lunedì 18 gennaio 2016

Drieu la Rochelle, l’ineffabilità suicida avvolta nel fuoco fatuo della decadenza

Drieu La Rochelle
di Donato Novellini (Barbadillo.it)


Pierre Drieu la Rochelle, il dandy suicida, colui che utilizzò la coerenza politica per liberarsi del fardello esistenziale di una monade guasta, il raffinato scrittore dato in pasto a porci comizianti o ai citazionisti della Domenica (gli stessi di “bla bla bla” – Jim Morrison), pare morto da sempre e da sempre in procinto d’essere dimenticato. Troppo raffinato per essere utile a qualche causa, troppo corrotto e decadente per gli abbacinanti giochi di ruolo postmoderni, troppo puro ed ingenuamente propenso al rovinio per diventare iconografico e credibile “cattivo maestro”. Tant’è che, al di là di caricature ad uso politico e forse per troppa ondivaga eleganza – che ne inibì il riposizionamento nella contemporaneità – Drieu è gettato senza appello nel cestino dei funghi velenosi, assieme a Robert Brasillach, Alphonse de Chateaubriant, Lucien Rebatet ed altri; qui non subentrano, come nel caso di Pound, Junger o del coevo Céline, antidoti ed attenuanti a fasi alterne, qui l’oblio si fa nebbiosa coltre per tragitti inospitali: nausea borghese, oppiaceo distacco, intima femminilità prostituita specchiata in misoginia, trastulli in cono d’ombra, scivolamenti in salotti spiritati fuori moda o in giardini d’inganni. Furono, le sue, scelte coraggiose e perdenti, affrontate con egopatico misticismo ed infine acquerellate nell’epilogo spezzato dell’uomo braccato, nell’imperdonabile sparizione che renderà vana ogni togata sentenza (ma non la damnatio memoriae come vendetta e ben servito imperituro). Polvere e pose. Noia ed illusionismi definitivi, sipario sull’ultima recita calato anzitempo.

Eppure, a voler trovare qualche rimando spendibile, in grado di farsi riverbero postumo, due casi sono degni d’attenzione, entrambi legati al romanzo Fuoco fatuo. Dapprima il film omonimo Le feu follet, diretto nel 1963 da Louis Malle, capolavoro assoluto gravitante attorno all’estetica nouvelle vague. Il lungometraggio in bianco e nero, piuttosto fedele al tormentato romanzo di Drieu, riadatta il nauseante malessere del testo originale alle vicende autobiografiche del regista, nonché alla simbiosi strabiliante instauratasi fra il protagonista Alain e l’attore che ne interpretò il ruolo, ovvero Maurice Ronet. “Domani mi uccido”, “meglio così, in fondo”, “altri ne approfitteranno” o “Ah, quelli erano tempi!”. Qui c’è tutto lo sdegno, nobile e disperato, riguardo alle cassate vie di fuga possibili: il disprezzo per l’America, intesa come salvifico eldorado moderno (così come accadde in un altro capolavoro su celluloide: La ballata di Stroszek di Werner Herzog), per la nostalgia patetica sfarinata in amicizie irrecuperabili, per la repulsione riguardo ad arabeschi intellettuali da bar sport, per il florilegio velenoso delle ipocrisie, del torbido chiacchiericcio alle spalle. Così la vita s’incunea sempre più giù, nella dissoluzione autoindulgente, miniaturizzata tra donne evanescenti e pseudo-materne, droghe e alcol, nell’esistenzialismo estetizzato ed ammalorato, fino al parossismo, fino alla maniacalità folle del circolo vizioso.

Tutto un lasciar correre, tutto un declino da imbellettare come possibile, abbattendo di volta in volta l’effimero escamotage di turno, il miraggio giunto in soccorso. Louis Malle riesce nell’impresa, tutta psicologica, di restituire in immagini il perverso gioco di delusioni e svuotamenti descritto nel libro, come nell’apparentemente banale dialogo al bar: “Scusi, mi dà delle Sweet Afton? E che cosa sono? Sigarette irlandesi. Non le abbiamo. E perché? Non le chiedono da queste parti. Se uno le chiede? Uno non basta mica, la merce si sciupa, lo sa”. Già. Laddove il tabacco preferito per un fumatore, marca sconosciuta all’esercente, rappresenta l’incomprensione irreparabile con il prossimo, con la società, con l’esistenza stessa. L’atrocità di piccole trascurabili sentenze riporta così, con filtri esigui, al Diario di un delicato, ovvero al solitario disagio di un uomo “pubblico” in via di sparizione, ben delineato nell’intimo capolavoro dello scrittore francese. Il diario segreto per chi non sa tenerlo – il segreto – l’annotazione seriale dei depennamenti fatali e la sensibilità caduta come vetro fragile dal comò.

Nel 1994, in contesti alternativi assai distanti – la Bologna antagonista dei centri sociali e del Dams – vide la luce un disco anomalo e destinato a divenire caso a sé nel panorama musicale italiano. L’album s’intitolava Lungo i bordi, mentre il gruppo che ne era responsabile, tutt’ora attivo con eccellenti sviluppi artistici, si chiamava Massimo Volume. Fra le tracce in scaletta c’era Fuoco fatuo e l’incipit del pezzo, una citazione dal romanzo del 1931, non lascia adito ad omonimi equivoci. Il brano, scritto e declamato (non c’è cantato, nei Massimo Volume, e scarseggia l’intrattenimento) da Emidio Clementi, poggiava su trincee di chitarre distorte, noise caracollante, percussioni cadenzate e ripetitive. Disagio camuffato dietro le impalcature di rock decomposto, poesia scorticata aggiustata con fare manesco appresso alle violente scosse del suono, abrasivo fino alla consunzione, al limite del collasso. Tutto il disco, riascoltato oggi, è un ritratto metropolitano disilluso ed umido, trafficato e desolante, probabilmente conseguente all’implosione sociale e politica, al clima grigiastro che fece seguito al tracollo della Prima Repubblica. Le parole, al contempo stolide e suggestionanti, di Clementi, portano a passeggio il segreto malsano di Fuoco fatuo lungo tutto il supporto sonoro, sovente stilizzando con flash neorealisti il confidenziale incedere: “Sono gli adesivi sulle pareti, è il tempo che scorre lungo i bordi, siamo io e te, appoggiati su queste sedie ad aspettare. Poi ricomincia la polvere”.

giovedì 7 gennaio 2016

Ogni anno ad Acca Larentia. Finché camperò. Per i nostri tre fratelli



Di Ferdinando Parisella (barbadillo.it)

7 gennaio 1978. Avevo 21 anni. Vi racconto una storia, il mio 7 gennaio 1978. Ero a San Felice Circeo a casa di Barbara, la mia ragazza di ieri e di oggi. Insieme a suo fratello Fabrizio, ci eravamo immersi alla Secchitella, non c’erano ancora Gav, computer, solo pesi e due bibombola della fine degli anni ’60 del,padre. Reperivamo invertebrati per un’azienda di acquari di Latina. Un freddo che non vi dico. Pomeriggio verso le 18, giornale radio, si chiamava così, da una gracchiante radiolina:“Uccisi due giovani missini davanti la sezione di via Acca Larentia. Giovani di tutta Roma stanno convergendo sul posto. Si temono incidenti”.

In un attimo, butto all’aria le coperte con cui mi stavo riprendendo dal freddo dell’immersione. Un bacio a Barbara e via, sulla mia cinquecento, verso Roma.

Arrivo da sud, riesco a parcheggiare a Largo dei Colli Albani. Vedo lampeggianti ovunque, poi con il cuore in gola, attraverso via Cave. Blindati dovunque, aria annebbiata da lacrimogeni, quasi non respiro. Finalmente arrivo e qualcuno mi dice, hanno sparato ancora, uno dei nostri all’ospedale, sono stati i carabinieri.

Era Stefano Recchioni, morirà poco dopo. L’avevo visto qualche volta a via degli Scipioni. Rabbia, groppi alla gola, rimasi a Roma per tre giorni. Chi c’era sa perché e cosa successe per i tre giorni consecutivi. Tutte le mie certezze di quegli anni, quelle che mi facevano pensare ed agire in modo trasversale, che mi facevano pensare che anche “gli altri” erano giovani come me, quindi ribelli ed idealisti, vacillarono di fronte a quel sangue. Potevo essere io, era toccato invece a loro. In quegli anni avevo teso la mano più volte, dicevo/vamo unità generazionale contro il sistema, no alla logica degli opposti estremismi. Tutto ciò in quella notte andò in frantumi.

Dopo i tre giorni di vera lotta collettiva del nostro mondo al sistema, forse la prima vera ed unica volta collettiva, torno a Latina. Preparo per due giorni manifesti verniciati a mano, altri improvvisati fotocopiati con guerrigliero disegnato con una celtica al braccio. E per due notti, riempio la città. Eravamo in due, io e Dino Mangani. Arriva il 12 gennaio e parto con una nave da Civitavecchia, per il servizio militare destinazione Sassari. Sempre tutto d’un fiato.

I morti non finirono lì, purtroppo. Non era una guerra. E’ stata invece una sorta di prosecuzione o di tentativo di ripresa di storia di vigliaccate assassine come quelle del 43/46. E il sistema ne ha approfittato abbondantemente. Pensare oggi che un mio figlio possa a soli 18/20 morire così, mi fa venire i brividi, che sono comunque diversi dai brividi giovanili vissuti allora. Mai più. Da quella serataccia, non ho mai mancato un anno al mio saluto per loro, compreso un anno dopo quando toccò ad Alberto Giaquinto, figlio di farmacista come me, con i nostri Padri che si conoscevano, tra l’altro. Ecco perché in questi giorni ho scritto: “E’ anche un fatto intimo, io sarò lì ogni anno finché camperò, me ne frego delle elucubrazioni”. Franco, Francesco, Stefano e tutti gli altri vivono in me e con me…