domenica 28 dicembre 2014

Ad Angelo Pistolesi, ucciso il 28 dicembre del 1977 dall'antifascismo militante. Per non dimenticare.

sabato 27 dicembre 2014

Scegliete: o l’euro o la democrazia Bagnai coglie (di nuovo) nel segno


di Marcello Foa (Il Giornale)


Chi frequenta questo blog sa quanta stima io abbia per Alberto Bagnai, benché provenga da un mondo diverso dal moi : lui è di sinistra e io di sinistra non sono mai stato. Ma è un intellettuale libero, un uomo che si interroga, che cerca risposte autentiche, che rifugge verità di comodo. Per questo a sinistra, oggi, non lo amano. L’ho scoperto leggendo il suo primo saggio "Il tramonto dell'euro" e da qualche mese condividiamo l’avventura in "A/simmetrie". Da pochi giorni è uscito il suo secondo libro "L'Italia può farcela", che a mio giudizio è migliore del primo.

La tesi è decisamente controcorrente : in un’epoca di disfattismo imperante e di autoflagellazione, Bagnai ha scritto un libro quasi patriottico, benchè per nulla emotivo. Non è un libello, né un pamphlet ma un saggio vero, documentato, strutturato, come conviene a un professore universitario ma scritto con il brio e il sarcasmo della grande penna. La tesi è audace perché invoca la capacità di riscatto di un popolo, la fede nella sua imprenditoria e in un tessuto economico che, per quanto deprecato, ha garantito all’Italia per mezzo secolo una crescita industriale impressionante e che ora si affloscia sotto i colpi di un sistema implacabile, devastante eppur impalpabile: quello della moneta unica.
Bagnai da par suo smonta, con nuove argomentazioni rispetto al Tramonto dell’euro, il pensiero dominante, mainstream, che accomuna economisti e giornalisti nel presentare l’euro come un dogma intaccabile, sacro, inviolabile.

Non è un iconoclasta, né un provocatore, ma un italiano mosso dall’impulso irresistibile di fare qualcosa per salvare il proprio Paese.E ha il merito, in un’epoca di appiattimento intellettuale, di proporre riforme e percorsi di uscita originali, audaci, basati non sull’ideologia ma su un’osservazione disincantata della realtà. E’ più liberale di molti liberali di facciata ma non si vergogna ad invocare l’intervento dello Stato quando lo ritiene indispensabile o perlomeno il male minore rispetto a una situazione sociale ed economica che oggi è devastante e senza speranza ; lo fa senza timore di indispettire renziani e piddini.

Sorprende sempre e costringe il lettore a pensare, a non arrendersi, ad interrogarsi anche quando chi legge legittimamente dissente dalle tesi del libro. E ad allargare la riflessione. Bagnai – e non è un mistero – propone l’uscita dell’Italia dall’euro, ma non si limita alle argomentazioni economiche. Coglie nel segno evidenziando i rischi impliciti di una costruzione monetaria che sta di fatto smantellando i capisaldi della nostra convivenza civile.

L’affermazione è forte : chi oggi difende l’euro è contro la democrazia. 
Forte ma tutt’altro che impropria. Questa Europa ci sta privando silenziosamente di tutto, soprattutto della libertà di decidere, di cambiare, di scegliere a chi affidare il destino di un Paese, di cambiare politca economica e anche quella sociale. I governi e i parlamenti si trasformano in simulacri del potere o, se preferite, inreality della democrazia, dove l’apparenza è tutto ma chi decide davvero è lontano, appartiene a lobby europeiste, a élite tecnocratiche, che sanno usare l’Unione europea a fini propri e senza vera alternativa.

Una dittatura invisibile che si impone tramite l’euro, che si trincera dietro l’inviolabilità della Bce, che deprime i singoli Paesi depotenziandoli con una legislazione europea sovente assurda e prevaricatrice, che ci sta portando via oltre alla democrazia, lo stato di diritto, la sovranità, la libertà di intraprendere, la giustizia sociale e che punisce sia i piccoli imprenditori che gli operai. Ingiusta con tutti.

E’ a questa Europa che Bagnai dice basta. Con il coraggio che gli è proprio. E una convinzione nel cuore : l’Italia può aprire gli occhi. E farcela, anziché morire di inedia da euro.

martedì 23 dicembre 2014

Dopo Matteo verrà il Mullah Omar?

di Marcello Veneziani

Ha fatto molta impressione in Francia il libro di Michel Houellebecq, Sottomissione, che immagina nel 2022 la vittoria degli islamici alle urne, perché nel ballottaggio, pur di non far vincere Marine Le Pen, la sinistra e gli altri partiti votano per il candidato musulmano.

Il tema è, come suol dirsi, sensibile in Francia dove la presenza islamica è cospicua e Hollande sta aprendo molto ai migranti. E se invece succedesse da noi? L'ipotesi mi sembra meno peregrina che in Francia per varie ragioni. Siamo meno vaccinati, più accoglienti, più permeabili e più arrendevoli dei francesi, abbiamo un amor patrio più flebile, veniamo da decenni di demagogia terzomondista e filo-araba, il tema delle porte aperte domina a livello politico, sociale e pastorale. E non abbiamo alcun argine simile al Front national. Poi siamo il paese d'occidente geograficamente più vicino, in linea d'aria e d'acqua, ai paesi islamici, in alcuni casi anche storicamente; alcune nostre aree arabeggiano in stato avanzato, alcuni nostri centri sono ridotti a casbah, il kebab sta soppiantando la pizza e il narghilé va più forte della sigaretta elettronica.

Poi alcune figure politiche nostrane scopiazzano i muezzin: dopo il flop di alcuni surrogati, come il mullah Grillo e l'ayatollah Casaleggio, la califfa Boldrini e l'imam Vendola, non resta che provare con gli originali...Dopo Napolitano, un Turco napoletano al Quirinale o un Totò le mokò al posto di Matteo le cocò non sono poi così surreali. Allora si che ne vedremmo di tagli...



venerdì 19 dicembre 2014

L’altro volto di Benigni, quello del becero e odioso antifascista (video)

L’altro volto di Benigni, quello del becero e odioso antifascista (video)

di Redazione Secolo d'Italia

«“Se nasce un mongoloide è una cosa molto trista, ma la cosa più schifosa è se nasce un fascista”: così comincia la squallida poesia recitata dal comico toscano nel film “Effetti personali” di Giuseppe Bertolucci del 1983. A stanare la raccapricciante rappresentazione di Benigni – racconta il sito Lultimaribattuta.it – è stato Pietrangelo Buttafuoco intervistato da Libero. «A parte l’insulto rivolto con la discutibile rima alle persone nate con la sindrome di Down e ai loro familiari, si dovrebbero ricordare a Benigni quei ragazzi ammazzati per la sola colpa di essere fascisti. Dall’immediato Dopoguerra ai più recenti anni di piombo il motto “uccidere un camerata non è reato” ha garantito la massima impunità a quanti si sono macchiati di omicidi verso quei morti, a volte ragazzi giovanissimi, considerati “di serie B”. Ma al Benigni di inizio anni ’80 queste cose non interessavano. Anzi, per assicurarsi la carriera di grande attore, si prestava a una poesia che come unico scopo aveva quello di fomentare l’odio tra opposti estremismi. O meglio, l’odio fomentato è stato sempre e solo verso un unico estremismo, quello di destra. “Maledetta l’ora e il giorno in cui due merdaioli ti misero al mondo; maledetta l’ora, il giorno e l’annata che la tua mamma ti dette la prima poppata”: Benigni recitava queste parole nauseanti nello stesso anno in cui ha perso la vita Paolo Di Nella, a Roma nel quartiere Trieste-Salario, all’età di 20 anni, aggredito vigliaccamente da alcuni militanti antifascisti nel corso di un’affissione. Quella di Di Nella è stata considerata la morte che ha concluso la triste stagione degli anni di piombo. “Poi arrivasse Terracini, Paietta, Longo, Ingrao, ti cacassero sugli occhi mentre cantan ‘Bella Ciao’”: ecco cosa recitava chi qualche sera fa si è permesso di interpretare i “Dieci comandamenti”,norme e prescrizioni, secondo lo stesso Benigni, che diffondono amore verso il prossimo».

Anche al Vaticano è piaciuto il comico redento

A quanto pare il Benigni redento è piaciuto molto anche al Vaticano. Monsignor Fisichella su vari quotidiani nazionali ha elogiato il provocatore antifascista, ora convertito al calore e alla dolcezza: “Una lezione per la Chiesa”, l’ha definita. Anche monsignor Paglia ha raccontato la sua conversazione telefonica, ricca di complimenti, con il comico toscano. Qualcuno sussurra anche lo stesso Papa Francesco lo abbia chiamato, ovviamente per porgergli i suoi convenevoli. «Ma come mai – si chiede lultimaribattuta.it – questa conversione del “Piccolo diavolo” in angelo celeste e messaggero del verbo divino? La risposta la suggerisce sempre Buttafuoco su Libero: “Confermo quello che disse Ionesco quando aprì la porta del suo appartamento di Parigi e vide la folla sgargiante e urlante dei sessantottini: ‘Diventerete tutti notai’. È quel che è successo a Benigni“. Dal “Piccolo diavolo” a “La vita è bella”, anzi… la vita è bellissima: con 4 milioni di euro (a spese dei contribuenti) oltre alle conversioni succedono i miracoli».

https://www.youtube.com/watch?v=VxQA0hku12o

mercoledì 17 dicembre 2014

Il cavallo di Troika



di Guido Rossi (L'Intellettuale Dissidente)

Da anni si pensa alla situazione della Grecia come alla fine che non si augurerebbe nemmeno al peggior nemico. Nello stesso tempo si è guardato e si continua a guardare terrorizzati al miserabile spettro della miseria che, tenebroso e paziente, aleggia sopra quella terra un tempo matrice d’eroi. Ma osservando con attenzione questo –o meglio- questi spettri, si potranno scorgere nitidamente piume e becchi, estese ali e potenti artigli. Avvoltoi, che altro? Quelle strutture pseudoeuropee che volano e attendono di poter saziare le loro fameliche fauci con le povere spoglie di questa nazione. Aspettano dunque, giacché sanno perfettamente che presto o tardi le trame da loro ordite sortiranno l’effetto voluto. Un cavallo non più di legno bensì finanziario, strumento d’inganno, che è stato accolto tempo addietro dai Greci (e dal resto d’Europa) quale mirabile dono.

Una Grecia dunque alla quale si promise prosperità e pace, salvezza e benessere, ricchezza. Parole che certamente suonarono accattivanti a quei discendenti di Mida, dal quale ereditarono l’avidità, ma non il celebre tocco. La colpa tuttavia non deve ricadere sulla sola Ellade, bensì su tutte quelle Nazioni (Italia compresa) che hanno permesso ad organizzazioni autoelette e “diversamente democratiche” di poter prendere decisioni sulle sorti di Stati –una volta- sovrani. Ammise infatti Barroso pochi anni fa: “l’Unione Europea è un antidoto ai governi democratici. I governi democratici sbagliano molto spesso, e questa è la ragione principale per la quale abbiamo bisogno della Ue: perché non è democratica![1]”.

E come dar torto al predecessore di Junker: è vero, i governi “democratici” sbagliano spesso, spessissimo. Sicuramente per aver dato seguito alle lezioni impartite dalla troika (il cerbero a tre teste, Ue, Fmi e Commissione Europea). Come si trova infatti la Grecia dell’euro? Una disoccupazione intorno (e oltre) al 25%, quindi un greco su quattro sta a casa. E non si sta parlando di “semplici” disoccupati, ma di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà. In particolare circa il 40% dei bambini greci è in miseria estrema. Gente che di certo non può permettersi il mutuo e che quindi a viene privata della abitazione e messa in strada. Se ci sono proteste? Certamente. Ma è stato ripreso un decreto che prevede la galera per i lavoratori scioperanti. Nel frattempo, non mancano le manganellate. Se poi qualcuno necessita di medicarsi può andare tranquillamente nella prima farmacia che trova, e con qualche migliaio di euro(!) potrà acquistare i pochi farmaci necessari. Ma perché preoccuparsi in fondo? C’è l’Europa che interviene e la salva, giusto? Non proprio.

Cerchiamo di capirci. Con la moneta unica la Grecia – di suo già parecchio indebitata con l’estero – si trova una moneta forte rispetto alla sua piccola dracma. Di conseguenza, non esporta più nulla, e comincia ad importare. Nel frattempo si fanno necessari dei finanziamenti. Dlin, dlon, la troika suona subito alla loro porta. Aumenta il debito ed il denaro finisce nelle sole tasche dei tedeschi, le cui banche, di quel debito, possiedono una bella fetta. La situazione – ma che strano! – peggiora. Arrivano altri aiuti, addirittura dei “piani di salvataggio”. Ovviamente nessuno – tantomeno gli organi sovranazionali – conosce più la gratuità del dono, pertanto a detti “piani” segue una lista interminabile di richieste, quali soprattutto i tagli alla spesa pubblica (e quindi alla sanità, alla sicurezza, all’istruzione ecc), e privatizzazioni (che ovviamente per mancanza di liquido non finiranno in mano a privati greci – se non a qualche “Onassis” di turno– bensì a stranieri, gli stessi che regolano questi meccanismi extraeuropei). “Ma come? Dopo tutte queste scialuppe – fallate – ancora rischiate di affogare? Ma è veramente incredibile ciò! Non preoccupatevi, ecco altri fondi, in cambio – una sciocchezza –,vi commissariamo”.

Cosa significa un commissariamento da parte della Troika? Che quest’ultima porterà risorse allo Stato altrimenti non in grado di finanziarsi autonomamente sul mercato. Risorse che ancora una volta non si tradurranno in investimenti ed interventi statali (la vera cura!), proprio perché di contro sono stati imposti i citati tagli. E come sempre, il “commissario” chiede nuovo e continuo rigore, perciò ancora tagli e privatizzazioni, fino a quando anche l’ultimo brandello di Grecia non sarà ridotto ad ossa e cenere. Buona parte dei cittadini della penisola greca tuttavia non sembra ancora capacitarsi di chi siano le colpe e le responsabilità, né rendersi conto che l’affilata mannaia del boia Troika sta per scendere su di loro. I prossimi nella lista, è evidente, siamo noi. È l’ora di svegliarsi.



[1] Daniel Hanna, “The EU is an antidote to democratics governments, argues President Barroso”, The Telegraph, 01-10-10

venerdì 12 dicembre 2014

Quando la corruzione in Europa è “mal comune” (non solo in Italia)

corruzione


di FF (Barbadillo)

Descrivere l’Italia come il paese dei politici ladri e degli imprenditori tangentari è un gioco per alcuni divertente, ma pensare che il malaffare coinvolga solo il Belpaese e dunque auto flagellarsi non ha senso.

In realtà gli scandali legati alla condotta della classe politica sono diffusi in tutto il mondo e non solo per l’alterazione degli appalti della raccolta foglie e della pulizia delle strade. All’estero, nei paesi ‘avanzati’, non nelle post dittature africane, i politici arraffano forse più degli italiani e non si contano i turpi scandali sessuali. Si va dai ladri di polli, che fra una mazzetta e l’altra si intrattengono con prostitute d’alto bordo, a ben più gravi scandali legati ad armi e addirittura pedofilia.

Parliamo ad esempio della Germania, di cui si è occupato Panorama in un'inchiesta in due puntate. Fra i funzionari e i politici tedeschi si contano dei briganti patentati. Fra tangenti e lavoro nero, i crucchi occultano più di 500 miliardi di euro e non si fermano, come già detto, a rubacchiare sulla nettezza urbana. Ad esempio per “incoraggiare“ l’acquisto di armi di produzione tedesca sarebbero stati corrotti fior di funzionari greci, per un totale di 18 milioni di euro. E che dire del mondo dell’industria? La vicenda nota come "scandalo Siemens”, con tanto di perquisizioni e spettacolare impegno di 200 magistrati ha rivelato vicende di passaggi di denaro ben poco chiari. Cercando su Google “scandali Germania” l’utente si troverà di fronte a vicende di pedofilia, vitalizi d’oro, calcio scommesse, gestione dei rifiuti in mano alla criminalità, ministri che si dimettono. Non certo il paese dei balocchi.

Prendiamo dunque un traghetto e andiamo oltre Manica. Il Regno Unito è recentemente stato scosso da un enorme scandalo pedofilia che coinvolgerebbe una ventina di parlamentari ed ex ministri. Il dossier che ne parlava è stato però occultato e dunque le indagini sono ripartite da zero. Berlusconi quindi è un lurido sporcaccione perché si sarebbe intrattenuto con delle donne svestite e maggiorate (a meno che qualcuno pensi davvero che Ruby e la Daddario fossero bambine), mentre alcuni politici inglesi compivano azioni di gravità inaudita e forse rimarranno impuniti.
Mentre attendiamo di conoscere i risultati delle indagini parliamo della “Lobby dei Lord”, che ha coinvolto i componenti della camera alta. Per fare pressioni sul governo Cameron e per discutere leggi ad-tangentem alcuni nobiluomini avrebbero riscosso del ben poco nobile denaro, addirittura c’è chi parla di un mazzettone da 100 mila sterline. Ladri di polli, cialtroncelli, direte voi ma ben poco pollame è coinvolto nell’affaire “gas venduti ad Assad per fare le armi chimiche”. Ne dà notizia ad esempio il Daily Mail. La Perfida Albione dunque ha ben poco da insegnare ai politici nostrani.

Torniamo in continente e facciamo un giro e andiamo da quei sifilitici dei francesi. Vi siete chiesti perché Marine Le Pen ha avuto una crescita di consenso esponenziale? L’euro ha stufato, l’Unione Europea è opprimente, la finanza internazionale va fermata. Tutto vero. Ma uno dei motivi principali è che in Francia i politici rubano peggio di Lupin.Sono dei grassatori di prima categoria e gli elettori hanno spostato il loro consenso sul’unico partito che non ha mai grassato. Parliamo ad esempio degli “elicotteri kazaki”. Per venderli ci sarebbe stato un bel giro di tangenti che ha coinvolto addirittura Sarkozy. Il quale sarebbe stato sgamato anche a produrre fatture dubbie nella rendicontazione dei rimborsi elettorali. Mentre il suo predecessore Chirac è sotto processo per decine di assunzioni clientelari mentre faceva il sindaco a Parigi. Però il povero Jacque non può rispondere alle domande dei giudici perché è impossibilitato… Ha presentato anche un certificato medico. Un vero peccato, soprattutto perché parallelamente al certificato medico ha anche presentato nelle librerie il libro delle sue memorie. Cercando sempre su Google, troviamo in Francia un bel po’ di partite truccate, tangenti elettorali e varie notizie riguardanti il vecchio vizietto dei senza-bidet di vendere armi in Africa ai signori della guerra. Che sarà mai qualche mina anti-uomo?

Potremmo fermarci qui, ma perché soffermarsi sui singoli stati? Parliamo delle organizzazioni sovranazionali. Mario Giordano ha scritto un libro intero sugli sprechi enormi dell’Unione Europea, che attualmente vede nelle altissime sfere un certo Junker, reo di aver assistito alla creazione sotto i suoi occhi del più grande sistema di evasione fiscale mai visto. In Italia per uno scontrino mancato si finisce dritti al bagno penale, sullo stile di Jan Valjean, mentre invece uno dei maggiorenti dell’Ue può agevolare tassazioni virtuali e light per centinaia di miliardi e rimanere in carica.

D’altronde quello degli organismi internazionali è un pozzo senza fondo. E’ noto che la FAO, quella che “lotta contro la fame nel mondo”, in realtà lotta solo contro la fame dei suoi funzionari, organizzando con i fondi della solidarietà fior di banchetti a base di ostriche, champagne e caviale. L’80% dei fondi Unicef e Fao sono spesi per gli stipendi da nababbi dei funzionari, per spot pubblicitari e spese di rappresentanza. Dunque, quando fate beneficenza, fate attenzione.

Tutta l’Onu è un grande collettore di scandali. La faccenda è nota da anni, almeno da quando la famiglia Annan, quella dell’ex segretario generale, è stata colpita dall’ondata di scandali legati ad Oil For Food. Recentemente Ban Ki Moon ha insultato l’Italia per la questione degli scandali Expo, dicendo di togliere la sua foto dal sito internet della manifestazione. Secondo il suo metro di misura dunque, dovrebbe far togliere la sua foto anche dal sito dell’Onu, che fra un ospedale fallimentare in Africa (su cui qualcuno solleva dubbi riguardanti tangenti), e altre porcherie assortite, ha ben poco da insegnare.

Che figura ci fa dunque l’Italia alle prese con un (presunto) scandalo tangenti che coinvolge la Capitale e il vasto sistema di potere legato alle Cooperative Rosse? Siamo il Paese dei ladri e dei cialtroni, derisi da tutto il mondo o semplicemente il popolo dei Tafazzi che ama ‘sputtanarsi’ in giro per il mondo, convinti che l’erba del vicino sia sempre più verde?
Intendiamoci, il senso di questo articolo non è quello del “mal comune mezzo gaudio”, ma semplicemente un tentativo di smascherare i sepolcri imbiancati che prima di parlare di Italy-mafia, dovrebbero fare un po’ di pulizia in casa loro. Mentre noi potremmo abbandonare l’atteggiamento provinciale secondo cui lo straniero ricco e ben vestito, con l’accento british, è sempre migliore, mentre in realtà in molti casi risulta ben più sordido.

mercoledì 10 dicembre 2014

L’antimafia? La inventò Mussolini, parola di Massimo Fini

L’antimafia? La inventò Mussolini, parola di Massimo Fini


di Aldo di Lello (Secolo d'Italia)

«È noto che la mafia assume il potere che assume perché gli americani l’hanno usata come appoggio per lo sbarco in Sicilia. L’unico regime che l’ha davvero combattuta è stato il fascismo. Un regime forte non può accettare che ci sia all’interno un altro regime forte». Ribadisce un dato storico arcinoto lo scrittore Massimo Fini nell'intervista concessa a Il Giornale Off. Si tratta però di una verità talmente nota che, come regolarmente accade alle verità scomode, viene sistematicamente dimenticata. E allora desta sicuramente interesse e fa a suo modo “notizia” quando qualcuno, magari uno scrittore anticonformista come Massimo Fini, ripropone certe verità in momenti di crisi morale e politica come quello che l’Italia sta attraversando oggi.

Il boss e lo sbarco degli Alleati

C’è semmai da precisare che, non solo per un «regime forte» come il fascismo, ma per qualsiasi Stato degno di tale nome, la presenza mafiosa risulta intollerabile. Il punto è però che lo Stato italiano scaturito dal ’45 sconta purtroppo diversi vizi d’origine: quello della sconfitta militare e della limitazione di sovranità che ne scaturì, quello delle lunga egemonia di culture politiche, come quella democristiana e come quella comunista, sostanzialmente estranee all’idea di uno Stato nazionale forte e autorevole, quello, appunto, del ritorno in forze dei mafiosi scacciati dal prefetto Mori e dal fascismo, al seguito degli Alleati nello sbarco in Sicilia del 1943. Determinante fu in tal senso il ruolo svolto dal boss Lucky Luciano, d’intesa con l’Oss americano (il precedessore della Cia), nel preparare il terreno al futuro governo dell’isola.

Quando il duce visitò Palermo

Questi vizi d’origine li scontiamo purtroppo anche oggi. E ben al di là dei confini della Sicilia. Anzi, diciamo che la mafia, intesa come capacità di corruzione del sistema politico e delle istituzioni locali, ha raggiunto livelli di pericolosità ben lontano dalla sua terra, diciamo così, d’origine. Ma tutto riconduce sempre alla stessa matrice: la debolezza dello Stato, una debolezza intesa non tanto come insufficienza di leggi e di mezzi (sia detto per inciso, la legislazione italiana in materia è sicuramente all’avanguardia dalla legge, dalla legge Rognoni-La Torre in poi), ma come cultura delle classi dirigenti, a partire appunto dal senso dello Stato. E qui, sempre in tema di confronti storici, merita di essere ricordato un episodio narrato dal compianto Giuseppe Tricoli (lo storico di destra siciliano amico di Paolo Borsellino) in un volumetto dedicato alla figura del prefetto Mori. Riferisce Tricoli che Mussolini decise di usare il pugno duro con i mafiosi dopo una visita in Sicilia. Accadde che, mentre il duce girava per Palermo in macchina, un notabile che gli era seduto a fianco notò diversi signori fermi nelle strade dall’aria tipica degli agenti in borghese. A quel punto il notabile si rivolse al capo del governo per rassicurarlo e gli disse che non c’era bisogno di tutto quello spiegamento di forze, perché, se il duce era in sua compagnia, non poteva capitargli niente di male a Palermo. Quel notabile era chiaramente un boss mafioso e pensava di rivolgersi a Mussolini come si sarebbe rivolto a un qualsiasi politico dell’Italia liberale. Mal gliene incolse. Mussolini non disse nulla. Pochi giorni dopo era già pronto il decreto di nomina di Cesare Mori a prefetto di Palermo. Dal 1945 in poi è invece spesso capitato che i politici abbiano chiesto voti ai notabili mafiosi.

lunedì 8 dicembre 2014

Casaggì Firenze: “Universitari ribelli tra Brasillach e Vandea”


intervista di Marco Petrelli (Barbadillo)


Centro sociale (di destra) nato alla metà degli Anni Duemila nel contesto di Azione Giovani Firenze, Casaggì è una comunità che si sviluppa con una vocazione territoriale. Poi, l’attenzione si sposta anche all’UniFi che, da alcuni anni, comincia ad essere nuovo terreno di gioco. E pronta anche ad aderire al progetto di Gioventù Universitaria, pur con un sostanziale distinguo rispetto alle altre comunità delle quali vi abbiamo parlato. La formazione fiorentina considera, infatti, il termine “destra” come “scorciatoia cognitiva, punto di riferimento geografico-politico”. Niente di più. E i riferimenti culturali non lasciano certo dubbi sull’orientamento del gruppo: Pio Filippani Ronconi, Robert Brasillach, Julius Evola, Jean Thiriart, Adriano Romualdi, intellettuali che sarebbe quanto meno riduttivo “bollare” con una generica etichetta politica. Casaggì è una comunità complessa di ragazzi che, nel corso dell’intervista, accetta di parlare solo come gruppo, collettività e non come singoli individui.

Casaggì: che cos’è quando nasce e dove opera?

“Casaggì è un “centro sociale di destra”, uno spazio identitario che opera a Firenze dal 2005. Nasce all’interno di Azione Giovani e ne rappresenta fin dall’inizio il progetto metapolitico. Oggi la nostra Comunità è in grado di offrire corsi di autodifesa, ripetizioni per gli studenti, assistenza commerciale e legale, formazione culturale, corsi di grafica e pittura, di cucina e di primo soccorso. Nei nostri locali è presente un pub (il Bogside), una libreria (Sherwood), un progetto musicale (Gene ZeroZero), un gruppo femminile (Aleteia), un gruppo di approfondimento cinematografico (CineCrew), un movimento studentesco (Casaggì Scuole) ed uno universitario (Casaggì Università). Cerchiamo di operare a tutto tondo, dal volontariato sociale all’ambientalismo, dalla politica giovanile a quelle cittadina. Dal 2009 abbiamo un consigliere comunale, eletto con centinaia di preferenze e riconfermato nel maggio del 2014 con la più alta percentuale di preferenze rispetto ai voti di lista che si sia mai registrata a Firenze negli ultimi trent’anni. Ci ha premiato la militanza quotidiana, l’impegno disinteressato di quel centinaio di attivisti che hanno saputo difendere gli interessi degli ultimi, costruendo una forte rete di contatti e di solidarietà sul territorio e pagandosi una sede di tasca propria attraverso le tante attività condivise. Siamo riusciti, in questi anni, ad ottenere risultati importanti anche attraverso l’opera istituzionale. Tra le tante ne rivendichiamo due: abbiamo “cacciato” Equitalia da Firenze facendo approvare la nostra mozione all’unanimità e abbiamo fatto intitolare una strada a Bobby Sands, martire irlandese“.

Siete presenti anche all’Università di Firenze?

“Sì, da anni cerchiamo di occuparci anche di politica universitaria e utilizziamo l’Ateneo come volano di aggregazione giovanile per propagandare le nostre iniziative. Abbiamo più volte eletto dei consiglieri, nonostante le difficoltà fisiche e politiche che presentano le facoltà fiorentine. Restiamo convinti dell’assoluta necessità di creare una forza studentesca che non sia l’espressione del perbenismo borghese e della sciocca contrapposizione ideologica, ma che possa davvero attuare un contropotere organizzato, disciplinato e auto diretto“.

Vi definite di destra o centro destra?

“Il termine “destra” è utilizzato come scorciatoia cognitiva, come punto di riferimento geografico-politico. Quando nacque Casaggì e iniziamo a prenderci il nostro spazio conquistando la Consulta degli Studenti, un noto giornale locale fece la prima pagina con un titolo a caratteri cubitali: “Casaggì: un centro sociale, ma di destra”. Ci piacque e ce lo tenemmo. Ma l’etichetta, comunque, ci resta stretta: vogliamo essere altro, vogliamo essere di più“.

Quali sono i vostri riferimenti culturali?

“Ci siamo formati con i mostri sacri della cultura non allineata: dall’organizzazione del Cuib di Codreanu alla fascinazione guerriera per il Degrelle di “Militia”, dall’eresia antiborghese di Berto Ricci all’esempio di Alessandro Pavolini, dalla dottrina del Fascismo di Giovanni Gentile e Benito Mussolini alla mistica di Niccolò Giani e Guido Pallotta; dall’Europa di Adriano Romualdi e Jean Thiriart all’anticapitalismo di Sombart; dallo spirito futur-ardito al fiumanesimo dannunziano, da Corto Maltese ai romanzi d’avventura; dal tradizionalismo di Evola, Guenon, Scaligero, Eliade e De Giorgio alla profondità dei francesi come Brasillach, Celine e La Rochelle; da Mishima a Tolkien, da Kerouac a Marinetti; dai pensatori della Rivoluzione Conservatrice tedesca al peronismo e al Don Chisciotte, dal gabbiano Jonathan Livingston al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, fino all’immensità di Ezra Pound, ma anche quella di Nietzsche, di Cioran, di Jose Antonio Primo de Rivera e di Junger. Dalla saggezza orientale dei koan zen a quella dei sufi e del Tao, passando per il Bushido e il Bhagavad Gita. E non possiamo non citare la filosofia ellenica, la sapienza latina, l’esempio di Roma e di Sparta, il Sacro romano Impero e i controrivoluzionari di Vandea, ma anche i nostri Briganti, i Pellerossa e i pirati. Un ruolo centrale lo giocano i combattenti per la libertà, dai palestinesi all’Ira, dai monaci tibetani ai karen, dai saharawi alle migliaia di siriani che stanno difendendo la sovranità della propria Terra: riferimenti viventi di una cultura che si fa azione. Tra i contemporanei, viventi e non, non possiamo non citare – tra gli altri – Alain de Benoist, Massimo Fini, Marcello Veneziani, Pietrangelo Buttafuoco, Gabriele Adinolfi, Guillaume Faye, Serge Latouche, Zygmunt Bauman, ma anche Domique Venner, Giano Accame e Pio Filippani Ronconi. E infine, quello che più conta: l’esempio silenzioso delle migliaia di soldati, di militanti e di Uomini: dal Carso al Piave, da El Alamein alla Rsi, da Iwo Jima alle rovine fumanti di Berlino”.

Casaggì è legata a qualche partito?

“Abbiamo portato avanti dei progetti di collaborazione locale e il nostro consigliere comunale è stato eletto con la lista di Fratelli d’Italia, ma preferiamo non entrare in modo integrale in nessun partito politico. Riteniamo i partiti uno strumento e non un fine. Preferiamo mantenere un’autonomia di riferimenti culturali e di azione, magari arrancando e facendo una colletta di più per pagare l’affitto o la stampa di un manifesto ma senza dover rendere conto a nessuno. Abbiamo capito che, alla lunga, ciò che conta è la capacità di restare fermi al centro e flessibili nella circonferenza, aperti al dialogo e alle sintesi, ma senza cedere alle lusinghe di una poltrona o di una prebenda“.

Come aggregate?

“Aggreghiamo in ogni modo possibile: con una frenetica attività nelle scuole superiori, fatta di centinaia di volantinaggi; con una continua opera di approfondimento culturale attraverso i cicli di conferenze, i cineforum e le scuole di formazione; con l’azione sociale, militante e politica sul territorio; con i tanti servizi che offriamo gratuitamente; con le attività ludiche e ricreative, musicali e sportive; con la ricerca di una comunicazione grafica e di linguaggio in grado di lanciare messaggi che siano chiari e accattivanti”.

Avete aderito al progetto di Gioventù Universitaria?

“Stiamo valutando il progetto“.

giovedì 4 dicembre 2014

Il "radical" pensa al prossimo soltanto se viene da lontano

di Marcello Veneziani

C' è un punto cruciale su cui la sinistra ha costruito la sua pretesa superiorità morale, etica e sociale rispetto alla destra. Parlo di ogni sinistra, comunista o liberal, socialdemocratica, cristiana o radical, compreso quel residuo di sinistra in via di liquidazione che boccheggia nel presente.



E parlo di ogni destra, liberale o conservatrice, reazionaria o popolare, tradizionale e perfino fascista. Quel punto basilare è il prendersi cura dell'umanità, il famoso I care , la fratellanza o la generosità verso i più deboli, i poveri e gli oppressi. In una parola la solidarietà. Quell'asse regge la pretesa di ogni sinistra a ergersi su un trespolo di superiorità, una cattedra morale o giudiziaria, e da lì giudicare il mondo, gli altri e gli avversari. Il sottinteso è che la sinistra sia mossa da un ideale, un valore - la fratellanza, la filantropia, l'amore per l'altro, la solidarietà, trasposizione sociale della carità - e la destra invece sia mossa sempre e solo da un interesse, se liberale, o da un istinto, se radicale. La prima è per definizione altruista, aperta, la seconda egoista o al più familista, comunque cinica, chiusa.

A questa «utopia necessaria» e benefica, Stefano Rodotà ha dedicato un libro, Solidarietà (Laterza, pagg. 141 euro 14) elogiato dalle «anime belle» della sinistra. Troneggia una tesi che già affiorava ne Le due fonti della morale e della religione di Bergson: la vera solidarietà sta nell'amare il lontano, lo sconosciuto, lo straniero. In realtà c'è un altro modo di concepire il legame sociale, solidale e comunitario che non è indicato da Rodotà. È il legame affettivo che parte dal più caro e si fonda sulla prossimità. L'amore stesso è fondato sulla predilezione: la persona amata non è intercambiabile con un'altra, non si può amare dello stesso amore chi è caro e famigliare e chi è remoto e ignoto. Non si potrà mai chiedere a una persona di amare di più chi non conosce o è straniero rispetto a sua madre o suo figlio. Non si potrà mai pretendere che si senta più fratello dello sconosciuto rispetto a suo fratello: non si può capovolgere una legge di natura, biologica e affettiva, carnale e spirituale. Su quella legge naturale ha retto ogni consorzio umano e si traduce in legame d'amore e famigliare, legame civico, sociale e nazionale. Posso essere aperto all'umanità e ben disposto verso ogni uomo, ma a partire da chi mi è più vicino, da chi appartiene alla mia vita, con cui condivido il pane (compagno, cum-panis ), la provenienza e la storia. Perché dovrei giudicare egoistica questa preferenza, o cinica la morale che ne consegue? Amare chi ti è caro e vicino non è chiudersi al mondo in una forma deplorevole di egoismo, ma è la prima e più autentica apertura agli altri nella vita reale.



Su quei legami reggono le prime fondamentali comunità, le famiglie, quell'energia anima l'amore tra due persone, quella fonte dà coesione alle patrie e le altre forme di comunità, inclusa la confraternita, fino alla colleganza di lavoro. L'errore o la mistificazione che si compie al riguardo per sancire la superiorità morale dei solidali cosmici, è paragonare un valore universale a una degenerazione del principio opposto: non si confronta l'amore verso lo straniero con l'amore a partire da chi ti è più caro, ma la fratellanza all'egoismo, l'amore per l'umanità al cinismo. Sarebbe facile a questo punto compiere la simmetrica operazione e paragonare l'amore per chi ti è vicino al disprezzo, l'odio o l'indifferenza verso il prossimo dietro l'alibi e l'impostura della filantropia universale. Due spiriti acuti e profondi come Leopardi e Dostoevskij criticarono il cosmopolitismo filantropico sottolineando che l'amore per l'umanità o per lo straniero di solito si sposa all'insofferenza o all'indifferenza verso chi ti è concretamente vicino, familiare o compatriota. Ovvero nel nome di un amore astratto, utopico e solo mentale, si nega e si rinnega l'amore reale, quotidiano per le persone a noi più prossime. Nell'amore per l'umanità si spezzano i legami reali e si opta per un individualismo planetario: il single sradicato che abbraccia il mondo intero.

L'utopia che muove la fratellanza universale è il principio egualitario, ossia la convinzione che tutti gli uomini siano uguali non solo in ordine ai diritti e ai doveri ma anche sul piano degli affetti. Anzi, in questa prospettiva merita più attenzione e più cura chi ci è più estraneo. Non solo si respinge il principio del merito secondo cui ognuno riceve secondo le sue capacità e le sue opere, e si sostituisce col principio del bisogno secondo cui ognuno riceve in base alle sue necessità; ma si sostituisce la priorità su cui si fonda l'amore (la persona amata, la famiglia, gli amici, i compatrioti o i consociati) con la priorità assegnata agli stranieri. Da qui il passaggio dal legame comunitario che unisce le società al principio di accoglienza che apre al suo esterno. In questo caso la coesione sociale sarebbe fondata sull'adesione allo stesso principio: ci unisce l'idea di accogliere lo straniero e formare con lui una società aperta e universale.

Questa disputa ideologica è tutt'altro che riservata ai circoli intellettuali perché è piuttosto la traduzione culturale di un tema cruciale di massa nella nostra epoca. Si fronteggiano nella vita di ogni giorno due visioni del mondo: quella di chi affronta l'universale a partire dal particolare e quella di chi affronta il particolare a partire dall'universale. Il primo può dirsi principio d'identità fondato sulla realtà, il secondo è un principio di alterità fondato sull'utopia, come dicono gli stessi assertori, Rodotà incluso. La solidarietà può esprimersi in realtà in due modi: quello di chi privilegia lo straniero e si fonda sul principio di accoglienza, e quello di chi parte da chi è più vicino e fonda il principio di comunità. È la sfida del nostro tempo: comunità o universalismo, anche se taluni pensano nella loro utopia che si possa fondare una comunità su basi universalistiche, una specie di comunità sconfinata che coincide con l'umanità, secondo il vecchio progetto cosmopolitico illuminista. In realtà l'unico sciagurato tentativo di tradurre nel reale questa utopia egualitaria e universalista è stato il comunismo e sappiamo gli esiti catastrofici. Ora il tentativo è ridurre questa utopia politica a prescrizione morale, preservando i diritti individuali. Così l'accoglienza solidale diventa la base del moralismo radical, ultima spiaggia della sinistra egualitaria. L'utopia del mondo migliore dichiara guerra al mondo reale, alla vita e alla natura, sacrificando l'uomo concreto all'umanità. E ribattezza questa guerra contro la realtà come solidarietà all'umanità...

martedì 2 dicembre 2014

Alla Farnesina c’è chi si crede tornato all’epoca dei serpentoni: volantinaggi, manifesti, intimidazioni. Ma si sbaglia

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di Mario Vattani

Invece di pensare ai diritti dei lavoratori, la CGIL Esteri lancia una campagna denigratoria contro un singolo funzionario, Mario Vattani. Stavolta è accusato di lavorare.

Nei primi anni settanta, alla Farnesina c’erano i serpentoni.

Decine di impiegati si davano appuntamento – di solito nell’ufficio della CGIL – poi partivano tutti in fila, salivano al primo piano, e da lì iniziavano a girare per tutto il Ministero. Grida, botti, slogan, e soprattutto i famosi calci sulle porte, per intimidire non solo i diplomatici e i dirigenti, ma anche lo stesso Ministro.

Ebbene alle undici del venerdì 28 novembre 2014, ricevo direttamente in ufficio un’email dalla CGIL Esteri, che mi trasmette un volantino firmato da quell’organizzazione, con il titolo:

“Bentornato Ministro Vattani! Ringraziamo l’Amministrazione per la bella insperata notizia: era ora!”. Segue il testo di un articolo del Fatto Quotidiano, appena pubblicato online lo stesso giorno. Inutile starne a illustrare il contenuto, perché è zeppo delle stesse notizie travisate, tendenziose, che quel giornale ha fieramente disseminato sulla carta e via internet negli ultimi anni. Con una novità: il fatto apparentemente inaccettabile che io sia rientrato al Ministero, a lavorare. C’è una foto di me, e si fa riferimento nel titolo a uno stipendio di addirittura 130.000 euro l’anno – ovviamente omettendo che si tratta di una cifra lorda, da dividere a metà, e comunque più bassa di quella percepita da molti miei colleghi di pari grado.

Verifico se per caso il volantino sia già in distribuzione, e in effetti lo trovo ovunque, ad ogni piano, affisso sui muri, nelle bacheche, davanti a tutti gli ingressi del Ministero, distribuito anche sui tavolini dei bar, e nella sala ospiti.

La CGIL Esteri non riesce a mandare giù che io sia il figlio primogenito di Umberto Vattani, già Segretario Generale della Farnesina, e che sia entrato in carriera diplomatica nel 1991, peraltro primo del mio concorso.

Sono d’accordo, essere figlio di qualcuno non è certo un merito. Tuttavia, non riesco ancora a comprendere in che modo possa costituire un demerito.

Non ho mai visto che faccia abbiano gli impiegati del Ministero degli Affari Esteri che fanno queste affissioni selvagge, credendosi forse al collettivo studentesco. Loro però conoscono bene la mia, anche grazie a L’Unità, che per settimane la pubblicava quasi a piena pagina, a mo’ di foto segnaletica.

Non li conosco, ma le loro accuse sono sempre le stesse.

Sono stato iscritto al Fronte della Gioventù, e se è per questo anche al Movimento Sociale Italiano, un partito nelle cui file si sono formati molti protagonisti della vita politica italiana, ivi compresi un numero di Ministri e Sottosegretari, e almeno un Presidente della Camera. Non ho avuto paura dei serpentoni allora, e certo non ne ho paura adesso, quindi nessuno si illuda che camminerò rasente i muri, abbassando gli occhi davanti a qualche assurdo volantino.

Sono stato fotografato nel 2011 a Casapound, dove conosco persone che hanno avuto percorsi giovanili simili al mio, in partiti rappresentati democraticamente in parlamento. Non mi risulta che sia un’organizzazione criminale, quindi nessuna legge mi impediva di andarci allora, come nessuna legge mi impedirebbe di andarci oggi, o anche domani se decidessi di farlo.

Qualcosa mi dice che se fossi stato invece fotografato in un centro sociale occupato, di quelli da dove partono i gruppi di vandali che impunemente devastano le scuole, le università, che sfasciano e imbrattano negozi e automobili – quelli che hanno preso a sassate la macchina di Matteo Salvini, per capirci – non sarei stato oggetto delle attenzioni di quei giornali.

In ogni modo, quali che siano le mie opinioni personali, non riguardano il mio lavoro. Entrando in carriera ho giurato fedeltà alla Costituzione della Repubblica Italiana, e non sono mai venuto meno a quel giuramento. E’ una Carta fondamentale ispirata alla libertà, che grazie al cielo mi permette di avere le mie idee e anche di esprimerle.

Nel 2012 mi è stata comminata, oltre a un richiamo poi giudicato illegittimo, anche una sanzione molto severa. Pur contestandola, l’ho scontata tutta, ed ora – con buona pace della CGIL Esteri – sono in servizio a Roma, nel pieno delle mie funzioni, non a occuparmi di politica o distribuire volantini, ma a servire il Paese, come ho sempre fatto.

Trovo inaccettabile che pochi facinorosi possano impunemente tappezzare il Ministero degli Affari Esteri come fosse un liceo occupato, con volantini mirati non – attenzione – a riaffermare delle rivendicazioni per i lavoratori, ma al contrario ad attaccare in modo denigratorio una sola persona, un dipendente della stessa Amministrazione dello Stato, sperando forse di intimidirla.

Non esistono delle regole in questo Ministero? Stupisce allora come questi personaggi possano liberamente affiggere volantini deliranti e denigratori negli ingressi, nei corridoi, addirittura nella Sala VIP di questo Ministero, dove vengono accolti gli ospiti italiani e stranieri, gli Ambasciatori, gli stessi addetti diplomatici con i quali intrattiene rapporti la mia Direzione Generale, le stesse persone che io ricevo nel mio ufficio, per servizio.

Oggi è lunedì 1 dicembre, ed arrivando al lavoro ho trovato di nuovo quei volantini. Sono passati tre giorni. Ho notato che quando finiscono, vengono ristampati e distribuiti. Qualcuno ha intenzione di intervenire? Oppure è tornata l’epoca dei serpentoni?

Peraltro al di là dell’attacco personale, non si comprende che cosa viene contestato. Se alla CGIL Esteri hanno problemi nei miei confronti, che agiscano nelle sedi preposte. Che si rivolgano al Direzione del Personale.

Come è possibile che gli altri sindacati, e penso soprattutto a quello dei diplomatici, al SNDMAE, che in teoria dovrebbero occuparsi in primis dei diritti dei lavoratori, non rispondano nulla – nemmeno per correggere la ridicola somma indicata urbi et orbi come mio stipendio, lasciando credere a chi paga le tasse che un Ministro Plenipotenziario a Roma guadagna davvero 130.000 euro l’anno?

E’ davvero così tanta la fifa di quattro sconsiderati armati di fotocopiatrice a colori?

Visto che nessuno interviene, spero di non vedermi costretto a ricorrere io stesso a provvedimenti legali, a fronte del perdurare di questo atteggiamento aggressivo e denigratorio da parte di un sindacato che sembra aver dimenticato che la priorità è difendere il lavoro, non discriminare un lavoratore per ostilità ideologica.

Europa: una Civiltà, non una moneta!


domenica 30 novembre 2014

IL ROTTAMATORE DEL LAVORO



Sono giorni che Renzi racconta la storiella dell'incremento dei posti di lavoro e di quanto sia stato bravo nel crearne di nuovi. 
I dati dell'ISTAT dicono ben altro!
3 milioni e 410 mila disoccupati,una cifra record con una disoccupazione giovanile intorno al 40%!
ANCORA GLI CREDETE?

venerdì 28 novembre 2014

Per un Impero multietnico


di Alessandro Scipioni (Il Giornale del Ribelle)

Ricordando i dolorosi giorni dell’inizio della Grande Guerra ad ormai un secolo di distanza, non si può non ricordare la figura di Carlo d’Asburgo, pronipote di Francesco Giuseppe che il 21 novembre 1916, a seguito della morte di quest’ultimo, prendeva le redini dell’Impero, in pieno conflitto, ad appena ventinove anni. Egli era un convinto sostenitore di una riforma federale e democratica della monarchia asburgica, oltre ad essere da subito desideroso di porre fine allo scontro fratricida che stava minando l’eurocentrismo. Sarà lui a concedere il Manifesto dei Popoli che aprirà chiaramente ad una riforma federale, su base ugualitaria per tutti i popoli facenti parti dei domini della duplice monarchia.

È fondamentale l’Austria- Ungheria per ogni europeista come esperimento di coesistenza tra Popoli dello stesso continente e per capire quale assetto dare ad una confederazione europea bisogna colmarne i limiti ed ampliarne i possibili gloriosi orizzonti. La politica dell’Impero si era consolidata sulla coabitazione di molti popoli, contro un nemico che sarebbe stato letale per un grande impero multietnico: il nazionalismo. Lo stesso Metternich aveva compreso che le forze centrifughe dei movimenti nazionalisti avrebbero stritolato l’Europa, l’avrebbero fatta a pezzi, ed in particolare ci avrebbero rimesso i grandi imperi sovrannazionali: quindi anche i due imperi a cavallo fra l’Europa e l’Asia, cioè quello russo e quello turco, ma soprattutto quello austriaco. I nazionalismi non avrebbero solo ucciso gli imperi sovrannazionali, ma anche la possibilità per le nazioni di vivere insieme sotto la stessa autorità e alla lunga avrebbero ucciso anche la pace ( un profeta se si pensa all’odierna frastagliata Europa). L’Austria – Ungheria non poteva rivendicare per se stessa il ruolo di paese guida delle ambizioni di grandezza delle popolazioni tedesche del continente. Ormai tale posizione le era stata strappata dalla Germania del Kaiser. Ma ciò comportava l’interessamento della monarchia Asburgica a lavorare alla realizzazione di un Impero di più popolazioni in seno ad uno stato mitteleuropeo. Un esperimento davvero erede dell’esperienza del Sacro Romano Impero e dei grandi tentativi di unione continentale. Un sogno che pervade la nostre terre ed i nostri cuori da molti secoli. In ciò è lucidissima la riflessione dello stesso Cardini che invita a valutare che oggi i grandi vincitori delle scelte di Francesco Giuseppe, gli stati nazionali, sono a loro volta alle corde mentre si tende sempre più a mete sopra nazionali e metanazionali, valutando che l’esperienza dell’Impero Asburgico era più lungimirante.

Complessa era l’architettura dell’Impero. L’Ungheria, a seguito dell'Ausgleich del 1867 veniva resa autonoma dall'Austria ottenendo una propria costituzione, una milizia territoriale autonoma rispetto a quella Imperiale, un parlamento sovrano ed un’amministrazione propria, si dovevano mantenere i comandi delle Forze Armate ed i ministri degli Esteri, delle Finanze, della Guerra. Questo compromesso rese giustizia alla “questione ungherese”, ma non altrettanto soddisfatte erano le altre etnie interne all’Impero che rivendicavano giustamente i medesimi diritti degli ungheresi. Ciò il nuovo sovrano lo aveva compreso.

Già il giorno successivo Carlo I emanò il suo primo proclama imperiale impegnandosi formalmente alla ricerca di una pace onorevole tesa a restituire ai popoli il bene supremo della armonia e della sicurezza, gravemente offeso dal conflitto.

Il 17 ottobre 1918, nella speranza di impedire con un estremo tentativo l’implosione della duplice monarchia, l’Imperatore Carlo decise di mettere in pratica i suoi stessi progetti di riforma in senso federale dell’Impero e promulgòmotu proprio il Manifesto dei Popoli. Con esso si impegnava formalmente a venire incontro ai desideri delle popolazioni dell’Impero in base a criteri naturali. L’Austria sarebbe divenuta una federazione nella quale ognuno dei popoli avrebbe costituito una propria comunità statale non pregiudicando l’unione dei territori della Corona, creando comunque un’entità polacca indipendente ed alla città di Trieste sarebbe stato attribuito uno statuto speciale. I popoli avrebbero eletto dei Consigli Nazionali, formati da parlamentari di ogni singola nazione riuniti in un parlamento per garantire ad ogni Stato autonomia senza pregiudicare gli interessi comuni.

Era una pietra miliare sul cammino della creazione di una Europa dei Popoli, era la vera possibilità di coesistenza di coabitazione tra europei. Ma le potenze anglosassoni istigando la Francia per orgoglio nazionale non vollero accettare la sopravvivenza dell’Impero Austriaco, creando al suo posto una moltitudine di piccoli stati, facilmente dipendenti dalla forte Inghilterra e nel complesso base di una debole Europa. Il Vecchio Continente era per la prima volta dipendente dal ruolo degli americani che avevano determinato l’esito della guerra, iniziava a profilarsi uno scenario nel quale l’Europa non sarebbe più potuta essere l’artefice della politica mondiale, perdendo anche la capacità di disporre del proprio stesso destino...

Il sogno di ogni anglosassone da oltre cinque secoli.

mercoledì 26 novembre 2014

UNISI:ORGANI DI GOVERNO SENZA RAPPRESENTATIVITA'


Riportiamo il comunicato del Presidente di Gioventù Universitaria Siena,in merito alle vicende che hanno portato all'esclusione della lista di GU a seguito di errori burocratici commessi da parte degli organi amministrativi universitari.
A causa del malfunzionamento delle segreterie universitarie gli studenti avranno la possibilità di votare alle prossime elezioni una sola lista,cosa degna solo della Korea del Nord.

"Io, Cipriani Kris, prima che da ex membro del Consiglio di Amministrazione, mi trovo costretto con grande rammarico a scrivere da studente questa lettera, a breve distanza di tempo dalla mie dimissioni rese al Consiglio di Amministrazione.
Il mio auspicio, rendendo le mie dimissioni, era quello di garantire la possibilità a tutti gli studenti di vedere finalmente la realizzazione di elezioni studentesche trasparenti, partecipate e utili al normale e regolare funzionamento degli Organi di governo dell'Ateneo.
L'Associazionismo studentesco, concretizzato nella Rappresentanza studentesca, è una componente fondamentale della vita universitaria, perché oltre a facilitare il compito di comunicazione e informazione all'Amministrazione, è imprescindibile per l'esercizio di difesa dei diritti degli studenti e della loro tutela, senza menzionare il carico di lavoro e di responsabilità che viene portato avanti con l'organizzazione di eventi, dibattiti, approfondimenti.
Il mio mandato è stato concluso rivendicando il senso di Responsabilità, attaccamento alle Istituzione e alla cosa pubblica, che ho portato avanti sia come Rappresentante sia come Presidente di Gioventù Universitaria, tra le cui fila conta decine di militanti, simpatizzanti e centinai di votanti, con i quali l'Associazione ha espresso sempre un numero copioso di Rappresentanti e fatto rappresentanza.
Ad oggi, dopo una comunicazione inviatami dall'Ufficio Responsabile delle Procedure Elettorali, vedo l'esclusione della mia lista dalla competizione elettorale negli Organi di Governo dell'Università degli Studi di Siena, anche dopo che all'unanimità il Consiglio Studentesco si era espresso evidenziando le stesse criticità e anomalie dai Noi sottoposte.
Il mio stupore,oltre ad essere condiviso da tutti i membri della mia stessa Associazione e da tanti studenti, è accompagnato da un profondo senso di perplessità, dopo che avevamo più volte, in via ufficiosa in un primo momento, e sotto forma scritta poi, evidenziato delle difficoltà e delle anomalie oggettive sia ai diversi uffici competenti sia all'Amministrazione.
Non abbiamo potuto verificare e consultare la documentazione che quanto prevede il Decreto Elettorale, doveva essere pubblicata sull'Albo Online secondo le modalità e le tempistiche previste dallo stesso.
La poca chiarezza ela mancata pubblicazione di documentazione ha portato, infatti, allascarsa candidatura di tanti studenti legittimati a farlo e,probabilmente, alla totale assenza di liste nei tanti Comitati eDipartimenti. Gli studenti, che non erano scritti sulle liste dell'elettorato attivo e passivo, oltre che segnalarlo alle segreterie, non si sono potuti rivolgere alla Commissione elettorale perché mai riunitasi e formalizzata.
Per mancanza di chiarezza e flessibilità, come, purtroppo, succedete in Italia, le vie tortuose della burocrazia rischiano di minare la Rappresentatività nella vita pubblica.
Confidiamo nel buon senso e nell'intenzione del Rettore e dell'Amministrazione di risolvere quanto prima la vicenda, non incorrendo nel rischio di assistere ad elezioni con una sola lista concorrente agli Organi di Governo o peggio ancora illegittime e irregolari."

Le start-up come mito: una riflessione politicamente scorretta



di Benedetta Scotti (L'Intellettuale Dissidente)

Milano. In un rinomato collegio universitario, un gruppo di ingegneri in erba, affiancati dall’immancabile consulente (in erba anche lui), presenta ad una platea di studenti entusiasti e ambiziosi una nuova e brillante idea di business: una piattaforma che, raccogliendo e combinando le informazioni personali presenti sulla rete, ricostruisce gusti e preferenze degli utenti per aiutarli a compiere una scelta spesso dura, sofferta, drammatica: dove andare in vacanza. Dopo attimi di interdetto e imbarazzato silenzio, la platea scroscia in calorosi e convinti applausi. Istantanea di una scenetta (reale) che rappresenta il tripudio del contemporaneo: la noia esistenziale (pardon, lo stress!) di una società opulenta sfruttata a fini affaristici dal genio “imprenditoriale” di una, per così dire, innovativa -e quindi, per definizione, buona e giusta- start-up.

Dalla leggendaria Silicon Valley ai tavoli delle renziane Leopolde, uno comune sentire informa gli aspiranti e gli affermati, tali o presunti, innovatori di mezzo globo: giovanilismo, dinamismo, tecnologismo, ambizione sfrenata al limite dell’arroganza. Poco importa, sovente, la plausibilità dell’idea o il suo contributo fattivo al tessuto produttivo del sistema economico: lo startupper è diventato un mestiere in sé a tutti gli effetti, manca solo l’albo. Fa molto più cool della vetusta figura dell’imprenditore che costruisce in decenni di lavoro la sua attività o, ça va sans dire, della tradizionale gavetta in azienda. Lo startupper si costruisce da sé la propria esperienza ed è orgogliosamente, sin dal vero principio, homo faber fortunae suae o, per rispettare la vocazione anglofona della categoria, un puro e genuino self-made man. I suoi miti sono i vari Jobs (Apple), Brin e Page (Google), Gates (Microsoft), Zuckerberg (Facebook), i cui giganteschi imperi sono sorti nel giro di pochi anni. Confida di trovare prima o poi un business angel che metta sul piatto conspicui capitali per farlo uscire dall’anonimato e lanciarlo nell’Olimpo dei grandi innovatori.

Ma lo startupper quante possibilità ha di realizzare i suoi sogni milionari? Purtroppo molto poche. Le statistiche sono spietatamente contro di lui. Secondo uno studio di CB Insights (relativa alla realtà statunitense), solamente il 4% delle startup che ricevono fondi di capitale si trasformano in galline dalle uova d’oro, contro una probabilità di fallire del 75%. I sogni dello startupper si infrangono contro il muro della crudele realtà, negletta e dimenticata nell’era digitale: fare impresa (startuppare è oltremodo cacofonico) è un mestiere duro, spesso gramo, dove il pericolo è sempre in agguato. La rivoluzione di Internet non lo ha reso più facile: il Web e le nuove tecnologie hanno sì aperto nuovi scenari e nuove opportunità, ma caratterizzati da una concorrenza più agguerrita e aggressiva che mai, pronta a sfruttare la minima defaillance. La mortalità per lo startupper resta elevata anche nel Belpaese nonostante la proliferazione di un vero e proprio ecosistema pensato per la sua sopravvivenza, costituito da incubatori, acceleratori, eserciti di mentori, tutors e consulenti pronti a elargire consigli agli aspiranti innovatori. Un vero e proprio business lucrante sulla travolgente mania startuppara. Se poi lo startupper nostrano effettivamente non ce la fa, gli imputati sono molteplici: l’infame burocrazia, il maledetto nanismo dell’impreditoria italiana, il governo ladro che non investe nei suoi talenti. Cause potenzialmente vere. Eppure ce ne potrebbe esserne un’altra, altrettanto vera ma scomoda, politicamente scorretta e, per questo, tacitata. Ha avuto il coraggio di parlarne quell’improbabile esempio di “imprenditoria” italiana che è Flavio Briatore il quale, durante un’affollatissima conferenza presso l’Università Bocconi lo scorso maggio, osò dire, senza peli sulla lingua, che le startup sono, in fin dei conti, “una fuffa”. E, rincarando la dose, suggerì agli indignati bocconiani, accorsi ad acclamarlo, di cercarsi un lavoro normale: “Magari apritevi una pizzeria. Così se fallisce almeno vi mangiate una pizza. Se fallisce la startup non vi rimane neppure quello”.
L’affermazione irriverente e tranchante, pur scadendo nella generalizzazione, induce ad una riflessione critica e lucida sulla divinizzazione delle startup, troppo spesso trappola per talenti che si perdono nel mito di Zuckerberg, per mancanza di esperienza, lucidità e realismo, in idee di dubbia utilità e concretezza (vedi il caso dei giovani ingegneri e la piattaforma sulle scelte vacanziere). Dinamismo, tecnologismo e giovanilismo fanno uno startupper, ma non necessariamente fanno un imprenditore. “L’Italia può essere la startup più bella del mondo” proclamava Renzi, allora sindaco di Firenze. Considerata la mortalità dello startupper, c’è da sperare che l’auspicio renziano non si avveri.

lunedì 24 novembre 2014

L’intervista. Storace: “Democrazia? C’è un regime che limita la libertà di espressione”



di Mario De Fazio (Barbadillo)

Va bene la libertà d’espressione. Ma dipende da chi la esercita e contro chi. Francesco Storace, ex presidente della Regione Lazio e leader de La Destra, considera la condanna per vilipendio al Capo dello Stato un atto commesso da un “regime che confuta la libertà di espressione”. Una caccia alle streghe che si scatenò nel 2007 “per mascherare la mia proposta di abolire i senatori a vita”. “Rispetto a quello che sento dire oggi, il mio fu un complimento”, aggiunge.

Storace, lei è stato condannato per vilipendio al Capo dello Stato, come Giovannino Guareschi. Un caso più unico che raro?

«A parte il caso celebre di Guareschi, che fu condannato quando c’era un presidente tutt’altro che interventista (Luigi Einaudi, era il 1950, nda) che non partecipava attivamente all’agone politico, in realtà ci sono stati altri casi minori. Ma se c’è un senso nell’immunità parlamentare risiede proprio nell’esercizio libero delle opinioni. A giudicare dall’effetto boomerang che si è scatenato soprattutto in rete, però, si è trattato di un passo falso».

Lei è stato condannato per aver dichiarato “indegno” della sua carica Napolitano, rispondendo al Presidente che a sua volta aveva considerato “indegno” offendere l’allora senatore a vita Rita Levi Montalcini, con cui La Destra aveva polemizzato perché nel 2007 i senatori a vita erano una sorta di soccorso rosso al governo Prodi, con tanto di stampelle recapitate a domicilio. E’ una ricostruzione corretta?

«C’è di più. In realtà nessuno mandò le stampelle alla Montalcini e in nessun atto giudiziario mi è stato contestato questo. Qualcuno lo scrisse sul blog e qualche giovane più scalmanato lo disse ma io non ho mai detto quelle parole. Si montò un caso politico perché si voleva mascherare una mia proposta di legge per abolire i senatori a vita. In quel periodo si viveva ogni votazione rischiando l’infarto, e ogni volta che i senatori a vita votavano davano una mano al governo. Io presentai un disegno di legge costituzionale per l’abolizione di questa figura e si scatenò un pandemonio. Ma qui si tratta davvero di un episodio senza precedenti».


Dalla sua vicenda sembra emergere uno dei paradossi delle democrazie liberali: in teoria si tutelano le opinioni di qualsiasi minoranza ma quando si sconfina fuori dal recinto delle libertà concesse, viene messa in discussione la stessa natura della libertà di pensiero. E’ così?

«Viene confutata la libertà di opinione. Paradosso per paradosso, aggiungerei che quando due persone fanno pace, come accaduto a me, il processo va avanti lo stesso perché nel caso del vilipendio non ci si può fermare. Mentre se querelo un giornalista ma poi ci riconciliamo, finisce tutto. E’ un regime, non c’è dubbio. Con il Pd che sabota qualsiasi iniziativa di modifica del reato di vilipendio. In Italia non si può più criticare».

A lei capitò Mastella come Guardasigilli, che fu particolarmente solerte nel procedere con l’accusa. Oggi se ne sentono di tutti i colori sulla Presidenza della repubblica ma nessuno si muove…

«Rispetto a quello che sento dire in giro oggi, il mio fu un complimento. La mattina della sentenza ho scritto un pezzo che si intitolava “il vilipendolo”: mi è capitato Mastella che in 48 ore si è subito attivato, mi fosse capitato Orlando, che dorme sui faldoni che si accumulano, forse sarebbe andata diversamente. Ma con i miei avvocati abbiamo deciso di muoverci come una specie di Perry Mason: ogni volta che leggeremo o ascolteremo una frase offensiva la segnaleremo come diffida a procedere al ministro Orlando e, nel caso non faccia nulla, lo denunceremo per omissione d’atti d’ufficio. Più liberali di così non credo si possa essere».

In tanti hanno espresso solidarietà nei suoi confronti. Quali sono stati gli attestati di stima che le hanno fatto più piacere e da chi invece si aspettava una parola che non è arrivata?

«Mi hanno fatto piacere le parole di Gasparri, che si è battuto come un leone, e mi ha sorpreso la compattezza di Fratelli d’Italia, di La Russa, Meloni e Alemanno: un mondo che si è sentito colpito. Anche le parole di Fini, con cui mi sono aspramente scontrato in passato, mi hanno fatto piacere. E poi mi ha colpito molto la solidarietà di Sel: la sinistra laziale, che è quella che mi conosce meglio, mi ha difeso sia tramite il vicepresidente della Regione Massimiliano Smeriglio che con il consigliere Gino De Paolis. Di quelle che mancano vorrei aspettare qualche giorno a fare i nomi, concedendo l’attenuante della tempistica. Forse qualcuno si è svegliato tardi e non sa ancora che sono stato condannato. C’è molto cinismo in giro».

giovedì 20 novembre 2014

Veneziani: “Non è la moneta a fare l’Europa”




di Emanuele Ricucci

Marcello Veneziani, di che salute gode l’Europa, soprattutto alla luce dei fatti che coinvolgono l’asse Russia-Ucraina-Usa, tra sanzioni ed affari, all’alba di quella che potrebbe essere, il condizionale è d’obbligo, una nuova, possibile guerra fredda? 

L’Europa non ha una visione strategica del mondo e procede tra cieche convenienze di corto respiro o interessi finanziari che prescindono da interessi popolariegoismi ed egemonie nazionali che danneggiano altri paesi europei… Lo si vide con la primavera araba, con le crisi in medio oriente, con l’immigrazione, lo si vede con la Russia…

Dai Baschi ai Catalani, dai Bretoni alla Corsica, dai Tirolesi ai Veneti, passando per la Sardegna, dai Fiamminghi alla Scozia, ultima in ordine cronologico ed altri. Si sogna una nuova nazione nella nazione, incastonata, a sua volta, in una sovranazionalità sempre maggiore ed in una sovranità propria, sempre più assottigliata e ristretta. Sono segnali che l’Europa deve cogliere o rimangono capricci secessionisti con il miraggio del ritorno a proprie visioni economiche e proprie regole, ad una autodeterminazione pura?

Reputo importante la difesa delle identità e delle comunità locali e nazionali ma non riesco a vederle che all’interno di un sistema di cerchi concentrici in cui la patria locale ‘ dentro la patria regionale, che è dentro la patria nazionale, che è dentro la patria europea… E’ assurdo sognare lo smembramento, in forma di secessione, non porta da nessuna parte e rende ancora più fragile la difesa dai nemici interni e dai poteri multinazionali interni.

Si può parlare ancora di Europa Nazione o stiamo transitando verso la fine degli stati nazionali immaginati e concretizzatisi negli ultimi due secoli?

L’Europa nazione era il sogno della gioventù nazionale e rivoluzionaria di destra ma non è mai stato il progetto europeo; come l’Europa delle patrie sognata da de Gaulle… Ma il fallimento politico, culturale e popolare dell’Europa è la dimostrazione che la strada seguita era sbagliata, non è l’economia, non è la moneta che può fare l’Europa…

Dove corre l’Europa, verso un blocco completo, compatto, definitivo o ad un ritorno verso il suo medioevo costellato di stati, regni e granducati? A suo avviso, potrebbe configurarsi questa possibilità?

Sono possibili più esiti, ma allo stato attuale non mi sembra probabile l’autoscioglimento dell’Europa. Il problema è fare un deciso passo avanti o un deciso passo indietro e non restare in mezzo al guado: ovvero o nasce un’Europa politica, unita sul piano militare e strategico, capace di una sua politica estera e in grado di fronteggiare la colonizzazione finanziaria, la concorrenza asiatica e l’immigrazione selvaggia, oppure meglio tornare alle realtà nazionali.

Patrick Buchanan, uno dei padri del paleoconservatorismo americano, di per sé molto affine al nazional-conservatorismo europeo, afferma in suo recente articolo:” La decomposizione delle nazioni della vecchia Europa è il trionfo del tribalismo sul transnazionalismo. Il richiamo del sangue, la storia, la fede, la cultura e la memoria sta vincendo la lotta contro l’economismo, l’ideologia materialista occidentale che sostiene che il desiderio di denaro e delle cose è ciò che motiva in definitiva l’umanità”. E’ d’accordo con Buchanan?

Non ha torto Buchanan. Quando si trascurano i bisogni spirituali, simbolici e ideali di un popolo da un verso si lascia incontrastato il dominio del materialismo e dall’altro si eccita una reazione selvaggia, un’esplosione incontrollata di sentimenti repressi che poi dà luogo a forme radicali, estreme e fanatiche

Su questa base, potrebbe iniziare a montare un sentimento ed una volontà di frazionamento auto protettivo delle identità e delle culture, di restaurazione dei dettami originari, seppur ammodernati, delle colonne su cui si fondano le civiltà europee? Che si inizi ad essere fieri, in questo grande Villaggio Globale, di essere o tornare ad essere una minoranza che salvaguarda se stessa ed interpreta l’avvenire secondo i propri schemi, le proprie peculiarità, le proprie visioni?

La difesa delle identità non va però concepita come una chiusura a contesti più ampi. Bisogna saper progettare l’idea di una comunità aperta, cioè legata alle proprie radici, identità e tradizioni ma non chiusa al mondo e alle diversità, reclusa e ostile rispetto a ogni altra differenza.

Datosi che la sovranità di un popolo nella sua terra costituisce base fondante per la definizione stessa di “stato-nazione”, lo spirito sovranazionale Europeo, sempre più stringente, che si manifesta nelle strutture e nelle scelte politiche ed ancor più in quelle economiche, potrebbe contribuire al frazionamento nazionale del Vecchio Continente?

Io non vedo “lo spirito sovranazionale europeo”, vedo poteri sovranazionali che nel nome astratto dell’Europa e del mercato, mortificano le realtà locali e nazionali e in questo mondo rischiano di alimentare frustrazioni fino a provocare reazioni imprevedibili…

Qquale indirizzo dovrebbe seguire, sempre su questa scia di considerazioni, la contemporanea destra Europea? Seguire una linea di tutela “tradizionale”, quindi sostenere un blocco Europeo fondato su dettami culturali definiti, identitari, legati alle radici, alla memoria del Vecchio Continente o dovrebbe essere di rottura coi vecchi schemi, accogliendo di buon occhio questa decomposizione come vera ed innovativa forma di salvaguardia delle integrità culturali e nazionali?

Ribadisco quel che ho detto agli esordi, a proposito di un’Europa dei cerchi concentrici. La via da seguire è concepire l’Europa come una realtà sinfonica, armoniosa nelle sue differenze, che sappia integrare e non dis-integrare le patrie locali e nazionali in un’entità sovraordinata. Una specie di piramide che non cancella né deprime le sue basi ma che poi raggiunge la sua sintesi in alto. Diversità in basso, unità in alto. Un arcipelago di patrie che animano una civiltà.