martedì 14 giugno 2016

Balcanizzazione, “guerre di faglia”, immigrazione artificiale forzata.



di Claudio Mutti (www.eurasia-rivista.org)

Nel suo celebre libro sulla “Grande Scacchiera” eurasiatica, Zbigniew Brzezinski indica alla superpotenza statunitense quelli che il sottotitolo stesso definisce come “i suoi imperativi geostrategici”. Il capitolo in cui l’autore suggerisce agli USA di dominare l’intero continente utilizzando e favorendo l’anarchia etnica, religiosa e politica reca un titolo eloquente: I Balcani eurasiatici (The Eurasian Balkans). “In Europa – scrive Brzezinski – la parola Balcani evoca immagini di conflitti etnici e di rivalità regionali di grandi potenze. Anche l’Eurasia ha i suoi Balcani, ma i Balcani eurasiatici sono molto più estesi, più popolosi, ancor più eterogenei sotto il profilo religioso ed etnico. Si trovano in quell’ampia ed oblunga area geografica che contrassegna la zona centrale di instabilità globale (…) che abbraccia porzioni dell’Europa sudorientale, l’Asia centrale e parti dell’Asia meridionale, l’area del Golfo Persico e il Medio Oriente”.

Da parte sua, il geopolitico François Thual, analizzando il fenomeno mondiale della proliferazione degli Stati e della corrispondente frammentazione politica del pianeta, paragona l’emergere delle nazioni dell’America latina alla nascita degli Stati balcanici. Inoltre, Thual applica il concetto di balcanizzazione alla devoluzione della parte araba dell’Impero ottomano:“la morte dell’Impero ottomano prima nei Balcani e poi nel mondo arabo ha inaugurato un processo di spezzettamento che è durato novant’anni nella parte europea e centoquarant’anni nell’altra”.

Bastino questi due esempi per mostrare come il lessico geopolitico faccia ricorso alla metafora dei Balcani ed al termine balcanizzazione per indicare un’area afflitta da instabilità e disordine cronici dovuti a conflitti etnici e religiosi, nonché il corrispondente processo di disgregazione degli Stati.

Il termine balcanizzazione nacque nelle cancellerie europee alla fine della prima guerra mondiale, che segnò la scomparsa di quattro imperi e la nascita di entità statuali mai esistite prima d’allora, fra cui il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni; ma già i cento anni precedenti (intercorsi fra la rivolta serba del 1815 e la fine della seconda guerra balcanica, nel 1913) avevano assistito all’ultima fase dell’indebolimento ottomano ed alla nascita di sei nuovi Stati: Grecia, Serbia, Montenegro, Romania, Bulgaria, Albania.

Ma neanche la Grande Guerra pose un termine definitivo al processo balcanico di dissoluzione. La disintegrazione dello Stato jugoslavo fra il 1991 e il 2008 ha dato alla luce sette staterelli: Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Cossovo. Questo ulteriore processo di disgregazione ha confermato presso l’opinione pubblica dell’Europa occidentale la validità del termine balcanizzazione, rafforzandone le connotazioni negative, le quali non si riferiscono soltanto al fenomeno della parcellizzazione territoriale ed all’instabilità politica, ma anche a violenti conflitti etnico-religiosi ed a fenomeni di pulizia etnica.

La regione che ha prestato il suo nome alla metafora con cui vengono indicati i fenomeni suddetti è lapenisola limitata ad est dal Mare Egeo, a sud dal Mediterraneo, ad ovest dallo Jonio e dall’Adriatico. A nord, l’interpretazione più estensiva fissa il confine della penisola in corrispondenza della linea immaginaria Trieste-Odessa; ma per lo più si tende ad assumere come limite settentrionale la linea segnata dal corso inferiore del Danubio, da quello della Sava e del suo affluente Kupa (tra Slovenia e Croazia, non lontano da Fiume). In conformità di questo secondo punto di vista, possono essere considerati paesi balcanici a pieno titolo la Bulgaria, l’Albania, la Grecia e gli Stati successori della Jugoslavia (tranne la Slovenia, che viene inserita nel gruppo dei “paesi alpini, ma è ritenuta parte integrante dei Balcani per varie ragioni). Paesi parzialmente balcanici, infine, sono la Romania e la Turchia.

Su questo territorio è stanziata una decina di popoli, nonché vari gruppi etnici minori; vi si parlano idiomi di diversa origine (tre o quattro lingue slave, il romeno, l’albanese, il neogreco, il turco) e vi si praticano religioni diverse (l’Ortodossia, il Cattolicesimo, l’Islam).

Il complesso mosaico costituito da una tale varietà etnica e culturale ha offerto agli strateghi dello “scontro delle civiltà” la possibilità di favorire quel genere di conflitti che vengono chiamati “guerre di faglia”; è stata infatti la Federazione Jugoslava, la costruzione statale più rappresentativa di tutto il mosaico balcanico, a fornire il terreno per “il più complesso, confuso e variegato intreccio di guerre di faglia dei primi anni Novanta”.

Data la sua natura geografica di “prolungamento dell’Asia anteriore sul suolo europeo”, oggi la penisola balcanica subisce immediatamente, prima di altre regioni, l’impatto di destabilizzanti ondate migratorie destinate a trasmettersi al resto dell’Europa. Nei primi due mesi del 2016 la Grecia ha registrato l’arrivo di 132.200 individui, mentre nello stesso periodo dell’anno precedente gli arrivi erano stati 3.952. Per quanto riguarda gli altri paesi della cosiddetta “rotta balcanica”, dall’inizio del 2016 alla fine di febbraio si hanno i seguenti dati: Macedonia 89.000, Serbia 93.600, Croazia 103.200, Slovenia 98.400. Gli arrivi concernenti l’Ungheria e l’Austria sono stati, rispettivamente, 3.600 e 110.700.

La situazione prodotta da tali ondate ha indotto perfino il commissario europeo per le migrazioni e gli affari interni, Dimitris Avramopoulos, a paventare il rischio di un collasso totale. Contemporaneamente, l’ex ministro della Difesa italiana Mario Mauro rivelava che le forze militari della missione Kfor avevano ricevuto l’ordine di traghettare sulle coste italiane i 150.000 clandestini bloccati tra il Cossovo e l’Albania. Lo stesso comandante della missione NATO, il generale Miglietta, il 27 gennaio aveva dichiarato alla Commissione Difesa del Senato italiano che, secondo informazioni provenienti dai servizi segreti europei, qualche centinaio di terroristi del cosiddetto “Stato Islamico” si era già mescolato alla folla dei clandestini.

L’assistenza fornita dalle forze militari della NATO al disordine migratorio è un’ulteriore conferma di ciò che abbiamo sostenuto su queste pagine: le “migrazioni artificiali coercitive” (coercive engineered migrations) teorizzate negli USA si configurano come un’arma non convenzionale che, al pari di altre armi non convenzionali impiegate nella “guerra senza limiti”, viene usata contro l’Europa.