giovedì 30 luglio 2015

Ipotesi sulla morte del mullah Omar

Taliban leader Mullah Omar. PHOTO: REUTERS
Intervista a Massimo Fini di Matteo Carnieletto (il Giornale)



"Il mullah Omar è morto". Quante volte abbiamo sentito questa frase nel corso degli ultimi anni? Sei? Sette volte? Dato per morto, il mullah è sempre tornato a far sentire la propria voce; l'ultima volta per condannare i talebani che si stavano avvicinando all'Isis.
Oggi l'ennesimo annuncio della morte del mullah. Massimo Fini, che ad Omar ha dedicato un libro avvincente e a tratti romantico, ci aiuta a comprendere alcune cose sulla sua possibile morte e sul futuro dell'Afghanistan.
Secondo lei, è davvero morto il mullah Omar?
Nonostante la sua morte sia stata annunciata molte volte nel corso degli ultimi anni, questo annuncio mi sembra più attendibile degli altri. Bisognerà aspettare una conferma credibile e ufficiale però.
Eppure questa notizia è stata data alla vigilia dei colloqui tra il governo afghano e i talebani. Non può essere una mossa di propaganda?
Ci sono due ipotesi. Tempo fa il numero due di Omar aveva scritto una lettera ad Al Baghdadi in cui invitava l'Isis a non entrare in Afghanistan perché quella dei talebani era una lotta per la liberazione della loro terra, l'Afghanistan. L'Isis, in poche parole, non c'entra nulla con i talebani. In questa lettera aperta si condanna il modo di agire dell'Isis, che frammenta il mondo musulmano. C'era uno scontro tra Omar e l'Isis. Lo Stato islamico fa leva sui talebani più giovani che subiscono meno la leadership di Omar e che sono attratti dalle rapide conquiste dell'Isis in Siria e Iraq. La prima ipotesi sulla morte di Omar è dunque quella di un colpo riuscito all'Isis. Poi ce n'è un'altra: ci sono divergenze tra i talebani: c'è chi vuol raggiungere la pace con Kabul e chi vuole continuare la guerriglia. Quindi, e siamo alla seconda ipotesi, alcuni talebani potrebbero averlo tradito.
Morto Omar, quale potrebbe essere il futuro dell'Afghanistan?
Se Omar dovesse essere realmente stato ucciso, l'Afghanistan rischia ora di perdere definitivamente la sua indipendenza. Ashraf Ghani è un uomo degli americani. Ha studiato alla Columbia, ha insegnato alla Johns Hopkins University ed è stato membro del Fondo Monetario Internazionale. È come Karzai, ma più civile. Inoltre, ora l'Isis potrebbe davvero provare a penetrare anche in Afghanistan.

mercoledì 22 luglio 2015

Mantovano: «È tempo di dire basta ai luoghi comuni sulla droga libera»



di Mario Bozzi Sentieri (Secolo d'Italia)

Grande è la confusione sotto il cielo se ben 218 parlamentari, appartenenti a diversi schieramenti politici, arrivano a sottoscrivere una proposta di legge per la legalizzazione delle cosiddette “droghe leggere”. In pochi hanno denunciato la pericolosità dell’iniziativa. In pochissimi hanno cercato di rispondere, dati alla mano, ai tanti luoghi comuni fatti circolare sull’argomento. Tra questi Alfredo Mantovano. Dal 1996 al 2013 deputato e Sottosegretario dell’Interno, Consigliere, dal maggio 2013, alla IV sezione penale della Corte di appello di Roma, Mantovano continua a mantenere alto il suo impegno culturale sui temi sensibili della famiglia e del rapporto etica-diritto. E’ recente il volume – Libertà dalla droga, Sugarco 2015 -, scritto con Giovanni Serpelloni e con Massimo Introvigne, in cui sul tema sono stati raccolti ed esposti elementi di fatto e argomenti di carattere scientifico, giuridico e sociologico. Mentre rimandiamo ad una lettura del testo, con Alfredo Mantovano tentiamo di fissare alcuni dei temi essenziali di questa cruciale battaglia politica e civile, che ha radici profonde e si alimenta di una serie di “luoghi comuni” ormai entrati nell’immaginario collettivo e nelle stanze del Potere.

Mentre è infatti dagli Anni Settanta che si tenta di affermare l’idea della “droga libera”, ora la proposta di legalizzazione delle cosiddette “droghe leggere” apre, a livello parlamentare, scenari inquietanti…

La novità, di queste ultime settimane, – ci dice Mantovano – è che il Parlamento italiano si trova nelle sciagurate condizioni di approvare un testo del genere; quel che è accaduto dall’inizio del governo in carica legittima questa conclusione: da marzo 2014 a oggi, su impulso dell’esecutivo e col sostegno della sua maggioranza sono stati approvati il divorzio breve, il divorzio facile, una pessima controriforma della legge sulla droga, si è scelto di non dare alcuna legislativa alle sentenze della Consulta su eterologa e selezione genetica pre-impianto, e si è andati avanti col gender a scuola, se pur con qualche apparente correzione di rotta.

Il rischio, in questo clima di conformismo diffuso e di grande confusione culturale, è che la discussione si trascini banalmente…

Esatto, con il risultato che a trionfare siano i luoghi comuni sul tema, piuttosto che una seria ed approfondita discussione.

Il primo “luogo comune” è che ci sono droghe “buone” e droghe” cattive …

É una distinzione falsa e fuorviante: lo “spinello” oggi in circolazione ha effetti devastanti e non sempre reversibili sulla psiche e sul fisico. The Independent, il popolare quotidiano inglese che per circa un decennio, a partire dal 1997, ha condotto una intensa campagna a favore della legalizzazione della cannabis, il 18 marzo 2007 è poi uscito con la copertina dell’edizione domenicale recante il titolo Cannabis, an apology: una richiesta di scuse ai lettori fondata su dati obiettivi. ‘(…) nel 1997 – è possibile leggere nel reportage di Jonathan Owen, sulla stessa testata – mentre questo giornale chiedeva la depenalizzazione, milleseicento persone erano in cura per dipendenza da cannabis. Oggi (cioè nel 2007) sono diventate ventiduemila.

Resta il fatto – come affermano gli assertori della “droga libera” – che ognuno debba essere arbitro della propria salute …

E qui veniamo al secondo luogo comune. Questo argomento non va adoperato a intermittenza: nessuno ha mai contestato il principio ispiratore dell’obbligo del casco alla guida delle motociclette; si tratta dei primi tre articoli della legge 11 gennaio 1986 n. 3: eppure, in caso di incidente, il danno potenziale riguarda esclusivamente il soggetto che viola la norma. Non vi è mai stata contestazione perché la Costituzione italiana, e prima ancora il buon senso, pongono alla base della convivenza il principio di solidarietà, che si articola in diritti – quelli, per es., di ricevere cura e assistenza in caso di difficoltà – e doveri: nel momento in cui, colpevolmente o dolosamente, io ledo la mia salute a seguito di miei comportamenti, con ciò stesso mi sottraggo all’adempimento dei quei doveri e costringo le istituzioni a impiegare risorse ed energie per soccorrermi. Proprio con riferimento all’uso del casco, con una sentenza del 1994, la n. 180, la Corte costituzionale ha respinto la tesi dell’ingerenza dello Stato nei diritti del cittadino, e ha aggiunto che la salute dell’individuo costituisce “interesse per la collettività”, per cui va apprezzato l’intervento del legislatore, anche perché gli incidenti stradali hanno un costo per l’intera società.

Veniamo al terzo luogo comune. Come risponde a chi dice che anche alcool e tabacco fanno male, eppure, a differenza della droga, nessuno invoca sanzioni contro la loro commercializzazione ?

Partendo dagli alcolici, chi dice che è illogico vietare e punire la cessione controllata di droga, soprattutto di quella “leggera”, e invece ammettere la vendita bevande alcooliche, non ha ben chiara la distinzione fra uso e abuso. L’uso equilibrato di alcool, soprattutto se a bassa gradazione e in assenza di controindicazioni correlate alle condizioni di salute di chi lo assume, non fa male; un buon bicchiere di vino rosso è anzi consigliato durante il pasto. L’abuso provoca invece l’alterazione di sé, ed è in vario modo scoraggiato sul piano normativo: si pensi alle disposizioni sul tasso alcolemico da non oltrepassare quando si conduce un veicolo, e alle sanzioni penali in caso di inosservanza. Per il consumo di droga la distinzione non regge: già il semplice uso di stupefacenti produce alterazioni dell’equilibrio fisico e psichico; non attendere che si passi a stadi di dipendenza più elevati per dissuadere dall’assunzione è coerente con il sistema.

Viene comunque presentato come un dato di fatto che “legalizzare” le droghe sottrarrebbe potere e terreno alle organizzazioni criminali che traggono profitto dai traffici di stupefacenti, affidandone la distribuzione e la cessione al controllo dello Stato.

Siamo al quarto luogo comune. Premesso che il problema numero uno non è che i clan aumentino i profitti con i traffici degli stupefacenti, ma che questi ultimi determinino la morte o la prostrazione di tante persone, è certamente importante contrastare i network criminali che si dedicano, in tutto o in parte, ai giri di stupefacenti. Ammettendo che sia vera – e non lo è – la tesi secondo cui la mancata legalizzazione è causa dell’arricchimento dei clan, ogni ipotesi di legalizzazione sarebbe diretta a limitare lo sfruttamento criminale dei traffici, non a ridurre la platea degli assuntori di droga, quindi lascerebbe inalterato il problema n. 1. La realtà poi smentisce la tesi della riduzione della entità dei traffici criminali; ogni legalizzazione ha dei limiti, di età dell’assuntore, di quantità e di qualità (intesa come percentuale di principio attivo) della sostanza. Neanche il “legalizzatore” più convinto arriva a sostenere che un fanciullo possa recarsi a piacimento al tabaccaio, o allo sportello della Asl, e farsi impacchettare mezzo chilo di cocaina, con elevata percentuale di principio attivo. Alla criminalità sarà sufficiente operare oltre i limiti fissati: quanto a quello dell’età, puntando, ancora di più di quanto non avvenga oggi, allo spaccio fra minorenni; quanto alla quantità e alla qualità, offrendo “merce” in grammi o in capacità stimolante, al di là delle soglie stabilite. L’esperienza degli Usa, al cui interno circa venti States hanno legalizzato il fumo di cannabis per uso medico, e due States anche per uso ricreazionale, indica che la legalizzazione della cannabis aumenta soprattutto la quantità consumata pro capite. Gli introiti per gli Stati derivante dalle accise sulla cannabis “legale” è annullato dalle maggiori spese connesse al trattamento dei suoi effetti è cronici. I due mercati, legale e illecito, sono strettamente connessi: quantità sostanziali di marijuana medica prodotta in eccesso grazie a economie di scala sono dirottate verso il mercato clandestino. Tuttavia, negli Usa gli adolescenti non possono accedere alla cannabis legale: la legalizzazione non riguarda i minori, che sono i maggiori consumatori di cannabis e quelli più a rischio per i suoi effetti a lungo termine. Risultato: negli Usa la legalizzazione della cannabis non ha eliminato il mercato illegale ma ne ha semplicemente ristretto la clientela agli adolescenti e agli adulti che non possono permettersi il costo elevato della cannabis legale.

domenica 19 luglio 2015

Borsellino, l'icona di destra usata dalla sinistra

di Mariateresa Conti (il Giornale)

«Mio padre di sinistra non lo era di certo». Era il 1994, due anni dopo la strage di via D'Amelio. E Manfredi Borsellino, il figlio del giudice Paolo trucidato in quell'eccidio, in un'intervista, smentiva lo zio Salvatore, fratello minore del padre, che tacciava di «sciacallaggio» chiunque osasse dire che Paolo era di destra. Corsi e ricorsi storici, la storia si ripete, 23 anni dopo: da un lato i figli, che quest'anno hanno voluto rimarcare la loro assenza alle celebrazioni del 19 luglio, domenica proprio come 23 anni fa, contro l'«antimafia di facciata» che, caso Crocetta docet, vuol fare del ricordo un proprio spot; dall'altro una sinistra che a dispetto delle simpatie di destra di Paolo Borsellino - da giovane studente si iscrisse al Fuan, l'organizzazione universitaria del Msi, e proprio il Msi, il 19 maggio del 1992, quattro giorni prima dell'uccisione di Giovanni Falcone, votò Borsellino come capo dello Stato di bandiera, tributandogli 47 voti - tenta in ogni modo di tirarlo per la giacca. Tuttora.
Povero Paolo Borsellino, icona di destra strattonata da una sinistra che continua a tentare di usare lui e che ha usato e buttato via alcuni dei suoi affetti più cari. Come Lucia, la figlia, bandiera della giunta guidata da Rosario Crocetta sino a qualche settimana fa, quando all'indomani dell'arresto dell'amico e medico personale del governatore Matteo Tutino si è dimessa, e ancora la notizia dell'intercettazione choc su di lei non era di dominio pubblico. O come la sorella Rita, eurodeputata del Pd dal 2009 al 2014 ma ormai fuori dalla politica e in rottura col Pd dal 2012, quando apertamente si rifiutò di sostenere alle Regionali proprio Crocetta. Corsi e ricorsi storici, ancora una volta. Nel 1994 Rita, certamente non di destra, non fece salire a casa sua in via D'Amelio l'allora premier Silvio Berlusconi, intervenuto alle commemorazioni, e parlò con lui solo al citofono. Adesso sempre Rita, come ha rivelato il fratello Salvatore a Radio24 , «ha mandato un sms a Crocetta, scrivendogli di non presentarsi alle manifestazioni di via D'Amelio perché non sarebbe una persona gradita».
Povero Paolo Borsellino, icona di destra strattonata dalla sinistra e anche dagli affetti più cari. Come il fratello Salvatore, che dal 2009 col movimento delle Agende rosse è in prima fila alle commemorazioni del fratello connotandole di un «rosso» che con le idee di Paolo c'entra ben poco. «Meglio un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino», diceva uno slogan della destra coniato subito dopo la strage. E un anno fa il 19 luglio in via D'Amelio un Borsellino, Salvatore, ha abbracciato un Ciancimino, Massimo, il figlio del sindaco boss sotto accusa ma pur sempre testimone chiave del processo sulla trattativa Stato-mafia. Già, la trattativa, il processo dei processi su cui la Procura di Palermo si gioca tutto. I processi di Caltanissetta sono franati dopo 20 anni perché Vincenzo Scarantino era un falso pentito e si stanno rifacendo. In parallelo, a Palermo, c'è il processo sulla trattativa ideato da quell'Ingroia che Crocetta ha piazzato al vertice di una società regionale. Ha spaccato anche la sinistra, la trattativa. Una parte ha criticato l'impostazione del processo. Ricevendo di rimando l'accusa classica, quella del tentativo di delegittimazione. Povero Paolo Borsellino, icona di destra ostaggio della sinistra. Dopo 23 anni meriterebbe, almeno, verità e giustizia.

mercoledì 15 luglio 2015

Fusaro: “L’Europa? Senza sovranità vince il capitale finanziario”

Diego Fusaro

di Mario De Fazio (Barbadillo)

“La democrazia è la capacità di un popolo di partecipare al proprio destino” sosteneva Moeller van den Bruck, filosofo tedesco tra i principali interpreti della Rivoluzione Conservatrice. “Senza sovranità non può esservi democrazia” aggiunge oggi il filosofo Diego Fusaro. Il giovane “allievo indipendente” di Marx individua nella Russia di Putin quel modello di “democrazia sovrana” capace di opporsi con “un’eroica resistenza” al modello unico che ha negli Usa “il braccio armato del capitalismo finanziario” e nel politicamente corretto il “proprio equivalente culturale e sovrastrutturale”. Putin come speranza di un mondo multipolare, in cui la pluralità non soccomba dinanzi all’unica ideologia vincente, il liberalismo. E se le vicende della Grecia delle ultime ore segnano una novità per il nuovo protagonismo del popolo, anche dinanzi alle giravolte di Tsipras, Fusaro individua nel capitalismo finanziario il vero nemico, raccogliendo l’invito di De Benoist rispetto alla creazione di nuove sintesi che oltrepassino le categorie destra-sinistra. Torna attuale la lezione di Mao, che diceva: “Non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che mangi il topo”.

Fusaro, Dostoevskij fa dire al protagonista de “L’Idiota” che “chi ha rinunciato alla propria terra, rinuncia al proprio Dio”. Oggi si potrebbe dire che chi ha rinunciato alla propria sovranità, rinuncia alla propria identità. Putin è un modello di “democrazia sovrana” a cui anche l’Europa dovrebbe ispirarsi?

Sembra una banalità ma può esserci democrazia solo dove c’è una comunità capace di decidere del proprio destino. Il caso italiano è una conclamata assenza di democrazia per assenza di sovranità, almeno su due fronti. Mancano due condizioni fondamentali che già Machiavelli aveva individuato: la sovranità militare e quella monetaria. Abbiamo 115 basi militari statunitensi che rendono impossibile esercitare la sovranità in Italia. Se l’America decide che l’Italia deve essere nemica della Russia di Putin, il nostro Paese mette in campo sanzioni che sono il primo caso nella storia, dai sumeri in giù, in cui nuocciono al sanzionante e non al sanzionato, del tutto contrarie alle logiche del nostro Paese. Sulla sovranità monetaria non ne parliamo: l’abbiamo persa con l’ingresso nell’Euro, moneta transnazionale e privata, che porta all’indebitamento. E’ fondamentale tenere insieme oggi la democrazia e la sovranità. Non può esservi democrazia in assenza di sovranità e Putin l’ha capito bene. L’Italia è sempre ferma, come diceva Gramsci, a una fase tolemaica: abbiamo da una parte chi celebra la mission americana e dall’altra gli ultimi retaggi della sinistra che non hanno capito che l’internazionalismo è l’altra faccia della globalizzazione: non è un caso che si ritrovino dalla stessa parte dei magnati della finanza.

La Russia di Putin come speranza di un mondo multipolare anche sul fronte culturale? Cosa pensa della riscoperta delle radici identitarie russe portate avanti dal presidente?

Solo dove c’è una cultura critica può sussistere una resistenza a forme dispotiche e un’identità culturale. Il vecchio capitalismo, oggi finanziario, tende a distruggere la sovranità militare, economica e l’identità culturale dei popoli imponendo l’unico modello anglofono, che non parla altra lingua che quella del mercato. Oggi si rispetta solo l’ideologia del Medesimo: il capitale trionfante non accetta la differenza e il diritto alla pluralità, vuole vedere solo atomi consumatori che parlano inglese, senza identità e cultura. Putin svolge un ruolo geopolitico fondamentale: ha capito l’importanza della sovranità militare ed economica e sta riscoprendo le radici culturali russe. Il capitale vince più facilmente senza identità, imponendo ovunque il medesimo.

Putin nasce come reazione a un processo che stava portando la Russia a un modello ultraliberista sotto la parentesi di Eltsin, riaffermando la sovranità russa. La Russia è l’unica alternativa plausibile alla “fine della storia” sancita dopo il crollo del muro di Berlino?

Putin non è Lenin ma ha il merito di essere resistente rispetto al modello unico globalista, rispetto al quale sta ponendo un limite fortissimo. E’ un impaccio per le politiche di tipo militare americano, il braccio armato con cui il mercato torna a grondare sangue e sporcizia: la Russia eroicamente resiste, svolgendo la funzione di equivalente di senso rispetto alla defunta Unione sovietica che, con tutti i limiti che non mi sogno di negare né di ridimensionare, svolgeva un ruolo positivo perché la pluralità è sempre meglio rispetto all’unità, alla reductio ad unum. E’ rimasto un unico modello che tende a pensarsi come il solo possibile, e che tende a imporsi nell’Ordine mondiale nel suo equivalente sovrastrutturale che è il pensiero unico del politicamente corretto, con l’imposizione di un unico modello culturale e di costumi, con penalizzazione, come omofobo, sul piano dei costumi per chiunque dissenta, e come fascista o stalinista per chiunque dissenta invece sul piano politico, diffamando e colpevolizzando chiunque si opponga al pensiero unico stesso. Diffido dei facili cosmopolitismi ma la Russia mi interessa rispetto alle sorti geopolitiche, come resistenza eroica al modello unico a guida statunitense, tenendo aperta la possibilità del plurale.


All’assedio economico e culturale a cui è sottoposta la Russia, Putin reagisce con il dialogo con Serbia e Grecia, e con il progetto dei Brics. La crisi greca, al di là delle ultime mosse di Tsipras, è anche, o soprattutto, una partita sullo scacchiere geopolitico internazionale?

Basta chiedersi come mai Obama sia intervenuto solo adesso, per scongiurare il rischio che si crei una nuova alleanza che va a sparigliare il pensiero unico. Bisogna ragionare nella concretezza storica dei fenomeni a cui assistiamo oggi. Il ruolo di Putin è rispondere all’immagine del presidente Obama e al suo al “yes we can” con un limite, con un “no we can’t”. Nella congiuntura dei rapporti di forza chi sta con Putin è per un mondo multipolare. Peggio di un mondo diviso dal muro di Berlino poteva esserci solo ciò che è venuto dopo, un mondo in cui c’è modello unico che tende a delegittimare a priori qualunque altro modello possibile, distruggendo le lingue nazionali, le culture, il diritto alla differenza, creando quella situazione che Heidegger chiamava “uniformazione planetaria”. Molto si capirà da come Putin gestirà la vicenda greca. Se interverrà a sostenere la Grecia potrebbe realizzare un capolavoro politico, il capovolgimento dei rapporti di forza e il ricongiungimento dell’Europa con la Russia. Vedremo la Grecia di Tsipras cosa farà.

In una recente intervista alla rivista Tradizione, pubblicata su Barbadillo, Alain De Benoist cita anche lei come uno dei pensatori a cui guardare per “nuove sintesi” capaci di collocarsi al di fuori delle consuete dicotomie politiche e culturali. E’ possibile un percorso del genere, oggi, in Italia?

Intanto sono felice e onorato che De Benoist mi abbia citato perché lo considero, con il compianto Preve, uno dei più grandi filosofi contemporanei e una delle poche voci fuori dal coro. Più che nuove sintesi, occorre andare oltre, oltrepassare: non vuol dire una corsa verso il futuro ma tenere del passato ciò che di buono vi è di esso, liberandosi degli errori e portando all’altezza dei tempi il pensiero, abbandonando quelli che Adorno chiamava i “cadaveri concettuali”, cioè quei concetti che non fanno più presa sulla realtà. Continuare oggi a dividersi sterilmente tra destra e sinistra significa precludersi la possibilità di capire che il nemico è la Banca centrale, il mercato unico che elimina i diritti sociali. Il potere oggi incentiva tutte le dicotomie che non sono in grado di mettere in discussione il potere stesso: si esalta l’antifascismo, l’anticomunismo, ma mai si può parlare di anticapitalismo, di lotta all’imperialismo. E’ indispensabile andare oltre, al di là di destra e sinistra, per la lotta al capitale finanziario globale e la rivendicazione della comunità umana come priuus, come intoccabile dall’economia. Occorrerà sempre più creare un fronte di resistenza rispetto al fanatismo economico: se quello è il nemico occorre reagire, senza dividersi tra rossi e neri, islamici e cristiani, bianchi e neri. Pretendere la purezza di chi lotta contro il nemico somiglia all’atteggiamento di chi, davanti a un incendio, si mettesse a chiedere i documenti ai vigili del fuoco. Bisogna spegnere l’incendio: per farlo De Benoist dice che occorrono nuove sintesi, io aggiungo che bisogna andare oltre, senza restare intrappolati nelle vecchie categorie.

venerdì 10 luglio 2015

La vita di una comunità è più importante dei suoi debiti finanziari



Di Marcello Veneziani



Un asfissiante dirigismo finanziario sta soffocando la vitalità dell’economia e la sovranità degli stati europei. Il Novecento ci aveva abituato a vedere sulla scena due modelli economici contrapposti: da una parte il modello dello Stato interventista che frenava il libero mercato sotto la cappa di uno statalismo invadente, che dirigeva l’economia e stabiliva reti di protezione e vincoli, nel nome del Welfare, dell’economia sociale, se non socialista, tra programmazione e pianificazione. E dall’altra parte il modello del libero mercato che lasciava spazio all’iniziativa privata nel nome del liberismo e della deregulation, la libera circolazione di merci e capitali. Nel nuovo millennio è cresciuto in Europa, sulle ali del libero mercato e della finanza globale, un mostro sovrastatale che impone un rigido, oppressivo, minaccioso dirigismo economico. L’unica sovranità che riconosce è la sovranità del debito, il cosiddetto Debito Sovrano e l’assoluta priorità che impone agli stati e alle società è pagare i propri debiti, ridurre il deficit, tendere al pareggio di bilancio.

L’imperativo riguarda direttamente gli stati membri e la spesa pubblica ma ricade inevitabilmente sull’iniziativa privata, sulle imprese, sulle condizioni reali dell’economia di un paese. Se c’è da scegliere tra l’assetto contabile degli stati e la vita reale dei popoli, la priorità degli euro-dirigisti è assegnata senza esitazioni al primo, a scapito della seconda. Un paese può fallire, finire in default e perfino essere estromesso dall’Europa, se non ha i conti in ordine e se non rispetta i parametri imposti dal dirigismo economico europeo. Il debito sovrano assume oggi lo stesso ruolo che aveva il peccato originale: una macchia indelebile, che anche le nuove generazioni ereditano dalla nascita, una colpa assoluta e indipendente dalle volontà e dai comportamenti di ciascuno che li pone in condizione permanente di dipendenza e subalternità, tra procedure d’infrazione e minacce di sospensione ed espulsione, equivalenti tecnico-finanziari della scomunica, dell’anatema e della dannazione. Vista l’entità gigantesca del debito e la sua crescita esponenziale col tempo, che costringe non a ridurre veramente il debito ma solo a pagare gli interessi sui debiti pregressi, vista l’impossibilità di terapie radicali e definitive, non c’è alcuna uscita dal tunnel del debito, solo un percorso obbligato e scandito da tappe infinite che non consentono il recupero della libertà né il ripristino della sovranità. Debitori si nasce, si cresce e si muore.

“Il privato si è mangiato il pubblico – scrive Mario Tronti – l’economia si è mangiata la politica, la finanza si è mangiata l’economia, quindi il denaro si è mangiato lo Stato, la moneta s’è mangiata l’Europa, la globalizzazione si mangia il mondo”. Naturalmente non si tratta di seguire gli schemi complottistici e dividere l’Europa tra vittime e carnefici: ci sono state politiche dissennate che hanno ingigantito il debito e ci sono tentativi apprezzabili di risanare gli errori passati. Ma a questo punto non resta che fuoruscire dalla gabbia, rimettere in discussione la sovranità del debito e partire da altre basi, non legate alla finanza ma alla vita reale dei popoli e dell’economia, alla sovranità politica, nazionale e popolare. La crisi economica non si risolverà finché restiamo solo sul terreno dell’economia e soprattutto se restiamo dentro i dogmi e gli schemi tecno-finanziari. Lo stesso mercato finanziario appare fortemente condizionato da fattori psicologici, emotivi, meta-economici: la borsa è psicolabile e lo dimostra ogni giorno… Si tratta allora di spodestare l’Economia dal trono di Ars regia e riportarla a terra, in mezzo alle genti. Bisogna salire di un piano o scendere alle fondamenta se si vuole spezzare la china automatica che si è generata. Tocca alla politica, la grande politica che decide, non la governance, tagliare il nodo di Gordio. Per questo, con tutte le velleità, le astuzie e l’avventurismo che hanno accompagnato l’esperienza greca e le sue tifoserie nostrane, è necessario trarre un insegnamento e una previsione dal referendum: un popolo viene prima degli assetti contabili, la vita di una comunità è più importante dei suoi debiti finanziari, non è possibile cacciare dall’Europa chi fa parte della sua storia e della sua identità. Solo su queste basi si potrà rifondare l’Europa vera, viva, variegata, ricca di passato e di avvenire.

lunedì 6 luglio 2015

I


Il Governo Renzi approva il suo modello di “buona scuola”.
L’ennesimo passo verso lo smantellamento della scuola pubblica è compiuto, nel silenzio generale e senza dibattiti preventivi.
Il mondo della formazione si aziendalizza e il sapere diventa merce, mentendo intatti i punti deboli del comparto-scuola: strutture inadeguate, docenti impreparati e faziosi, tagli al personale, precarizzazione generale.
L’istruzione cessa di essere un diritto e diventa un prodotto da accompagnare alla massificazione in atto e al processo di riduzione dell’esistente alla logica del profitto e della produttività; un primo passo verso la creazione del consumatore di domani, privo di identità, di coscienza critica e di radici, di spunti vitali, solidali e comunitari.
Se questa è la “buona scuola”, siamo fieri di essere quelli dell’ultimo banco.

mercoledì 1 luglio 2015

Torrita di Siena.Blitz di Casaggì:"Prima gli italiani!"





Abbiamo protestato per una scelta calata dall’alto in cui la cittadinanza è stata avvertita a cose fatte. Abbiamo deciso di gridare forte e chiaro il nostro punto di vista, che poi è quello di molti cittadini, lo abbiamo fatto sicuramente in modo plateale con uno striscione con su scritto “PRIMA GLI ITALIANI” e lanciando volantini durante la conferenza stampa del Sindaco di Torrita di Siena.
Noi sono mesi che chiediamo agli amministratori locali di avviare delle indagini sul loro territorio di pertinenza per verificare la presenza di famiglie italiane in difficoltà e solo dopo decidere se aiutare o no i richiedenti asilo. La nostra è una posizione assolutamente di buon senso, crediamo fortemente che la precedenza debba esser data ai nostri connazionali, soprattutto in un periodo di crisi come questo. Girando la provincia abbiamo conosciuto molte famiglie che non riescono più a pagare l’affitto ma anche discriminazioni vere e proprie durante le assegnazioni delle case popolari, basta guardare un po’ i primi posti delle graduatorie per accorgersi che i vincitori sono sempre più spesso cittadini stranieri. Per questi motivi vogliamo che i Sindaci, Assessori e associazioni di volontariato si informino prima se sul territorio comunale ci siano italiani da aiutare, nel caso in cui non ve ne siano si può pensare di aiutare gli immigrati richiedenti asilo. Una cosa è chiara fin quando le istituzioni si faranno in quattro per assistere persone provenienti dall’estero mentre i nostri concittadini vengono ignorati noi saremo sempre in prima fila per dare voce a quest’ultimi.