci di totale amor patrio. Clelia si ritrovò così, dopo la guerra, madre senza figli. Con incredibile forza, tipica però di un’epoca in cui l’amore per l’Italia si traduceva concretamente nell’essere “esempio”, Clelia conservò la memoria dei suoi ragazzi e divulgò le gesta eroiche di chi era morto giovane per difendere il tricolore. Si appuntò sul petto le medaglie al valore dei “fratelli Calvi”, dei suoi fantastici figli, e divenne la mamma d’Italia. La canzone che le ho dedicato in Zero è un pezzo arrangiato con un crescendo di atmosfere musicali che accompagnano la chiusura del testo, scritto in maniera “circolare”, ossia con un finale che riporta esattamente all’inizio dello stesso. Probabilmente si tratta di uno dei testi più importanti che io abbia scritto in questi anni, un brano in cui ogni parola, ogni singola parola, ha un’importanza per comprendere l’insieme dello stesso. Un pezzo sul concetto stesso di nazione, sull’esempio, e sull’impietoso confronto tra il passato e il presente di questo Paese.

Anita Pozzoli Ramelli ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscerla. Una donna magnifica che nella vita ha sofferto oltre ad ogni immaginazione. Oltre all’omicidio brutale e vigliacco di suo figlio Sergio (una delle pagine più infami e vergognose della storia italiana), dovette subire per anni minacce, insulti, chiamate telefoniche anonime… Le avevano massacrato un figlio, non soddisfatti da tanto sangue gli sciacalli continuavano il loro lavoro sporco e infame. Lei rimase quella che era. Non spese mai parole di odio. Cercò, in qualche modo, di andare avanti. Ma anche anziana, fino all’ultimo, quando i ragazzi ricordavano Sergio con il corteo che si svolge ogni anno per le vie di Milano, Anita usciva di casa e andava a salutare e ringraziare tutti i ragazzi, uno per uno, in un abbraccio collettivo. Non era più la mamma di Sergio, ma la mamma di tutti. Il brano che le ho dedicato (ricordando proprio il corteo e questo suo essere sempre presente), l’ho scritto appena dopo la sua scomparsa. Una vigilia di Natale. “Nel giorno più bello. Quando le strade sono piene. Tu ritorni da Sergio”.

3). Quali altre tematiche hai affrontato?

Zero si apre con un pezzo che, data la tematica, stavo cercando di scrivere da diversi anni: “Stati Uniti d’America”, una canzone di denuncia che dopo i recenti fatti in Siria non volevo più rimandare. È un brano molto importante nella mia discografia, anche da un punto di vista musicale. Tra le altre, c’è un pezzo che si intitola “La vendetta del toro”, una canzone che, su un arrangiamento musicale piuttosto ironico che ricorda atmosfere spagnole (con chitarre classiche e un insieme di trombe, tromboni e fiati) si schiera dalla parte del toro, contro la corrida… una canzone che, oltre ad essere una denuncia animalista contro uno spettacolo penoso e ingiusto, dalla prima all’ultima parola è anche una lunga ed evidente metafora politica. Ci sono, poi, diverse ballate (tra cui “Questa è primavera”, la canzone d’amore più importante che abbia scritto fino ad oggi), e un finale con “Campi Elisi”, il brano probabilmente più significativo dell’intero cd, ma che non voglio anticipare a parole. 


4). Hai dichiarato che Zero rappresenta la tua produzione artista più importante e impegnativa. Sul piano musicale cosa devono aspettarsi i tuoi fan?

Zero rappresenta, senza alcun dubbio, il punto più alto della mia produzione musicale. Si tratta di una sorta di sintesi completa della musica di Skoll. Qui ci sono rock e ballate con gli arrangiamenti più impegnativi realizzati in tutti questi dischi. L’impegno è stato grande: questa volta ho curato personalmente gli arrangiamenti, passo dopo passo, suono dopo suono, cercando di unire il meglio di quanto suonato da Fabio alle chitarre e da Davide al pianoforte (e in questo disco, entrambi hanno davvero dato tutto, superandosi). È stato un lavoro lungo e meticoloso che mi ha impegnato moltissimo. In Zero, alla fine, suonano insieme chitarre acustiche, pianoforti, chitarre distorte, parti ritmiche (le migliori della mia discografia, batteria in particolare), oltre a fondamentali suoni sinfonici e d’orchestra dal grande impatto. Come si può capire dalle mie parole, sono contento e molto soddisfatto. Spero che chi ascolterà questo disco potrà ricevere quello che ho cercato di trasmettere in fatto di sensazioni ed emozioni.

5). Con il lancio del nuovo album continuerà il tour dei concerti in giro per l’Italia (e non solo). Quali sono i tuoi prossimi appuntamenti?

A breve, entro la fine di aprile, pubblicherò su skoll.it e sulla pagina Facebook di Skoll, un primo calendario del tour di presentazione del disco. Come sempre, le date saranno tante e sparse un po’ per tutta Italia. Si partirà ufficialmente il 10 maggio… Restate sintonizzati!

martedì 22 aprile 2014

Paragoni improponibili



di Simone Torresani (Il Giornale del Ribelle)

Ci risiamo. Non passa giorno, non passa telegiornale, giornale radio, articolo o approfondimento in cui non si dica, come in un mantra, che la disoccupazione in generale e giovanile in particolare abbia toccato le punte più alte dal 1977.

Le ultime cifre, impietose, sono del 42,4 % per la fascia giovanile sino ai 24 anni e per un mostruoso 13% in riguardo a tutta la popolazione in età di "forza lavoro"(passatemi il bruttissimo termine , tipico dell' età industriale).

Diciamo subito che la disoccupazione è uno dei grandi problemi se non "il" problema numero uno” dell' Italia attuale, quindi nessuno vuol prendere alla leggera siffatti dati.

Quello che urta, che infastidisce, è il continuo termine di paragone col 1977: certo, io nel 1977 ancora non ero nato, ma ho studiato a fondo il periodo quindi so di che parlo.

Prima di tutto, nel 1977 la disoccupazione era congiunturale, dovuta ad almeno tre fattori: 1- le conseguenze degli shock petroliferi del 1973-74, con fasi recessive del mondo occidentale; 2- lo squilibrio territoriale, mai risolto, tra Nord e Sud e 3- l' immissione in massa dei baby boomers neolaureati su un mercato del lavoro, quello italiano, che non riusciva ad assorbirli tutti. Nel 1946 gli universitari erano poche decine di migliaia, nel 1977 si contavano a centinaia di migliaia.

Nel 1977 i Marchionne non minacciavano di produrre le auto in Serbia (pardon, nella Jugoslavia di Tito) o nella Cina da pochi mesi uscita dal delirio rivoluzionar-culturale (?!?) del maoismo.

Nel 1977 i "BRICS" erano fantascienza pura, la robotizzazione agli inizi, le masse dei salariati col cartellino uno spettacolo usuale fuori dalle fabbriche: il rapporto di 20 lavoratori espulsi per uno assunto dalla innovazione tecnologica era, infatti, ben al di là da venire.

Nel 1977 noi avevamo la lira (leggi:sovranità monetaria) e il mercato mondiale era mille volte meno competitivo, solo leggere "made in Taiwan " su un prodotto induceva a risate grasse.

Nel 1977 la Germania, pardon la Germania Ovest, aveva un PPA come indicatore macroeconomico minore che l' Italia; allo stesso tempo i salari italiani erano più elevati di quelli tedeschi (occidentali) e la produzione industriale quasi alla pari, tra i due Paesi.

Nel 1977 le manovre finanziarie e le politiche monetarie erano decise a Roma, a Bonn, a Parigi, a Dublino..cioè dai governi italiano, tedesco (occidentale), francese, irlandese..ora, tutto viene supervisionato dai tecnoburocrati mai eletti da nessuno, a Bruxelles.

Nel 1977 l' economia mondiale non era ancora finanziarizzata col rapporto di 8:1 (ma c' è chi si spinge a 10:1 o 12:1) tra economia reale ed economia speculativa improduttiva.

Nel 1977, infine, i giovani avevano i coglioni per scendere in piazza, facendo sudare freddo i politicanti. Informarsi, prego, sulla reazione dei giovani dopo la morte di Francesco Lorusso nella giornata di Bologna dell' 11 marzo di quell' anno.

Oggi i giovani vanno su "Ask.fm" o su "Twitter", a fare la rivoluzione dei "bit".

Continuare a paragonare ossessivamente il 2014 al 1977 significa dare a bere ai gonzi che la fase attuale di crisi è transeunte, mentre in realtà di transeunte non vi è nulla in questa contingenza che stiamo vivendo.

Siamo alle solite: robe vecchie, dice il popolo bue, chi se lo fila il 1977, chi se la fila la Storia.

I risultati, però, alla fine si vedono.

Beatevi nella vostra bovina ignoranza.

Historia magistra vitae est.

sabato 19 aprile 2014

La mercificazione delle subculture: se l’underground diventa mainstream


di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

La seconda metà del Novecento è caratterizzata dal nascere delle rivendicazioni sessantottine e da un indubbio scontro tra la forma arretrata di Capitalismo borghese e le giovani generazioni che si riuniscono in subculture (Punk, Dark, Ghotic, Hip Hop, Hippie, Metal, New Age) per mettere in discussione l’ordine precostituito. Rifiuto dell’autorità e del controllo, delle cultura dominante e delle istituzioni. Si aprì un periodo di attrito contro le forme di esistenza capitalistiche piccolo-borghesi. Le subculture respinsero il Mercato e presero possesso degli ambienti underground, in Italia si insediarono nelle università pubbliche ed in determinati quartieri delle grandi città.

Oggi, di queste sottoculture non è rimasta che la forma, mentre i contenuti sovversivi sono stati traviati, divenendo pretesto per adescare consensi e valorizzare il Capitale. In meno di un ventennio il Capitalismo attuò la sua grande redenzione, e perdonò a questo ampio ventaglio di subculture le loro critiche, le espiò, integrandole al Mercato, fagocitandone proprio l’elemento più mercificabile: “la protesta”. Niente è più commerciale della dissonanza, del disordine, della pretesa di essere contro. L’ambiente underground fu messo alla luce dei riflettori, il faro del mainstream illuminò laddove covava la protesta. La contestazione divenne panegirico, l’insubordinazione preghiera.

Attraverso l’investimento da parte del grande Capitale (Virgin, Sony Music, Universal Music, Skyrock) si vennero a pubblicizzare, quindi a mondanizzare, le forme (elementi ed attributi) delle subculture, di fatto riformando completamente il Mercato, ora accessibile indistintamente a qualsiasi strato sociale (ecco il diritto all’uguaglianza). Da che il Punk evadeva dalla sfera del Mercato, ora diventa Punk nel Supermercato. La cresta, sinonimo di anticonformismo, si è purgata con la sua integrazione nella quotidianità della televisione, della musica, ed è riprodotta in serie su tronisti e giocatori di Serie A. Il rock lo propone la Mtv. Le subculture sono diventate paradossalmente alla moda, mentre nacquero in opposizione al mondano. Si sono svendute al grande capitale, sperando, magari, di avere maggiore impatto.

Oggi il caso in assoluto più lampante è il rap. La subcultura dell’hip hop si è mercificata sino a divenire, più che centro di contestazione, propaganda ufficiale di abbandono alle logiche del Mercato, e glorificando la cultura “coca e mignotte” del ghetto underground questa si è normalizzata nella sfera pubblica, celebrando l’uso di armi e della violenza, il consumo di stupefacenti, un codice di abbigliamento firmato nike, esaltando la divisione e la darwiniana legge del più forte: specchio della cultura ultraliberale. Si è attuato un salto dall’evasione alla sottomissione funzionale al gioco del sistema a cui segue l’impoverimento del linguaggio e del pensiero, una decoscientizzazione e una omologazione venduta, ancora una volta, per ribellione.

Immettersi sotto il torchio delle subculture non deve perciò essere visto come atto di rivolta, né come la ricerca di un’identità, ma piuttosto come ingenua sottomissione al Capitale. L’underground ha trovato un compromesso col mondano e i due si sono incontrati a metà strada. Il primo ha abbandonato la sua vena anticonformista, il secondo si è definitivamente sborghesizzato, ultimando il processo di destrutturazione della sfera valoriale e di sussunzione del Tempio nel Mercato.

E’ così necessario fondare le basi di una Controcultura riflessiva e ragionata che trovi punti di riferimento altri rispetto all’ideologia dominante e che ne mini le fondamenta, come sostituto e non come corollario, come opposto e non come elemento integrante. L’errore delle subculture fu quello di cercare un codice che lo stesso Mercato poteva riprodurre e vendere, privilegiando la forma piuttosto che i contenuti: abbigliamento, indumenti, marche, look, stile, musica. Elementi facilmente mondanizzabili e mercificabili. Il ruolo di una reale Controcultura deve essere quello di smarcarsi dalla riconoscibilità secondo oggetti e tendenze, per creare una corrente di pensiero in aperta opposizione, in grado di negare riflessivamente l’ordine precostituito senza scendere a compromessi con il mondo. Essa deve rendersi inattuale, un’eterna avanguardia che non diventi mai una forma chiusa e cristallizzata.

venerdì 18 aprile 2014

Libri. “L’Eni e l’Iran 1962-1970″: l’Italia e la politica estera declinata con il greggio


di Francesco Mastromatteo (Barbadillo)

Gli anni ’60, periodo di profonde trasformazioni storiche, segnano a partire dalla morte di Enrico Mattei uno spartiacque nella politica energetica dell’Eni e quindi dell’Italia, ma vedono una continuità significativa negli antichi rapporti tra il nostro paese e l’Iran.

E’ questo il tema del libro “L’Eni e l’Iran 1962-1970” diRosario Milano, giovane studioso barese di relazioni internazionali, presentato presso il dipartimento di Scienze Politiche dell’ateneo di Bari, con il patrocinio della Fondazione Gramsci e l’Associazione Dottorandi Italiani. Un testo, quello di Milano, frutto di accurate ricerche d’archivio e che ricostruisce la storia dell’Eni nel passaggio dalla visione rivoluzionaria di Mattei a quella “normalizzatrice” di Eugenio Cefis, il “borghese di stato” archetipo dell’involuzione del sistema italiano, che pone fine, con l’appoggio della corrente dorotea della Dc, condizionata dai poteri forti d’oltreoceano, come evidenziato dal prof. Michele Capriati, docente di economia politica, all’ambizioso esperimento di innovazione sociale e di politica economica di sistema concepito da Mattei. E’ l’inizio di quella progressiva rinuncia a una politica estera, economica ed industriale autonoma oggi particolarmente evidente.

La prof.ssa Marina Comei, docente di storia economica, ricostruisce la politica estera di Mattei, che si intreccia con l’idea di una strategia internazionale volta a conquistare i mercati del Terzo Mondo con proposte più vantaggiose di quelle americane. Nell’Eni, in cui il capitale privato era marginale, dovevano concentrarsi tutte le attività energetiche, nucleare compreso. Con la misteriosa morte del fondatore, l’Eni cessa di essere una controparte ed avviene una “pacificazione” con la Esso in un quadro di mediazione tra gruppi oligopolistici, mentre gli idrocarburi passano sotto la gestione dell’Agip. Non più una holding pubblica, ma una realtà sottomessa alla burocrazia ministeriale che attenua progressivamente la sua presenza sulla scena internazionale.

Si può fissare nella conferenza dell’Opec a Caracas nel ’70 l’evento che segna il tramonto dell’ordine petrolifero internazionale, con una ridefinizione dello stesso in favore dei paesi produttori e un consolidamento dei rapporti con l’Iran, crescente potenza regionale anche dal punto di vista economico e militare. Un’era, quella del decennio precedente, caratterizzata, come evidenziato dal prof. Italo Garzia, docente di relazioni internazionali, dalle modificazioni dei rapporti con il Terzo Mondo nell’ambito della decolonizzazione, di cui il tema petrolifero è una cartina tornasole: cresce progressivamente la percentuale in favore dei paesi produttori, ed il greggio diventa uno strumento di politica estera.

Un periodo di transizione nella storia iraniana, secondo Ali Reza Jalali, giovane ricercatore e studioso italo-iraniano di diritto e sistemi politici: a cavallo tra l’esperimento nazionalista e autarchico di Mossadeq, stroncato da un golpe sostenuto dall’Occidente, e le pulsioni spirituali e sociali che porteranno alla rivoluzione khomeinista del 1979, in cui l’Iran dei Pahlavi svolge un ruolo cruciale, insieme a Turchia e Pakistan, nell’alleanza antisovietica. Una dipendenza dal petrolio, quella di Teheran, che è la croce e delizia di un paese collocato strategicamente tra il Golfo Persico e il Mar Caspio, zona ricca di gas per cui si faranno le guerre del XXI secolo.

giovedì 17 aprile 2014

Ai figli di quel 'soldato della classe '40'



di Mario M. Merlino

Mattia viene a prendermi alla stazione di Chiusi e con discreta velocità si raggiunge Firenze, non lontano dalla stazione Campo di Marte, ove in via Frusa vi è la sede di Casaggì. Ci sono stato due o tre anni fa a presentare E venne Valle Giulia. Allora, come oggi, scendendo le scale a chiocciola, il primo colpo d’occhio è quello di una sala piena, soprattutto di giovani e giovanissimi. Ragazzi e ragazze di oggi, semplici puliti volenterosi direi di una sana bellezza interiore che traspira nella spontaneità del gesto, come si muovono come parlano ridono… Il salone è dipinto in giallo – un giallo solare, dunque, positivo il primo impatto (come erano bui gli scantinati dai soffitti bassi i muri scrostati dove con aria da cospiratori ci armavamo di pennello secchio rotoli di manifesti e la spranga fedele compagna di notti a caccia di zecche rosse! Eppure, lo confesso, ne conservo memoria e un non so che di nostalgia…) – con alle pareti i numerosi quadretti e poster delle attività svolte dei volantini distribuiti dei riferimenti culturali e storici a noi cari. Irridenti, sfrontati, creativi. Mi piacciono. Sono di linguaggio diverso, meno militante e ancor meno militare, ma in fondo ci appartengono, sanno esprimere una identità comune di fondo.

(Sono e rimango un professore. Persona fortunata, mi dico spesso, che ha svolto il lavoro che decise di intraprendere all’età di sedici anni. In culo ai questurini magistrati secondini compagni falliti e arroganti, non mi sento certo di chiamarli ‘colleghi’, e a tutto un mondo istituzionalizzato che mi guarda scuote il capo bisbiglia punta il dito… ma, dall’altra, quei giovani, sui banchi di stupide noiose e vuote aule, a cui raccontavo della storia negata maledetta ottenebrata, di quei coetanei in camicia nera che scelsero per non essere scelti, che andarono con nessuna certezza e poche speranze di vittoria, che seppero tutto donare senza nulla pretendere. Come non si può amare la gioventù eterna, quella che conosce il sapore della sfida della esaltazione dell’incoscienza?… Essere fedeli alla nostra giovinezza, questo l’imperativo perché solo così sapremo mantenere la fierezza e coltivare la speranza, tanto care a Robert Brasillach).

Di Robert Brasillach, appunto, invitato a parlare. Soprattutto a rispondere alla domanda se e quanto egli può essere ancora ‘vivo’ di fronte a questi ragazzi, alcuni sedicenni, che sono i figli di quel ‘soldato della classe 40’ a cui aveva scritto dietro le sbarre del carcere di Fresnes. Quel ragazzo che, negli anni ’60, aveva l’età del servizio di leva e che fu, in massima parte, disattento ignaro distratto al suo richiamo ma che, al contempo, sceso nelle piazze con parole d’ordine del vetero-marxismo (i Lenin e gli Stalin) ma anche delle correnti e dei dintorni eretici (Che Guevara, ad esempio, Mao), si ostinava di dare nuova linfa e vitale ad un percorso ormai ridottosi a rivolo melmoso e stanco e illudersi che vi fosse, tragica e feroce illusione, da qualche parte un ‘sol dell’avvenire’(che sono, a ben intendere e sapendo distinguere sempre e comunque ‘fierezza e speranza’).

A Firenze, di cui traccia alcuni periodi ne Il nostro anteguerra, ‘dall’alto di San Miniato con il duomo antico, i suoi torrioni alti nella foschia della sera, ho visto meravigliosamente fusi gli straordinari tesori plastici e la grazia toscana, il minuto popolo d’Italia ironico e musicista. Abbiamo passeggiato su Ponte Vecchio appesantito da decine di botteghe d’artigiani come i ponti di Parigi ai tempi di Luigi XIII…’. A Firenze, dove nei locali di Casaggì, attraverso il mio affetto verso questo sconosciuto fratello che fu e rimane il più caro e la capacità di ascolto, di curiosità (a Pasolini che lo sollecitava a rivolgersi ai giovani che, attraverso la televisione, per la prima volta, ne vedevano il volto scavato e ne udivano le rare e roche parole, Ezra Pound rispose ammonendoli reiteratamente con il ‘curiosità, curiosità’) di questa bella comunità, ecco snodarsi le tappe di quel destino di quell’avventura di quei versi disperati e rasserenanti.

La fierezza e la speranza, dunque. Sono convinto che la più grande colpa di questi tempi mali sia rappresentata proprio dall’aver sottratto l’idea del futuro dall’orizzonte della gioventù, asservendola al quotidiano riempito di falsi bisogni desideri inutili facili stati di depressione (ricordo l’incontro di alcune mie alunne con Giovanna Deiana che, a sedici anni, in uno dei primi bombardamenti inglesi su Verona, per salvare i fratellini era rimasta cieca. E, nonostante ciò, ausiliaria in Repubblica Sociale, con Aldo, il più piccolo della famiglia, mascotte della Brigata Nera, che viene ammazzato poco più che adolescente sulla riva dell’Adige a mesi dalla fine della guerra. Ebbene ebbe loro a dire come vi fosse una sola differenza fra la sua e la generazione di quelle ragazze e cioè che ‘noi non conoscevamo la parola problemi’…)

Ed ancora, ricordando la gioventù fra le due guerre, quella gioventù che si era lasciata tentare dal Fascismo ‘immenso e rosso’, dalla sua gioia, dalla sua poesia, egli ebbe a definirla: ‘spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione’ (In Brasillach non vi è la complessità dell’inquietudine esistenziale di Drieu la Rochelle o di Céline la disperazione e il pessimismo e un nichilismo aristocratico e proletario al contempo. Egli è, per utilizzare la felice espressione di Giano Accame, ‘il poeta dei balilla’. Non un piano ideologico, ma una estetica ove regna la bellezza della giovinezza con il senso dell’amicizia e della gioia di vivere). Non è poco… E avrei potuto aggiungere come, ne La ruota del tempo, egli descriva i protagonisti di questo affascinante romanzo (come rimanere indifferenti quando si leggono le pagine del secondo capitolo dal titolo La notte di Toledo?) che ‘noi viviamo nell’eminente dignità del provvisorio’ (che non va confuso, va da sè, con la condizione di precarietà a cui sono state condannate le nuove generazioni. Qui è un momento estatico creativo sognante e irridente in attesa dell’età adulta con i suoi obblighi e legami).

Avrei potuto dire tanto ed altro… Guardo questi adolescenti, vi sono fra loro militanti con fili bianchi fra i capelli, coppie di genitori che vogliono condividere l’esperienza la crescita dei propri figlioli, e so che Brasillach sarebbe contento. Là, nel piccolo cimitero di Saint Germain de Charonne, ultimo e definitivo suo rifugio, ricoperto da un tripudio di fiori, sorride. Ed io con lui…

mercoledì 16 aprile 2014

Marine Le Pen va in Russia e lancia l’idea per la crisi ucraina: la federazione


Marine Le Pen va in Russia e lancia l’idea per la crisi ucraina: la federazione

di Antonio Pannullo (il Secolo d'Italia)

Mentre l’Europa teme con terrore la cosiddetta ondata populista alle elezioni per l’europarlamento a maggio, la presidente del Front National, Marine Le Pen, ha sostenuto responsabilmente l’idea di federazione dell’Ucraina, appoggiata dalla Russia, durante una visita a Mosca.
«Spero che gli elementi più moderati della diplomazia europea riescano a mettere tutti attorno a un tavolo per riuscire a trovare soluzioni per un futuro pacifico per l’Ucraina e rispettoso del desiderio e della sensibilità di ogni parte della popolazione ucraina», ha detto Le Pen in una conferenza stampa, aggiungendo che «il progetto più logico, il più rispettoso, è quello di una federazione in seno all’Ucraina, che permetta un certo grado di autonomia ad alcune regioni». Questo permetterebbe «all’Ucraina dell’est, che per mille ragioni si sente più vicina alla Russia, o all’Ucraina dell’ovest che per mille ragioni si sente più vicina all’Ue, di poter preservare il Paese», ha spiegato. Le Pen ha incontrato a Mosca il presidente della Duma, Serghiei Narishkin, che poi è uno dei responsabili russi colpito dalle sanzioni Ue dopo l’annessione della Crimea alla Russia. Sanzioni, detto per inciso, alle quali la Serbia ha annunciato di non aderire. E in effetti, considerando la situazione sul terreno, questa sembra la soluzione più ragionevole: in Ucraina di fatto si è verificato un golpe, perché il presidente eletto è stato deposto, e ora comanda un amico dell’ex premier Julia Timoshenko, che è stata fatta immediatamente uscire del carcere dove stava scontano una pena a sette anni per reati connessi alla pubblica amministrazione, dalla magistratura ucraina, subito condiscendente verso i nuovo padroni dell’ex regione sovietica. È dai tempi della Rivoluzione arancione che l’Ucraina è squassata da forze centrifughe che ne minano la stabilità e l’unione. Oggi è un Paese nel caos: in molte zone si è sull’orlo della guerra civile, la Crimea se ne è già andata con un legittimo referendum in cui la popolazione ha espresso democraticamente la sua opinione, e l’opposizione è spaccata tra nazionalisti ed europeisti. Usa e Ue, anziché mettere in campo la diplomazia, ha soffiato sul fuoco pur di attaccare quello che vedono come una minaccia al loro potere mondiale, ossia la Russia di Putin. Dopo gli esempi dei fallimenti di Iraq, Afghanistan, Balcani, Libia, l’Occidente ancora non accetta di ragionare, e nemmeno la clamorosa figuraccia fatta con la Siria è servita a ridurllo alla ragione.

martedì 15 aprile 2014

15/04/1944-15/04/2014 In ricordo di Giovanni Gentile vittima dell'antifascismo



Oggi, 15 aprile, ricorre l'anniversario dell'assassinio di Giovanni Gentile, ucciso da un agguato partigiano. A settant'anni di distanza, nonostante le numerose richieste, le istituzioni fiorentine si sono sempre rifiutate di esporre una targa al Salviatino, sul luogo dell'omicidio. Quest'oggi, la targa, la abbiamo messa noi. Nella speranza che, simbolicamente, possa muovere le coscienze di chi, da sempre, vive una memoria faziosa e a senso unico.



"Lo stato non si restaura se non si restaurano le forze morali che nello stato trovano la loro forma concreta, organizzata, perfetta. Lo stato non si restaura se non si restaura la famiglia, e nella famiglia l'uomo, che è la sostanza della famiglia, della scuola, dello stato".

15 aprile 1944 - 15 aprile 2014
IN RICORDO DI GIOVANNI GENTILE
Vittima dell'antifascismo


lunedì 14 aprile 2014

13/04/2014 - Manifestazione per la Sovranità e l'Identità nazionale,nasce Laboratorio Identitario


Ieri abbiamo manifestato a Siena al fianco dei ragazzi di Gioventù Universitaria,per dimostrare che c'è un'intera generazione vogliosa di riscattare la dignità della propria Nazione.Con la sigla di Laboratorio Identitario,il nostro comune ed ambizioso progetto nato al fine di unire tutte le anime identitarie,nazionali e popolari presenti in provincia sotto un'unica bandiera,vogliamo costruire una cultura alternativa ad un sistema mosso esclusivamente da interessi materiali e dal nichilismo.
Tanti i temi ed i valori lanciati: dalla famiglia tradizionale ad un'economia dal volto umano,dall'identità nazionale alla coscienza popolare,dal valore del lavoro al ruolo dell'università.
Di fronte ad un'Italia dove impera il disimpegno e dove spinte disgregatrici tentano di erodere le nostre tradizioni,c'è un'Italia che quotidianamente combatte per ciò che ama e per costruire un domani migliore.

LA SOVRANITA' CROLLA
LA GIOVENTU' NON MOLLA!

sabato 12 aprile 2014

Ecco come Bruxelles ha scippato la sovranità ai Paesi dell'Europa

da: Il Giornale 
La crisi strutturale del sistema economico occidentale è una delle tematiche sulle quali più si è focalizzata l'attenzione di Alain de Benoist, saggista e filosofo, i cui libri sono ormai tradotti in una quindicina di lingue.

Nel suo ultimo lavoro (La fine della sovranità, Arianna editrice) c'è però un ulteriore irrigidimento delle posizioni.
Fino a qualche tempo fa, Lei diceva che eravamo sull'orlo del baratro. Adesso, è convinto che la fine del mondo ci sia già stata.
«Non la fine del mondo, bensì la fine di un mondo. Siamo usciti dal mondo moderno, dove i riferimenti erano stabili e la forma politica dominante era lo Stato-nazione, e siamo entrati in un mondo postmoderno, dove la visone di lungo termine è ovunque sostituita dall'effimero. È un mondo liquido, deterritorializzato, dominato dalle nozioni “marittime” di flussi e di reti».
Però Lei parla di «colpo di Stato europeo».
«Colpo di Stato è forse eccessivo, in quanto sono gli stessi Stati ad aver accettato di essere progressivamente spogliati delle sovranità politiche, finanziarie e di bilancio. L'Unione europea, che si è organizzata dall'alto (con la Commissione di Bruxelles) verso il basso ha solo seguito questa inclinazione naturale».
Che ne pensa del refrain austerità/crescita?
«L'austerità non riporterà la crescita, poiché il suo scopo principale è quello di esercitare una pressione al ribasso sui salari e sui redditi, dunque di diminuire il potere di acquisto, ossia la richiesta. E quando c'è meno richiesta, il consumo diminuisce, la produzione anche e la disoccupazione aumenta. Le classi proletarie e le classi medie sono le prime a soffrirne».
Ma quale può essere l'alternativa? Lei ha più volte affermato: “l'ideologia della crescita è un errore logico. Non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito”.
«L'alternativa è organizzare, fin da ora, una decrescita sostenibile, favorendo il ricollocamento, economizzando le riserve naturali, favorendo gli stili di vita che non si riducono a una fuga in avanti nei consumi. Ma l'alternativa è anche “ideologica”: si tratta di rifiutare l'assiomatico dell'interesse e il primato dell'economia, e di smettere di volere “sempre di più”. “Di più” non è sinonimo di “meglio”».
Altrimenti, come scrive nel libro, prevede una vera e propria marcia verso la miseria.
«Lo possiamo constatare già oggi in diversi paesi europei. Il risultato delle politiche di austerità adottate sotto la pressione dei mercati finanziari è proprio questo. La disuguaglianza tra i vari Paesi e al loro stesso interno non smette di ampliarsi, a esclusivo beneficio delle nuove classi finanziarie e politico-mediatiche».
E allora uscire dall'euro può essere la soluzione?
«L'euro ha contribuito ad aggravare la crisi, nel senso che, lungi dal promuovere la convergenza delle economie europee, ne ha invece aumentato i divari. Ma la crisi non è riducibile al problema dell'euro. I Paesi che non hanno adottato l'euro, come la Gran Bretagna, non se la passano meglio. Sono anch'essi prigionieri di mercati finanziari e dell'aumento del loro debito pubblico. In ogni caso, uscire dall'euro avrebbe un senso solo se fosse il risultato di un insieme di Paesi, e non di uno solo».
Potrebbe però essere una possibilità?
«Non c'è alcuna possibilità che possa avverarsi nell'immediato. Ad ogni modo, anche nel caso di un ritorno alle monete nazionali, l'euro dovrebbe essere mantenuta come moneta comune per gli scambi con i Paesi non europei».
Ma c'è stato un momento preciso in cui abbiamo perso la nostra sovranità?
«L'abbandono è stato progressivo. È il risultato del trasferimento all'Unione Europea di gran parte della sovranità che non è stata riportata a un livello superiore (una sovranità europea), ma scomparsa in una sorte di “buco nero”. Questo processo è stato completato dalla politica del debito, che ha posto gli Stati sotto il controllo di investitori privati e agenzie di rating».
Ed è possibile riconquistare quote di sovranità?
«Occorrerebbe ritrovare i mezzi dell'indipendenza economica e finanziaria, il che necessita un cambiamento radicale delle politiche pubbliche, a cui però nessun Paese europeo sembra propenso».
In un contesto del genere la crescita del Front National conferma che però vi possono essere spazi di manovra?
«L'ascesa del FN riflette principalmente il deterioramento del bipartitismo destra-sinistra e il discredito generalizzato della classe politica».
Dunque, il consenso potrebbe dipendere dal fatto di escludere a priori le categorie di destra e sinistra.
«Tutte le inchieste disponibili dimostrano questo: il FN ottiene voti sia a destra che a sinistra. Il suo programma economico e sociale, è nettamente orientato a “sinistra”, e possiede tutti i criteri per sedurre gli ex elettori comunisti. In generale, il FN tocca delle priorità, che sono avvertite soprattutto nel Nord della Francia, e poi dalle classi proletarie e dagli strati inferiori della classe media, che sono anche le principali vittime delle ricadute negative dell'immigrazione (disoccupazione, insicurezza, affossamento della scuola, ecc.). È da molto tempo il primo partito fra gli operai».
Potrebbero nascere altri movimenti in Europa sul modello del FN?
«Non credo molto all'esportazione dei modelli. Il FN è un movimento molto legato al contesto particolare della vita politica francese. Il modo con il quale trascende la divisione destra-sinistra non può essere meccanicamente copiato».
Ma è forse l'unico che si schiera apertamente contro quello che Lei definisce «il sistema del denaro»?
«Il “sistema del denaro” è criticato da molta gente, ma tra i suoi avversari, il FN è, oggi, il partito che ha i mezzi più importanti per farsi sentire».

venerdì 11 aprile 2014

Liberté, Egalité, Fraternité: progetto perverso dell’ideologia dominante


di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

Con il motto “Libertà, Uguaglianza, Fraternità” la Francia dei Lumi inaugurò i nuovi valori repubblicani dopo la rivoluzione del 1789. Gli intellettuali francesi furono tra i primi teorici dell’Illuminismo con l’Encyclopédie di Diderot e il Dictionnaire philosophique di Voltaire. Essi assunsero il ruolo di think tank sovversivo per la borghesia illuminata di tutta Europa. Così il motto repubblicano divenne comune al continente Occidentale come sintesi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Liberté, Egalité, Fraternité rimane tuttora massima della Repubblica francese e stemma dell’ideologia dominante, nonché legittimazione del sistema democratico e del dirittoumanismo. Ma cosa si conserva di questi concetti santificati e svuotati di senso non appena la borghesia ha dato vita al fenomeno dell’industrialismo? Cosa rimane di un elogio ideale ed universalistico dell’uomo che non si traduce in momento reale, in miglioramento concreto delle condizioni sociali, in rispetto quotidiano dei valori sostenuti? A che pro parlare ancora di Libertà, Uguaglianza, Fraternità?

Un’analisi più approfondita dovrebbe subito avallare una simile questione, per cogliere quanto, invero, questi valori si riproducano perfettamente nella realtà delle cose. E’ doveroso però comprendere in che modo le élite d’Occidente abbiano interpretato queste nozioni. Perché a seguito di questa interpretazione sopraggiunge la realizzazione di un progetto, che rende questo motto non un semplice simbolo, ma un programma ideologico da portare avanti.

Di fatti se seguiamo la logica del pensiero dominante la Libertà si è realizzata come libertinismo, l’Uguaglianza come indifferenziazione, la Fraternità come meticciamento.

La libertà ha compiuto un movimento di transizione circoscrivendosi nella sfera del libertinismo a seguito delle proteste e delle rivendicazioni sessantottine. Così essa si è realizzata nell’abolizione dell’autorità, nella possibilità illimitata, nell’edonismo, nello sfogo compulsivo degli istinti e nella canalizzazione di queste pratiche in pubblici ed aperti spazi di consumo. Il Capitale rese mercificabile, successivamente al 68′, l’istanza del desiderio per eliminare definitivamente lo spazio che intercorreva tra pubblico e privato con relativa unificazione delle due sfere nel Mercato. La libertà si realizza con e nel Mercato. Siamo liberi consumatori.

Allo stesso modo l’uguaglianza, più che tradursi come da buon senso in giusta redistribuzione delle ricchezze, si attua nell’ambito della sessualità, ovvero come indifferenziazione – a cui segue l’interscambiabilità – dei sessi. L’uomo è donna e la donna è uomo, ed entrambi non sono più portatori di una nota distintiva una volta vestiti i panni del consumatore, a cui non è più richiesta una specificità sessuale. Così il padre può divenire madre, la moglie marito e il fenomeno dell’uguaglianza diviene concretamente omologazione di massa a cui segue la perdita di qualsivoglia eterogeneità.

Ciò che banalmente possiamo definire fraternità, ovvero l’aspetto solidale e comunitario dei rapporti sociali, non è divenuto coesione di popolo ma, nella società di mercato, è sinonimo di globalizzazione, ovvero meticciamento, di modo che l’eliminazione delle frontiere possa estendere la forma merce indiscriminatamente a tutti i popoli amalgamati – tramite l’accettazione dell’ideologia della fraternità e della tolleranza – in una cultura unica, cosmopolita, indifferenziata. L’idea di fraternità legittima il processo dell’immigrazione, generato dalle guerre e dagli “interventi umanitari” nei Paesi sottosviluppati da parte dell’Occidente e delle organizzazioni internazionali ad esso affiliate, a cui si aggiunge lo sfruttamento delle risorse naturali ed umane da parte delle multinazionali.

giovedì 10 aprile 2014

Il Def è il dominio totale del capitale. Al posto di Renzi serve Putin

fusaro-diego-11di: Diego Fusaro - Adriano Scianca
“Quella di Renzi una rivoluzione socialista? Non scherziamo, dire questo è fare ideologia orwelliana”. Il filosofo Diego Fusaro non si fa incantare dalle riforme varate da Renzi e al premier italiano preferisce Putin: “Almeno lui rende il mondo plurale”.
Fusaro, ha visto il Documento di economia e finanza presentato dal governo?
«Con le mie competenze limitate, mi è sembrata una ulteriore conferma del dominio totale del capitale, Davvero non mi riesce di capire che differenza ci sia tra Renzi e Monti, tra Renzi e i liberisti. Continua a spacciarsi per l’homo novus, ma il premier mi sembra vecchissimo».
Eppure Renzi insiste molto sul valore solidaristico degli 80 euro in più in busta paga…
«Mi sembra una presa in giro grossolana, un modo volgare di spacciare dell’elemosina per un provvedimento illuminato».
La senatrice democratica Laura Puppato ha definito il Def una “rivoluzione socialista”. Uno studioso di Marx e della tradizione socialista come lei è d’accordo?
«Una rivoluzione neoliberista semmai. Spacciare tutto ciò per socialismo è tutt’al più un episodio orwelliano della storia dell’ideologia e come tale va commentato. Ricorda il Big Brother? “La libertà è schiavitù”. Siamo esattamente su quel livello…».
A proposito di libertà e schiavitù: un nuovo bug di internet, soprannominato “Heartbleed”, sta mettendo in pericolo i dati sensibili degli utenti di mezzo mondo. Ma la tecnologia non doveva liberarci?
«Internet non è il regno della libertà assoluta, tutt’altro. È il dispositivo panoptico del potere. Oggi siamo tutti controllati, è evidente. C’è un sistema che controlla i nostri gusti e persino i nostri sogni. Io invito sempre chi mette in discussione i totalitarismi, ma solo quelli del passato, a chiedersi quale regime ha mai anche solo sognato di controllarci come lo siamo noi oggi. Ci stiamo autoschedando credendo di essere liberi».
Eppure c’è gente che per accedere a tale libertà attraversa pericoli estremi. Sulle nostre coste, proprio in questi giorni, sono ricominciati gli sbarchi…
«Personalmente trovo insopportabile la retorica del migrante, ma certo non lo considero un nemico. Quello che dobbiamo fare è lottare affinché questa gente non sia costretta a emigrare. Loro sono degli sfruttati, esattamente come noi, l’immigrazione è un fenomeno tristissimo sia per noi che per loro. Il capitale, del resto, ci vuole tutti migranti: apolidi, senza diritti, senza una lingua. Per dirla con un’amara battuta: queste persone fuggono da paesi in cui si è costretti a morire di fame, qui invece siamo solo liberi di farlo».
Cosa pensa di Vladimir Putin?
«Putin purtroppo non è Lenin, ma è un bene che ci sia. Se tutto l’establishment ce l’ha con lui qualche merito lo deve avere… Bisogna sostenere Putin non perché sia “buono” ma perché lui rappresenta un contropotere al dominio unipolare del mondo. Mi piace pensare all’Obama che dice “yes, we can” e a Putin che risponde “No, you can’t”. Il mondo è bello finché è plurale».

martedì 8 aprile 2014

Trionfa Orban e l’Ungheria non cambia verso: si conferma euroscettica

orbantratto da barbadillo.it

L’Ungheria non cambia verso e si conferma eurocritica più che mai. Lo ha fatto sostenendo massicciamente alle urne il partito del premier in carica Viktor Orban: i conservatori del partito Fidesz raggiungono infatti una maggioranza di due terzi nel Parlamento con il 48%: 133 o 135 seggi su un totale di 199. L’opposizione di sinistra – Alleanza democratica – che si candidava per battere il governo “scettico” sulle politiche di Bruxelles, ha raggiunto un risultato piuttosto modesto, attorno al 25% dei voti. Terza forza ungherese è il partito nazionalista Jobbik che si attesta intorno al 20%, segnando un ulteriore avanzata.
Una vittoria significativa, questa di Orban, che conferma come sia stata premiata la prima legislatura del leader nazionalconservatore che ha spinto molto sul tasto sovranista criticando l’impianto dell’Europa di Bruxelles. La stessa stampa europea, che negli anni aveva dipinto Orban alla stregua di un dittatore tout court (per alcune scelte sull’informazione ma soprattutto per la decisione di inserire in costituzione semplicemente “Ungheria” togliendo la dizione Repubblica), sembra tirare un sospiro di sollievo nel momento in cui si temeva il boom, a scapito delle sinistre, del movimento Jobbik.
Dal punto di vista economico Orban – che ha stretto da tempo rapporti strategici con la Russia di Putin – ha portato a casa risultati innegabili: dal taglio delle bollette, all’aumento dell’occupazione grazie alla capacità di utilizzo dei fondi di coesione Ue. Accanto a questo hanno influito di certo le politiche sociali e la riforma che ha rinazionalizzato alcuni asset strategici tra cui la Banca centrale. Tutto questo nonostante Orban con il suo partito facciano parte di quel Ppe (lo stesso Helmut Kohl ha partecipato alla campagna elettorale con un saluto al suo amico premier) a trazione tedesca protagonista in negativo della ventata di austerity che ha depresso il Sud Europa. Ma in Ungheria, a quanto pare, non si sono fatti coinvolgere.
L’Ungheria non cambia verso e si conferma eurocritica più che mai. Lo ha fatto sostenendo massicciamente alle urne il partito del premier in carica Viktor Orban: i conservatori del partito Fidesz raggiungono infatti una maggioranza di due terzi nel Parlamento con il 48%: 133 o 135 seggi su un totale di 199. L’opposizione di sinistra – Alleanza democratica – che si candidava per battere il governo “scettico” sulle politiche di Bruxelles, ha raggiunto un risultato piuttosto modesto, attorno al 25% dei voti. Terza forza ungherese è il partito nazionalista Jobbik che si attesta intorno al 20%, segnando un ulteriore avanzata.
Una vittoria significativa, questa di Orban, che conferma come sia stata premiata la prima legislatura del leader nazionalconservatore che ha spinto molto sul tasto sovranista criticando l’impianto dell’Europa di Bruxelles. La stessa stampa europea, che negli anni aveva dipinto Orban alla stregua di un dittatore tout court (per alcune scelte sull’informazione ma soprattutto per la decisione di inserire in costituzione semplicemente “Ungheria” togliendo la dizione Repubblica), sembra tirare un sospiro di sollievo nel momento in cui si temeva il boom, a scapito delle sinistre, del movimento Jobbik.
Dal punto di vista economico Orban – che ha stretto da tempo rapporti strategici con la Russia di Putin – ha portato a casa risultati innegabili: dal taglio delle bollette, all’aumento dell’occupazione grazie alla capacità di utilizzo dei fondi di coesione Ue. Accanto a questo hanno influito di certo le politiche sociali e la riforma che ha rinazionalizzato alcuni asset strategici tra cui la Banca centrale. Tutto questo nonostante Orban con il suo partito facciano parte di quel Ppe (lo stesso Helmut Kohl ha partecipato alla campagna elettorale con un saluto al suo amico premier) a trazione tedesca protagonista in negativo della ventata di austerity che ha depresso il Sud Europa. Ma in Ungheria, a quanto pare, non si sono fatti coinvolgere.

lunedì 7 aprile 2014

Uccidere Giovanni Gentile? Un complotto da intellettuali



di Marcello Veneziani (Il Giornale)

Chi uccise Giovanni Gentile, chi furono i mandanti e perché fu ucciso? Non sono tre domande di un ingiallito thriller politico ma ruotano intorno a un evento simbolico cruciale per la storia intellettuale e civile d'Italia. Perché su quell'assassinio poi si legittimò la Repubblica ideologica del nostro paese, si fondò l'egemonia culturale e il ruolo dell'intellettuale organico.

Su quelle tre domande si fonda la ricerca di Luciano Mecacci, che non è uno storico e nemmeno un filosofo ma uno psicologo autorevole dell'ateneo fiorentino. Il libro che ne è nato, La ghirlanda fiorentina, uscirà il 16 aprile per le edizioni Adelphi ed è un accurato affresco storico e civile, umano e culturale del clima che precedette, accompagnò e seguì l'assassinio di Gentile.

Chi uccise Gentile il 15 aprile del 1944 a Firenze? Lo sappiamo da sempre: un commando comunista dei Gap. Sull'esecutore materiale del delitto la versione canonica dice Bruno Fanciullacci, ma Mecacci propende per un partigiano minore, Giuseppe Martini, nome di battaglia «Paolo». Ma delle tre domande da cui siamo partiti, è forse la meno importante. Non cambia molto sapere chi materialmente eseguì la sentenza di morte. Ci basta sapere che furono i gappisti del Pci. E ci basta notare che all'assassino ufficiale di Gentile, Fanciullacci, è dedicata a Firenze una strada; invece non è dedicata una strada alla vittima, l'ultimo grande filosofo d'accademia, gran ministro, gran promotore della cultura e tutore di molti studiosi antifascisti. Ci pensino il premier fiorentino Renzi e il presidente venuto dal comunismo, Napolitano. Il 70° della sua morte, il prossimo 15 aprile potrebbe essere l'occasione per un atto riparatore.

Chi ordinò l'uccisione di Gentile? Qui il quadro si complica e Mecacci per includere tutte le ipotesi ricorre alla metafora dei cerchi nell'acqua, dal cerchio dei mandanti ai più periferici, per arrivare agli esecutori. Una metafora che potrebbe adottarsi anche per altri delitti, come il caso Moro, passando dal cerchio delle Br, ai poteri interni conniventi e ai servizi segreti stranieri. Mecacci non esclude nulla: il Pci «fu il principale attore dell'organizzazione materiale dell'attentato» che poi rivendicò apertamente, ma pure i servizi segreti britannici e americani, Radio Londra, Radio Bari e Radio Cora, gli intellettuali fiorentini e milanesi, senza escludere alcuni azionisti vicini ai servizi segreti alleati, i fascisti intransigenti e i massoni. Non un complotto o una convergenza di interessi, precisa l'autore, ma «una concatenazione di decisioni strategiche». Però una sintesi più calzante si può fare. Gentile fu ucciso dall'Intellettuale Collettivo che è la definizione di Gramsci del Partito Comunista, ma è anche il gruppo di professori e intellettuali organici al Pci, vicini a Secchia, a Longo, Li Causi e Togliatti, rientrato un mese prima dell'uccisione di Gentile dall'Urss.

Fu proprio il leader del Pci a rivendicare l'esecuzione, usando definizioni infami di Gentile: canaglia e camorrista, immondo e corruttore, bandito a bestione. Più deprimenti furono i giudizi, le condanne e il plauso all'assassinio provenienti da quegli intellettuali.

Le spregevoli parole scritte da Concetto Marchesi, da Antonio Banfi, che fino a pochi mesi prima seguitava a chiedere e ottenere favori da Gentile, a Eugenio Curiel. E poi il ruolo di Bianchi Bandinelli, amico di Gentile e accompagnatore deferente di Hitler in visita a Firenze nel '38. E il ruolo Mario Manlio Rossi, di Giorgio Spini e di Carlo Ludovico Ragghianti e quello di Eugenio Garin, prima devoto a Gentile e poi compiacente verso il Pci; di Cesare Luporini, reticente sul delitto Gentile, e di tanti intellettuali. I loro nomi e le loro storie rimbalzano nelle pagine di Mecacci. Quasi tutti debitori verso Gentile o verso il suo pensiero, come del resto Gramsci e Togliatti. L'ho sottolineato curando gli scritti gentiliani raccolti in Pensare l'Italia. Fu disgustoso come poi denigrarono Gentile come filosofo e come uomo. Ai suoi funerali, scrisse il giovane Spadolini, non c'erano accademici (solo tre), non c'erano intellettuali, ma c'era un'immensa e commossa partecipazione di popolo.

Ma la trama si complica ancor più se ci chiediamo perché fu eliminato. Certo non fu punito per il passato, semmai fu un modo per eliminare attraverso lui il loro passato, per occultare le loro compromissioni col regime. Chi lo uccise volle troncare il suo appello dal Campidoglio alla pacificazione tra fascisti e antifascisti, che da Mosca Togliatti aveva attaccato duramente. Lo uccisero non per l'adesione alla Rsi ma per l'appello alla concordia nazionale. Era la tesi che un tempo circolava solo nelle ristrette vulgate della destra, fin negli opuscoli dei missini; oggi diventa la più credibile motivazione storica del suo assassinio.

Ma Mecacci allude a un ruolo futuro che avrebbe potuto avere Gentile. Qui il mistero s'infittisce e si collega a due cose: cinque giorni prima era stato ucciso il suo segretario nell'Accademia, Fanelli, da cui si cercavano documenti riguardanti Gentile. E il 18 aprile Gentile avrebbe dovuto incontrare Mussolini a Salò. A tale proposito, una collega d'ateneo di Mecacci, Daniela Coli, mi riferisce che nell'ultima lettera inviata a Mussolini, che le mostrò il nipote omonimo di Giovanni Gentile, il filosofo concludeva fiducioso: «E noi ci ritroveremo a Roma. Ci aspetta Roma, Roma Roma!». Una lettera strana, anche nel tono, se confrontata con le precedenti. Per la Coli «c'era un progetto politico forte di ricomposizione e magari di sganciamento da Hitler e passava attraverso Gentile». Mecacci non esplicita questa tesi ardita, ma sembra avvicinarvisi. E anche per lui Gentile non fu ucciso per il suo passato ma per il futuro. È un'ipotesi, naturalmente. Più chiaro è il significato e l'effetto culturale e simbolico di quell'uccisione. Fu un parricidio rituale e un paradigma a cui attenersi, un codice ideologico di comportamento per il futuro. O gli intellettuali si redimevano passando al Pci, come i Banfi, i Garin, i Bianchi Bandinelli, i Bilenchi, in parte gli Spirito e i Malaparte; oppure sarebbero stati emarginati e rimossi, come accadde ai Volpe, i Pellizzi, i Soffici, i Papini o Evola, ma anche ai Prezzolini, i Morselli, i Del Noce e poi altri. L'uccisione di Gentile, la denigrazione postuma, la rimozione di ogni memoria, fu il peccato originale su cui si fondò il sistema ideologico-mafioso italiano, fu il parametro per misurare gli ammessi e gli esclusi, in accademia e non solo, fu il preambolo alle omertà successive e alle perduranti miserie partigiane della cultura italiana.