domenica 31 agosto 2014

Libri. “A difendere i cieli d’Italia”: la storia mai raccontata dei piloti della RSI



tratto da Barbadillo

La collana Ciclostile ha appena pubblicato il libro “A difendere i cieli d’Italia”, scritto da Marco Petrelli, giornalista e storico, dopo un lungo periodo di documentazione. Abbiamo incontrato l’autore per Barbadillo.it.

Perché un libro sull’Aeronautica Nazionale Repubblicana?

Mi sono occupato dell’argomento da giornalista, raccogliendo interviste e testimonianze di una pagina di storia poco nota. Ho deciso di raccogliere tutto in un “diario di bordo” .

Un diario?

Sì, il mio è stato un viaggio nella storia e il mio taccuino ha conservato parole, impressioni, volti, ricordi. In “A difendere i cieli d’Italia” parlano le stesse persone che nel ’43 – ’45, nelle cockpit dei loro Macchi e dei loro Messerschmitt, si buttavano contro le grandi formazioni di bombardieri alleati che martellavano la Penisola.

Quanti piloti ha contattato?

Quattro: tutti arzilli novantenni, molto pacati e alla mano.

Reduci ma anche famiglie, perché?

Alcuni protagonisti, i comandanti in particolare, non ci sono più. E le famiglie sono state un importante “fonte” di informazioni non tanto sul militare, quanto sull’uomo. Ecco, volevo narrare storie di uomini che, nel corso di una guerra terribile, sono stati capaci di compiere una scelta, certamente difficile, ma dettata unicamente dal senso del dovere. Gianluca Cavagliano, figlio del maresciallo maggiore pilota Carlo, mi ha ricordato come gli uomini dell’ANR fossero persone normali che hanno mostrato la loro eccezionalità nei momenti peggiori vissuti dal nostro Paese.

Erano fascisti?

Erano soldati e come tali sapevano che il loro compito era tutelare il bene collettivo. In nessuna delle interviste che mi hanno rilasciato c’è odio nei confronti della Resistenza. Erano due mondi diversi. Il loro, quello dei piloti, ruotava attorno alla convinzione di dover proteggere la popolazione civile dai bombardamenti, pur consci della disparità delle forze in campo: pochi apparecchi italiani contro decine e decine di bombardieri scortati da nugoli di caccia.

Tra gli episodi che ha ascoltato, quale l’ha colpita di più?

Quello che coinvolge le Brigate partigiane “Osoppo Friuli”.

E cos’ha di particolare?

Legga il libro e lo scoprirà.

venerdì 29 agosto 2014

Bravio delle botti:si importa il proibizionismo (circa 80 anni dopo)



di Gianfranco Maccarone

In questi giorni si è tenuta sul web un'accesa discussione tra i cittadini poliziani, se sia giusto o meno che le contrade servano bevande alcoliche.La questione è stata scatenata dal fatto che ci sono molti minorenni,o almeno così pare,che si aggirano in palese stato di ebbrezza per le vie del paese,facendo un sacco di danni.
Diverse le posizioni tenute:ci sono quelli del "laissez-faire",quelli del "se non mi ubriaco non mi diverto" e gli sceriffi del proibizionismo,che subito si sono sentiti investiti del compito di "moralizzare" la vita pubblica.
Non è tardata ad arrivare un'ordinanza comunale che vieta alle contrade ed a tutti i locali la somministrazione di superalcolici a partire dalle ore 23:00 per la restante durata del Bravio.
Quello che nella discussione si è perso di vista,a parer mio, è il lato comunitario della festa.
Il Bravio è una rievocazione storica che da molti anni anima le vie della nostra cittadina,un'occasione d'incontro e di formazione attraverso l'impegno contradaiolo,un mezzo utile per unire e formare i ragazzi della zona.
E' una manifestazione che oltre agli abitanti dei paesi limitrofi,attira turisti da tutto il mondo e rappresenta una risorsa economica non indifferente per il nostro comune.

Eppure,da un pò di tempo a questa parte,c'è sempre un drappello di persone che puntano il dito contro questa manifestazione per un motivo o per l'altro.
Quest'anno è la volta del problema rappresentato dall'abuso di alcol.
Ho molti amici e conosco molte persone che si impegnano nelle contrade dalla mattina alla sera e non solo per la settimana annuale di festa.
Trovo,perciò, estremamente disdicevole che vengano accusati di non controllare la buona riuscita delle feste da loro organizzate,quando è estremamente semplice per un minorenne fare scorte di superalcolici in un supermercato o farseli acquistare dall' "amico più grande",aggirando così l'ostacolo della legge.
Io rimango favorevole al divertimento responsabile perchè ci si può tranquillamente divertire senza abusare di sostanze alcoliche,ma ritengo inutile (se non controproducente) imporre dei limiti così restrittivi.

Questo genere di provvedimenti non va a colpire il minore che "si vuole prendere la sbronza",che in ogni caso può riuscire ugualmente nel proprio intento, ma proprio quelli che vorrebbero bersi un bicchiere di vino o di sangria in pace,magari dopo aver sgobbato tutto il giorno ai fornelli o a servire ai tavoli.
Se un minore eccede nell'uso di alcolici la colpa non è di certo delle contrade,ma dell'assenza delle famiglie e della comunità territoriale.
I modelli negativi che la società propone vanno a colpire proprio i ragazzini,i quali non avendone evidentemente altri ne sono le principali vittime.
Questo è un fenomeno che si propone quotidianamente e di certo non solo nella settimana di festa in paese,solo che durante l'anno passa inosservato,almeno per gli sceriffi,mentre in questi giorni a causa della grande concentrazione di giovani per le vie del borgo tutti se ne accorgono.
Il problema vero sollevato nella discussione di oggi e di ieri è l'abuso di sostanze alcoliche (che vale per tutti,giovani e meno giovani).
L'abuso in questione è frutto di una scelta del singolo.
Se il singolo decide di agire in questa direzione è perchè evidentemente c'è alla base qualche altro tipo di problema,che di certo non si risolve con ordinanze o controlli di stampo orwelliano,bensì riacquistando il senso della comunità per 365 giorni l'anno.Ognuno deve essere in grado di autolimitarsi e di darsi una regola senza questo genere di imposizioni.In medio stat virtus.
Vi sono già apposite leggi che regolamentano la materia senza bisogno di altre inutili norme,forse è il caso di iniziare a riscoprire il valore dei legami umani.
D'altronde la gioventù è lo specchio di ciò che una società trasmette e per dare l'esempio bisogna essere di esempio.

Niente sconti “causa crisi” per gli universitari “fuori sede”: un posto-letto costa 480 euro


tratto da Redazione Secolo d'Italia

Mentre tanti italiani sono ancora sotto l’ombrellone a godersi gli ultimi giorni di ferie, per gli studenti universitari “fuori sede” questo è un periodo cruciale per la ricerca dell’alloggio. Secondo le rilevazioni dell’Ufficio Studi di Immobiliare.it, la crisi economica non ha fatto calare di molto i prezzi degli affitti: l’indagine, realizzata prendendo in considerazione l’offerta di stanze sul portale nelle quindici città italiane con la maggior presenza di studenti fuori sede, ha rivelato che la richiesta media ammonta a 380 euro per una stanza singola e a 280 per un posto letto in doppia. Nel dettaglio, è Milano a detenere lo scettro di città universitaria più cara d’Italia: la richiesta media per una stanza singola qui è pari a 480 euro, praticamente il 26% in più della media nazionale, mentre per la doppia si spendono 320 euro. Numeri molto elevati, questi, che crescono ancora se si sceglie di alloggiare nelle zone più centrali o comunque comode per raggiungere le principali università milanesi: in zona centro storico, ad esempio, la richiesta media supera i 590 euro al mese. Seconda in classifica per i prezzi è Roma, dove la maggiore estensione territoriale contribuisce a far abbassare la somma media richiesta: 410 euro al mese per una singola e 300 per una doppia. Ma, anche in questo caso, la prossimità al centro storico della Capitale fa lievitare i prezzi a oltre 500 euro. A seguire, le città con i prezzi degli affitti più elevati sono tradizionali destinazioni degli universitari italiani, ma anche di tanti stranieri: Firenze (360 euro per la singola, 260 per il posto in doppia), Bologna (330 per una stanza singola, 240 per la doppia) e Torino (320 euro per la singola, 220 per il posto in una stanza condivisa). Si risparmia al Sud, con prezzi medi per la singola sotto i 200 euro a Catania e Palermo. La differenza di prezzo dell’offerta è strettamente connessa alle attrattive che le diverse città hanno non solo per gli studenti, ma anche per i giovani lavoratori. È con loro, infatti, che matricole e non devono “contendersi” le stanze disponibili: milioni di persone, spesso precarie, che guadagnano troppo poco per potersi permettere un alloggio per conto loro sempre più spesso ormai vivono in condivisione. Fenomeno questo, che fa lievitare la domanda di questa tipologia di affitto nelle città più produttive del Paese. Un altro fattore che emerge dall’indagine riguarda il proprietario dell’immobile: il 14% dell’offerta presente su Immobiliare.it vede tra gli inquilini anche il padrone di casa. Fenomeno recente, quello degli affitti parziali sembra ormai una realtà consolidata nel mercato immobiliare italiano.

giovedì 28 agosto 2014

L’impero della finanza e l’eclissi della sovranità



di Mario Forgione

Il 7 agosto scorso il Presidente della BCE Mario Draghi, in un intervento ad ampio raggio su crisi economica e stabilità dell’euro, si è espresso senza veli sul futuro prossimo dei paesi con difficoltà di ordine finanziario: “Gli Stati devono cedere la loro sovranità sulle riforme strutturali.” L’intellighenzia politica italiana, con un malcelato senso di fastidio, ha intuito il riferimento all’Italia e si è subito lanciata in parziali smentite sulla necessità di sottoporre il Paese ad un processo di riforme economiche concordato con la Commissione Europea. In verità, il mese di agosto non è nuovo a simili suggerimenti da parte della BCE. Gli analisti di politica economica ricordano bene la lettera della BCE del 5 agosto 2011 indirizzata al governo Berlusconi con le indicazioni delle riforme “strutturali” per scongiurare la crisi dello spread (tasso di interesse sui titoli del debito pubblico) e della solvibilità del debito pubblico. Non si tratta di una banale coincidenza, ma di un rito che si ripete nel tempo. Nel mese di agosto, infatti, vengono elaborate le linee di politica economica da attuare in autunno, tenendo conto delle previsioni di crescita e dei dati macroeconomici provenienti dagli istituti preposti alla loro raccolta. Si tratta, nelle specie, di analisi macroeconomiche che poi determinano la legge di stabilità (approvazione del bilancio dell’esercizio precedente e dei nuovi capitoli di spesa). In realtà, negli ultimi tempi, la vaghezza del linguaggio giornalistico è un ostacolo importante per la corretta individuazione del significato da attribuire ai concetti espressi dalla dialettica politica. Una delle espressioni più abusate dall’inizio della “crisi dello spread” è quella riguardante le cosiddette “riforme strutturali,” che gli organi dell’UE considerano prioritarie per togliere l’Italia dalla pericolosa oscillazione tra stagnazione e recessione economica. In realtà, l’opinione pubblica è ignara del contenuto delle riforme strutturali invocate dalla UE al punto da costringere l’Italia a cedere la propria sovranità per imporle con un vero e proprio atto di imperio. Anche la classe politica si trincera nel vago e preferisce rendere evanescente l’espressione per evitare di pagare un costo elettorale. Le riforme strutturali sono di natura essenzialmente economica e mirano alla destrutturazione della politica sociale e dell’intervento pubblico in economia. Sostanzialmente, la lettera del 5 agosto del 2011 si articola in due punti essenziali: a) Necessità di una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala; b) Riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale, permettendo accordi al livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. Le indicazioni sono chiare: la strada da seguire è quella del liberismo integrale e della eliminazione di qualsivoglia forma di intervento pubblico in economia. La lettera della BCE del 5 agosto 2011, se letta nella giusta prospettiva e non semplicemente come frutto di un contesto particolare, rappresenta l’inizio di una prassi e di una modalità di azione da parte degli organismi di vertice dell’UE tesa a elidere ogni forma di controllo democratico sull’entità delle misure economiche da adottare per evitare la deflagrazione dell’unione monetaria. Del resto, lo stesso Giulio Tremonti, Ministro dell’economia e delle finanze dell’ultimo governo Berlusconi, in una intervista a il Giornale del 30/7/2013, si è espresso in maniera chiara sul contenuto della lettera: “Pensare che una lettera di quel tipo restasse segreta rivela una distorta cultura democratica. Se davvero hai la mentalità degli arcana imperii devi almeno evitare che si sappia in giro che c’è una lettera senza precedenti nei rapporti europei. Una volta che l’hai fatto sapere, pensare che il testo resti segreto era per lo meno puerile. Specie per come era stata scritta, chiedendo che le azioni dettagliate ed elencate fossero prese alla lettera, “per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro settembre 2011. Molto democratico!”

Giulio Tremonti riprende le stesse argomentazioni nel libro pubblicato nel gennaio del 2012, Uscita di sicurezza.[1] Questo, in sintesi, il pensiero di Tremonti sull’operato della BCE: “ La BCE ha pensato e agito come se la stabilità dell’euro, questa la sua essenziale missione, dipendesse solo dal livello dell’inflazione o solo dai deficit/debiti pubblici, e non anche dalle criticità proprie delle finanza privata, su cui in realtà non si è sufficientemente vigilato, né a livello nazionale né a livello centrale, e soprattutto a livello macroeconomico. In specie gli enti creditizi e la finanza privata, con le loro degenerazioni, sono stati totalmente ignorati, non osservati, non vigilati; la loro massa non è apparsa sugli schermi della BCE. Non è apparsa, si ripete, nemmeno a quel livello macroeconomico che pure era ed è di sua competenza. Un drammatico difetto di visione. Probabilmente è stato così perché la finanza privata era allora generalmente considerata incapace di sbagliare.”

Gli eccessi della speculazione finanziaria e dell’investimento in finanza strutturata degli enti creditizi non sono stati corretti, ma salvaguardati e garantiti dai bilanci pubblici. Il paradosso è quello di permettere alla politica di intervenire a tutela dei bilanci delle banche, ma di impedire alla stessa di correggere le storture del sistema e garantire il livello minimo dei servizi sociali. Dietro le indicazioni della BCE, quindi, esiste una precisa volontà politica: quella di togliere tutti i residui spazi di sovranità popolare. La BCE non si limita più alle “raccomandazioni” o alle direttive tecniche, ma impone addirittura il metodo e detta i tempi delle riforme. Nel gergo degli esperti di diritto pubblico questa prassi prende il nome di “stato di eccezione”, sospensione del normale processo legislativo per esigenze di tenuta del sistema. In verità, la criticità di un simile operato da parte di un organo tecnico e non elettivo come quello della BCE si pone in netto contrasto non solo con il Trattato sul funzionamento dell’UE, ma con la stessa Costituzione italiana. Infatti, l’articolo 127 del TFUE impone alla BCE di mantenere la stabilità dei prezzi (controllo dell’inflazione), ma non di individuare le linee guida di politica economica che gli Stati membri della UE devono adottare. Ancora, l’articolo 11 della Costituzione Italiana permette le cessioni di sovranità, ma al solo scopo di garantire la pace tra le Nazioni. In questo senso, se la partecipazione ad un organismo sovranazionale come l’UE mette a rischio il livello della prestazioni sociali essenziali, la stessa idea di sovranità popolare di cui all’articolo 1 della Costituzione si eclissa in una evidente deriva tecnocratica.

L’epoca attuale segna l’eclissi definitiva della sovranità, della necessità che i pubblici poteri siano in accordo con la volontà e le esigenze del popolo. Alain De Benoist, in un testo pubblicato nella primavera del 2014, parla di “Fine della Sovranità”[2] e articola una sorta di scansione temporale per individuare le diverse tappe che hanno portato alla scomparsa di qualsivoglia forma di raccordo tra azione politica e volontà popolare. Secondo De Benoist, infatti, la “fine del mondo non è avvenuta in un giorno preciso, ma si è spalmata su più decenni.” Il processo di estensione della logica mercantilistica su scala globale ha portato l’organismo sociale ad una sorta di sclerosi che ne sta comportando la totale disintegrazione. Si assiste, nella specie, ad una forma di estrema precarizzazione dell’esistenza, una vera e propria modernità liquida per citare Zygmunt Bauman.[3] In tal senso, Diego Fusaro ha precisato che “il precariato non è soltanto una forma lavorativa, peraltro la più meschina dell’intera storia dell’umanità, in quanto si regge sul duplice nesso di un asservimento che non si vede e di un esproprio forzato della progettabilità dell’avvenire: esso è, piuttosto, la cifra complessiva del nostro tempo storico, in cui vulnerabilità, precarietà e insicurezza regnano ovunque incontrastate.”[4]

Il carattere peculiare dell’attuale crisi economica deve essere individuato nella “completa emancipazione della finanza di mercato rispetto all’economia reale e dall’indebitamento generalizzato.”[5] Del resto, per avere un’idea chiara del fenomeno descritto sopra basta tradurre in cifre i concetti esposti: nel 2011 il valore dei derivati ha raggiunto l’ astronomica cifra di 707. 569 miliardi di dollari pari a circa 11,2 volte l’intero prodotto lordo del pianeta, che ammonta a circa 62. 911 miliardi di dollari.[6] Questo processo di totale asservimento dell’economia reale a quella finanziaria è stato coadiuvato dalla scomparsa di tutte quelle forme di regolamentazione emanate dopo la crisi del ’29 per evitare l’indebita commistione tra banche d’affari e banche commerciali. Si allude, nella specie, alla cosiddetta “deregolamentazione” dei servizi finanziari. L’abolizione, nel 1999, del Glass – Steagall Act (1933), che vietava alle Banche la commistione tra assicurazione, finanza e commercio, ha segnato l’inizio di un inesorabile processo di emancipazione della finanza dalle logiche dell’economia reale. Secondo De Benoist, “non più di mezzo secolo fa, la sovranità politica degli Stati posava su tre pilastri: sovranità economica, sovranità militare e sovranità culturale. Oggi, questi tre pilastri sono crollati. Poiché la mondializzazione ha ridefinito la frontiera tra il settore commerciale e quello non commerciale a favore del primo, gli Stati non solo non possono regolare o controllare il funzionamento dei mercati che creano e scambiano gli strumenti di credito al livello di tutto il pianeta, ma non possono neanche contenere l’ascesa esponenziale di una nuova classe transnazionale, che si afferma a scapito degli emarginati e degli esclusi.”[7] In questo senso, la mondializzazione elimina ogni spazio esterno alla lex mercatoria, in quanto l’esistenza di ogni alterità viene non solo combattuta con il ricatto delle sanzioni economiche, ma addirittura negata come possibilità logica. Il processo di emancipazione del mercato finanziario rispetto a ogni vincolo politico è iniziato con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher (1979) e Ronald Regan (1981) e ha raggiunto il suo acme con la dissoluzione dell’URSS (dicembre 1991). La dissoluzione dell’URSS, infatti, non ha avuto solo riflessi geopolitici, ma ha eliminato quell’alterità necessaria al sistema liberal – capitalistico. Solo la saldatura e la cooperazione tra i Paesi BRICS e l’America Latina può offrire un diverso modello di sviluppo economico e sociale rispetto a quello del capitalismo assoluto. L’esproprio di sovranità a favore dei mercati finanziari è stato ancora più radicale nell’Unione Europea, in quanto il TFUE vieta alla BCE di comprare sul mercato primario i titoli pubblici degli stati membri e obbliga questi ultimi a finanziare la propria spesa con i tassi decisi dai “mercati.” Si tratta, nella specie, di una dinamica pericolosa perché espone gli Stati al ricatto degli istituti finanziari e all’eclissi della sovranità politica ed economica. Nessuna riforma, nessun intervento di politica economica può essere attuato se non trova il “gradimento dei mercati” e delle agenzie di rating (specializzate in analisi sulla solvibilità dei organismi debitori). Lo spread, il cosiddetto differenziale tra i titoli pubblici dei paesi UE, non è altro che un termometro per misurare il livello di favore di cui godono gli Stati nell’ambito dei mercati finanziari. Inoltre, le singole banche nazionali possono finanziarsi dalla BCE ad un tesso pari all’1.5% e compare titoli pubblici che rendono fino al 4%. In questo modo, precisa De Benoist, “il debito entra così in una situazione di crescita esponenziale, per la semplice ragione che tutto il denaro messo in circolazione proviene da prestiti bancari e il contraente il prestito deve sempre rimborsare più dell’importo ricevuto. Una spirale infernale.”[8] Le soluzioni adottate dall’UE per uscire dalla spirale di tagli alla spesa, recessione e conseguente aumento del debito pubblico hanno reso ancora più radicale il processo di esproprio della sovranità politica degli Stati.

Nel marzo del 2012, gli Stati dell’UE hanno istituito il MES (Meccanismo europeo di stabilità) il cui capitale deve essere portato a 700 miliardi di euro. L’articolo 9 del MES prevede che i paesi devono contribuire al fondo in proporzione al PIL. Questo significa che l’Italia dovrebbe versare circa 125,3 miliardi di euro, una somma importante per un paese che oscilla tra recessione e stagnazione economica dal 2011. Tecnicamente, il MES ha il compito di evitare le crisi di solvibilità degli Stati membri, ma nessuno degli analisti si è soffermato sul meccanismo perverso attraverso il quale dovrebbe operare questo fondo. Nella specie, le banche nazionali che ricevono prestiti dalla BCE all’1.5% possono erogare prestiti al MES ad un tasso superiore e quest’ultimo, in caso di crisi di solvibilità di uno degli Stati membri, può erogare prestiti ad un tasso ancora più alto allo Stato in difficoltà. Ergo, gli Stati si indebitano per pagare gli interessi sui prestiti concessi dagli istituti creditizi. Si tratta, quindi, di un preciso disegno di ingegneria finanziaria per eliminare ogni spazio di sovranità politica ed economica.

Un altro Trattato, noto nel gergo degli specialisti come “Fiscal Compact,” firmato dagli Stati dell’UE (ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca) nel marzo del 2012 e approvato dall’Italia nel settembre del 2012, ha assestato un ultimo colpo al concetto di sovranità popolare. I contenuti del Trattato sono chiari: limitazione del deficit allo 0,5% e debito pubblico da contenere entro il 60%. Inoltre, il Trattato prevede la riduzione automatica del debito eccedente il 60% nella misura di 1/20 all’anno. Questo significa che l’Italia, il cui debito ammonta 2.168 miliardi (135,6% sul PIL), dovrebbe ridurre il proprio debito di circa 65 miliardi all’anno. Si tratta di cifre fuori da ogni logica e destinate a frantumare gli ultimi residui di coesione sociale.

Ancora, nel giugno del 2013 i 27 membri dell’UE hanno dato ufficialmente il mandato alla Commissione europea di negoziare con gli Stati Uniti un Partenariato transatlantico del commercio e degli investimenti (TTIP). Si tratta, nella specie, di un complesso progetto per la creazione di un mercato comune tra Europa e Stati Uniti. Del resto, il progetto risale alla Presidenza Clinton del 1995 e si è arricchito di nuovi sviluppi fino al 2009, l’anno in cui Obama ha deciso di imprimere una forte accelerata alle negoziazioni. Gli obiettivi ufficiali delle cancellerie europee di quella degli Stati Uniti sono quelli di eliminare le ultime barriere commerciali (dazi doganali), ma lo scopo è quello di sottrarre agli Stati la possibilità di regolamentare il mercato dei capitali e dei servizi. Del resto, alle negoziazioni sul TTIP partecipano numerose multinazionali come la Nestlè, la Walt Disney, la IBM, Microsoft ecc. Infatti, “come al momento della costituzione del NAFTA (zona di libero scambio che lega il Canada, gli Stati Uniti e il Messico) nel 1994, l’obiettivo manifesto è, come si è visto, quello della deregolamentazione degli scambi tra i due più grandi mercati del pianeta. Il progetto mira alla soppressione totale dei diritti di dogana sui prodotti industriali e agricoli, ma soprattutto si propone di raggiungere i livelli più alti della liberalizzazione degli investimenti.”[9] L’UE e gli Stati Uniti, quindi, dovrebbero far convergere le loro legislazioni in tutti i settori della produzione di beni e servizi. Questo significa che l’Unione Europea deve prendere come modello la legislazione di una Nazione che si pone fuori dal diritto internazionale per quanto riguarda l’ecologia, il lavoro, la protezione sociale e la sicurezza alimentare (si pensi alla complessa tematica degli OGM). Inoltre, il progetto di Partenariato prevede che gli Stati che non si adeguano alle norme del TTIP possono essere chiamati a rispondere delle loro violazioni dinanzi a tribunali arbitrali internazionali istituiti al preciso scopo di rendere vincolante ogni determinazione del Trattato. Le multinazionali potrebbero ottenere risarcimenti illimitati qualora la legislazione degli Stati non dovesse evolvere in senso liberista. Siamo all’ultima tappa di un complesso processo di eclissi della sovranità: siamo oltre il pensiero di Friedman e Hayek. Lo scopo del neoliberismo non è la riduzione dei compiti dello Stato, ma la totale subordinazione di ogni determinazione politica alle direttive del mercato. La necessità del tempo attuale impone l’emergere di una nuova “massa critica”, di una nuovo approccio dialettico alle questioni nazionali e internazionali. Isolare le questioni interne da quelle internazionali è puerile e pericoloso. La nuova dinamica del capitalismo globale impone di ripensare la politica e con essa la prassi. Prima che sia troppo tardi e l’eclissi della sovranità completa.


[1] Giulio Tremonti, Uscita di Sicurezza, p. 90, Rizzoli,2012.

[2] Alain De Benoist, La fine della sovranità, Arianna Editrice, 2014.

[3] Zygmunt Bauman, Vita Liquida, Laterza Editori, 2006.

[4] Diego Fusaro, Minima Mercatalia, p. 405 Bompiani, 2012.

[5] Alain De Benoist, op. cit., p. 21.

[6] Dati raccolti dalla Banca dei regolamenti internazionali.

[7] Alain De Benoist, op. cit., pp. 31 e 32.

[8] Alain De Benoist, op. cit., 45.

[9] Alain De Benoist, op. cit., pp. 83 e 84.

mercoledì 27 agosto 2014

Mont-Saint-Michel, il segno del tempo e la logica culturale del tardo capitalismo



di Marcello Rossi (L'Intellettuale Dissidente)


Mont-Saint-Michel, con la notevole architettura della sua abbazia e l’incredibile vista che offre l’isolotto tidale sul quale sorge, è il sito turistico più frequentato dell’intera Normandia e uno tra i primi in Francia, con una media di 3.200.000 visitatori che ogni anno si mettono in fila per ammirare la sua imponenza. A partire dal 1979 poi, il complesso è parte integrante dei Patrimoni mondiali dell’umanità dell’UNESCO.

Dal 2009 l’icona della Normandia e dell’intera Francia, nota ai più anche come “La meraviglia dell’occidente”, è oggetto di un’operazione destinata a restituire il caractère maritime all’isola che sempre più di rado riusciva ad essere tale, che ha scatenato le polemiche di tour operator di tutto il mondo, specialmente quelli del Sol Levante. Nel Luglio di quest’anno, le autorità hanno inaugurato in pompa magna il nuovo ponte d’accesso ciclopedonale, che secondo le stime dovrebbe essere portato a compimento entro la fine del 2015. Parallelamente alla logistica di accesso, grazie a fondi governativi, sono stati avviati anche lavori di restauro del secolare santuario dedicato a San Michele Arcangelo. Al di là delle accese polemiche che continuano ad inseguirsi tra operatori che sostengono che la distanza da coprire a piedi sia eccessiva in relazione all’età media dei visitatori e medievali dispute tra agenzie e il sindaco di Mont Saint Michel, Eric Vannier, che governa appena 41 concittadini, ma a sua volta possiede una ventina di esercizi a vocazione turistica nell’area; ciò che rischia di essere completamente cancellato dalla discussione è il significato storico di quel minuscolo isolotto.

Da secoli al centro di una disputa territoriale tra Bretagna e Normandia, l’insediamento ha altresì una forte connotazione identitaria: durante la guerra dei cent’anni (che in realtà furono 116), grazie anche all’ausilio di una nuova cinta muraria che circondò la cittadina sottostante, Mont Saint-Michel non cedette mai ai ripetuti attacchi via mare e via terra del Regno d’Inghilterra. Ma la sua storia risale a prima dell’anno 1000, quando i Celti utilizzavano le rocce della foresta di Scissy per i culti druidici. Da quel momento si sono alternate una serie di ere, da quella romanica a quella cristiana, da quella benedettina a quella rivoluzionaria, che hanno donato a Mont Saint-Michel il suo carattere proteiforme, in fieri, capace di contenere al suo interno i segni del tempo, della Storia. L’esempio più fulgido è di certo l’abbazia: edificata a partire dal X secolo, è un affascinante coacervo di parti giustapposte che si sono sovrapposte le une alle altre negli stili che vanno dal carolingio al romanico al gotico flamboyant, per arrivare fino ai giorni nostri.

Se è vero che ogni epoca hai le sue coordinate, quello con la (post)modernità è senza ombra di dubbio l’incrocio più dannoso e distruttivo che il monte abbia mai conosciuto. Ma è anche l’unico possibile, quello del consumismo. La Modernità, concetto ripreso più volte da Zygmunt Bauman all’interno della propria riflessione, ha invaso uno dei luoghi più suggestivi dell’intero pianeta nella dimensione onnivora della forma-merce. E non si tratta dello sfruttamento ininterrotto legato alle installazioni luminose e ai concerti di arpa visibili e udibili solo di sera, quanto piuttosto a tutto il corollario che ne fa da sfondo, con tanto di trappole per turisti orientali, la superpotenza made in france La Mère Poulard che ha letteralmente colonizzato la parte bassa del villaggio e imbonitori stile cinema degli esordi che esortano alla visita di sedicenti musei tridimensionali. Ciò non si discosta molto da quanto è avvenuto e avviene a Venezia o a Roma, riaccendendo un mai domo dibattito: che diritto abbiamo noi, di fare tutto ciò? Cosa ci spinge a non avere il benché minimo rispetto di quello che c’è stato prima di noi? Quello che è fondamentale capire di questa nuova trasformazione è la capacità meccanica del nostro presente di plasmare le forme elementari della percezione umana, di invadere, in poche parole, il dominio dell’estetica. Quindi, di elaborare, produrre ed esprimere cultura. Della presenza, per quanto residuale, di un universo ancora pre-moderno cancellano la percezione, le tracce; e soprattutto la possibilità del ricordo. Casette secolari sono così libere di diventare gelaterie o strutture ricettive a quattro stelle, con buona pace di tutti noi. Mont-Saint-Michel è la dimostrazione lampante di come lo sviluppo dell’industria culturale abbia colonizzato l’immaginazione, manipolando il desiderio ed estetizzandone le pulsioni. Anche in questo, la merveille de l’Occident è unica al mondo: la sua struttura, infatti, con le sue reminiscenze di vario tipo, riflette fisicamente il contrasto netto tra vecchio e nuovo ordine, con un netto sbilanciamento in favore del secondo.

martedì 26 agosto 2014

Esteri. Putin beffa gli Usa e chiude i Mac Donald



di Francesco Filipazzi (Barbadillo)

L’embargo contro la Russia, dovuto alla situazione in Ucraina, si annuncia dannoso per tutta l’Unione Europea, e rischia di trasformarsi in un boomerang anche per l’economia statunitense. E’ notizia di qualche giorno fa che in Russia sono scattati i controlli igienici nei confronti dei Mac Donald’s, a seguito dei quali ne sono stati chiusi quattro nella città di Mosca, fra cui il primo costruito in Russia, nel 1990. La motivazione della chiusura è, a quanto dicono le autorità moscovite, la violazione di varie norme igieniche, ma è abbastanza evidente che siamo di fronte ai primi segnali di contro embargo da parte russa.

Alla Duma è allo studio, proprio in questi giorni, una proposta di tassazione maggiorata nei confronti dei fast food, i cui proventi sarebbero poi destinati al risanamento della popolazione. Le catene più colpite da un provvedimento del genere sarebbero, guarda caso, Mac Donald’s, Burger King, Starbucks e altre catene statunitensi, molto visitate e capaci di fatturati giornalieri a diversi zeri.

A venire colpite dall’embargo potrebbero essere anche aziende di altri settori. Negli eventi ufficiali sarà probabilmente vietato il consumo di bevande straniere e i funzionari pubblici rischiano di non poter più usare i prodotti Apple.

Nel frattempo il contro embargo agro alimentare è già in atto, danneggiando i paesi europei produttori di frutta e verdura, come l’Italia, ma anche aziende che hanno investito in Russia molte energie, come la Carlsberg, che paventa una restrizione del proprio mercato russo fino al 10% e, in virtù di questa previsione, una crisi del proprio titolo in borsa. Colpite anche E.On, Henkel e moltissime aziende finlandesi in ogni settore. La Germania sta già subendo una contrazione del mercato automobilistico mentre risultano ferme molte navi nei porti danesi.

Dal canto suo Putin sta stringendo accordi commerciali con i paesi non allineati ai dettami di Whashington, sia asiatici che europei, compensando esportazioni e importazioni. Comprerà agroalimentare dalla Bielorussia, venderà il gas alla Cina e aprirà nuovi mercati probabilmente con il Sud America.

Nel frattempo l’Europa conta i danni, vittima di una guerra economica fra USA e Russia, che non le appartiene, ma dalla quale rischia di uscire piuttosto malconcia.

lunedì 25 agosto 2014

La ricetta anti-crisi è trovare il coraggio della decrescita

di Massimo Fini

Secondo l’Istat a luglio i prezzi al consumo sono aumentati solo dello 0,1% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. Ancora più significativi sono i dati del ‘carrello della spesa’: frutta e verdura costano il 10% in meno, sempre rispetto al 2013 e i prodotti per la cura delle persone e della casa registrano un -0,6%. L’inflazione è sotto l’1%. “Siamo legati agli oggetti, non buttiamo via mai niente” dice il sociologo dei consumi Italo Piccoli e l’economista Fausto Panunzi aggiunge: “Si è portati a risparmiare quasi compulsivamente, a comprare solo lo stretto necessario”.

Sembrerebbero tutte notizie positive. Se l’inflazione è all’1% vuol dire che i 100 euro che ho in tasca ne valgono 99, se l’inflazione è al 20% i miei 100 euro ne valgono ottanta così come il mio stipendio reale è il 20% in meno di quello nominale. E vorrei vedere il consumatore che si lamenta perché paga le pesche il 10% in meno. Non buttare via i frigoriferi che rendono ancora decentemente il loro servizio o non farsi attrarre, in questo caso sì ‘compulsivamente’, da ogni sciocchezza che offre il mercato, vivere del necessario invece che del superfluo fa bene al nostro equilibrio psicologico ed è un risparmio oltre che economico anche ecologico perché evitiamo di ammonticchiare rifiuti che poi non sappiamo come smaltire.

E invece in termini macroeconomici tutti questi dati sono negativi. Dove sta il marcio? Nella crescita. Un modello economico basato sulla crescita quando non riesce o non può più crescere collassa (che non è la situazione solo dell’Italia ma di tutti i paesi che sono dentro questo modello, compresi anche quelli che in questo momento viaggiano col vento in poppa perché anche loro prima o poi si troveranno davanti al limite, dato che le crescite all’infinito esistono in matematica ma non in natura). E il collasso è piuttosto rapido. E’ come la cassetta di un film che arrivata alla fine si riavvolge in pochi secondi. Se i cittadini consumano poco le imprese saranno costrette a ridurre la produzione e a liberarsi di molti lavoratori i quali, in cassa integrazione o disoccupati, consumeranno ancora meno, le imprese produrranno meno e manderanno a casa altri lavoratori in un circolo vizioso vorticoso. In un sistema come questo gli uomini sono costretti a consumare per produrre invece di produrre per consumare.

Tutto ciò in nome della macroeconomia e del Pil, cioè della ricchezza complessiva di un Paese. Ma la ricchezza di un Paese ha poco o nulla a che fare con la ricchezza dei suoi abitanti. La Nigeria è il paese più ricco dell’Africa ma ha il più alto numero di poveri dell’ex Continente nero. E’ la ricchezza che crea la povertà come si accorse Alexis De Tocqueville che nel suo saggio ‘Il pauperismo’ del 1835 notava, con stupore, che i Paesi rimasti fuori dalla Rivoluzione industriale avevano il minor numero di poveri.

C’è una soluzione a questo busillis infernale? Bisognerebbe avere il coraggio di decrescere, di diminuire la produzione, il lavoro, la ricchezza complessiva e di portarsi a un livello di equilibrio dove non si avanza più ma nemmeno si retrocede, redistribuendo la minor ricchezza rimasta in modo più equo. Ma ci vorrebbe un’intelligenza, una visione del futuro che le élites politiche mondiali, ansiose solo di consenso qui e ora, non possono avere.

domenica 24 agosto 2014

Delusione Ice Bucket Challenge, l'iniziativa benefica ha raccolto "solo" 33mila euro


tratto da Libero

Se lo spettacolo è assicurato, lo è meno il risultato: l'Ice Bucket Challenge rischia di rivelarsi una delusione quanto a raccolta reale di fondi. L'iniziativa benefica per sensibilizzare il pianeta al problema della sclerosi laterale amiotrofica in Italia ha racconto solamente 33mila euro.

Donazioni - A furia di rovesciarsi secchi d'acqua ghiacciata i vip italiani si son scordati il motivo principale dell'iniziativa, donare denaro. Massimo Mauro, ex calciatore, e presidente dell'Aisla (Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica) non nasconde la delusione: "E' straordinario che si parli di SLa, una malattia che è abituata a rimanere nell'ombra ma nell'80% dei casi - spiega al Fatto Quotidiano - , le donazioni sono arrivate da persone comuni, solo qualche cantante si è spinto fino a 500 massimo 700 euro, ma non voglio fare nomi".

Il governo - Nei giorni scorsi il ministro Lorenzin è stata la prima del governo a "gavettonarsi" per beneficenza, mentre ieri sera, 22 agosto, è stata la volta del premier Matteo Renzi. Mauro però è estremamente critico proprio con le istituzioni. I nostri vip e politici infatti non lesinerebbero a un pò di autopromozione social, ma sarebbero più cauti quando si tratta di aprire realmente il portafoglio "per i governi la Sla non esiste. Zero euro all'anno per la ricerca. Altro che secchiate d'acqua. Ora serve un impegno concreto."

giovedì 21 agosto 2014

Il culto della sincerità non ci libera dall'errore

di Marcello Veneziani

C'è una virtù che oggi sarebbe trionfante. Dico la sincerità. Da quando furono abbattute le barriere architettoniche che la ostacolavano - vale a dire il timore reverenziale, il rispetto, l'autorità, il decoro, il galateo, la paura della punizione - la sincerità si presenta nuda, sfacciata, a briglia sciolta, nei mille rivoli dei media.

Via i tabù, vai con l'outing. Viviamo dunque nell'età della sincerità?

Per cominciare, la sincerità è una virtù socialmente pericolosa e difficilmente compatibile con l'amicizia, l'affetto e la simpatia, anche se poco sinceramente si sostiene il contrario. La sincerità è una signorina stimata ma poco amata. Nubile, non sopporta mariti e conviventi. A volte è irritabile, più spesso è irritante. Nell'immaginario sociale, la sincerità è una virtù puerile come lo è la bugia, il cui metro vistoso è il naso di Pinocchio che s'allunga. La sincerità più della bugìa ha le gambe corte, perché non va lontano, tronca molte relazioni. Alla sincerità come «virtù crudele» dedica da anni i suoi studi Andrea Tagliapietra (l'ultimo suo saggio è Sincerità , ed. Cortina). La sincerità è un modo di dire ma non implica un conseguente modo di agire. Il sincero può persistere in tutti i suoi errori, vizi, bassezze; si limita a dichiararli. Chi è sincero può non essere onesto, e chi è onesto può non essere sincero. Se confesso di aver rubato sono sincero ma non smetto di essere ladro. Viceversa posso dire una bugia a fin di bene, dunque onesta. Ma soprattutto non c'è nessun automatismo tra la sincerità e la verità. Il sincero non dice la verità ma dice quel che pensa o, peggio, quel che sente. Il sincero dice tutto ma non sempre pensa quel che dice. La sincerità è soggettiva mentre la verità implica lo sforzo a uscire dalla propria soggettività per avvicinarsi alla realtà obiettiva. La sincerità può autoingannarsi: costruisce castelli d'illusioni e va ad abitarci. Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire indica un sincero aprirsi, esponendo le passioni, i tormenti, le speranze; ma la verità è un'altra cosa. Senza dire del sofisma cretese: se dico «sto mentendo» sono sincero o no? Quesito insolubile perché si autosmentisce in ambo i casi.

La sincerità è spesso confusa con la spontaneità: niente freni, niente veli, dico tutto quel che mi passa per la testa. La spontaneità è im-mediata, non tollera la mediazione riflessiva; è diretta, selvatica, primitiva. La spontaneità non è una virtù, è solo la liberazione di un impulso, è uno sfogo, quasi un'incontinenza. La brutale franchezza spesso produce nel nome di un piccolo bene, la sincerità, gravi danni al prossimo e ai rapporti umani. Ferisce l'altrui sensibilità, non si cura dei suoi effetti, danneggia i legami sociali. Dal '68 in poi si è identificata la sincerità con la spontaneità. Come la verità è rivoluzionaria sul piano politico, così sul piano interpersonale la sincerità è stata considerata libertaria, liberatrice e dissacrante. In fondo, franco sta sia per sincero che per libero. Da questa pseudo-sincerità sono nati due frutti, uno per affinità, l'altro per contrasto. Da una parte è sorto il coming out, detto in breve outing. Tutto ciò che era coperto dall'inibizione diventa oggetto di esibizione. Il pudore per l'intimità cede al narcisismo, con sfacciata sincerità. Dall'altra parte, il risultato paradossale della guerra all'ipocrisia «borghese» è la nascita d'un nuovo codice dell'ipocrisia, il politically correct: l'uomo di colore, il rom, il non vedente, il diversamente abile, il personale ausiliario, l'operatore ecologico; il frasario dell'ipocrisia. La sincerità delle origini si è capovolta in uno stucchevole rococò della falsità. Torna in altre vesti la massima: la parola è data all'uomo per nascondere il pensiero (e la realtà). Una parodia delle ipocrisie rivoluzionarie la fece già Niccolò Tommaseo nel Vocabolario filosofico-democratico del 1799.

La civiltà è il contrario della sincerità intesa come spontaneità. Ciò vale sia nell'ambito del costume e dei comportamenti che sul piano del pensiero e della fede. Nel primo caso, l'etica si accorda all'estetica e la sincerità non deve ferire lo stile e il buon gusto; nasce il galateo, la civiltà delle buone maniere, che velano la sincerità; le tende di pizzo del pudore. Ma anche in ambito teologico e filosofico la verità si è servita della menzogna quanto e più della sincerità. La pia fraus cristiana e le sante omissioni, le salutari menzogne di Platone, la doppia verità di Averroè, il bello mentire di Campanella, la dissimulazione onesta di Torquato Accetto, praticata anche da rigorosi moralisti come Seneca, le menzogne necessarie di Nietzsche (il velo d'Apollo che veste di bello l'orrore della verità e copre la tragedia del divenire). E in letteratura la menzogna troneggia. Gli uomini, diceva Tristan Bernard, sono sempre sinceri ma cambiano spesso sincerità. La realtà ha molte facce e noi possiamo essere sinceri rispetto a una e insinceri rispetto a un'altra. Possiamo dire la verità, ma non tutta la verità. Qui si tocca una questione cruciale che va oltre la sincerità e investe la verità, che ama nascondersi, si confonde col mistero e può essere colta per allusioni, bagliori e frammenti. È la poligonia del vero, di cui parlava Gioberti nella Teoria del sovrannaturale ; la verità ha vari lati, non uno solo. Nessuno ha la verità in tasca, semmai noi siamo dentro la verità, ne cogliamo uno spicchio; ma ciò non impedisce che ci siano altri spicchi di verità che non vediamo, non vogliamo o non sappiamo vedere. Non è relativismo, che sottende la riduzione della verità ai punti di vista, alle interpretazioni soggettive; ma la verità ha più lati, ossia la verità è più grande di noi, ci trascende, noi possiamo aspirare a essere nella verità, ma non ad avere la verità in pugno. Questo salva la verità dal monopolio dispotico e dalla negazione nichilista.

Insomma la sincerità è una virtù interiore ma non sempre è una virtù pubblica. Spesso ferisce, nuoce, spezza i legami; non implica coerenza tra il dire e il fare. Non s'identifica con la spontaneità ma assume valore se è consapevole e riflessiva. La sincerità è poi soggettiva e dunque non coincide con la verità. È solo un lato del vero. Resta un pregio, una virtù vera, se indica l'aprirsi agli altri senza secondi fini subdoli. E se sa fermarsi davanti alla soglia del rispetto altrui, della carità, della prudenza e della pazienza. Come ogni virtù, la sincerità si fa tiranna se è unica e assoluta, sciolta da ogni vincolo e da ogni altra virtù. La sincerità non è la virtù regina, ha valore se non violenta altre virtù. Al poligono della verità corrisponde il politeismo delle virtù: le virtù si temperano a vicenda. Senza freni la sincerità è una virtù che sconfina nella malvagità.

martedì 19 agosto 2014

I conti e le tasse di Renzi


di Giuliano Augusto (Rinascita)

Malinconico autunno. Non sarà caldo quello che si annuncia perché i sindacati si sono così sputtanati con i propri iscritti, dopo aver ceduto a tutte le pretese della Confindustria, che non si capisce davvero come ci possa essere qualcuno, così disabituato ormai alla lotta, da essere disposto a scendere in piazza per scioperare e per perdere una parte sia pure risicata di uno stipendio sempre più misero. A questo ci ha ridotto la deriva di una (pseudo) sinistra, rappresentata (ahi noi!) dal PD, il partito delle banche, che ha perso la faccia dopo aver cercato in tutti i modi di scavalcare a destra lo stesso centrodestra. Lo scenario, in ogni dove, è quello che vede il trionfo della canaglia liberista e dell'Alta Finanza, tra fine della Storia, fine della Politica e scontro delle civiltà. Povera Europa e povera Italia che ti dissolvi ai quattro venti del tuo disastro..tanto per citare Drieu. Un lavoro sempre più precario, un lavoro pagato sempre meno con milioni di famiglie sprofondate nella povertà. Non ci saranno manovre aggiuntive, ha garantito Renzi. Sarà il governo a decidere cosa fare e cosa non fare. Non ci faremo dettare i compiti a casa dalla Bce di Draghi, dalla Commissione europea e men che meno dalla culona tedesca. Pitti Bimbo non ha usato questo termine, il copyright appartiene al Berlusca, ma il concetto è quello. In realtà è vero il contrario. Con il debito pubblico al 135% del Pil, gli spazi di manovra sono inesistenti e il destino dell'Italia è segnato. Ci vuole una manovra aggiuntiva tuonano dai Palazzi europei e dal Fondo monetario internazionale. Anche gli 80 euro in busta paga si faranno sentire e dureranno poco. Mesi fa, a Francoforte, Bruxelles e Berlino si parlava di un intervento di 24 miliardi tra tagli alla spesa e nuove tasse. Adesso i miliardi sono 40 e il duo Renzi-Padoan non sa davvero dove raccattarli. Per salvare l'Italia non serviranno nemmeno le vecchie zie. Il governo non è in grado di controllare la dinamica della spesa pubblica che infatti continua a crescere, trascinandosi dietro debito e disavanzo. E se lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi è rimasto basso, ciò non è dovuto come sostiene Renzi alla “fiducia dei mercati” nell'Italia (e in lui) ma all'intervento dell'Esm, il Fondo permanente salva Stati, che ha comprato Btp sul mercato, impedendo che il livello fosse quello fisiologico che tenga conto del livello del debito. Tanto per dire, a novembre 2011, con il debito al 120%, lo spread era a 570 punti e passa. Il che la dice lunga su quale sarebbe il nostro destino se i tanto invocati “mercati” decidessero improvvisamente il fuggi fuggi dai Btp, stabilendo che non potranno essere rimborsati alla scadenza. Il che significherebbe la bancarotta dello Stato italiano. Del resto, con la recessione in corso, sono drasticamente crollate le entrate fiscali e contributive. E con quali soldi si pagheranno gli stipendi pubblici e le pensioni? Appunto. La situazione finanziaria dello Stato è a dir poco catastrofica. E nemmeno la situazione dell'economia globale ci aiuta. Pure la Germania sta rallentando e questo non contribuisce a migliorare le prospettive delle imprese italiane che speravano nell'aumento della domanda globale ed europea per riprendersi. Ma non si può contare sempre su un salvataggio esterno. Tipo quello cinese. Soprattutto non si può pensare che gli esponenti parlamentari di una casta politica all'ultima spiaggia possano accettare di vedere tagliate spese che vanno ad arricchire non soltanto loro medesimi ma soprattutto le clientele che li hanno portati in Parlamento. Dall'Europa e da oltre Atlantico si continua a chiedere all'Italia maggiore flessibilità sul “mercato del lavoro” per incentivare ad assumere lavoratori che si potranno più facilmente licenziare. Addio articolo 18. Renzi vorrebbe invece maggiore flessibilità sulla gestione del disavanzo pubblico, sempre sopra il 3%, ma la culona tedesca continua a dire no. La Francia da parte sua è sopra il 4% ma vanta un debito pubblico che si trova ancora sotto il 100% del Pil. E Renzi non può giocare con i numeri sostenendo che anche gli altri Paesi fanno un po' i discoli. Resta la realtà di un governo che non sa dove trovare i quattrini e che, sulla spinta di Padoan che, da ex capo economista dell'Ocse si era già detto favorevole, sta pensando ad introdurre una tassa straordinaria patrimoniale per raccattare quel poco di ricchezza privata che è rimasta in giro. Dopo la quale non ci sarà altro che una rivolta diffusa nelle piazze. E non solo.

lunedì 18 agosto 2014

Hoffmann e Jünger: La natura perturbante della tecnologia


di Lorenzo Borrè

Leggendo il racconto “L’Uomo della Sabbia” di Ernst Theodor Hoffmann e il breve romanzo distopico “Le api di vetro” di Ernst Jünger, potremmo scoprire che i due autori non condividono soltanto il nome di battesimo e la nazionalità, bensì una peculiare e chiaroveggente diffidenza nei confronti della tecnologia, o perlomeno del suo potere manipolatore e disumanizzante.

Nel racconto di Hoffmann, scritto nel 1815, il giovane Nathanael è ossessionato dalla figura di un uomo misterioso, Coppelius, che fin dall’infanzia egli apparenta iconograficamente all’Uomo della Sabbia (o Mago Sabbiolino), una sorta di uomo nero delle tradizioni popolari che getta la sabbia negli occhi dei bambini, strappandoli e portandoli nel suo rifugio sulla “falce di luna” per darli da mangiare ai suoi “piccolini dai becchi ricurvi”.

Coppelius viene introdotto nel racconto in veste di vecchio avvocato amico del padre di Nathanael, per poi rivelarsi una specie di folle scienziato/alchimista nonché complice di un fabbricante di automi italiano, Lazzaro Spalanzani, che si spaccia per un innocuo professore di Fisica. Nathanael conosce la figlia di quest’ultimo, Olimpia, in realtà un automa costruito da Spalanzani con l’aiuto di Coppelius, e se ne innamora perdutamente finendo in un vortice di follia. Dopo una breve parentesi di serenità, accudito dalle amorevoli cure della fidanzata Clara e dell’amico Lothar, che rappresentano il focolare domestico e gli affetti sinceri non contaminati dall’unheimlich costituito dalle “diavolerie” della tecnica incarnate invece da Coppelius e Spalanzani, Nathanael sembrerà aver ritrovato brevemente la ragione, salvo poi risprofondare nelle antiche ossessioni – ridestate da un cannocchiale fabbricato da Coppelius – che lo condurranno al suicidio.

Lo stesso approccio alla scienza e alla tecnologia viste come “perturbanti” traspare dal breve romanzo di Ernst Jünger, “Le api di vetro” del 1957. Api di vetro, ovvero minuscoli automi intelligenti che popolano i giardini dell’industriale Zapparoni (un altro italiano) ove il protagonista Richard – reduce di guerra e di un mondo semplice fatto di tradizioni d’onore e di valori ormai perduti – è capitato in cerca di un impiego. Nei giardini di Zapparoni, arricchitosi grazie all'ideazione e costruzione di macchine tecnologicamente avanzate che dominano ormai il mondo, Richard osserva la “spaventosa simmetria”, per citare William Blake, delle api di vetro e della loro fisiologia ipertecnologica che, lungi dal migliorare o perfezionare la natura (imperfettibile in sé come fa notare Jünger in molte sue opere, ricordandoci che più la tecnologia progredisce più l’umanità subisce un’involuzione e viceversa), la impoveriscono, devastandola in ultima analisi – i fiori toccati dalle “api di vetro” sono infatti destinati a perire poiché deprivati dell’impollinazione incrociata..

Seppur concepite in due epoche diverse, Olimpia e le api di vetro rappresentano l’elemento perturbante di un mondo ossessionato dalla scienza, e in corsa dissennata verso un futuro ultratecnologico in cui uomini e macchine divengono intercambiabili sempre più a discapito dei primi. In cui la poesia dell’ideale romantico e dell’amore sincero, come quello di Nathanael per Clara, viene guastato dall’ossessione per la fredda e innaturale Olimpia, meccanismo perfetto ma inumano come quello degli “automi di Neuchatel” che devono aver ispirato Hoffmann per la sua protagonista. In cui uomini e animali vengono via via sostituiti distopicamente dalle macchine e dagli automi, e dove la stessa nascita, lo stesso atto d’amore che porta al concepimento dell’essere umano viene sostituito da un alambicco, da una provetta, da una miscela in laboratorio, in una sorta di “catena di montaggio” della riproduzione, di “fordismo” applicato alle nascite come nel “brave new world” di Aldous Huxley, “eccellente mondo nuovo” in cui sia Olimpia sia le api di vetro sarebbero cittadini onorari e abitanti privilegiati.

Altra peculiare affinità fra le due opere è quella data dalla ricorrenza dell’elemento degli “occhi” e del “vetro”. Nel racconto di Hoffmann, troviamo per esempio il leitmotiv dei cannocchiali (“occhi” fatti di vetro come le api) costruiti dal solito Coppelius nelle vesti dell’italiano Coppola. Cannocchiali che ci riportano immediatamente a Galileo Galilei, sommo esponente dell’ambizione scientifica dell’uomo, ambizione che nel racconto di Hoffmann è tuttavia distorta dagli ambigui scopi di Coppelius, intenzionato a deprivare Nathanael degli occhi, per renderlo un cieco automa come la stessa Olimpia. Paradossalmente, anziché donargli una visione amplificata della realtà rendendolo più “lungimirante”, il cannocchiale che Nathanael acquista da Coppelius lo fa sprofondare in una follia primordiale che non riconosce affetti, amore, amicizia, né tantomeno connotati umani, portandolo infine all’annullamento di sé, ovvero al suicidio.

Come lo stesso Richard protagonista de “Le api di vetro”, Nathanael perde a poco a poco la propria umanità e l’attaccamento alle proprie tradizioni e ai propri valori, travolto dalla tecnologia malvagia di due esseri votati alla creazione di marionette e pagliacci destinati a divertire le folle, fenomeni da baraccone come Olimpia, o come gli automi di Zapparoni finiti a sostituire gli attori in carne e ossa nei film, quali li descrive Jünger nel suo romanzo.

Per tornare al tema degli occhi, il protagonista de “Le api di vetro” capirà a poco a poco che, per l’incarico che intende assumere, occorrono occhi disumanizzati, asettici, (occhi di vetro?) che devono vedere senza guardare, senza discernere, così da passar sopra alle atrocità perpetrate nel giardino (e nella società) degli orrori tecnologici di Zapparoni. Per poter sopravvivere nel mondo ipertecnicizzato e inumano insediatosi grazie alla perdita dei valori e della tradizione, Richard si renderà dunque conto che è necessario lasciarsi cavare metaforicamente gli occhi dall’Uomo della Sabbia rappresentato dall’ambizione e della protervia dell’uomo.

Con le derive della tecnologia, con il sacrificio dell’etica sull’altare della Hýbris, con la corsa dissennata a voler piegare la natura al nostro volere, sembrano quindi preconizzarci Hoffmann e Jünger, l’essere umano diventa simulacro di se stesso, automa (fintamente) perfetto, “ape di vetro” senz’anima, senza cuore, senza sesso. Transgender e ultragender costruito in serie come una marionetta, al punto che – nella nostra realtà più vicina – i genitori risultano tanto spersonalizzati da abdicare perfino al nome di padre e di madre per diventare “genitore 1” e “genitore 2”, espressioni che tanto piacerebbero all’ambiguo Zapparoni – che deve il suo successo al tramonto dell’etica e della tradizione – ma anche all’infido Coppelius, sorta di “tormento del capofamiglia” kafkiano, non meno inquietante del “rocchetto di filo” Odradek, protagonista del celebre racconto dello scrittore praghese. Ma soprattutto al mostruoso Uomo della Sabbia che, dal suo antro nella “falce di Luna”, non potrebbe che compiacersi oltremodo della nostra cieca ambizione, che ci impedisce di vedere la realtà distopica nella quale, superbi e protervi, ci stiamo gettando a capofitto inseguendo le derive della tecnologia e dell’ingegneria genetica.

La Hýbris demiurgica della tecnica rappresentata da Coppelius e Zapparoni, ovvero l’aspirazione a replicare la potenza creatrice divina, racchiude necessariamente l’annullamento di sé e dell’umanità, per questo il Nathanael di Hoffmann non può che suicidarsi e il Richard di Jünger tradire i propri princìpi per assoggettarsi al nuovo status quo e al nuovo regime di spersonalizzazione dell’uomo.

Privi degli occhi dell’etica, dei valori e del sacro rispetto della natura, accecati dalla nostra arroganza, siamo solo bambini sprovveduti destinati a diventare cibo della progenie di occulti “uomini della sabbia” o schiavi di scaltri e spietati “Zapparoni”.

domenica 17 agosto 2014

La provocazione. Chiudiamo le scuole con Robin Williams e Giovanni Papini


di Francesco Filipazzi (Barbadillo)


Robin Williams non era un attore banale, così come non lo sono i suoi film e i concetti espressi nelle pellicole che hanno avuto un autentico successo mondiale. Fra tutti i ruoli interpretati da questo attore, uno dei più significativi è quello del professor John Keating, in L’Attimo Fuggente(titolo originale Dead Poets Society), in cui, consapevolmente o meno, viene presentata una ribellione al sistema scolastico ordinario, tipico dell’era moderna, che impone ai ragazzi ore e ore di studi nozionistici, che precludono qualsiasi possibilità di espressione creativa.Una guerra, dice il professore, per riscattare i cuori e le anime dei suoi studenti, per far scoprire loro la bellezza della poesia e dell’arte, che non possono essere studiate a scuola con sistemi tecnicisti. Lo studente a scuola non è portato a riflettere, ma ad acquisire informazioni in modo passivo. Per questo l’invito forse più importante di tutto il film è quello a non “affogare nella pigrizia mentale”.


Il concetto di libertà intellettuale espresso da Keating è molto forte e sembra quasi un’interpretazione delle idee espresse da Giovanni Papini in “Chiudiamo le scuole”, edito nel 1918. Lo scritto demolisce il sistema scolastico, inutile e dannoso. Un modello scolastico frutto di un sistema che plasma le menti a sua immagine e somiglianza, senza scampo, che impone di rimanere sui libri fino almeno ai 24 anni, perdendo così tutte le occasioni che nascono in un’età bella, vivace ed energica, l’età migliore della propria vita. “Non venite fuori –ammonisce il Papini- colla grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, l’educazione dello spirito, l’avanzamento del sapere… Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano.” La scuola inoltre non permette la formazione di una forte coscienza critica. Laddove Keating parla di “difficoltà a mantenere le proprie posizioni in pubblico” quando ci si trova in minoranza, Papini scrive che l’unico risultato dell’”educazione morale nelle scuole” è il servilismo.

La scuola è quindi un’esperienza negativa, un ambiente “antigeniale” dove tutti sono livellati ad apprendere le stesse nozioni nello stesso modo, da un unico punto di vista. Gli studenti che, ispirandosi al loro professore, “salgono sul banco”, sono anticonformisti di prima categoria, sono quelli che trovando due vie nel bosco “hanno scelto la meno battuta”, che va nel senso opposto a quello indicato dalla scuola.

Si noti che quello di Giovanni Papini e John Keating non è un invito all’ignoranza e all’analfabetismo, ma al contrario un’esortazione ad abbracciare la vera cultura e il vero sapere. Chiudiamo le scuola, dice il pensatore italiano, “ci saranno più uomini intelligenti e più uomini geniali; la vita e la scienza andranno innanzi anche meglio; ognuno se la caverà da sé e la civiltà non rallenterà neppure un secondo. Ci sarà più libertà, più salute e più gioia”.

giovedì 14 agosto 2014

Dal Senato ai "tweet" in latino. Così Augusto inventò la politica

di Ezio Savino (Il Giornale)

Duemila anni, e non dimostrarli. Il 19 agosto del 14 d.C. a Nola moriva Caio Giulio Cesare Ottaviano, primo imperatore di Roma. Sono in atto le celebrazioni, dalla caput mundi alla città che porta nel nome il suo sigillo, Augusta Praetoria, Aosta, perla imperiale incastonata a difesa del turbolento crocicchio alpino.


Quel giorno, la first lady di ferro, Livia, blindò la stanza del decesso. I pretoriani tacitavano le indiscrezioni. Livia diede al figlio Tiberio, successore designato, ma insicuro, il tempo di presentarsi. Si disse che aveva trovato il vecchio ancora cosciente, e che aveva da lui ricevuto lo scettro.

Il trapasso del potere era una dolorosa lacuna nell'operato di Ottaviano. Senza eredi maschi, aveva scelto a malincuore Tiberio, figlio di primo letto di Livia. La dinastia era avviata. Stando ai tempi, Ottaviano è un uomo del passato profondo. In politica, un contemporaneo. Il pezzo più arcaico e misterioso della sua titolatura è Augusto, conferitogli da un senato proclive il 27 a.C. Imparentato con augeo , «faccio crescere», l'appellativo non è onorifico, ma sacrale, in stile primitivo. Esalta un capo provvidente che, oltre al Pil di una nazione, ne fa lievitare messi, armenti, flotte, popolazione e città. Una manna. Ci farebbe comodo adesso. Come già diceva il saggio greco Esiodo, «il buon re fa prospera la comunità». Ottaviano cominciò a compilare la sua agenda di governo nel 31 a.C. quando annientò, nello scontro navale di Azio, Antonio e Cleopatra (che con lui ci aveva provato, senza successo), aprendosi la via all'assolutismo. Se sfogliamo idealmente il testo, troviamo voci forti che troneggiano ancora oggi in prima pagina.

SENATO

Non per azzerarlo o ridurlo a caricatura. Gli era utile. Un bancomat del potere. I sussiegosi aristocratici si riunivano nella Curia secolare. E aspettavano. Lui faceva il suo ingresso. Era il princeps , «colui che ha il diritto di parlare per primo». Nella forma, un pari, nella sostanza, un assolutista. Chi osava contraddire? Nomine e scelte politiche, tutto sgorgava dalla cerchia di Augusto. Il senato controfirmava, e la macchina istituzionale marciava.

SPENDING REVIEW

Senza delegare, Ottaviano operò tagli che lasciano a bocca aperta gli economisti e gli esperti di strategia. Lavorò soprattutto sull'esercito, che inghiottiva metà delle risorse romane. Delle 60 legioni attive prima delle guerre civili, ne fermò 28, per un totale di 300mila soldati, tra cittadini e ausiliari stranieri. Un velo di truppe, scarso per proteggere le migliaia di chilometri della frontiera. Ma il capo organizzò l'ottimizzazione. Non solo spese meno, ma meglio. Piantò nel territorio centri militari poderosi, pronti all'intervento. Il risparmio sulla quantità gli permise una qualità migliore. Soldati addestrati, 25 anni di leva, la prospettiva non di una morte eccellente sul campo, ma di una pensione dignitosa, in denarii, lotti di terra e donativi, spesso di tasca imperiale. Il resto fu affidato alla diplomazia. Eventuali aggressori erano dissuasi dalla fama di un'armata invincibile, in agguato chissà dove, che poteva aggredire in pochi giorni.

INVESTIMENTI E LAVORO

Il risparmio andò in opere pubbliche grandiose: acquedotti, monumenti, templi, ponti e strade, spesso sovvenzionate da privati in cerca di onorificenze o dalla stessa cassa augustea. Risultato: dalla Roma di mattoni e di legno si passò alla città di marmo. La plebe urbana trovava lavoro, e non aveva grilli per la testa. Nei momenti di crisi, la larghezza di Augusto forniva elargizioni di grano, gli 80 euro dell'antichità in natura. Le costruzioni più imponenti furono le colonie, centri di insediamento dei veterani in quiescenza, che romanizzavano, al bisogno staccavano la spada dal chiodo, insegnavano ai figli come combatte e muore un legionario di Roma. Anche questo aiutava: spese militari più leggere, in caso di attacco nemico.

PROVINCE

Non per rottamarle. Anzi, per farne di nuove. Una corona di piazzeforti territoriali vaste come nazioni: Spagna, Francia, Austria, Svizzera, fino agli estremi confini orientali. Non costavano nulla. Mandavano denaro al centro. Il fiscus imperiale sorrideva. Gli agenti esattori garantivano allo Stato una quota fissa di tributo. Stava a loro rifarsi con i sudditi, non esclusi strozzinaggio, rapina e corruzione, magagne d'ogni tempo. Ma il fiume d'oro e di prodotti approdava sempre in riva al Tevere.

RIFORME COSTITUZIONALI

Qui sta l'intervento più grandioso, e discusso. Invece di cambiare tutto per non cambiare nulla, Augusto invertì la formula: non mutò nulla, per sovvertire tutto. Sette secoli di storia repubblicana caddero in polvere sotto il maglio del protagonista. La facciata restava quella: le magistrature conservavano quei nomi che ancora oggi circolano, seppure con funzioni diverse (console, pretore, questore), con la differenza che erano tutte nelle mani di Augusto, o dei suoi fedelissimi. Augusto era imperator , capo delle armate, proconsole, governatore a vita delle province (tra cui quella a lui più cara, l'Egitto, «giardino privato dell'imperatore»). Ma la carica che preferiva era quella di tribuno, cioè difensore della plebe. Si accordava con la sua vena di paternalismo, ma gli garantiva altro: una scorta permanente di littori armati fino ai denti, a difesa dell'inviolabilità della sua persona.

FARE

In latino Res gestae , «le opere compiute». Cronaca nuda e potente dei risultati conseguiti (non quelli da conseguire). Fu composta nell'ultimo anno di vita, e affidata, come nobile testamento, alle Vestali. È un catalogo impressionante di fatti concreti. Una lezione sferzante per i politici.

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Festina lente,«accelera piano»,il motto amato,che ripeteva a se stesso e ai collaboratori. Su consiglio di un greco, Atenodoro, se era in collera non faceva nulla senza aver ripetuto tutte le lettere dell'alfabeto.

Fin qui il politico. Ma l'uomo? Un attentatore arrivò a tiro di daga, ma fu bloccato dalla dolcezza aliena del suo sguardo. Scultori e bronzisti hanno consumato molto materiale per tramandarne le fattezze. Un eterno ragazzo, fuori dal tempo, con le ciocche ribelli, color sabbia, sulla fronte pensosa, corazzato per una parata di trionfo, più che per una battaglia vera. Un sacerdote dei riti. Una padre della famiglia e della patria. Un custode delle tradizioni. Considerava il proprio corpo impari allo spirito. Freddoloso, indossava quattro tuniche. Dipendeva dai medici (artrite, calcoli, catarro), e per gratitudine esentò la categoria dalle tasse. Gli piacevano le fanciulle in fiore. Livia (per altro amatissima), le procurava al suo piacere. A tavola, invece, era disappetente. Nei pranzi ufficiali presidiava per pochi minuti, allontanandosi per non imbarazzare gli ospiti, con caratteristico tratto da signore.

L'esito fu la pace, che lo storico Tacito, oppositore ideologico, esecra: «ingabbiò tutto nel dolciastro dell'inerzia». Così averne. Si segnalarono poche rivolte, spesso represse senza brutalità, in un'area in cui massacro e genocidio oggi sono strazi quotidiani. Abbiamo l'audio dell'ultima ora: «Se ho recitato bene la mia parte, battete le mani». La celebrazione è d'obbligo, per l'architetto di un sistema, un maestro dell'ambiguità che è l'anima della politica.

martedì 12 agosto 2014

Qualcuno ancor si batte non ha voglia di mollare

11 agosto. Una lunga fila di gente, quasi un centinaio di persone, il silenzio, una lapide di marmo con tanti nomi scritti sopra. Il sacrificio, l'onore, la dignità di una lotta vera, eroica, mistica. Alcuni reduci, molti ragazzi. Parole toccanti, letture, testimonianze e ricordo. Nessuna "celebrazione ufficiale", nessun gonfalone, nessuna passerella politica: sulla tomba del "torto" ci va solo chi crede.

Nonostante le tante persone in vacanza la commemorazione in ricordo dei caduti della Rsi, organizzata da Casaggì nel giorno della cosiddetta "liberazione" di Firenze, è stata un successo assoluto. La sinistra fiorentina, che aveva invocato addirittura i manganelli della polizia per impedire l'evento, deve ancora una volta rassegnarsi dinanzi ai fatti.

Ci siamo e ci saremo sempre. Porteremo avanti questo testimone di padre in figlio. Fatevene una ragione.


domenica 10 agosto 2014

Il mercato immigrazionista e la solita pappa del cuore

di Alessio Mulas (L'Intellettuale Dissidente)

Negli ultimi 25 anni sono 20mila le persone morte durante il viaggio clandestino verso l’Europa. La tragedia si può fermare solo con una visione chiara del fenomeno migratorio, acquistando consapevolezza che lo spostamento di incertezza e l’inflazione delle aspettative sono difficili da governare e vanno a danno di chi è già debole



È apparso di recente un documento del Migration Policy Centre dell’European University Institute, intitolato «Is what we hear about migration really true? Questioning eight stereotypes»[1], che esamina i presunti stereotipi che il solito popolino, cattivo e ignorante, ha sul tema dell’immigrazione. Lo studio, che ha avuto ampio seguito sui giornali dell’Europa intera, non porta niente di nuovo a un dibattito che sempre più si rivela sterile: snocciola qualche banale quanto necessaria confutazione dei luoghi comuni anti-immigrazionisti, servendo il piatto con la solita salsa buonista e un’apparente scientificità. Sebbene sembri riuscire nell’impresa, basta scorrere il documento curato dal MPC per accorgersi che i veri problemi riguardanti l’immigrazione sono tacitamente ignorati.

Da queste pagine siamo più volte tornati sull’argomento. In particolare, abbiamo proposto una interpretazione del fenomeno migratorio come spostamento di incertezza[2]. Questa costituisce, insieme al fattore tempo, la cornice dell’azione umana. Non avere certezza sul futuro, essere preda del dubbio riguardo all’esito delle proprie attività e subire l’inutilità della propria conoscenza a causa della mutevolezza del presente sono costanti della modernità. L’immagine della liquidità, proposta da Bauman, è calzante: tutto scivola, inafferrabile. A ciò si aggiunge l’inflazione di aspettative che la cittadinanza ha verso la politica, aspettative che solo un Pericle potrebbe conciliare e soddisfare.

Ma all’orizzonte non vediamo dei Pericle. L’immigrazione rappresenta uno spostamento di incertezza (prevalentemente economica) da Paesi sofferenti verso Paesi forti. Insieme all’incertezza economica, arrivano anche nuove ed eterogenee aspettative, le quali vanno ad aggiungersi al già difficilmente governabile “mercato delle aspettative e delle idee”. La stessa ethnoscape, caos informe di nativi, turisti, gruppi in passaggio, lavoratori e professionisti stranieri, immigrati e rifugiati, è il primo simbolo del crollo dell’identità culturale di una nazione o di una civiltà, perché — promuovendo un’economia globalizzata e una cultura globalizzante — mina all’omogeneità identitaria di un Popolo, creando nuova incertezza culturale. Si istituisce una classe di uomini senza identità, sempre più schiavizzata e facilmente governabile dal capitale.

Oltre all’aspetto economico e culturale del problema, c’è quello strategico e geopolitico. Nel primo dopoguerra, il teorico militare inglese Liddell Hart descrisse un approccio indiretto alla guerra (e ricordiamo che per guerra non si intende solo lo scontro effettivo, l’atto del combattere, ma anche quel «tratto di tempo in cui la volontà di combattersi è sufficientemente nota»[3]), che consiste nel colpire l’avversario senza affrontarlo direttamente, cioè colpendone le industrie, le attività economiche e le reti di comunicazione, il piegandone il morale[4].

L’immigrazione (legale o meno) è così interpretabile come strategia indiretta volta a innestare in un Paese nuove aspettative, che vanno a modificare in una direzione le linee generali di politica estera, le attività culturali, l’apparato produttivo del Paese che ne riceve gli effetti. Chi trae beneficio dall’immigrazione è la classe politica inetta dei Paesi dai quali si emigra: la diminuzione della pressione demografica porta sollievo ai conti pubblici; l’abbassamento dell’incertezza garantisce i responsabili economici e politici del fallimento di un Paese dalla pericolosità delle masse. Se masse ad alto grado di incertezza si spostano, diminuisce il rischio di una reazione — poco importa se democratica e culturale o violenta e furiosa — contro gli inetti politici locali o le industrie straniere che sfruttano i territori. Ogni difesa del fenomeno migratorio affranca dalle inemendabili colpe i veri responsabili dei fattori (povertà, carestie, guerre) che hanno portato allo spostamento di uomini. Nessun sistema, sia esso socialista o liberale, è invulnerabile allo spostamento dell’«esercito industriale di riserva» (Marx) o impermeabile alla teoria politica.

E nella teoria politica non deve trovare spazio quella «pappa del cuore» (Hegel) propagandata in modo martellante, a suon di lacrime, dai mezzi di informazione italiani. Nella strategia indiretta immigrazionista è osservabile la nascita di un “mercato del migrante”, di un cartello politico dell’immigrazione, del tutto simile alle dinamiche del commercio di petrolio e materie prime. Tale politica, attraverso lo spostamento della riserva di manodopera, «costringe di fatto i Paesi riceventi a costi di produzione, dati i salari medi (dei migranti regolari o irregolari qui poco importa) a permanere in filiere produttive a bassa produttività, che verranno prossimamente attaccate o sostituite dai Paesi Terzi in fase di industrializzazione»[5]. Secondo il quarto rapporto «Gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia»[6], promosso e curato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dalla Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione, gli stranieri occupati sono 2.355.923; «a fronte della diminuzione del numero di occupati italiani di 500 mila unità nell’arco di appena dodici mesi, aumenta il numero di occupati stranieri di entrambe le componenti UE ed Extra UE per complessivi +21.875 lavoratori». Andatelo a dire al signor Rossi: gli immigrati “non ti rubano il lavoro”, come affermerebbe con abietta convinzione il documento del Migration Policy Centre.

Nel frattempo, l’Operazione Mare Nostrum, ribattezzata Mare Mostrum, continua a donare l’illusione che l’Europa e l’Italia possano accogliere tutti coloro che hanno bisogno. Ieri, 20 persone sono morte durante un naufragio al largo di Al Khums, a 100 chilometri a est di Tripoli. Kassem Ayoub, portavoce della Marina libica, ha reso noto che 22 clandestini, aggrappati a ciò che restava della barca, sono stati messi in salvo.

Negli ultimi 25 anni sono 20mila le persone morte durante il viaggio clandestino verso l’Europa. La tragedia si può fermare solo con una visione chiara del fenomeno migratorio, acquistando consapevolezza che lo spostamento di incertezza e l’inflazione delle aspettative sono difficili da governare e vanno a danno di chi è già debole. Senza la perversa pappa del cuore.



[1] http://cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/31731/MPC_2014_FARGUES.pdf?sequence=1
[2] http://www.lintellettualedissidente.it/perche-limmigrazione-e-coeva-al-capitale/
[3] T. Hobbes, Leviathan, XIII cap.
[4] B. Liddell Hart, Paride o il futuro della guerra, introduzione di Fabio Mini, Editrice Goriziana, Gorizia, 2007.
[5] M. Giaconi, Dall’influenza economica al rischio jihad. L’Immigrazione elemento di strategia indiretta, Gnosis 2/2009.