lunedì 30 giugno 2014

Abbiamo buttato via la religione (civile). E ora avanza il nulla

di Marcello Veneziani

C i può essere un punto d'equilibrio tra chi crede e chi non crede, e tra chi crede a religioni e culture divergenti? Dopo il tramonto dell'impero romano che coltivava una religione di Stato ma lasciava libero culto alle diverse divinità, abbiamo vissuto per secoli in una società cristiana che non si poneva il problema perché si era sudditi e cristiani sin dalla nascita, salvo riconoscere zone di tolleranza e margini di libertà ai non appartenenti.


Nella società contemporanea avviene invece sempre più l'inverso: la religione è confinata nell'ambito privato, ogni segno pubblico di religione viene rimosso; l'universalità è garantita sul piano formale dalle leggi, dalle regole e dai codici civili e penali e sul piano pratico dalla tecnica, dallo scambio delle merci e dalla finanza. Ma sempre più si allarga il fastidio e l'intolleranza verso le religioni, a partire dalle proprie o comunque di provenienza, con più indulgenza verso le religioni altrui. La stessa intolleranza si esercita verso chi non riconosce i nuovi valori non negoziabili, legati alle nuove categorie protette: omosessuali, trans, migranti - soprattutto se neri - oltre che disabili, donne e bambini. Vi sono pure reati d'opinione legati a queste categorie e ad alcuni dogmi storici che hanno sostituito i reati di bestemmia o vilipendio alla religione in vigore nel passato.

Ma torniamo alla domanda da cui siamo partiti: è possibile trovare un punto d'equilibrio e di mediazione tra le due posizioni? Ronald Dworkin sembra voler rispondere alla domanda nel suo testo ora postumo -l'autore è morto lo scorso anno - Religione senza Dio (Il Mulino, pagg. 132, euro 13, prefazione di Salvatore Veca). Dworkin esordisce sostenendo che la religione è più profonda di Dio e credere in Dio è solo una delle sue manifestazioni. Poi affronta l'ateismo religioso e il mistero dell'universo. Ma quando affronta la libertà religiosa sostiene che non dobbiamo più riconoscerle un diritto speciale e limitarci a garantire il diritto più generale all'indipendenza etica. La religione diviene così un ramo se non un sottoprodotto dell'etica. Vanno poi rimossi i simboli religiosi in ambito pubblico mentre possono restare in privato, purché non confliggano con le leggi. E quanto alla preghiera nelle scuole pubbliche Dworkin condivide l'orientamento statunitense di consentire un momento di silenzio che ognuno poi riempie come vuole: dall'ora di religione al minuto di vacuità in cui ognuno pensa ai casi suoi... Quanto alla ricerca dell'immortalità che ha tormentato l'umanità, Dworkin la sbriga proponendo una specie di surrogato: eseguiamo bene i nostri compiti e nella soddisfazione che ne ricaviamo possiamo trarre «una sorta d'immortalità». Per lui questo è l'unico modo di figurare l'immortalità e nutrire una convinzione religiosa. Come banalizzare un'aspirazione originaria e strutturale dell'animo umano che ha sorretto religioni millenarie, dottrine, vite e civiltà. A volte anche le menti più sofisticate nascondono un cuore idiota.

In questo come in vari altri casi, non si riconosce in realtà alcuno statuto, alcun valore, alcun significato alla religione, al sacro, alla sfera spirituale. Si ha come l'impressione che alcune facoltà umane si siano atrofizzate e non solo tra gli automi che vivono il presente senza porsi domande, ma anche tra i filosofi; alcune esigenze innate e radicate dell'animo umano sono come disconnesse. Terminali spenti, razionalità opache, ragionamenti senza intelligenza del reale...
Salvo poi restare inorriditi come fa Dworkin se la civilissima Svizzera, forgiata dal protestantesimo e dal pacifismo, si esprime a larga maggioranza in un referendum per vietare i minareti sul suolo elvetico... Non si comprende che le reazioni peggiori nascono quando vengono cancellati o rimossi bisogni originari e profondi come il senso religioso, divino e sacrale; o all'opposto paure ancestrali dell'invasore o del fanatismo religioso. E non si spiega come mai non vi siano argini morali e culturali efficaci da opporre alla criminalità diffusa, dalle violenze sessuali ai delitti domestici, dalla delinquenza gratuita all'odio sociale, dalla corruzione politica alla speculazione finanziaria.

Il problema è che ogni società ha bisogno di principi condivisi e valori comuni, sanzioni morali e religiose per chi sbaglia. Se non vivessimo il delirio della libertà e l'allucinazione dei desideri - l'età dei diritti individuali scissi dai doveri - sapremmo distinguere tra la sfera privata dove vige la libertà e restano intoccabili i diritti individuali nel rispetto altrui e delle leggi; e la sfera pubblica dove invece vi devono essere modelli educativi di riferimento, principi comuni, canoni di comportamento e tradizioni da osservare. Nella vita privata si può vivere come si vuole se non si lede nessuno, unirsi con chi si vuole purché adulto e consenziente, credere a ogni culto o non credervi affatto. Ma alla sfera pubblica tocca tutelare e promuovere la famiglia e le comunità, l'amor patrio e il senso religioso, la solidarietà e le tradizioni, la memoria storica e il rispetto della vita, la bellezza e le arti, la natura e la cultura. Rispettare tutte le religioni a partire da quella da cui deriva: i suoi simboli sono il linguaggio in cui si è espressa nei secoli la visione della vita di quella civiltà. Tutto ciò si condensa in una religione civile che non è alternativa o sostitutiva della religione vera e propria, ma trae linfa dai suoi culti, dai suoi simboli e dai suoi riti per fondare un orizzonte di riferimento per la società. Ogni società attinge alle tradizioni religiose e civiche da cui deriva. Poi, chi è credente sarà libero di professare la sua fede a viso aperto, non di nascosto; e chi viceversa non crede sarà libero di non farlo e di professare altre fedi. La religione civile rende coesa una società, trasparenti i suoi principi ed esorta alla lealtà i suoi cittadini. La sua assenza spiega il generale sfascio. È così inquietante e illiberale pensare e volere questo, promuovere un noi nella sfera sociale, garantendo il tu nella sfera individuale? A me sembra l'unico punto d'equilibrio e la sola via d'uscita dal nichilismo, ossia dal cinismo, la disperazione, il vivere a caso, l'anomia e la distruzione del senso comune. E l'unica via per affrontare il confronto di civiltà e religioni nell'era globale, sia per accogliere che per respingere. Quando la politica e la cultura capiranno che la battaglia più urgente non riguarda la libertà e l'uguaglianza ma la dignità della vita, nell'equilibrio tra diritti e doveri, libertà e motivazioni? Il momento di vacuità proposto da Dworkin al posto della preghiera sembra la vera irreligione del nostro tempo. Fondata sul Nulla.

domenica 29 giugno 2014

UNA SPLENDIDA GIORNATA, DI LOTTA, MUSICA E VITTORIA!

 


Un'altra piccola ma significativa pagina di storia è stata scritta, ieri, a Casaggì. Le emozioni di una giornata magnifica, scandita da un triplice appuntamento, hanno accompagnato le tante persone intervenute all'evento. 

Siamo partiti, come da programma, con la presentazione di "Patria o Muerte", il nuovo libro di Federico Goglio (Skoll) sulle radici nazionaliste della rivoluzione cubana: un magnifico spaccato di america latina, che Andrea Virga ha approfondito con competenza e precisione. Una prospettiva di analisi diversa e più ricca, capace di aprire nuovi spazi di interpretazione storica e politica. Magistrale, tra gli altri, l'intervento di Maurizio Rossi, la cui presenza - che ci onora - ha un valore simbolico importante per la nostra Comunità militante: vedere riuniti i protagonisti di un percorso generazionale è sempre un traguardo non indifferente.

Dopo la cena, organizzata al meglio dalla nostra cucina e servita a pochi euro, siamo passati al concerto. La presentazione di "Zero", il nuovo album di Skoll, cantato assieme ai vecchi brani, da tutti conosciuti, è stata di livello. Federico ha la capacità, unica, di saper unire qualità e quantità, offrendo al panorama identitario la possibilità di trovare con cadenza ormai annuale nuovi spunti: un punto di riferimento artistico per tanti, dopo anni di sacrifici e di progressi continui; la perfetta sintesi tra musicalità e contenuti, sobrietà e tensione ideale, innovazione e continuità. Il numero di persone accorse all'evento dimostra che il buon lavoro, sia esso militante o artistico, paga sempre: Casaggì era stracolma, e lo stata dalle 18 fino a notte inoltrata. 

E poi quel clima, quell'aria pura e limpida, è sempre un atto rivoluzionario.
Lunga vita a tutti noi!

sabato 28 giugno 2014

In ricordo di Italo Balbo


28/6/1940 - 18/6/2014
ITALO BALBO
Morire da eroe
con il sole in faccia e
il rombo dei motori tutt'attorno!


venerdì 27 giugno 2014

Cent’anni fa nasceva Giorgio Almirante. La grandezza umana e politica del leader storico del Msi



di Franco Mugnai (Secolo d'Italia)

La Fondazione Alleanza nazionale ricorda con commozione e partecipazione la figura di Giorgio Almirante nel centenario della nascita. È una ricorrenza di grande rilievo, non solo per la vicenda della destra italiana ma per la storia politica del nostro Paese della seconda metà del Novecento. L’evoluzione sociale e culturale dell’Italia, la caduta degli steccati e delle barriere ideologiche del passato, fanno sì che l’opera e l’insegnamento di Almirante siano oggi riconosciuti dalla generalità dell’opinione pubblica (a parte, naturalmente, i residui settori della veterosinistra ancora legata idealmente alla stagione dell’odio) come un’opera e un insegnamento appartenenti a tutti gli italiani. Almirante dunque e innanzitutto come grande italiano. Ed è proprio questo il leit motiv delle testimonianze, delle interviste, degli interventi pubblicati nello speciale delSecolo d’Italia dedicato al grande leader della destra. La figura di Almirante emerge nella sua grandezza umana e politica attraverso i ricordi di chi lo ha conosciuto e le analisi degli studiosi che si sono interessati alla storia e alla cultura del Msi.

Nel ricordare oggi il leader missino non si può fare a meno di evidenziare la forza morale e la coerenza ideale con le quali seppe guidare la comunità umana e politica della destra in anni difficili ma anche esaltanti (pensiamo solo allo straordinario succeso nelle elezioni amministrative del 1971 e in quelle politiche del 1972), anni in cui la sua figura si impose al rispetto e alla considerazione di tutti gli italiani (anche di molti avversari), nonostante i tentativi di criminalizzazione da parte dei settori più intolleranti e fanatici della politica italiana. In quella intensa e aspra stagione, Almirante riuscì a superare, nella società, quella conventio ad excludendum che era decretata contro il Msi dall’establishment politico italiano. Quel risultato fu possibile grazie alla forza del suo carisma, al messaggio di pacificazione nazionale espresso dalla sua figura, alle sue notevoli doti di grande comunicatore. Si tratta di ideali e di esperienze che hanno caratterizzato una lunga fase della vita italiana e che sono parte integrate del patrimonio ideale e politico della nazione. Ed è con questo spirito che la Fondazione Alleanza nazionale e il Secolo d’Italia rendono omaggio all’uomo che ha intimamente legato la sua vita a quella della destra italiana.

giovedì 26 giugno 2014


26/06/2014 
Giornata mondiale contro la droga.
Scegli la vita,sempre!


mercoledì 25 giugno 2014

Israele, il genocidio dell’acqua per sterminare i palestinesi

di Giorgio Cattaneo

L’accesso all’acqua potabile è un presupposto essenziale per la sopravvivenza di ogni comunità, e i servizi igienico-sanitari sono altrettanto essenziali per la salute pubblica. Le leggi internazionali universalmente accettate, istituite per proteggere il diritto di accesso all’acqua potabile, sono sistematicamente violate dal governo israeliano nella Palestina occupata, accusa Elias Akleh: Israele «ha trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale». Cisgiordania e Gaza soffrono la sete, mentre le comunità rurali dipendono dalle magre forniture israeliane. Numeri: nelle principali città, un palestinese ha accesso ad appena 70 litri d’acqua al giorno, contro i 100 litri raccomandanti dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nelle campagne la dose scende ad appena 20-30 litri, mentre negli insediamenti israeliani verdeggiano parchi e giardini con piscine. «È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene».


Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, mentre i coloni israeliani irrigano i loro frutteti consumando anche 400 litri d’acqua al giorno a persona, le comunità beduine devono cavarsela con 10-20 litri al giorno, acqua di cisterna a bassa qualità. «Consapevoli della disastrosa situazione dell’acqua nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza – scrive Akleh in un post ripreso da "Come Don Chisciotte" – i paesi donatori hanno sostenuto gli sforzi dell’Autorità Palestinese per sviluppare il settore idrico e igienico-sanitario, e hanno destinato fondi per la costruzione di bacini idrici, impianti di trattamento delle acque reflue, e per la riparazione e l’ampliamento delle reti idriche e fognarie». Sono strutture vitali per la popolazione, finanziate dall’Ewash, coalizione che raggruppa 30 Ong internazionali. Eppure, annota Akleh, «con la sua lunga storia di violazioni di molte leggi internazionali, grazie alla collaborazione della sua società idrica nazionale Mekorot e della società agro-industriale israeliana Mehadrin, il governo israeliano ha adottato politiche discriminatorie sistematiche, gravi e dannose, per ostacolare l’accesso all’acqua ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, combinato con l’imponente furto delle risorse idriche».

Un rapporto dell’Onu rivela che le società Mekorot e Mehadrin minano gravemente l’accesso dei palestinesi all’acqua, in particolare nella valle del Giordano, pompando l’acqua dei pozzi e delle sorgenti d’acqua palestinesi verso le colonie illegali israeliane (insediamenti) in Cisgiordania. «L’acqua palestinese è stata rubata e convogliata in Israele a costo zero», poi una parte della “refurtiva” viene rivenduta alle città palestinesi: «In questo modo Israele sta rubando ai palestinesi sia la loro acqua che il loro denaro». Tel Aviv, continua Akleh, esercita un potere sottile: «Attraverso la lentezza della burocrazia, blocca la maggior parte delle licenze e i permessi per i nuovi impianti idrici in Cisgiordania, ponendo come condizione la reciproca approvazione da parte dei palestinesi dei progetti nelle colonie illegali, gli insediamenti: un accordo che l’Autorità Nazionale Palestinese rifiuta per paura di legittimare queste colonie». Così, l’Anp non è stata in grado di realizzare infrastrutture su larga scala per proteggere la popolazione: tra il ‘95 e il 2011, i palestinesi si sono visti approvare solo 4 progetti su 30 per le acque reflue e appena 3 pozzi agricoli sui 38 richiesti nel solo 2011.


«A causa delle artificiose carenze di acqua imposte da Israele e della mancanza di impianti di trattamento delle acque reflue e delle reti fognarie, la maggioranza dei palestinesi ha dovuto ricorrere alla vecchia pratica di costruire pozzi d’acqua privati, pozzi neri e fosse settiche», racconta Akleh. «Nelle aree rurali i palestinesi dipendono dalle vasche di raccolta d’acqua piovana, dalle cisterne e dai serbatoi d’acqua. Ciò aumenta i timori per la salute pubblica e per i danni all’ambiente». Non è tutto. «Oltre ai tempi prolungati della burocrazia israeliana e al libero furto dell’acqua palestinese, il governo israeliano ha adottato ed attuato politiche e pratiche immorali e illegali, con l’obiettivo di distruggere le risorse idriche palestinesi e di contaminare i loro terreni agricoli per stimolare l’auto-evacuazione dei palestinesi da una zona ambita e la diffusione di una malattia mortale tra i loro bambini cagionevoli». Anche per questo, l’esercito israeliano «svolge ordinariamente quelli che vengono chiamati ordini di demolizione di cisterne comunali e pozzi d’acqua in terreni agricoli privati a causa di una presunta mancanza di autorizzazione». Molte di queste cisterne «sono vecchie di centinaia di anni, più vecchie dello stesso stato illegale di Israele», e includono «serbatoi di acqua trainati da animali e da trattori».

Solo nel 2011 l’esercito israeliano ha demolito 89 strutture “Wash” in Cisgiordania, tra cui 21 pozzi, 34 cisterne e molti piccoli serbatoi rurali nella valle del Giordano. «Tale demolizione comprendeva anche la distruzione degli orti, delle stalle e delle baracche degli animali». Una devastazione che viola l’articolo 53 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta la distruzione di proprietà privata o pubblica, ed è una chiara violazione del diritto all’acqua, tutelato dall’articolo 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. «Il governo israeliano – continua Akleh – utilizza questa negazione dell’accesso all’acqua per innescare gli spostamenti delle persone, soprattutto nelle zone che fanno parte del programma per l’espansione coloniale, in particolare per il fatto che queste comunità sono composte per lo più da agricoltori, che 
dipendono dall’acqua per il loro sostentamento. Di solito, l’interruzione della fornitura delle risorse idriche precede l’esproprio dei terreni per nuovi progetti coloniali».


Il muro di separazione per l’apartheid israeliano, 700 chilometri in costruzione dal 2002, «è stato deliberatamente deviato attraverso la Cisgiordania per includere, nella parte israeliana, il ricco e fertile terreno agricolo palestinese con grandi falde acquifere sotterranee, in particolare all’interno delle provincie di Jenin, Qalqilya e Tulkarem». Il muro, continua Akleh, ha ulteriormente ridotto l’accesso dei palestinesi all’acqua e ha portato alla perdita di accesso a 49 pozzi e serbatoi ad uso agricolo e domestico. A Gaza invece si usano i raid aerei per bombardare le risorse idriche e gli impianti di trattamento dell’acqua, le strutture fognarie, e persino le cisterne agricole antecedenti all’istituzione dello Stato ebraico. «Dal 2005 le incursioni militari israeliane hanno intenzionalmente distrutto almeno 300 pozzi agricoli situati nella zona cuscinetto designata da Israele», devastando anche serbatoi d’acqua sui tetti e molti chilometri di tubazioni e reti d’irrigazione. Durante l’operazione “Piombo Fuso”, sono state rase al suolo strutture idriche per un valore di 6 milioni di dollari.

«La situazione a Gaza è particolarmente terribile», sottolinea Akleh. «I palestinesi si basano interamente sulla falda acquifera quasi esaurita, contaminata da acqua salata e dalle acque reflue inquinate, la cui acqua è inadatta al consumo umano». Il brutale assedio imposto da Israele limita l’importazione di molti beni essenziali, tra cui il combustibile necessario per il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. «Senza energia elettrica, gli impianti di trattamento delle acque reflue e le pompe d’acqua in buono stato non possono funzionare, con il conseguente inquinamento prodotto dalle acque reflue». Risultato: «Si stima che 89 milioni di litri di liquami scorrano ogni giorno nel Mar Mediterraneo ad aumentare il livello di nitrati in acqua, fino a sei volte superiore ai limiti dell’Oms di 50 milligrammi per litro. Questo contamina anche il pesce da cui molti palestinesi a Gaza dipendono come principale prodotto alimentare». Fino al 95% dell’acqua estratta dalla falda costiera di Gaza non è adatta al consumo umano. Molte famiglie ripiegano sull’acqua di cisterna, che però è contaminata dai batteri: per l’Onu, diarrea ed epatite virale sono le principali cause di morbosità nella popolazione dei rifugiati della Striscia di Gaza.

Il danno peggiore alle risorse idriche palestinesi, ai loro terreni agricoli e all’ambiente, è causato dai coloni, gli estremisti religiosi ebraici armati fino ai denti, «guidati dalla loro religione di suprematismo razzista e senza ostacoli», e protetti dal tacito incoraggiamento del governo di Tel Aviv. «Occupano illegalmente e con la forza le cime delle colline dei terreni agricoli palestinesi, vi costruiscono le loro colonie illegali e iniziano ad attaccare le comunità palestinesi limitrofe». Veri e propri pogrom: attaccano le case palestinesi, incendiano i loro raccolti e le stalle degli animali, confiscano le sorgenti d’acqua. E poi «avvelenano i pozzi con sostanze chimiche, li inquinano con i pannolini sporchi, con le proprie feci o con i polli morti», giungendo a crivellare di colpi di serbatoi sui tetti, dopo averli rovesciati a terra. Colonizzatori fanatici: «Sono i maggiori produttori pro capite di acque reflue in Cisgiordania, e scaricano grandi quantità di acque reflue direttamente nell’ambiente, contaminando il terreno agricolo adiacente e i corsi d’acqua ad uso agricolo».
Strategia: inquinare la campagna palestinese, scaricandovi le acque fognarie senza alcuna depurazione, per favorire la propagazione di malattie e sfrattare la popolazione. Secondo le Nazioni Unite, il problema è devastante da quando ai palestinesi sono state strappate le sorgenti: i coloni «hanno usato minacce, intimidazioni e recinzioni». Israele, riassume Elias Akleh, sta deliberamente violando tutte le leggi internazionali che ha sottoscritto: il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Icescr), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia (Crc), la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), la Quarta Convenzione di Ginevra e il suo protocollo aggiuntivo sulla protezione delle vittime dei conflitti armati, nonché molti dei regolamenti dell’Aja. Negare il diritto all’acqua «è considerato un crimine di genocidio», per il quale Israele «è molto famoso».

martedì 24 giugno 2014

Focus. Arrivano le unioni civili di Renzi: solo per i gay e simili al matrimonio


di Antonio Rapisarda (Barbadillo)

Se il ddl Scalfarotto – la contestatissima “legge bavaglio” che vorrebbe combattere l’omofobia ma si presenta in realtà come l’introduzione di un reato di opinione – esce (momentaneamente) dalla finestra, le unioni civili in salsa renziana sono pronte a entrare dal portone principale. A settembre, infatti, sarà presentato al Parlamento il testo unificato del decreto legge che intende introdurre in Italia le unioni civili tra omosessuali.

Una misura che, per come si presenta, si candida a rappresentare decisamente qualcosa di più dei cosiddetti “Pacs”: non solo un ampliamento dei diritti sul piano privatistico, ma qualcosa di simmetrico a un matrimonio a tutti gli effetti dato che alle coppie omosessuali si concede – come denuncia Manif pour tous Italia – «la disciplina matrimoniale riservata alla famiglia dal Codice Civile in ragione della sue specifiche ed impareggiabili caratteristiche antropologiche e sociali». Unioni civili sì, ma non per tutti: per ragioni di “cassa” infatti queste sarebbero previste solo per le coppie omosessuali. Il motivo è semplice: estendere a tutti la reversibilità della pensione e i vantaggi fiscali di coppia significherebbe un colpo mortale al sistema previdenziale italiano.

IL NODO ADOZIONE

Se tra gli eterosessuali che richiedono da tempo i “Pacs” non si sono sentite ancora proteste, ciò che è certo è che ci saranno per la misura più forte presente nel testo: ossia quella che riguarda il riconoscimento di genitore adottivo per il figlio di uno dei due contraenti. Se nel testo presentato sarà espressamente escluso il diritto di adozione, con la«stepchild adoption» è prevista infatti la possibilità per uno dei due componenti della coppia gay di adottare il figlio (anche adottivo) dell’altro. Se poi dovesse nascere un figlio all’interno dell’unione (ad esempio con l’utero in affitto) entrambi sarebbero considerati genitori.

C’è da scommettere, poi, che davanti ai probabili risorsi delle coppie omosessuali non è escluso pensare che la Corte costituzionale possa intervenire. Lo fa capire senza nascondersi Monica Cirinnà, la senatrice Pd relatrice del testo in Commissione Giustizia: «La nostra Costituzione non definisce mai il genere dei coniugi, ma si limita a riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». E quindi – a suo avviso – «anche se sono gay, conta solo che compongano una famiglia… Lo stesso diritto costituzionale, comunque, è in evoluzione. L’ultimissima sentenza che ha salvaguardato il vincolo del matrimonio pure se uno dei coniugi cambia sesso, ha oggettivamente aperto una breccia: la coppia di Bologna resteranno marito e moglie anche se ora sono entrambi dello stesso sesso».

LA FASE “LIBERAL” DI RENZI: ANCHE LUI “CATTOLICO ADULTO”?

Da queste prime dichiarazioni si capisce già che tipo di breccia si intende aprire e quali potrebbero essere le conseguenze. Una misura che, guarda caso, arriva quando il governo si sente col vento in poppa forte di un 41% e che intende rappresentare la fase liberal del governo dopo gli impegni che riguardano le riforme istituzionali. Una sfida, insomma, con la quale il “cattolico” (adulto?) Renzi cerca di dare una sterzata di assestamento guardando al partito dei “diritti” così forte in Ue. Occorre capire, adesso, come si comporterà sull’argomento il Nuovo centrodestra, l’alleato che dovrebbe rappresentare il contrappeso sui temi etici, quelli che – da programma – sarebbero dovuti rimanere fuori dalla fase emergenziale da cui è nato l’esecutivo. Da questo punto di vista i movimenti in entrata da parte dei dissidenti di Sel e dei Cinque Stelle (i nuovi “responsabili”?) potrebbero assicurare al governo l’eventualità di tenere nonostante i mal di pancia degli alleati di governo.

Sul tema delle unioni civili “di Renzi”, per il momento, le reazioni della politica sono praticamente assenti (tranne Francesca Pascale, compagna di Silvio Berlusconi, che da parte sua ha aperto alle unioni omosessuali). Anche la Chiesa non si è ancora espressa: un atteggiamento simile a quello che in Francia ha visto i vescovi rimanere molto dietro rispetto alla società civile che si è organizzata con il movimento di popolo chiamato “Manif pour tous” (movimento di massa che ha contribuito a determinare il tracollo elettorale di Hollande) per contrastare la legge sul matrimonio e le adozioni alle coppie omosessuali.

L’OPPOSIZIONE? PER ADESSO E’ SOLO LA SOCIETA’ CIVILE

Non è un caso che proprio la diramazione italiana della “Manif” (assieme al “Comitato della famiglia” e alle “Sentinelle in piedi”) sia tra le poche realtà che stanno studiando e che si stanno opponendo da tempo alle proposte Scalfarotto e a quella delle unioni civili: «Se, da una parte – spiegano i promotori – è auspicabile un intervento legislativo che chiarisca ed armonizzi i diritti e i doveri di una persona dipendenti da una situazione di stabile e responsabile convivenza, non ha fondamento giuridico né politico imputare ad una simile formazione sociale la medesima disciplina che regola lo speciale rapporto tra la società e la famiglia, con tutte le conseguenze che ciò comporta anche quanto all’accesso alle risorse economiche pubbliche:agevolazioni e provvidenze che l’art. 31 della Costituzione destina alla famiglia proprio in ragione dell’ineguagliabile contributo al bene comune connesso alla crescita e all’educazione dei figli»

Assieme a questo ciò che viene reputato «del tutto irricevibile» è la prevista possibilità per uno dei conviventi di diventare genitore adottivo del minore che sia già figlio dell’altro (“stepchild adoption”)». Secondo Manif «si giustifica questa previsione in termini di tutela del minore, nel caso in cui rimanesse privo del genitore e delle garanzie connesse alla sua potestà. Senza alcun bisogno di confondere le figure genitoriali di un fanciullo, tuttavia, la legge già prevede specifici istituti destinati allo svolgimento dei compiti dei genitori in caso di loro impossibilità o incapacità, come quello del tutore legale. La stepchild adoption è, invero, il tipico primo passo verso l’incondizionata possibilità per coppie dello stesso sesso di adottare e di accedere alle tecniche di fecondazione artificiale e medicalmente assistita: scenario che farebbe saltare anche nella società italiana quell’ordine naturale di filiazione per interessi meramente egoistici».

lunedì 23 giugno 2014

Italiani e giapponesi, il racconto di una passione...



Mario Vattani presenta il romanzo "Il Fiume di Fuoco e di Profumo"(tratto da Il Velino.it)


Per rafforzare la sua posizione in Asia e dare un carattere speciale alle sue relazioni con paesi come il Giappone, l'Italia dovrebbe “ricordare” quanto ha saputo fare nel passato. È anche questo il messaggio de “Il Fiume di Fuoco e di Profumo”, il romanzo di Mario Vattani che verrà pubblicato per ora solo in Giappone. Nel libro l’avventura personale del protagonista si proietta sullo sfondo dei rapporti tra l’Italia e il paese del Sol Levante, in un periodo – dal 1866 al 1945 - molto particolare per le due nazioni e per il mondo intero.

Qual è il tema centrale del libro e il suo messaggio? 

"Ho voluto sviluppare il romanzo su due livelli. C’è quello personale, un viaggio che è quasi un percorso iniziatico attraverso il Giappone, le sue divinità e la sua storia. Il cammino di liberazione attraverso lo sforzo e la disciplina è un tema che nella mia vita ho tentato di sviluppare in varie forme. Solo che stavolta l’avventura umana si svolge sullo schermo magico dei rapporti tra Italia e Giappone. Quindi come nel teatro 'Noh', esiste un secondo livello in cui i protagonisti non sono solo le persone, ma anche le cose, che assumono una loro vitalità ed esprimono i loro ricordi".

Perché fermarsi al 1945? 

"Ho scelto come sfondo il periodo su cui si concentra la mia ricerca presso l’Università di Tokyo. Ho constatato che tra il 1866 e il 1945 si è sviluppata tra i due paesi una vera e propria passione, di cui la parte finale, quella dell’alleanza e poi del conflitto mondiale, è solamente una tragica conclusione, non il logico risultato. Un’alleanza è politica e militare, quindi limitata. Invece la passione per l’arte e per la cultura è infinita. Penso che quella passione dei primi anni vada raccontata, ai giapponesi e agli italiani".

Ma dopo il 1945, il nuovo sistema di alleanze ha portato a un lungo periodo caratterizzato da una visione a blocchi. Oggi dove si sta andando? 

"Gli equilibri e i rapporti di forza cambiano sempre, ed è auspicabile che un paese sappia muoversi in quel contesto fluido senza dogmi o pregiudizi. Sempre con una chiara percezione di quali siano gli interessi nazionali, e quindi gli 'alleati naturali'. Oggi l’Occidente si trova a fare i conti con il forte protagonismo delle grandi potenze economiche dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, e poi con le migrazioni, i problemi dell’ambiente. Ma in fondo non c’è nulla di nuovo".

Come arriva a questa conclusione? 

"Il tema su cui mi sto concentrando in questi mesi, anche se storico, è anche molto attuale. Gli effetti che la schiacciante vittoria nipponica sui russi nel 1905 ha avuto sui movimenti anti-colonialisti di tutto il mondo, sono stati dirompenti. E’ da allora che la tipica visione “a stella” dei rapporti internazionali, per la quale l’Europa intratteneva una serie di relazioni bilaterali 'ineguali' con i singoli paesi non-occidentali, ha iniziato a fare acqua. Da quel momento si sono moltiplicati i contatti diretti tra i paesi dell’Oriente, in funzione anti-coloniale. Si è sognata una visione non occidentale della modernità. Da questo punto di vista, il conflitto conclusosi nel 1945, quello che i giapponesi chiamano la guerra del pacifico, è solo una fase del più ampio processo di decolonizzazione. In fondo, vista da Oriente, la situazione attuale è una fase ancora successiva. Per questo bisogna guardare a come nel passato l’Italia, pur essendo un paese europeo, ha saputo giocare le sue carte".

Saprebbe farlo anche adesso? 

"L’Italia unita ha fatto il suo ingresso sulla scena internazionale quasi esattamente nello stesso momento del Giappone, negli anni ’60 dell’Ottocento, e da lì in poi ha saputo sviluppare verso il Giappone una posizione diversa, in un certo senso più evoluta di quella degli altri grandi paesi Europei. La nostra diplomazia ha saputo seguire una sua linea autonoma, mostrando una profonda capacità di analisi, apertura mentale, e un approccio moderno e “paritario” con una cultura così diversa come quella giapponese, sfuggendo alla presunzione e al complesso di superiorità che caratterizzava la linea delle potenze coloniali".
Perché questo libro e perché in giapponese?
"Trovo che questa nostra storia comune vada valorizzata, anche per rafforzare il rapporto di rispetto e di fiducia con un popolo che sempre mostra nei confronti dell’Italia una curiosità ed una fascinazione senza pari. E’ con questo spirito, con questa intelligenza e questo coraggio che arrivarono in Giappone a metà Ottocento i primi mercanti di seta piemontesi, oppure i commercianti di corallo e di perle di Torre del Greco. Ma spero di riuscire a pubblicare il libro anche in Italia, perché credo siano molti gli italiani appassionati dell’Oriente che si riconoscerebbero in questa avventura giapponese".

Che cosa rappresenta il viaggio in motocicletta e cosa è cambiato nella sua vita con la ricerca e il libro? 

"A Tokyo, mentre preparavo la documentazione per l’Università, ho ritrovato un diario che avevo scritto nel 2003, durante un lungo giro del Giappone in motocicletta. Mi sono reso conto, dopo dieci anni, che quel mio viaggio solitario alla ricerca di una libertà interiore, si è concluso solo adesso".

domenica 22 giugno 2014

Dalla pellicola fotografica a Facebook



di Giorgia Bondanini (L'Intellettuale Dissidente)


Come cambia il modo di pensare attraverso le nuove tecnologie?

Cosa è cambiato dal 1950 al 2014? Si è passati da una società completamente distrutta dalla guerra a una società messa in ginocchio dai social network.

Negli anni ’50 possedere una casa propria con una semplice stanza e il riscaldamento era già motivo di grande orgoglio; si aspettava con ansia l’arrivo della domenica così da poter indossare il vestito “buono” per andare in chiesa e al cinema, si attendavano le ore davanti a un telefono per aspettare una chiamata.

Negli anni 2000 con l’invenzione dei social network siamo passati da una società che sapeva aspettare, sapeva annoiarsi, a una società che non è più in grado di attendere, che non riesce più a portare pazienza se non si risponde subito a un messaggio e che può costantemente controllare tutti gli orari e gli spostamenti di qualcun altro. Come siamo arrivati a questo? La società moderna si basa su situazioni di condivisione globale continua: chiunque, oggi, sente la necessità di condividere foto, frasi e pensieri con amici e conoscenti.

Ma cosa è cambiato veramente? Non possono essere incolpati soltanto i mass media poiché le pubblicità sono un mezzo da sempre esistito: donne di tutto il mondo hanno sempre ammirato le modelle dei cartelloni pubblicitari già nel 1950. Oggi è cambiato, però, il modo di vedere le cose: siamo costantemente “bombardati” da foto e immagini presenti ovunque, da Facebook a Instagram; le persone sono costantemente messe a confronto l’una con l’altra e questo può portare a un fattore d’insicurezza e un continuo bisogno di approvazione da parte della società.

Questi fattori portano a sua volta a un rifiuto della privacy: si è sentito spesso parlare della mancanza di riservatezza causata dai social network; oggi si è arrivati, senza rendersene conto, a un punto in cui nessuno vuole più privacy: chiunque vuole condividere qualcosa.

A metà degli anni ’50 uno psicologo chiamato Abraham Maslow presentò la cosiddetta “piramide dei bisogni”: sono presentate, gerarchicamente, diverse necessità che ogni individuo deve soddisfare partendo da quelle fisiologiche fino ad arrivare all’autorealizzazione.Si può notare che, nell’odierna società, l’individuo rimane “bloccato” al bisogno di stima senza mai arrivare all’ultimo gradino. Come mai? La spontaneità e l’assenza di pregiudizi, requisiti necessari per arrivare all’autorealizzazione, sono impossibili da ottenere: chiunque, oggi, è costantemente controllato e giudicato.



Un’ulteriore problematica che si presenta riguarda il fatto che, una ripetuta visione di foto porta, inconsciamente, a un invecchiamento precoce nei nostri ricordi: eventi vissuti solo un mese prima danno un senso di malinconia come se fossero stati vissuti in anni precedenti.

I mass media e le mode sono da sempre stati considerati gli unici responsabili del cambiamento di pensiero degli individui; oggi, questa variazione può avvenire anche grazie alle persone comuni che non lavorano in questo settore: basterà semplicemente comprare un computer, uno smartphone e condividere foto o frasi con il mondo ed essere, così, in grado di dettare nuove regole e nuove mode. Si può, quindi, concludere con due note: una positiva e una negativa. Di positivo c’è che, oggigiorno rispetto agli anni ‘50, ci sarà un modo più veloce di comunicare: chiunque può vedere, condividere qualcosa e rimanere in contatto con persone, amici e conoscenti; di negativo, invece, ci saranno la mancanza di privacy e la continua necessità di mettersi costantemente in mostra che, paradossalmente, impone un continuo bisogno di approvazione.

sabato 21 giugno 2014

Quei delitti orribili nella società "per bene" delle villette a schiera



di Massimo Fini

Si può cercare di analizzare l'apparentemente incomprensibile, l'inconcepibile? Ci proviamo. Siamo di fronte a due efferati delitti, quelli di Brembate e di Motta Visconti, grosso modo hinterland milanese, civilizzato se non civile. A Brembate è stata uccisa una ragazzina di 13 anni, Jara, a Motta Visconti una donna di 38 anni con i suoi due piccoli figli. Si conoscono entrambi gli assassini. Per la verità quello di Jara, un muratore, M.G.B., è solo presunto, perché non basta il Dna per fornire una prova definitiva, e ha fatto bene il Procuratore capo di Bergamo a lamentare la fuga di notizie perché creare 'mostri' anzitempo da dare in pasto alla folla inferocita, una folla che, a volte, fa più paura e orrore dello stesso assassino perché capisci benissimo che, protetta dall'anonimato, com'è in questi casi, potrebbe compiere gli stessi delitti, e forse anche peggiori, dell'assassino (si confronti il comportamento di questa folla indecente, l'eterna folla di piazzale Loreto, con quello dei genitori di Jara, le vere vittime, insieme ovviamente alla ragazzina, di quel delitto).

L'assassino di Motta Visconti è invece certo perché ha reso ampia confessione. E' Carlo Lissi, marito della donna e padre dei due bambini uccisi, fino all'altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello. E' questo delitto che ci sgomenta perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità. E manca qualsiasi movente plausibile. Si tratta di uno di quei 'delitti delle villette a schiera' come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti, altrimenti definiti in criminologia 'crimini espressivi', omicidi senza un perché. In Italia gli omicidi compiuti dalla criminalità comune sono in netta diminuzione, quelli delle 'villette a schiera' sono invece in aumento. Quale la ragione? Io credo che risieda nella pretesa della società contemporanea di abolire nel modo più assoluto ogni forma di aggressività, sia fisica che verbale. E l'aggressività, che è una componente fondamentale e vitale dell'essere umano, compressa come una molla risalta poi fuori nelle forme più mostruose. Io credo che se Lissi non fosse stato costretto dal contesto sociale a condurre una vita così perfettina, se avesse potuto dare un paio di ceffoni a una moglie che evidentemente non sopportava più senza rischiare la galera per maltrattamenti, se avesse potuto insultare il capoufficio o dare un cazzotto a un collega senza essere immediatamente licenziato, se avesse potuto andare allo stadio senza recitare la parte del tifoso perbene ma quella di «Genny a carogna», forse, sfogatosi in altro modo, non avrebbe ucciso. Lo psicologo e psichiatra austriaco Bruno Bettelheim ricorda come nel suo villaggio natale l'uccisione collettiva del maiale, che è una cosa molto cruenta, cui partecipavano anche i bambini come lui, fosse uno sfogo naturale dell'aggressività dei componenti della comunità che evitava guai peggiori. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra conoscevano queste verità psicologiche elementari. E quindi non cercavano di abolire del tutto l'aggressività ma di canalizzarla in modo che fosse controllabile e restasse entro limiti accettabili (i neri africani con la 'guerra finta' o i Greci con la figura del 'capro espiatorio' non a caso chiamato 'pharmakos', medicina). Se si vuole evitare il Grande Male bisogna accettare i piccoli mali e, sul lato opposto, bisogna accontentarsi dei piccoli beni invece di pretendere il Bene Assoluto. Perché Bene e Male sono due facce della stessa medaglia e concrescono insieme. E quanto più si vorrà grande il Bene, tanto più si creerà, inevitabilmente, un Male equivalente. Come dimostrano anche alcune recenti esperienze internazionali.


giovedì 19 giugno 2014

Cinema (di F.Cardini). “Cristiada” e l’epica rivolta dei cattolici messicani contro il laicismo



di Franco Cardini (Barbadillo)

Ormai da parecchi anni divido ordinariamente il mio tempo tra Firenze e Parigi: anzi, negli ultimi tempi sono sempre più spesso parigino che fiorentino, né – con tutto l’affetto possibile per la mia città natale – posso dire che ciò mi dispiaccia. Al contrario. Certo, Parigi qualche difettuccio ce l’ha: per esempio, è cara (ma di ciò uno abituato a Firenze quasi nemmeno si accorge). In cambio, la Ville Lumière offre tuttora stimoli intellettuali rispetto ai quali poche città al mondo possono vantarsi di essere allo stesso livello, nessuna forse di più: e si ha un bel dire che sia “decadente”, come ogni tanto si sente dire da qualche provinciale. Basti pensare al numero e alla qualità delle esposizioni che vi si celebrano di continuo. Poi ci sono i teatri e i cinema, che ancora funzionano eccome (prosa compresa). E le rassegne cinematografiche, attuali e retrospettive.

Queste ultime sono preziose perché consentono non solo di rivedere magari i vecchi films di Jean Gabin o di Simone Signoret, ma anche perché ogni tanto ripropongono pellicole che sono sì passate attraverso l’ordinaria programmazione: ma che si sono fermate poco, hanno avuto magari un sovente immeritato insuccesso, oppure si è creduto bene di farle sostare il meno possibile nelle sale perché non abbastanza politically correct.

Mi è così successo, qualche giorno fa, di assistere incredulo al film che in francese è stato proiettato col titolo di Cristeros: e non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie. La mia incredulità, anzi sorpresa, è aumentata quando mi sono reso conto che in Italia il film era già passato l’anno scorso sotto il titolo Cristiada. E non era un film poi così trascurabile, dal momento che tra gli interpreti ci sono Andy Garcia e il grande Peter O’Toole (a parte una sempre bellissima Eva Longoria, che gli italiani conoscono quasi soltanto come pin up, ma che invece è anche una brava attrice: il che non guasta).

Ma la Cristiada non è stata l’epica rivolta dei cattolici messicani tra ’26 e ’29 contro le liberticide leggi anticattoliche, anzi propriamente blasfeme, di figuri come il generale-presidente Plutarco Elías Calles, legislatore “laicista” e criminale macellaio al quale, tanto per far un esempio, il diffusissimo Atlante Storico della Garzanti non dedica nemmeno una parola? Non appartiene, quell’episodio, a una pagina dimenticata ed esorcizzata dalla conformistica storia laico-democratico-antifascista un tempo nutrita solo di “Resistenza” e che oggi, riciclatasi in salsa neoliberal-liberista, ha lasciato praticamente cadere anche quella?

Proprio così. Il film dall’originale titolo For greater Glory, distribuito dalla 20.th Century Fox, è stato girato nel 2012, è una produzione statunitense-americana il regista della quale è Dean Wright; ed è stato prodotto da Pablo José Barroso su un soggetto di Michael James Love. Quanto al suo passaggio sugli schermi italiani, io sarò stato forse l’unico a non accorgermene, ma confesso candidamente di non aver mai saputo nulla di una sua programmazione e di non averne mai letto nemmeno una recensione. Sono davvero così distratto?

Quella della repressione e delle leggi antireligiose del Messico degli Anni Venti è una delle pagine più vergognose della storia del XX secolo: il presidente Calles, sentendo vacillare la sua posizione politica e il consenso che egli aveva saputo costruire attorno alla sua figura di rivoluzionario fino dal ’17, fece ricordo al capro espiatorio della Chiesa, dei preti e della “superstizione”, del “fanatismo”, responsabili a dire suo e di quelli della sua risma dell’ignoranza e dell’ingiustizia sociale che dilagavano nel suo paese. Calles era tallonato dal governo degli Stati Uniti d’America, che aveva bisogno di concessioni petrolifere importanti dal vicino paese: ormai era difatti cominciata dal corsa all’”oro nero”: bisognoso di appoggi politici e diplomatici, nonché di armi per le sue forze armate, egli vendé la dignità e la sovranità del suo popolo in cambio dell’ottenimento di una “mano libera” che gli permise di giungere a misure antireligiose autenticamente liberticide: divieto del suono delle campane, delle manifestazioni pubbliche di fede, dell’abito talare per i sacerdoti fuori dalle chiese: tutte giudicate espressioni di “oscurantismo” indegne di un paese “progressista”. L’episcopato messicano, e quindi la Santa Sede, risposero con l’interdetto, cioè con il divieto di qualunque celebrazione religiosa sul territorio messicano. Calles non comporese o (peggio) finse di non aver compreso al gravità di un monito come quello, indirizzato a uno die apesi più profondamente cattolici del mondo, e a sua volta aggravò le misure repressive passando all’intimidazione fisica e addirittura all’aperta persecuzione: chiese invase e distrutte, preti e fedeli uccisi, oggetti e suppellettili sacre profanati. Nemmeno il bolscevismo e il kemalismo nelle sue fasi antireligiose più acute avevano mai osato tanto.

Il film racconta, sistemandole insieme in un tessuto in parte “romanzesco” ma che collega tra loro episodi storicamente autentici, le vicende di alcuni dei martiri della repressione – da vecchi preti a ragazzini meno che adolescenti, per tacere dei furti e degli stupri – e si sofferma in particolare sulle vicende del generale Enrique Gorostieta, impersonato da un energico e umanissimo Andy Garcia: Gorostieta era un vecchio soldato dei tempi del presidente Huerta, ateo come la maggior parte degli esponenti dei ceti borghesi e intellettuali latinoamericani dei secoli XIX e XX, ma profondamente onesto e soprattutto rispettoso del principio della libertà. Non tanto per influenza dell’amatissima moglie, ch’era profondamente credente, quanto per onesta adesione al principio liberale del “non credo in quel che credi, ma sono disposto a dare la vita perché tu sia lasciato libero di crederci”, Gorostieta accettò di mettersi a capo di vasti gruppi di cattolici che, ormai stanchi di subire, avevano organizzato una vera e propria rivolta il motto della quale sarebbe risonato anche dieci anni dopo, in circostanze per molti versi analoghe, in Spagna: “Que viva el Cristo Rey!”.

Papa Pio IX, con al mediazione del governo statunitense, trovò il modo di raggiungere nel 1929 un accordo con il governo Calles: ma molti guerriglieri – chiamati per dileggio cristeros: una parola che avevano orgogliosamente rivendicato – si sentirono offesi e traditi da quel compromesso. Il film racconta la storia di Gorostieta e di alcuni martiri che sono stati a varie riprese beatificati o santificati da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Una storia terribile, amara, quella dei cristeros: una di quella nei confronti della quale il tanto reclamato “dovere della memoria”, evidentemente, non esiste. E’ difficile che entri nelle scuole, dove pur altri films – il soggetto dei quali è più gradito ai paladini della memoria a senso unico – hanno fin troppo frequente e facile accesso. Ma forse qualcuno tra quelli che leggeranno queste righe (insegnanti, studenti, religiosi o studenti che siano) potrebbe avviare l’iniziativa di organizzarne qualche proiezione, magari con successivo dibattito. Chissà.

mercoledì 18 giugno 2014

Gli antifà, dunque...



Di Mario M. Merlino

Sabato 14 giugno l’ass. Ronin (in giapponese ‘l’onda’, equivalente a quel samurai che è privo di signori a cui prestare la propria opera) di Pisa aveva programmato la sua prima iniziativa culturale nel comune di Castelfranco di Sotto richiedendo una sala per la presentazione del romanzo di Roberto Mancini e Mario Michele Merlino dal titolo La guerra è finita. Sarebbero arrivati giovani e meno giovani da diverse località della Toscana e, va da sè, gli autori da Roma. I’incontro programmato da tempo con locandina riproducente copertina del libro luogo e ora dell’evento. Due giorni prima il sindaco, novello e reiterato don Abbondio minacciato dai bravi di don Rodrigo (‘questo matrimonio non s’ha da fare!’… che palle a scuola quel Manzoni che, se letto fuori dai banchi registro riassunto e interrogazione orale, forse avrebbe trovato giusta accoglienza), con linguaggio tipico da burocratico pause sottintesi giri di parole sguardi al cielo sguardi in basso mai direttamente negli occhi di chi si ha di fronte ha revocato, dispiaciuto e offeso, l’autorizzazione… ma i comitati antifascisti, parodia ormai tra lo stanco e il ridicolo venir fuori come le lumache – corna comprese – ogni qualvolta che nel cielo burrascoso della ‘resistenza’ s’è addensata pioggia, hanno annunciato con volantino disinformato e sgrammaticato, un presidio in risposta all’oltraggio che si stava per perpetrare…

Sono, dunque, restato a casa evitando il treno il caldo copie del libro da vendere. E, a sera, fino a Maccarese, alla festa di Comunitaria dove, anno dopo anno, le varie realtà romane – e non solo – si ritrovano in tre giorni per ascoltarsi riconoscersi fare musica bere birra e scoprire come l’identità è più tenace di tante effimere diversità (quella ‘cultura e territorio’ di cui mi piace parlare da tempo e sovente). Poi, tornato a casa, a mezzanotte, a vedere la Nazionale battere quella inglese – lo so che questa Italia poco o nulla mi appartiene e che avrei preferito trasformare ‘la perfida Albione’ in una colonia per ‘i figli della lupa’ e non dover applaudire Balotelli mettere in rete il pallone –. Lo so, ma il filosofo Hegel riteneva che a nessuno è concesso sottrarsi al principio di gravità (leggasi tempo e circostanze), pur se ci rimane il diritto di preservare i sogni mantenere gli ideali e metterci in cammino per travalicare l’ultimo orizzonte (questo l’aggiungo io che ho sempre privilegiato il vagabondo – ‘il viandante di Nietzsche e la canzone dei Nomadi –).

Gli antifà, dunque… Vale la pena parlarne? Beh, a volte, mi duole che non si abbia più l’ardire, forse incauto e goliardico, forse elementare e sciocco, forse debole in analisi ed eccessivo nella sintesi, di sentire l’adrenalina che ti attraversa il corpo equilibrare il peso della spranga in mano umettarti le labbra lanciare il grido di battaglia e lanciarsi avanti, pochi poco conta e nulla conta quanti ne hai davanti… Impietosa l’anagrafe, evidente nel fisico, fuori dal presente probabilmente, altro il nemico reale… Eppure la mente e il cuore, folli e disperati, ti sussurrano antiche canzoni…

Gli antifà, dunque… Vale la pena parlarne? In fondo sono i nipoti dello scempio di piazzale Loreto, i figli del ‘sangue sparso’ degli anni ’70. In formato e modello ‘corte dei miracoli’, un campionario di ebeti sciancati ciechi monchi sdentati lerci e male odoranti di borghesi dalla puzza sotto il naso e la sigaretta d’erba cosce e natiche incrostate di sperma e di sangue mestruale. (Mi raccontava Alberto Franceschini che, quando decisero con Curcio e Mara Cagol di sequestrare un dirigente Cisnal della FIAT – la prima azione di lotta armata –, si rifecero a modalità e numero esatto di componenti del commando basandosi fedelmente su quanto narravano loro i ‘vecchi’ partigiani che frequentavano le sezioni del PCI e si facevano vanto a Reggio Emilia… Ieri mattina, in poltrona e con Frodo che mi leccava appassionatamente il collo, Giacinto Reale mi ricordava di aver assistito ad una ‘compagna’ che, toltasi le scarpe, picchiava in testa un camerata caduto a terra e già sanguinante, in quella maledetta mattina del 16 marzo ’68, università di Roma. Ed era solo l’inizio, una sorta di timido annuncio dell’orrore brutalità ferocia che gli anni successivi, per oltre un decennio, avrebbero caratterizzato lo scontro).

Gli antifà, dunque… Vale la pena parlarne? Sono al supermercato, in fila alla cassa. Mi si mettono dietro in tre – zecche o sbirri travestiti da zecche. Uno, quello che ha l’aspetto di chi dirige il gioco (o almeno ha la pretesa), mi indica agli altri. Per farli incazzare chiedo loro se sono ‘guardie’. Pago esco sta piovendo corro verso la fermata del tram. Mi vengono dietro e si fanno forti perché pensano che stia scappando. Mi fermo e torno indietro. Sia mai che dia loro l’idea che me la batta. Stronzi – e stronzo io che mi becco tutta l’acqua… Il demente di turno mi da del ‘nazista’ come se fosse un insulto. Il ‘capo’ lo trattiene e si illude di mettermi confusione in testa, distinguendomi, secondo lui da stragisti tipo Roberto Fiore o Stefano delle Chiaie. Inchiodati ad un patibolo di luoghi comuni suggestioni menzogne archeologie città sommerse dal deserto polvere dei secoli geroglifici…

Gli antifà, dunque… Eppure, il prossimo sabato, il pomeriggio del 21, sarò a parlare di quel primo marzo 1968, davanti alla facoltà di Architettura, a Valle Giulia. Immortalati in quel poster, divenuto icona della stagione della contestazione, realizzato dalla rivista Quindici con il titolo enfatico di La battaglia di Valle Giulia, dove siamo in prima fila con i nostri coetanei di sinistra, magari un po’ arretrati. Senza nascondimenti provocazioni o altro, convinti che quella rivolta generazionale potesse essere ‘soltanto l’inizio’ e che bisognasse accelerare i venti del cambiamento. Un sogno infranto, certo e nostro malgrado, ma i sogni, quel tipo di sogni, non si dissolvono con le luci del giorno non si rinnegano se, poi, qualcuno volle renderli incubo, non perdono d’intensità se… gli imbecilli, come i comitati antifascisti di Pisa e dintorni, vogliono tranciare il mondo in due e tenere distinti il rosso dal nero (distinzione che, nel cielo delle idee, è meritevole d’essere, ma non nella prassi necessariamente). Ignari, non potrebbe essere altrimenti, che insieme al bianco rappresentano qualcosa di ben più alto ed altro di ideologie movimenti uomini contro…

martedì 17 giugno 2014

Nel mondo dei nuovi media niente è mai come sembra


di Marcello Veneziani

Le notizie sono sempre di più e sempre più incontrollabili. L'equilibrio tra rischi e benefici è precario. E il pericolo maggiore è l'illusione della verità
Ieri si è conclusa ad Asti l'undicesima edizione del festival culturale «Passepartout», il cui tema portante era: «1954-2014 Sesto potere? Informazione, disinformazione e controinformazione in TV». In questa pagina presentiamo una sintesi della «lectio magistralis» tenuta a conclusione del festival da Marcello Veneziani.

Nel regno dell'informazione non tutto è come appare. Non è il titolo per un breve trattato di dietrologia, con un bel complottone dei poteri occulti. Indica piuttosto la differenza abissale tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica, l'ipocrisia che si nasconde nel culto dell'outing e della spontaneità, l'ideologia che si copre dietro i fatti e il paradosso che a volte l'evidenza più sfacciata serve a dissimulare la verità delle cose. L'informazione oggi patisce di bulimia, ipernutrizione, il media-mondo è un'emorragia perenne di notizie. E da qualche anno i flussi inarrestabili di notizie si accavallano ai flussi incontinenti di commenti in forma di blog, e-mail, twitter e sms. Fatti e interpretazioni si intrecciano in tempo reale sul piano universale. Si è sfondata la porta che separava i datori di commenti dai fruitori, si è superato il confine tra la sfera pubblica e la sfera privata ed è indistinto il passaggio dal fatto alla chiacchiera. Non ha senso stabilire se questo sia un progresso o un regresso in assoluto, perché è sia l'uno che l'altro, a seconda di cosa viene messo in relazione, in rapporto a cosa. Qui mi limiterò a mettere in contraddizione alcuni aspetti e alcune conseguenze, sapendo che su altri piani, l'informazione permanente, universale e incontrollata, produce benefici.
Per cominciare, l'evidenza delle immagini e la loro universale fruibilità non è sicuro indizio di trasparenza e comprensibilità dei fatti. Dalla prima guerra in diretta, quella del Golfo nel '91, alle ultime rivolte, noi vediamo lo spettacolo degli eventi ma non cogliamo il senso e l'intero. Vedemmo fiumi d'immagini grazie alla Cnn, ma ci sfuggirono i centomila iracheni sepolti sotto la sabbia, tra popolazioni civili, la distruzione di Ninive, Babilonia e Damasco. La tv poi ci mostrò il sogno di libertà della primavera araba, ma non ci fece cogliere il lato cupo di quelle rivolte che colpirono dittature semi-moderne per instaurare regimi tribali o aspirare a regimi dispotici peggiori di segno integralista. E in Ucraina ci hanno istigato al tifo per la rivolta in favore della libertà e l'Europa e alla deplorazione dei carri armati russi, senza dirci che un governo democratico e legittimo, voluto dal popolo e riconosciuto a livello internazionale, era stato rovesciato con la piazza e invece a una popolazione in prevalenza russa, come in Crimea, era negato il diritto di restare nell'alveo originario, sancito pure da un referendum popolare. L'evidenza delle immagini non ci dice niente sulla verità dei fatti e dei moventi. Ci dà uno scorcio, un fotogramma, non l'intero.
In secondo luogo la denuncia reiterata, la gogna mediatica, l'overdose di notizie non scoraggia il ripetersi di pratiche, sistemi e fatti, come quelli legati alla corruzione. Anzi l'eccesso di notizie crea assuefazione ai fatti, l'indignazione si fa routine, l'abuso mitridatizza. L'informazione non è un vaccino etico.
L'effetto peggiore che produce la democrazia del blog è quella barbarie dell'ipermodernità che denunciò molti anni fa Ortega y Gasset e si riassume in una sua riflessione aristocratica: l'animo volgare sentendosi volgare impone dappertutto il diritto alla volgarità. Avendone la possibilità, tutti si sentono in diritto di giudicare tutto, solo da un labile indizio, una diceria, un'impressione, e di inoltrarsi in terreni ostici di cui ignorano quasi tutto. Il nucleo della barbarie è l'immediatezza, cioè la spontaneità irriflessiva dei giudizi, priva di mediazioni e confronti, di paragoni e approfondimenti. È l'equivoco che il libero accesso universale produca parificazione universale. Si perde lo scarto tra le opportunità e le capacità: le prime in un sistema libero e democratico valgono per tutti, il riconoscimento di meriti e capacità è invece commisurato al livello di ciascuno. Si confondono mezzi e fini, strumenti, ranghi e piani.
La caduta mediatica dei tabù, delle reticenze e dei segreti viene accompagnata dall'apologia del coming out, ovvero la rivelazione in pubblico di quel che si considerava intimo, privato, rimosso o taciuto. Dietro questa glasnost universale c'è spirito di verità o esibizionismo egocentrico, narcisismo puro e perdita di ogni relazione tra diritti e doveri, tra piacere e responsabilità? Ma l'aspetto più perverso della trasparenza è che con l'outing cresce anche il nuovo codice dell'ipocrisia, il politically correct, il gergo della finzione che copre la verità per tutelare alcune categorie. Il rococò del parlar falso si spinge fino a considerare reati alcune opinioni «scorrette». Curioso questo canone di divieti nel pieno della società permissiva, trasparente, del re nudo. Effetti collaterali di questi codici di benevolenza e malevolenza nei media sono la fabbrica dei palloni gonfiati e la finzione d'inesistenza per temi e autori non allineati.
Qui entriamo nel tema cruciale: chi orienta i media, chi li influenza? I padroni dell'informazione oltre i proprietari di testate e d'hardware, sono tre: il potere economico-politico, i grandi committenti pubblicitari e i gestori del software ovvero l'intellettuale collettivo nella specie di egemonia culturale, clero dei potentati ideologici. Gli scopi generali di chi detiene il potere dell'informazione sono tre: vendere, orientare, condizionare (più farsi ammirare, per chi scrive). Il primo è lo scopo commerciale puro, il secondo è lo scopo ideologico, succedaneo del propaganda fidei, il terzo scopo ibrido è favorire un'impresa, un prodotto, un progetto, un'operazione, far pressione, lobbying a mezzo stampa.
L'ideologia che fodera questi assetti e questi scopi è il primato dei fatti rispetto alle opinioni. In realtà dietro i fatti viene violata la verità in due modi diversi: o con la pretesa assolutistica di detenere il monopolio della verità o con la pretesa relativistica che non ci sia la verità nei fatti ma solo interpretazioni. Più onesta un'altra chiave di lettura: la verità esiste, oltre le nuvole delle opinioni, ma nessuno ne detiene il monopolio, possiamo solo approssimarci ad essa, e coglierne uno spicchio; non siamo portatori di verità ma la verità porta dentro anche noi. L'informazione buona e onesta è animata da tensione di verità e non nega di avere anche una finalità etico-educativa, libera e trasparente. A patto di riconoscere quel che Gioberti definiva la poligonia del vero: la verità ha più lati e noi ne cogliamo uno. Si tratta di ripristinare la relazione tra il vero e il fatto, per dirla con Vico. Il vero è la visione intelligente del fatto. I fatti sono parziali, le interpretazioni sono partigiane: la verità è l'intero rispetto alle parti. Ognuno faccia la sua parte, senza la pretesa di dire il Tutto o di rivelare il Nulla.

lunedì 16 giugno 2014

16/06/1979-16/06/2014 in ricordo di Francesco Cecchin vittima dell'antifascismo


"Ma quella nave non è mai affondata,
l'ho rivista ieri sera,
con le vele gonfie di vento,
e il tuo nome sulla bandiera".

In ricordo di Francesco Cecchin 16/06/1979-16/06/2014

sabato 14 giugno 2014

La vera solidarietà non è consentire un ingresso indiscriminato a tutti



"Se chiamano rifugiati vuol dire che fuggono da qualcuno ma il buon cuore per accoglierli non basta e bisogna avere il coraggio di dire quando sono troppi e di intervenire nei loro Paesi per costruire una società migliore" - Dalai Lama

venerdì 13 giugno 2014

Nazioni sovrane solo ai mondiali di calcio



di Sebastiano Caputo (L'Intellettuale Dissidente)

Dove sta andando il mondo? Verso una global governance di matrice anglo-sassone e di spirito capitalistico, di natura oligarchica ed egemonica, pilotata da un’ideologia che si professa falsamente non-ideologica: il mondialismo. Il quale non va confuso con la globalizzazione, che a differenza di esso, è un processo naturale e ineluttabile dovuto al progresso tecnico-scientifico. Suzanne Collins, autrice di The Hunger Games, si iscrive in continuità con i grandi romanzi distopici della storia europea, raffigurando una società del futuro divisa radicalmente tra ricchi e poveri, dove i ricchi vivono in un ambiente iper-tecnologicizzato e consumista, privo di identità sessuali. George Orwell nel romanzo politico 1984profetizza (o meglio denuncia?) l’era in cui questo credo semi-mistico del mondialismo si estende su tutta la società, mentre Aldous Huxley (fratello di Julian Huxley, primo presidente dell’Unesco e fondatore del WWF) nel libro Il migliore dei mondi pubblicato nel 1931, fa trasparire un vero e proprio programma politico globale. Entrambi evocano uno Stato mondiale sorretto da un governo unico (una global governance), costituito da un’umanità sottomessa, gerarchizzata, standardizzata, manipolata dal potere mediatico. Una società che non è poi così tanto lontana dalla nostra.

Ida Magli nel saggio La Dittatura Europea descrive telegraficamente le caratteristiche fondanti di questa nuova civiltà planetaria: “l’itinerario prevede la distruzione delle identità (oltre che lo smantellamento dello Stato Sociale e svuotamento della sovranità delle nazioni, ndr) da perseguire attraverso la sovversione dei valori che vi riferiscono, il controllo centralizzato di tutti i sistemi educativi […]; l’eliminazione della conoscenza della storia in quanto ostacolo all’accettazione del nuovo ordine, il controllo delle politiche interne ed estere, come già avvenuto in Europa con l’esame preventivo delle leggi finanziarie, un mercato unico e una moneta unica (che potrà essere il dollaro oppure un’altra del tutto nuova) in via di realizzazione attraverso le crisi finanziarie indotte e pilotate a questo scopo, una lingua unica che è quella già un uso: l’inglese”.

Queste dinamiche si traducono realmente al livello politico, culturale, economico e geopolitico. Il patriottismo, il localismo, il comunitarismo sono considerati concetti futili dal pensiero unico, i Parlamenti delle democrazie occidentali si sono svuotati di qualsiasi forma di autodeterminazione, gli Stati Uniti e i loro alleati bombardano le nazioni sovrane, il decisionismo dell’Unione Europea prevale su quello nazionale, il liberismo smantella lo Stato Sociale, le identità dei popoli si stanno appiattendo sul modello consumistico, i caratteri sessuali degli uomini e delle donne si stanno indifferenziando attraverso nuove forme di coercizione antropologica: il “genderismo”. Ma il grande mercato capitalistico globale necessita delle nazioni e del nazionalismo soltanto durante i grandi eventi di show-business, come le olimpiadi o i mondiali di calcio. Sovrane per mondanità, per moda, per una settimana. Poi a tutti a casa, nelle rispettive nazioni a sovranità limitata.

giovedì 12 giugno 2014

Cultura. Leggere Evola a quindici anni tra sigari e copertine giallo “disintegrazione”


 di Luigi Iannone (Barbadillo)


Siamo al quarantennale della morte di Julius Evola. Di fronte alle misure restrittive di certa critica, che hanno dileggiato ed osteggiato per tutto questo tempo la diffusione del suo pensiero, correrebbe l’obbligo di non rifugiarci più in posizioni difensive. Ed infatti sono in via di pubblicazione ottimi studi; altri sono usciti da poco (segnalo quelli curati da Gianfranco De Turris, con Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa) e di sicuro non mancheranno una mole di articoli all’altezza del personaggio e con un profilo ermeneutico meno manicheo di quanto non avuto finora.

Il senso prevalente di onnipotenza da parte di certa critica, ha fatto sì che, in passato, solo su quelli più ‘digeribili’ dalla opinione pubblica ‘democratica’ si potesse indugiare con una certa benevolenza. Per lungo tempo, l’ascesa verso una vetta così impervia - come quella di Evola - nascondeva infatti un incremento di paura anche per chi ne condivideva gran parte del suo pensiero nel momento in cui si entrava in collisione con le luci e le ombre.

Non c’è dunque momento più profondo per indagare se non tenere conto di tutto di tutto questo. Tuttavia non me la sento di rievocare in maniera classica. Provocatoriamente parto dalla nostalgia e dalla visione parzialmente distorta di un quindicenne che in gran parte conteneva in sé tanti degli stereotipi su cui la critica si è accanita.

So che le considerazioni/confessioni che seguiranno porteranno - come correlato - agli occhi dei benpensanti le critiche di sempre. Io, invece, più che entrare nelle sinuosità della sua complessa opera, voglio intenzionalmente restare in superficie. In realtà, quel quindicenne oramai adulto, può permettersi di rimestare in quei ricordi perché ha percorso e attraversato vie impervie. A differenza della critica militante, immobile nelle sue certezze, ha compiuto un percorso fatto di curve, ostacoli, rallentamenti vari.

Voglio raccontarvi di me quindicenne a cui furono dati in prestito da un ‘camerata’ di dieci anni più grande, due libri: La disintegrazione del sistema di Franco Freda e Il Cammino del Cinabro. Il primo, non avendo soldi per fotocopiarlo, lo riportai integralmente a macchina. Intere giornate con quelticchettìo nelle orecchie, rombi di cannone pronti a demolire ogni cosa. I foglicon cancellature e indicazioni li conservo gelosamente in un cassetto. Erano le tattiche e le strategie di un rivoluzionario che sognava la presa del potere. Come potevano non affascinarmi.

Il cammino del Cinabro (copertina gialla, edizioni Vanni Scheiwiller) non lo ricopiai perché avevo già deciso di comprarlo. Andai a Napoli, insieme ad un mio amico di liceo (ovviamente marinando la scuola), in una libreria talmente piccola che a malapena ci si poteva muovere. Per qualche tempo fu il nostroEldorado. Ritornammo molte altre volte e ovviamente sempre di mattina. Conquell’amico ci iscrivemmo al MSI, probabilmente falsificando qualche dato anagrafico. L’anno dopo infatti traslocammo al Fronte, per poi ritornare al partito ‘da grandi’. Lui aveva perso entrambi i genitori. Il padre da piccolo e la madre da pochi mesi. Fu affidato ai suoi zii ma la casa paterna era libera e cosìpassammo interi pomeriggi (oltre che le mattinate) a declamare ad alta voce e a turno i ‘passi’ più intriganti.

Nel frattempo si erano aggiunti nella mia striminzita biblioteca Cavalcare la tigree La dottrina del risveglio. Ho letto di personaggi dello spettacolo e della cultura raccontare dei libri dell’infanzia. Hemingway, Leopardi, Goethe, addirittura c’è chi si arrischia - non essendo in alcun modo credibile - con Marcel Proust. Iodalle favole passai direttamente a Evola. In quella reggia disabitata fumavanosigari e bevevamo whiskey. Da un lato del tavolo il Secolo d’Italia, dall’altro quei libri gialli.

Ora, quei due ragazzi sempliciotti che si atteggiavano a rappresentare un modello letterario (il dandy), politico (il ribelle) e antropologico-filosofico (il nichilista), oltre a suscitare una comprensibile ilarità, mi fanno anche un po’ di tenerezza.

Solo tempo dopo ho capito che Il cammino del cinabro era il testo meno indicato per intraprendere un percorso su Evola, senza aver letto nulla di lui. Il libro faceva riferimenti espliciti a tutta la sua opera, a polemiche passate e contemporanee, e ad altre diatribe dialettiche sulle quali eravamo ovviamente impreparati.

Qualche anno dopo ho riletto Evola in maniera seria. Ed ovviamente era un altro Evola. Ma ora che tutti tenteranno di renderlo commestibile all’opinione pubblica, lo voglio ricordare nella maniera più inconsueta ed epidermicapossibile. Passate le commemorazioni e i ricordi, continuerò forse a tracciare il solco e a sezionare in profondità la sua opera come quella di molti altri. Oraperò voglio ricordarmi di quei libri dalle copertine gialle, di quei sigari, di quel mio amico e di quella rivolta contro il mondo moderno che non ci ha ancora del tutto imprigionati.