domenica 30 novembre 2014

IL ROTTAMATORE DEL LAVORO



Sono giorni che Renzi racconta la storiella dell'incremento dei posti di lavoro e di quanto sia stato bravo nel crearne di nuovi. 
I dati dell'ISTAT dicono ben altro!
3 milioni e 410 mila disoccupati,una cifra record con una disoccupazione giovanile intorno al 40%!
ANCORA GLI CREDETE?

venerdì 28 novembre 2014

Per un Impero multietnico


di Alessandro Scipioni (Il Giornale del Ribelle)

Ricordando i dolorosi giorni dell’inizio della Grande Guerra ad ormai un secolo di distanza, non si può non ricordare la figura di Carlo d’Asburgo, pronipote di Francesco Giuseppe che il 21 novembre 1916, a seguito della morte di quest’ultimo, prendeva le redini dell’Impero, in pieno conflitto, ad appena ventinove anni. Egli era un convinto sostenitore di una riforma federale e democratica della monarchia asburgica, oltre ad essere da subito desideroso di porre fine allo scontro fratricida che stava minando l’eurocentrismo. Sarà lui a concedere il Manifesto dei Popoli che aprirà chiaramente ad una riforma federale, su base ugualitaria per tutti i popoli facenti parti dei domini della duplice monarchia.

È fondamentale l’Austria- Ungheria per ogni europeista come esperimento di coesistenza tra Popoli dello stesso continente e per capire quale assetto dare ad una confederazione europea bisogna colmarne i limiti ed ampliarne i possibili gloriosi orizzonti. La politica dell’Impero si era consolidata sulla coabitazione di molti popoli, contro un nemico che sarebbe stato letale per un grande impero multietnico: il nazionalismo. Lo stesso Metternich aveva compreso che le forze centrifughe dei movimenti nazionalisti avrebbero stritolato l’Europa, l’avrebbero fatta a pezzi, ed in particolare ci avrebbero rimesso i grandi imperi sovrannazionali: quindi anche i due imperi a cavallo fra l’Europa e l’Asia, cioè quello russo e quello turco, ma soprattutto quello austriaco. I nazionalismi non avrebbero solo ucciso gli imperi sovrannazionali, ma anche la possibilità per le nazioni di vivere insieme sotto la stessa autorità e alla lunga avrebbero ucciso anche la pace ( un profeta se si pensa all’odierna frastagliata Europa). L’Austria – Ungheria non poteva rivendicare per se stessa il ruolo di paese guida delle ambizioni di grandezza delle popolazioni tedesche del continente. Ormai tale posizione le era stata strappata dalla Germania del Kaiser. Ma ciò comportava l’interessamento della monarchia Asburgica a lavorare alla realizzazione di un Impero di più popolazioni in seno ad uno stato mitteleuropeo. Un esperimento davvero erede dell’esperienza del Sacro Romano Impero e dei grandi tentativi di unione continentale. Un sogno che pervade la nostre terre ed i nostri cuori da molti secoli. In ciò è lucidissima la riflessione dello stesso Cardini che invita a valutare che oggi i grandi vincitori delle scelte di Francesco Giuseppe, gli stati nazionali, sono a loro volta alle corde mentre si tende sempre più a mete sopra nazionali e metanazionali, valutando che l’esperienza dell’Impero Asburgico era più lungimirante.

Complessa era l’architettura dell’Impero. L’Ungheria, a seguito dell'Ausgleich del 1867 veniva resa autonoma dall'Austria ottenendo una propria costituzione, una milizia territoriale autonoma rispetto a quella Imperiale, un parlamento sovrano ed un’amministrazione propria, si dovevano mantenere i comandi delle Forze Armate ed i ministri degli Esteri, delle Finanze, della Guerra. Questo compromesso rese giustizia alla “questione ungherese”, ma non altrettanto soddisfatte erano le altre etnie interne all’Impero che rivendicavano giustamente i medesimi diritti degli ungheresi. Ciò il nuovo sovrano lo aveva compreso.

Già il giorno successivo Carlo I emanò il suo primo proclama imperiale impegnandosi formalmente alla ricerca di una pace onorevole tesa a restituire ai popoli il bene supremo della armonia e della sicurezza, gravemente offeso dal conflitto.

Il 17 ottobre 1918, nella speranza di impedire con un estremo tentativo l’implosione della duplice monarchia, l’Imperatore Carlo decise di mettere in pratica i suoi stessi progetti di riforma in senso federale dell’Impero e promulgòmotu proprio il Manifesto dei Popoli. Con esso si impegnava formalmente a venire incontro ai desideri delle popolazioni dell’Impero in base a criteri naturali. L’Austria sarebbe divenuta una federazione nella quale ognuno dei popoli avrebbe costituito una propria comunità statale non pregiudicando l’unione dei territori della Corona, creando comunque un’entità polacca indipendente ed alla città di Trieste sarebbe stato attribuito uno statuto speciale. I popoli avrebbero eletto dei Consigli Nazionali, formati da parlamentari di ogni singola nazione riuniti in un parlamento per garantire ad ogni Stato autonomia senza pregiudicare gli interessi comuni.

Era una pietra miliare sul cammino della creazione di una Europa dei Popoli, era la vera possibilità di coesistenza di coabitazione tra europei. Ma le potenze anglosassoni istigando la Francia per orgoglio nazionale non vollero accettare la sopravvivenza dell’Impero Austriaco, creando al suo posto una moltitudine di piccoli stati, facilmente dipendenti dalla forte Inghilterra e nel complesso base di una debole Europa. Il Vecchio Continente era per la prima volta dipendente dal ruolo degli americani che avevano determinato l’esito della guerra, iniziava a profilarsi uno scenario nel quale l’Europa non sarebbe più potuta essere l’artefice della politica mondiale, perdendo anche la capacità di disporre del proprio stesso destino...

Il sogno di ogni anglosassone da oltre cinque secoli.

mercoledì 26 novembre 2014

UNISI:ORGANI DI GOVERNO SENZA RAPPRESENTATIVITA'


Riportiamo il comunicato del Presidente di Gioventù Universitaria Siena,in merito alle vicende che hanno portato all'esclusione della lista di GU a seguito di errori burocratici commessi da parte degli organi amministrativi universitari.
A causa del malfunzionamento delle segreterie universitarie gli studenti avranno la possibilità di votare alle prossime elezioni una sola lista,cosa degna solo della Korea del Nord.

"Io, Cipriani Kris, prima che da ex membro del Consiglio di Amministrazione, mi trovo costretto con grande rammarico a scrivere da studente questa lettera, a breve distanza di tempo dalla mie dimissioni rese al Consiglio di Amministrazione.
Il mio auspicio, rendendo le mie dimissioni, era quello di garantire la possibilità a tutti gli studenti di vedere finalmente la realizzazione di elezioni studentesche trasparenti, partecipate e utili al normale e regolare funzionamento degli Organi di governo dell'Ateneo.
L'Associazionismo studentesco, concretizzato nella Rappresentanza studentesca, è una componente fondamentale della vita universitaria, perché oltre a facilitare il compito di comunicazione e informazione all'Amministrazione, è imprescindibile per l'esercizio di difesa dei diritti degli studenti e della loro tutela, senza menzionare il carico di lavoro e di responsabilità che viene portato avanti con l'organizzazione di eventi, dibattiti, approfondimenti.
Il mio mandato è stato concluso rivendicando il senso di Responsabilità, attaccamento alle Istituzione e alla cosa pubblica, che ho portato avanti sia come Rappresentante sia come Presidente di Gioventù Universitaria, tra le cui fila conta decine di militanti, simpatizzanti e centinai di votanti, con i quali l'Associazione ha espresso sempre un numero copioso di Rappresentanti e fatto rappresentanza.
Ad oggi, dopo una comunicazione inviatami dall'Ufficio Responsabile delle Procedure Elettorali, vedo l'esclusione della mia lista dalla competizione elettorale negli Organi di Governo dell'Università degli Studi di Siena, anche dopo che all'unanimità il Consiglio Studentesco si era espresso evidenziando le stesse criticità e anomalie dai Noi sottoposte.
Il mio stupore,oltre ad essere condiviso da tutti i membri della mia stessa Associazione e da tanti studenti, è accompagnato da un profondo senso di perplessità, dopo che avevamo più volte, in via ufficiosa in un primo momento, e sotto forma scritta poi, evidenziato delle difficoltà e delle anomalie oggettive sia ai diversi uffici competenti sia all'Amministrazione.
Non abbiamo potuto verificare e consultare la documentazione che quanto prevede il Decreto Elettorale, doveva essere pubblicata sull'Albo Online secondo le modalità e le tempistiche previste dallo stesso.
La poca chiarezza ela mancata pubblicazione di documentazione ha portato, infatti, allascarsa candidatura di tanti studenti legittimati a farlo e,probabilmente, alla totale assenza di liste nei tanti Comitati eDipartimenti. Gli studenti, che non erano scritti sulle liste dell'elettorato attivo e passivo, oltre che segnalarlo alle segreterie, non si sono potuti rivolgere alla Commissione elettorale perché mai riunitasi e formalizzata.
Per mancanza di chiarezza e flessibilità, come, purtroppo, succedete in Italia, le vie tortuose della burocrazia rischiano di minare la Rappresentatività nella vita pubblica.
Confidiamo nel buon senso e nell'intenzione del Rettore e dell'Amministrazione di risolvere quanto prima la vicenda, non incorrendo nel rischio di assistere ad elezioni con una sola lista concorrente agli Organi di Governo o peggio ancora illegittime e irregolari."

Le start-up come mito: una riflessione politicamente scorretta



di Benedetta Scotti (L'Intellettuale Dissidente)

Milano. In un rinomato collegio universitario, un gruppo di ingegneri in erba, affiancati dall’immancabile consulente (in erba anche lui), presenta ad una platea di studenti entusiasti e ambiziosi una nuova e brillante idea di business: una piattaforma che, raccogliendo e combinando le informazioni personali presenti sulla rete, ricostruisce gusti e preferenze degli utenti per aiutarli a compiere una scelta spesso dura, sofferta, drammatica: dove andare in vacanza. Dopo attimi di interdetto e imbarazzato silenzio, la platea scroscia in calorosi e convinti applausi. Istantanea di una scenetta (reale) che rappresenta il tripudio del contemporaneo: la noia esistenziale (pardon, lo stress!) di una società opulenta sfruttata a fini affaristici dal genio “imprenditoriale” di una, per così dire, innovativa -e quindi, per definizione, buona e giusta- start-up.

Dalla leggendaria Silicon Valley ai tavoli delle renziane Leopolde, uno comune sentire informa gli aspiranti e gli affermati, tali o presunti, innovatori di mezzo globo: giovanilismo, dinamismo, tecnologismo, ambizione sfrenata al limite dell’arroganza. Poco importa, sovente, la plausibilità dell’idea o il suo contributo fattivo al tessuto produttivo del sistema economico: lo startupper è diventato un mestiere in sé a tutti gli effetti, manca solo l’albo. Fa molto più cool della vetusta figura dell’imprenditore che costruisce in decenni di lavoro la sua attività o, ça va sans dire, della tradizionale gavetta in azienda. Lo startupper si costruisce da sé la propria esperienza ed è orgogliosamente, sin dal vero principio, homo faber fortunae suae o, per rispettare la vocazione anglofona della categoria, un puro e genuino self-made man. I suoi miti sono i vari Jobs (Apple), Brin e Page (Google), Gates (Microsoft), Zuckerberg (Facebook), i cui giganteschi imperi sono sorti nel giro di pochi anni. Confida di trovare prima o poi un business angel che metta sul piatto conspicui capitali per farlo uscire dall’anonimato e lanciarlo nell’Olimpo dei grandi innovatori.

Ma lo startupper quante possibilità ha di realizzare i suoi sogni milionari? Purtroppo molto poche. Le statistiche sono spietatamente contro di lui. Secondo uno studio di CB Insights (relativa alla realtà statunitense), solamente il 4% delle startup che ricevono fondi di capitale si trasformano in galline dalle uova d’oro, contro una probabilità di fallire del 75%. I sogni dello startupper si infrangono contro il muro della crudele realtà, negletta e dimenticata nell’era digitale: fare impresa (startuppare è oltremodo cacofonico) è un mestiere duro, spesso gramo, dove il pericolo è sempre in agguato. La rivoluzione di Internet non lo ha reso più facile: il Web e le nuove tecnologie hanno sì aperto nuovi scenari e nuove opportunità, ma caratterizzati da una concorrenza più agguerrita e aggressiva che mai, pronta a sfruttare la minima defaillance. La mortalità per lo startupper resta elevata anche nel Belpaese nonostante la proliferazione di un vero e proprio ecosistema pensato per la sua sopravvivenza, costituito da incubatori, acceleratori, eserciti di mentori, tutors e consulenti pronti a elargire consigli agli aspiranti innovatori. Un vero e proprio business lucrante sulla travolgente mania startuppara. Se poi lo startupper nostrano effettivamente non ce la fa, gli imputati sono molteplici: l’infame burocrazia, il maledetto nanismo dell’impreditoria italiana, il governo ladro che non investe nei suoi talenti. Cause potenzialmente vere. Eppure ce ne potrebbe esserne un’altra, altrettanto vera ma scomoda, politicamente scorretta e, per questo, tacitata. Ha avuto il coraggio di parlarne quell’improbabile esempio di “imprenditoria” italiana che è Flavio Briatore il quale, durante un’affollatissima conferenza presso l’Università Bocconi lo scorso maggio, osò dire, senza peli sulla lingua, che le startup sono, in fin dei conti, “una fuffa”. E, rincarando la dose, suggerì agli indignati bocconiani, accorsi ad acclamarlo, di cercarsi un lavoro normale: “Magari apritevi una pizzeria. Così se fallisce almeno vi mangiate una pizza. Se fallisce la startup non vi rimane neppure quello”.
L’affermazione irriverente e tranchante, pur scadendo nella generalizzazione, induce ad una riflessione critica e lucida sulla divinizzazione delle startup, troppo spesso trappola per talenti che si perdono nel mito di Zuckerberg, per mancanza di esperienza, lucidità e realismo, in idee di dubbia utilità e concretezza (vedi il caso dei giovani ingegneri e la piattaforma sulle scelte vacanziere). Dinamismo, tecnologismo e giovanilismo fanno uno startupper, ma non necessariamente fanno un imprenditore. “L’Italia può essere la startup più bella del mondo” proclamava Renzi, allora sindaco di Firenze. Considerata la mortalità dello startupper, c’è da sperare che l’auspicio renziano non si avveri.

lunedì 24 novembre 2014

L’intervista. Storace: “Democrazia? C’è un regime che limita la libertà di espressione”



di Mario De Fazio (Barbadillo)

Va bene la libertà d’espressione. Ma dipende da chi la esercita e contro chi. Francesco Storace, ex presidente della Regione Lazio e leader de La Destra, considera la condanna per vilipendio al Capo dello Stato un atto commesso da un “regime che confuta la libertà di espressione”. Una caccia alle streghe che si scatenò nel 2007 “per mascherare la mia proposta di abolire i senatori a vita”. “Rispetto a quello che sento dire oggi, il mio fu un complimento”, aggiunge.

Storace, lei è stato condannato per vilipendio al Capo dello Stato, come Giovannino Guareschi. Un caso più unico che raro?

«A parte il caso celebre di Guareschi, che fu condannato quando c’era un presidente tutt’altro che interventista (Luigi Einaudi, era il 1950, nda) che non partecipava attivamente all’agone politico, in realtà ci sono stati altri casi minori. Ma se c’è un senso nell’immunità parlamentare risiede proprio nell’esercizio libero delle opinioni. A giudicare dall’effetto boomerang che si è scatenato soprattutto in rete, però, si è trattato di un passo falso».

Lei è stato condannato per aver dichiarato “indegno” della sua carica Napolitano, rispondendo al Presidente che a sua volta aveva considerato “indegno” offendere l’allora senatore a vita Rita Levi Montalcini, con cui La Destra aveva polemizzato perché nel 2007 i senatori a vita erano una sorta di soccorso rosso al governo Prodi, con tanto di stampelle recapitate a domicilio. E’ una ricostruzione corretta?

«C’è di più. In realtà nessuno mandò le stampelle alla Montalcini e in nessun atto giudiziario mi è stato contestato questo. Qualcuno lo scrisse sul blog e qualche giovane più scalmanato lo disse ma io non ho mai detto quelle parole. Si montò un caso politico perché si voleva mascherare una mia proposta di legge per abolire i senatori a vita. In quel periodo si viveva ogni votazione rischiando l’infarto, e ogni volta che i senatori a vita votavano davano una mano al governo. Io presentai un disegno di legge costituzionale per l’abolizione di questa figura e si scatenò un pandemonio. Ma qui si tratta davvero di un episodio senza precedenti».


Dalla sua vicenda sembra emergere uno dei paradossi delle democrazie liberali: in teoria si tutelano le opinioni di qualsiasi minoranza ma quando si sconfina fuori dal recinto delle libertà concesse, viene messa in discussione la stessa natura della libertà di pensiero. E’ così?

«Viene confutata la libertà di opinione. Paradosso per paradosso, aggiungerei che quando due persone fanno pace, come accaduto a me, il processo va avanti lo stesso perché nel caso del vilipendio non ci si può fermare. Mentre se querelo un giornalista ma poi ci riconciliamo, finisce tutto. E’ un regime, non c’è dubbio. Con il Pd che sabota qualsiasi iniziativa di modifica del reato di vilipendio. In Italia non si può più criticare».

A lei capitò Mastella come Guardasigilli, che fu particolarmente solerte nel procedere con l’accusa. Oggi se ne sentono di tutti i colori sulla Presidenza della repubblica ma nessuno si muove…

«Rispetto a quello che sento dire in giro oggi, il mio fu un complimento. La mattina della sentenza ho scritto un pezzo che si intitolava “il vilipendolo”: mi è capitato Mastella che in 48 ore si è subito attivato, mi fosse capitato Orlando, che dorme sui faldoni che si accumulano, forse sarebbe andata diversamente. Ma con i miei avvocati abbiamo deciso di muoverci come una specie di Perry Mason: ogni volta che leggeremo o ascolteremo una frase offensiva la segnaleremo come diffida a procedere al ministro Orlando e, nel caso non faccia nulla, lo denunceremo per omissione d’atti d’ufficio. Più liberali di così non credo si possa essere».

In tanti hanno espresso solidarietà nei suoi confronti. Quali sono stati gli attestati di stima che le hanno fatto più piacere e da chi invece si aspettava una parola che non è arrivata?

«Mi hanno fatto piacere le parole di Gasparri, che si è battuto come un leone, e mi ha sorpreso la compattezza di Fratelli d’Italia, di La Russa, Meloni e Alemanno: un mondo che si è sentito colpito. Anche le parole di Fini, con cui mi sono aspramente scontrato in passato, mi hanno fatto piacere. E poi mi ha colpito molto la solidarietà di Sel: la sinistra laziale, che è quella che mi conosce meglio, mi ha difeso sia tramite il vicepresidente della Regione Massimiliano Smeriglio che con il consigliere Gino De Paolis. Di quelle che mancano vorrei aspettare qualche giorno a fare i nomi, concedendo l’attenuante della tempistica. Forse qualcuno si è svegliato tardi e non sa ancora che sono stato condannato. C’è molto cinismo in giro».

giovedì 20 novembre 2014

Veneziani: “Non è la moneta a fare l’Europa”




di Emanuele Ricucci

Marcello Veneziani, di che salute gode l’Europa, soprattutto alla luce dei fatti che coinvolgono l’asse Russia-Ucraina-Usa, tra sanzioni ed affari, all’alba di quella che potrebbe essere, il condizionale è d’obbligo, una nuova, possibile guerra fredda? 

L’Europa non ha una visione strategica del mondo e procede tra cieche convenienze di corto respiro o interessi finanziari che prescindono da interessi popolariegoismi ed egemonie nazionali che danneggiano altri paesi europei… Lo si vide con la primavera araba, con le crisi in medio oriente, con l’immigrazione, lo si vede con la Russia…

Dai Baschi ai Catalani, dai Bretoni alla Corsica, dai Tirolesi ai Veneti, passando per la Sardegna, dai Fiamminghi alla Scozia, ultima in ordine cronologico ed altri. Si sogna una nuova nazione nella nazione, incastonata, a sua volta, in una sovranazionalità sempre maggiore ed in una sovranità propria, sempre più assottigliata e ristretta. Sono segnali che l’Europa deve cogliere o rimangono capricci secessionisti con il miraggio del ritorno a proprie visioni economiche e proprie regole, ad una autodeterminazione pura?

Reputo importante la difesa delle identità e delle comunità locali e nazionali ma non riesco a vederle che all’interno di un sistema di cerchi concentrici in cui la patria locale ‘ dentro la patria regionale, che è dentro la patria nazionale, che è dentro la patria europea… E’ assurdo sognare lo smembramento, in forma di secessione, non porta da nessuna parte e rende ancora più fragile la difesa dai nemici interni e dai poteri multinazionali interni.

Si può parlare ancora di Europa Nazione o stiamo transitando verso la fine degli stati nazionali immaginati e concretizzatisi negli ultimi due secoli?

L’Europa nazione era il sogno della gioventù nazionale e rivoluzionaria di destra ma non è mai stato il progetto europeo; come l’Europa delle patrie sognata da de Gaulle… Ma il fallimento politico, culturale e popolare dell’Europa è la dimostrazione che la strada seguita era sbagliata, non è l’economia, non è la moneta che può fare l’Europa…

Dove corre l’Europa, verso un blocco completo, compatto, definitivo o ad un ritorno verso il suo medioevo costellato di stati, regni e granducati? A suo avviso, potrebbe configurarsi questa possibilità?

Sono possibili più esiti, ma allo stato attuale non mi sembra probabile l’autoscioglimento dell’Europa. Il problema è fare un deciso passo avanti o un deciso passo indietro e non restare in mezzo al guado: ovvero o nasce un’Europa politica, unita sul piano militare e strategico, capace di una sua politica estera e in grado di fronteggiare la colonizzazione finanziaria, la concorrenza asiatica e l’immigrazione selvaggia, oppure meglio tornare alle realtà nazionali.

Patrick Buchanan, uno dei padri del paleoconservatorismo americano, di per sé molto affine al nazional-conservatorismo europeo, afferma in suo recente articolo:” La decomposizione delle nazioni della vecchia Europa è il trionfo del tribalismo sul transnazionalismo. Il richiamo del sangue, la storia, la fede, la cultura e la memoria sta vincendo la lotta contro l’economismo, l’ideologia materialista occidentale che sostiene che il desiderio di denaro e delle cose è ciò che motiva in definitiva l’umanità”. E’ d’accordo con Buchanan?

Non ha torto Buchanan. Quando si trascurano i bisogni spirituali, simbolici e ideali di un popolo da un verso si lascia incontrastato il dominio del materialismo e dall’altro si eccita una reazione selvaggia, un’esplosione incontrollata di sentimenti repressi che poi dà luogo a forme radicali, estreme e fanatiche

Su questa base, potrebbe iniziare a montare un sentimento ed una volontà di frazionamento auto protettivo delle identità e delle culture, di restaurazione dei dettami originari, seppur ammodernati, delle colonne su cui si fondano le civiltà europee? Che si inizi ad essere fieri, in questo grande Villaggio Globale, di essere o tornare ad essere una minoranza che salvaguarda se stessa ed interpreta l’avvenire secondo i propri schemi, le proprie peculiarità, le proprie visioni?

La difesa delle identità non va però concepita come una chiusura a contesti più ampi. Bisogna saper progettare l’idea di una comunità aperta, cioè legata alle proprie radici, identità e tradizioni ma non chiusa al mondo e alle diversità, reclusa e ostile rispetto a ogni altra differenza.

Datosi che la sovranità di un popolo nella sua terra costituisce base fondante per la definizione stessa di “stato-nazione”, lo spirito sovranazionale Europeo, sempre più stringente, che si manifesta nelle strutture e nelle scelte politiche ed ancor più in quelle economiche, potrebbe contribuire al frazionamento nazionale del Vecchio Continente?

Io non vedo “lo spirito sovranazionale europeo”, vedo poteri sovranazionali che nel nome astratto dell’Europa e del mercato, mortificano le realtà locali e nazionali e in questo mondo rischiano di alimentare frustrazioni fino a provocare reazioni imprevedibili…

Qquale indirizzo dovrebbe seguire, sempre su questa scia di considerazioni, la contemporanea destra Europea? Seguire una linea di tutela “tradizionale”, quindi sostenere un blocco Europeo fondato su dettami culturali definiti, identitari, legati alle radici, alla memoria del Vecchio Continente o dovrebbe essere di rottura coi vecchi schemi, accogliendo di buon occhio questa decomposizione come vera ed innovativa forma di salvaguardia delle integrità culturali e nazionali?

Ribadisco quel che ho detto agli esordi, a proposito di un’Europa dei cerchi concentrici. La via da seguire è concepire l’Europa come una realtà sinfonica, armoniosa nelle sue differenze, che sappia integrare e non dis-integrare le patrie locali e nazionali in un’entità sovraordinata. Una specie di piramide che non cancella né deprime le sue basi ma che poi raggiunge la sua sintesi in alto. Diversità in basso, unità in alto. Un arcipelago di patrie che animano una civiltà.

martedì 18 novembre 2014

Così il “progresso” uccide l’educazione alla vita dei ragazzi degli anni ’50


di Massimo Fini

“Da bambini andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né airbag. Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata speciale. Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con vernici a base di piombo. Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei medicinali, nei bagni, alle porte, alle prese. Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco. Bevevamo l’acqua dal tubo del giardino invece che dalla bottiglia dell’acqua minerale. Uscivamo a giocare con l’unico obbligo di rientrare prima del tramonto. Non avevamo cellulari, cosicché nessuno poteva rintracciarci. Impensabile. Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso, perdevamo un dente e nessuno faceva una denuncia per questi incidenti. La colpa non era di nessuno, se non di noi stessi. Condividevamo una bibita in quattro, bevendo dalla stessa bottiglia e nessuno moriva per questo. Non avevamo Playstation, Nintendo 64, Xbox, videogiochi, televisione via cavo 99 canali, videoregistratori, dolby surround, cellulari personali, computer, chatroom su Internet. Avevamo solo tanti, tanti amici. Uscivamo, andavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa dell’amico, suonavamo il campanello semplicemente per vedere se lui era lì e poteva uscire. Sì! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano delle squadre per giocare una partita, non tutti venivano scelti per giocare e gli scartati dopo non subivano un trauma. Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo, nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né di iperattività, semplicemente prendeva qualche scapaccione e ripeteva l’anno, perché gli insegnanti avevano sempre ragione. Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsabilità e imparavamo a gestirli. E allora la grande domanda è questa: come abbiamo fatto a sopravvivere noi bambini degli anni ’50 e ‘60, a crescere e a diventare grandi?”.

Questo ‘mantra’ circola da qualche settimana su WhatsApp. L’autore, certamente un uomo in età, è ignoto, come ignoti quasi sempre sono gli autori di certe barzellette fulminanti che nascono in genere negli ambienti impiegatizi da qualcuno che, per non morire di noia, dà libero sfogo alla propria fantasia.

L’obbiettivo sarcasticamente polemico dell’Autore Ignoto è lo Zeit Geist, lo spirito del tempo, la pretesa di mettere tutto ‘in sicurezza’, ‘a norma’, omologato da rigidi protocolli. Non siamo più in grado di accettare il rischio, l’imprevedibile, l’imponderabile, il Caso che i Greci chiamavano Fato. Ma in questa pretesa di controllare in tutto e per tutto la vita finiamo per non viverla più.

Io mi identifico totalmente nell’Autore Ignoto che offre una serie di spunti che mi spiace di non poter qui sviluppare. Sono anch’io ‘un ragazzo degli anni ‘50’, la nostra ‘educazione sentimentale’ è stata sulla strada e, sia pur fra qualche rischio e pericolo, ci ha insegnato, fra le altre, una cosa fondamentale: il principio di responsabilità (nel ‘mantra’ è l’accenno al ragazzino che si rompe un osso facendo a bastonate in una lotta fra bande o al ripetente). Oggi bambini o, peggio, adulti che si sia, la colpa è sempre degli altri, di un’infanzia difficile, della scuola, degli insegnanti, delle cattive compagnie, del ‘così fan tutti’. Quel principio di responsabilità che da tempo è venuto meno nella società italiana, in particolare nella classe politica ma anche fra i ‘very normal people’, e che è uno dei motivi principali, se non addirittura il principale, della nostra difficoltà a vivere insieme.

domenica 16 novembre 2014

2 anni di Casaggì Valdichiana:l'ennesima vittoria!

Ieri,nella sede di via del Poggiolo per celebrare i due anni dell'apertura di Casaggì a Montepulciano,si è tenuta una conferenza sulla "liberazione" della Valdichiana e di Siena.
Tanti gli avvenimenti raccontati da chi quei momenti li ha vissuti in prima persona sia da semplice spettatore sia da combattente.
Le testimonianze raccolte ci hanno consentito di ricostruire le dinamiche della guerra civile nelle nostre terre e ribaltare anche qui,finalmente,il mito dei "liberatori".




Ottima la prosecuzione della serata con il concerto di Skoll e dei Gene00.



Dopo due anni di impegno e di sacrifici,siamo riusciti a mantenere e far crescere la nostra Comunità,che ormai è divenuta un punto di aggregazione per giovani e meno giovani.
Una sede interamente costruita e autofinanziata dai militanti.

Un esempio di impegno dal basso in un territorio caratterizzato dall'indifferenza e dall'egemonia rossa.
Siamo riusciti ad unire l'impegno militante a quello culturale,in modo da poter dare una casa a tutti coloro che non vogliono sprofondare nel nichilismo.
Un ringraziamento speciale va a tutti coloro che hanno presenziato ieri sera e che ci hanno sempre sostenuto.

Non si può fermare un fiume in piena!


lunedì 10 novembre 2014

Il 50% degli studenti italiani ignora il Muro di Berlino. Non è un caso



di Fortunata Cerri (Secolo d'Italia)


La caduta del Muro di Berlino, uno dei più importanti avvenimenti del secolo scorso, è sconosciuto alla maggior parte dei giovani italiani. Nei libri di storia c’è solo un accenno e i programmi scolastici non si spingono fino a quella data. Peraltro i professori di sinistra non ne parlano: è un’altra pagina di storia che vorrebbero cancellare perché riguarda il comunismo. E i risultati sono preoccupanti. Come dimostra ilsondaggio di Skuola.net su un migliaio di studenti per il 55% di loro, il 9 novembre è la ricorrenza della caduta del Muro di Berlino.

Errori storici

Quasi uno su due, dunque, non sa che cosa sia accaduto venticinque anni fa. O, meglio, crede nel 16% dei casi che sia avvenuta la strage di Bologna. E ancora: per il 7% ricade il trattato di Maastricht e per il 6% l’assassinio di Aldo Moro. Date a parte, poco più di otto ragazzi su dieci assicurano di sapere che cosa rappresenti la caduta del Muro di Berlino a fronte di un restante 19% che ammette di non saperne nulla.

La scuola non ne parla

Il motivo di tanta impreparazione sta nel fatto che dell’argomento non se ne parla in maniera approfondita a scuola: quasi quattro ragazzi su dieci hanno studiato la caduta del Muro di Berlino durante l’ora di storia, tre su dieci ne hanno parlato a scuola ma devono ancora studiarlo. E poi c’è uno studente su tre che non ha mai sentito parlare dell’argomento in classe. Per uno studente su due, correttamente, la caduta del Muro di Berlino rappresenta la fine della Guerra Fredda. Per il 38% degli intervistati invece ha restituito la libertà ai berlinesi e per il 6% l’importanza della caduta del Muro sta nell’aver interrotto l’uccisione di quanti cercavano di attraversarlo.

Programmi scolastici carenti

Il motivo del perché gli studenti italiani non hanno le idee chiare su argomenti tanto importanti della storia del 900, è dovuto al fatto che non riescono ad arrivarci con i programmi scolastici. A ridosso degli ultimi esami di maturità, Skuola.net ha chiesto ai maturandi dove fossero arrivati con il programma: il 25% non aveva terminato il programma e tra questi il 10% era fermo tra le due guerre mondiali mentre il 15% non era arrivato neanche alla prima guerra mondiale.

venerdì 7 novembre 2014

Effetto Serra


di Diego Fusaro

Vi è un’affermazione che ricorre con una certa frequenza nel dibattito contemporaneo e che, spesso anche per i toni da “furia del dileguare”, si presenta come una “sparata” priva di consistenza. Alludo all’asserto secondo cui sarebbero banche e finanza a dettare l’agenda della politica, riducendo i politici a semplici maggiordomi dei finanzieri. Si tratta di un’affermazione che, appunto, può apparire – in realtà, purtroppo, non lo è affatto – priva di consistenza. Non serve, in effetti, fare “sparate”: occorre sempre studiare pacatamente la realtà così com’è, per poi criticarla eventualmente nelle sue determinazioni specifiche.

E allora soffermiamo la nostra attenzione sul ruolo svolto dal finanziere Davide Serra alla “Leopolda” del PD pochi giorni fa. Una cosa concreta, dunque: nessuna teoria da complottisti dell’ultima ora. Il finanziere Serra in prima linea nella manifestazione del PD: non soltanto è presente, ma prende la parola. Detta la linea da seguire. Nessuno lo contrasta. Sembra che le sue parole siano normali in un partito che, tragicomica evoluzione del vecchio PCI, è transitato dalla lotta contro il capitale alla lotta per il capitale. Serra dice cosa fare e cosa non fare. Per sua bocca parla il capitale: ridimensionare il diritto allo sciopero, dice Serra. Quel fastidioso privilegio che ancora resiste! Quel fastidioso privilegio che pone “lacci e lacciuoli” alla santa libertà del capitale!

Non vi è peraltro alcun contrasto tra quanto asserito da Serra e la linea del PD: lo sappiamo, Renzi ha individuato alla Leopolda il nemico del partito non nel capitale, ma nei lavoratori; non nella finanza, ma chi scende in piazza per manifestare in nome dei diritti sociali e contro l’ignobile “Job Acts”, vertice del neoliberismo selvaggio e della precarizzazione pianificata. Piena condivisione di intenti, dunque, tra Serra e Renzi. Non v’è dubbio. Il PD non sta coi lavoratori, ma col capitale: chi può ancora dubitarne? È una sparata campata per aria? Se sì, mi si spieghi il ruolo di Serra e, soprattutto, il consenso che ha avuto nel PD; mi si spieghi perché il suo discorso e quello di Renzi sono compelementari, armonici, in sintonia perfetta.

Non stupisce, certo, se poi, pochi giorni dopo, a Terni, accade quel che è accaduto: violento pestaggio dei lavoratori, guarda caso scesi in piazza a manifestare. Manganellati durante il governo che ha fatto dell’antifascismo la sua bandiera, riempiendosi la bocca con la parola “democrazia”, buona in tutte le stagioni (anche quando di democrazia reale ve ne è sempre meno, ovviamente): PD, Pestaggio Democratico, verrebbe quasi da dire. L’effetto Serra rivela che il PD è dalla parte della finanza e del capitale: lo speculum principis non è più redatto da filosofi ed esperti della politica, ma direttamente da finanziari apolidi, magnati del capitale.

Qual è il programma politico-culturale che sta dietro a tutto ciò? Sentiamo le sagaci riflessioni del finanziere Davide Serra: “La Cultura Umanistica ha fatto il suo tempo. Deve diventare cool, figo. Diventare matematici. Lo dico sempre ai miei bambini”. Et voilà, l’ennesimo affronto all’intelligenza, alla cultura, alla dignità. Ci siamo abituati, è il tempo in cui conta solo ciò che può essere contato e vale solo ciò che ha un prezzo. Non stupisce, dunque, che circolino impunemente frasi di inqualificabile volgarità. La finanza e il capitale debbono uccidere la cultura, per poter dominare incontrastati. Il Pd è parte integrante di questo sciagurato processo in corso. E non vi è altro da aggiungere.

giovedì 6 novembre 2014

Pasolini, le contraddizioni di un inaspettato conservatore



di Riccardo Rosati (Barbadillo)


La recente uscita del film di Abel Ferrara su Pier Paolo Pasolini, magistralmente interpretato dall’attore americano Willem Dafoe, e il conseguente dibattito che ne è scaturito, ci spinge a fare alcune considerazioni su questo contrastato personaggio.Ci vengono in mente a tal proposito le suggestive riflessioni che Marcello Veneziani ha espresso negli anni su Pasolini, definito dal giornalista e intellettuale di Destra, come un uomo con un: “amore disperato del passato e della tradizione”, il cui triplice comandamento era: “Difendi, conserva, prega”. Il poeta stesso si vedeva come: “uno sgraziato reazionario”. Ragion per cui, ci sentiamo in buona compagnia nell’individuare degli elementi tradizionali, persino di Destra, in quello che molti considerano l’intellettuale di sinistra per antonomasia. In questo breve spazio proveremo a focalizzare tali aspetti poco noti di Pasolini che sono assai significativi per capirne la visione mondo e della vita.

Dobbiamo però chiarire subito che se da un lato la sua meravigliosa pellicola Il Decameron (1971) rivela un Pasolini assolutamente a suo agio con la tradizione umanistica italiana, con un afflato poetico e vitale; dall’altro non possiamo non inorridire davanti alla sua ultima fatica cinematografica: Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), il frutto dell’odio per tutto e tutti di un uomo minato nel corpo e nell’anima, quasi in attesa di quella tragica fine che tutti conosciamo.

Oggi piangiamo la memoria di Pasolini, poiché siamo ben lontani dalla sua onestà intellettuale. Come non ricordare la indimenticabile intervista televisiva a Ezra Pound, realizzata nel 1968. Con gli occhi quasi commossi, Pasolini ascolta e commenta le opere di Pound. Il marxista, e non comunista come molti incoltamente pensano, e il fascista, ma quale dignità e reciproca stima. Questo abbiamo perso: il rispetto tra intellettuali, anzi abbiamo proprio perso la fondamentale figura dell’intellettuale tout court, e ora abbiamo solo dei vassalli di un potere benpensante e globalizzato. Non abbiamo più scrittori e studiosi capaci di riconoscere il talento e di rispettarlo prima di ogni altra cosa, malgrado le possibili divergenze politiche, come nel caso dei due poeti qui sopra. In questa nostra triste epoca, chi si arroga la qualifica di intellettuale è solo un galoppino della corrente di pensiero che domina ormai il mondo, pronto a mentire solo per mantenere i propri numerosi privilegi. Lo studioso di oggi non ricerca nulla o quasi, se non il profitto e la gloria personale. Inoltre, è sufficiente pensare agli ultimi Premi Nobel per la Letteratura, per accorgersi che di grandi scrittori in giro non ce ne sono più.




Ben pochi sanno che Pasolini era un abile karateka, informazione confermataci dal Centro Studi che porta il nome, presso la Cineteca di Bologna. Tra tante arti marziali, scelse proprio quella storicamente più di Destra! Non a caso in gioventù scrisse su Architrave, rivista degli universitari fascisti di Bologna. Molto nota, invece, la sua adorazione per la Bibbia, che egli definì: “La più bella opera letteraria mai scritta”. Come poteva dunque essere di sinistra, quando il precetto di questa area politica è l’odio per la religione, segnatamente per quella Cattolica? Una tesi che dovremmo almeno tenere in considerazione è che il suo essere marxista sia stata una forma di rigetto contro l’immoralità della DC e che per opporsi con autorevolezza al Potere in quella Italia, solo a sinistra si poteva andare.

Pasolini aveva ben poco dell’intellettuale di sinistra e dei suoi cliché. Ecco uno dei tanti motivi per cui non piaceva molto Italo Calvino, uno che invece comunista lo fu davvero, il quale poi nel 1957, uscendo dal PCI, fece puntualmente orecchie da mercante sui malanni del partito. Chi scrive da anni fa ricerca su questo grande scrittore, ma alcuni suoi silenzi vanno stigmatizzati.

Chiediamoci allora cosa è stato Pasolini. Senza ombra di dubbio, un raffinato commentatore sociale, probabilmente un medio regista e scrittore, ma un ottimo poeta. Sempre e comunque netto nelle sue scelte, con un gusto quasi mishimiano per il culto del corpo e della gioventù, nonché per la provocazione. Tutti valori anche di Destra. Alla fine, non stiamo forse parlando di una persona che ne La meglio gioventù (1954) si descrisse in questo modo: “Io sono nero d’amore”? Perciò chiediamoci: perché proprio quel colore? Perché il karate? Perché l’attrazione verso l’Italia Medievale e non per il progresso, come impone invece da sempre il pensiero socialista? Siamo dunque così sicuri che Pasolini sia da considerarsi un intellettuale di sinistra? Forse sì, ma non certo di quella sinistra di tanti professoroni parrucconi che giocano ancora a fare i difensori degli “ultimi”, ma con la casa ai Parioli; già, quei pariolini odiati dall’artista italiano. Ne abbiamo avuti di molto migliori come registi e scrittori. Purtuttavia, il dato è un altro: pensiamo chi eravamo, noi, l’Italia, se abbiamo potuto considerare Pasolini semplicemente uno “bravino”. Egli penserebbe oggi che viviamo in un mondo che non va amato, poiché il vero intellettuale ha il dovere di schernire l’Umanità che abbiamo ormai davanti ai nostri occhi. Questa è la lezione che Pasolini ci ha lasciato: il dovere di un uomo di cultura.

martedì 4 novembre 2014

4-11-1918/4-11-2014: i nostri militanti portano un fiore sui monumenti dedicati ai caduti della I Guerra Mondiale


Questa sera i militanti di Casaggì Valdichiana hanno portato una rosa ai monumenti dedicati ai caduti della Grande Guerra!

IL VOSTRO SACRIFICIO
VI HA RESO IMMORTALI!

lunedì 3 novembre 2014

Unico posto fisso... Il nodo scorsoio



di Pietrangelo Buttafuoco


Il posto fisso non c’è più. Occuparsi di chi lo perde, il lavoro, è una grande battaglia culturale. Se lo dice Matteo Renzi c’è #dastarsereni perché sarà lui a farsi carico del mondo che cambia a tutta velocità. Ed è un’epoca fantastica questa dell’Italia sbloccata perché tutti potranno licenziare, i licenziati avranno il Jobs act, e così non ci saranno più proletari ma i precari; non ci sarà più un posto fisso, non esisteranno più le pensioni e i vantaggi saranno fichissimi. Le banche, per esempio, non daranno crediti né accenderanno mutui a chi non ha posto fisso. Nessuno più – senza posto fisso – potrà comprare a rate; senza il tempo indeterminato di un impiego non ci sarà risparmio, tutto sarà bruciato nel mordi e fuggi e senza uno stipendio si resterà svegli e smart a contemplare l’unico posto fisso, l’anello sul soffitto da cui pencola la corda le cui istruzioni, per lo scorsoio, si potranno trovare sull’iPhone (per carità no, con il gettone).