lunedì 30 dicembre 2013

“The Fourth Political Theory” di Dugin: orizzonti alternativi al Pensiero Unico

De Benoist e Dugin 
da: Barbadillo


Aleksandr Gel’evič Dugin, classe 1962, ha potuto esperire personalmente due transizioni essenziali del secolo scorso: il crollo del blocco sovietico con la conseguente affermazione di un modello geopolitico unipolare di marca statunitense e il passaggio culturale, filosofico ed esistenziale dell’Occidente dalla civiltà moderna alla virtualità del post-moderno. L’ultimo saggio concepito dall’eclettico intellettuale russo, ad oggi non disponibile in lingua italiana, si inserisce all’interno di tale crocevia epocale. The Fourth Political Theory (Arktos, London 2012) affronta l’ampio spettro di problematiche suscitate dall’“interregno” in cui l’uomo contemporaneo si trova scagliato, un simulacro liquido caratterizzato dall’assenza di vincoli fondativi e dall’alienazione rispetto ad ogni nomos. Jüngerianamente consapevole che “ci troviamo ad una svolta fra due epoche la cui importanza corrisponde pressappoco a quella del passaggio dall’età della pietra all’età dei metalli”, Dugin rivolge una colta, giustificata e serrata critica al paradigma politico-culturale vigente.
libro duginL’intellettuale, acuto promotore in sede teorica e politica dell’eurasiatismo, trascura nel presente saggio l’istanza slavofila tipica della proprio speculazione per volgere uno sguardo più ampio sul mondo occidentale, ed in particolare sulle sorti di quell’Europa che con la Russia condivide, pur nella propria precipua autonomia, storia e tradizioni. Il “nemico” della civiltà eurasiatica viene identificato toutcourt con il liberalismo, di cui il modello statunitense è il paradigma immanente; la necessaria critica alle politiche imperialiste promosse dagli U.S.A. non deve tuttavia distogliere dall’obiettivo polemico essenziale, insito nella Weltanschauung che è alla base dei diversi epifenomeni della degenerazione e che porta un nome unitario, quello di liberalismo appunto.
La pars destruens operata da Dugin occupa una sezione importante del saggio e si sviluppa su piani eterogenei: analisi geopolitica, critica filosofica, prospettiva religiosa e teoria politica concorrono alla decostruzione degli idoli su cui si regge il mito moderno del liberalismo. A tale sezione va l’indubbio merito di unire sapientemente ambiti di riflessione fra loro distinti all’interno di un atanor alchemico in cui ogni componente si amalgama con l’altro suggerendo una processualità di significato strutturata su piani diversi ma fra loro collegati.
I “compagni di viaggio” di Dugin sono numerosi: Heidegger, Evola, Guénon, Niekisch, Spengler, Schmitt, Leo Strauss, de Benoist, Husserl, Bateson sono solo alcuni dei numerosi intellettuali citati dal filosofo russo e impiegati nella demolizione dei dogmi fondativi della modernità. La critica al liberalismo non riserva tuttavia al lettore smaliziato intuizioni sorprendenti: Dugin si limita a rielaborare sinteticamente, e talvolta con un certo riduzionismo, delle riflessioni maturate all’interno della cosidetta “letteratura della crisi” e presso gli aderenti alla Rivoluzione Conservatrice. La sintonia con il più volte citato de Benoist è in quest’ambito quasi totale: con il filosofo francese condivide la volontà di oltrepassare l’ormai sterile dicotomia Destra/Sinistra e sostiene parallelamente un’istanza di superamento critico dei modelli politici novecenteschi di comunismo e fascismo, divenuti utili al Sistema stesso in quanto miti incapacitanti e capri espiatori esecaribili alla luce della moderna religione dei diritti umani. Dugin contemporaneamente rifiuta la demonizzazione dei radicalismi politici e teorizza il riassorbimento sintetico di queste categorie in un nuovo paradigma che sia “e di destra e di sinistra”. Quanti hanno attaccato il pensatore tacciandolo di intellettualismo e di ingenerosità nei confronti di una “terza via” già esistente hanno mostrato di non aver compreso lo sforzo duginiano – sul cui successo è invece ampiamente legittimo dibattere – di suscitare nuovi mitologemi adatti a mobilitare l’uomo contemporaneo, nella certezza tipicamente perennialista secondo cui principi trascendenti ed eterni mutano la propria configurazione fenomenica in relazione alla struttura immanente in cui si rivelano.
La parte decisamente più rilevante del saggio duginiano è dunque ravvisabile nelle suggestioni costruttive e costituenti indicate dall’autore. E questo non perché si tratti di soluzioni definitive, ben strutturate e pragmaticamente attuabili. La teorizzazione di Dugin risulta al contrario in molti tratti stretta in un baratro fra un’aspirazione pragmatica e realista, che lo porta a indicare un fronte politico e internazionale a suo dire disponibile a fronteggiare il “pensiero unico”, e una tensione teoretica intimamente astratta, ispirata da speculazioni filosofiche e tradizioni esoteriche di natura elitaria. É tuttavia in questo tentativo di delineare i contorni di un paradigma alternativo possibile che si coglie la portata del testo, un “segnavia” in un percorso utopico sì, ma non utopistico, che nell’atteggiamento heideggeriano di cura verso il mondo e di preparazione dell’avvento dell’essere si apra alla natura metamorfica del reale e ne prepari l’Ereignis. “Forse solo un dio ci può salvare”, ma all’uomo spetta secondo Dugin una forte responsabilità esistenziale ed etica rispetto a tale epifania. L’impegno dell’intellettuale sta allora nella configurazione di nuovi orizzonti politico/filosofici, nella convinzione che la dignità della persona, il senso di appartenenza, l’identità della comunità e la realizzazione spirituale non siano un punto di partenza, bensì un posizionamento da assumere e un obiettivo da conquistare. Il saggio di Dugin si pone allora non come l’enunciazione dogmatica e strutturata di un nuovo modello politico, bensì come un cantiere aperto di riflessioni finalizzate a contribuire all’edificazione nell’immaginario collettivo di una Quarta Teoria Politica in cui la molteplicità e la pluralità siano principi fondamentali. In consonanza con la dottrina tradizionale dell’Impero, Dugin prospetta una visione di macro-aree politiche unite da un comune sostrato culturale, storico e spirituale ma aperte ad autonomie locali e salde nella difesa delle differenze.
Se comunismo, fascismo e liberalismo devono essere abbandonati, tutte queste teorie offrono elementi che, riassorbiti in un nuovo circolo ermenutico, vale a dire in un differente contesto immaginale, possono contribuire alla costruzione della Quarta Teoria Politica. Così le suggestioni positive dei modelli novecenteschi – rispettivamente l’acuta identificazione delle contraddizioni del capitalismo e il mito escatologico, la tutela dell’ethnos e della comunità, il valore della libertà umana (da non concepirsi più individualisticamente ma in senso personalistico) – possono contribuire alla delineazione di un nuovo archetipo di autenticità, in cui reificazione, obiettivismo, pensiero unico, fine della storia e progressismo forzato vengano sostituiti da una nuova visione del mondo.
Soggetto di tale paradigma non sarà più il proletariato, né lo Stato etico fascista o la razza ariana, né infine l’individuo atomizzato ed edonista, bensì il Dasein, l’esser-ci. Il ricorso di Dugin al concetto filosofico heideggeriano pone numerose questioni. É inevitabile domandarsi quale forza mobilitante possa rivestire una così astratta speculazione teoretica, partorita da un intellettuale in un’opera di ontologia quale Sein und Zeit. Il problema rimane, anche perché Dugin non definisce mai in modo preciso tale termine, lasciandolo sullo sfondo quale mito originario della propria costruzione. Si possono tuttavia cogliere diversi riferimenti grazie a cui mi pare corretto indicare nella figura del Dasein una nuova tipologia antropologica – o sovra-antropologica –, frutto di una metanoia radicale, grazie a cui il soggetto venga reintegrato nelle proprie possibilità originarie, secondo una visione affine alla tesi tradizionale della molteplicità degli stati dell’essere. Il Dasein è allora l’uomo autentico, aperto all’essere e dunque al Sacro, sensibile alla Presenza e pro-iettato verso il futuro. Il Dasein è inoltre un espediente per superare il dualismo razionalista che la civiltà occidentale logocentrica ha elaborato con successo fino a condurlo alle sue estreme conseguenze teoriche con uno svuotamento di significato. Soggetto e oggetto vengono riassorbiti nel Dasein, che è anche inzwischen (frattanto), quanto cioè si colloca nel mezzo sotto un profilo temporale.
Dugin presenta quindi la Quarta Teoria Politica come atto di contemplazione, rituale teurgico e operazione magica finalizzata a condurre in una dimensione “sovra-naturale (…) dove non vi è alcuna barriera fra idea e realizzazione” (p. 181). In questa prospettiva si rivelano nuove modalità di rapportarsi al mondo: la visione progressiva, lineare e “monotonica” del tempo e della civiltà occidentale può essere abbandonata a favore di una interpretazione aperta del flusso dell’esistenza, definito da Dugin in termini nietzscheani come compenetrarsi del flusso amorfo dionisiaco e della individuazione plastica apollinea. La temporalità diventa inoltre reversibile.
Non solo la concezione del tempo muta, ma anche quella dello spazio, a dimostrazione di come tali categorie non siano apriori in senso kantiano, bensì modalità di esperire il reale culturalmente determinate. Così la topografia politica della globalizzazione, che nella sua inclusività annulla le distinzioni fra destra e sinistra per sussumerle al proprio interno, può essere scardinata da un nuovo binomio concettuale: quello fra centro e periferia. É da quest’ultima prospettiva che possono partire gli attacchi al modello onnipervasivo.
Al concetto di Dasein Dugin lega quello di Radical Subject, una dimensione ancor più profonda, a suo dire, della soggettività trascendentale husserliana, che “mostra se stesso solo nel momento della catastrofe storica finale, nella traumatica esperienza del “corto circuito”” (p. 168). Si tratta di una formazione dalle forti tinte mistiche, non dissimile, in base i pochi riferimenti indicati, all’Individuo Assoluto teorizzato da Julius Evola. Afferma infatti Dugin che “il Soggetto Radicale è incompatibile con ogni tipo di tempo. Esso richiede energicamente l’anti-tempo, fondato sull’elevato fuoco dell’eternità transigurato in luce radicale” (Ibidem). Siamo di fronte al soggetto integralmente libero, non implicato nel paradosso del postmodernismo libertario che “sotto l’egida dell’assoluta libertà inizia a rimuovere la libertà di dire “no” alla libertà stessa” (p. 85).
Per Dugin la postmodernità conduce al parossismo le tendenze peculiari della modernità in una disgregazione totale del senso e in una piena destrutturazione del reale, su cui il liberalismo moderno ancora poteva fondarsi. La lezione di Baudrillard, Debord, Deleuze e Guattari è ben nota a Dugin, che affronta il pensiero postmoderno con un atteggiamento per certi versi simile a quello tenuto nei confronti della modernità dai nichilisti attivi e dagli esponenti della Rivoluzione Conservatrice. É la medesima prospettiva assunta da Heidegger quando afferma la necessità di una accelerazione del nichilismo: se davvero si intende superare l’avvento della signoria del Nulla è del tutto inutile produrre nuovi idoli o attestarsi su posizioni meramente conservatrici, giacché solo mediante il compimento destinale del nichilismo si potranno aprire squarci salvifici nel panorama a tinte fosche che si profila all’orizzonte. Così per Dugin la postmodernità è inserita inevitabilmente in un ciclo storico dalla metamorfosi necessaria e inevitabile. La decadenza connessa alla contemporaneità è sintomo della conclusione di un ciclo e pone l’uomo di fronte a un bivio: uniformarsi alle tendenze disgregatrici o, viceversa, cavalcarle e sfruttare l’energia in esse latente. Così Dugin dimostra un’accurata conoscenza del pensiero postmoderno e si serve persino di alcune intuizioni sorte in tale fermento culturale al fine di disintegrare completamente le certezze della modernità liberale e condurre l’uomo alla soglia del caos, di quel precategoriale originario che è fonte perenne della totalità manifesta e precede, secondo Dugin, la visione cristallizzata dell’Essere propria della metafisica logocentrica occidentale. Il caos “include in se stesso tutto ciò che è, ma allo stesso tempo tutto ciò che non è. Quindi il caos che include tutto include anche ciò che non è inclusivo (…) quindi il caos non percepisce il logos come Altro, bensì come se stesso” (p. 209). É da questa metafisica del caos che potrà risorgere il logos, che “richiede un salvatore, non può salvarsi da sé. Necessita di qualcosa di opposto a se stesso per essere ripristinato nella situazione critica della postmodernità” (p. 210). Dugin tenta così di innestare nell’arido e spoglio suolo d’Europa un seme rinnovatore, partorito dalla Tradizione in una delle sue forme metamorfiche. Consapevoli che la profezia non è scienza, bensì dono di pochi, non resta che attendere vigili la morte della fenice della nostra Zivilisation in un’attesa accorta e nella costruzione responsabile della sua rinascita come Kultur.

domenica 29 dicembre 2013

GRANDE CORTEO IL 22 FEBBRAIO!


Come ogni anno la destra fiorentina, composta di tutte le sue anime, sarà in piazza unita dal tricolore. Sarà in piazza per ricordare i MARTIRI DELLE FOIBE: migliaia di innocenti trucidati e dimenticati dall’odio comunista perché italiani. Manterremo viva la loro memoria e, partendo da quel sacrificio, lanceremo un messaggio al paese e torneremo a parlare del FUTURO DELLA NOSTRA NAZIONE.

Sentiamo forte la necessità di tornare a presidiare le strade in un momento difficile. Crediamo che occorra ribadire con forza l’importanza della nostra IDENTITA’ DI POPOLO E DI NAZIONE: occorre farlo adesso, prima che sia troppo tardi. Qui e ora, perché stiamo subendo i colpi della speculazione finanziaria che sta divorando la nostra SOVRANITA’ MONETARIA; perché stiamo accusando l’assenza di un governo eletto e stiamo perdendo la nostra SOVRANITA’ POLITICA; perché stanno smantellando la nostra SOVRANITA’ CULTURALE per lasciare il posto a modelli multietnici che non ci appartengono; perché stanno minando le basi della GIUSTIZIA SOCIALE anteponendo il profitto alla solidarietà e la massa informe alla comunità; perché stanno uccidendo il FUTURO DEI NOSTRI FIGLI rendendolo precario, fiscalizzato, privatizzato e omologato. 

Essere in piazza, il 22 febbraio, è un dovere etico: significa accendere una fiaccola e illuminare il buio di questo tempo. Significa riaccendere simbolicamente la fiamma dei valori che hanno animato la nostra Civiltà. Esserci: per ricordare e costruire, per continuare a sperare, per riconquistare quello che ci spetta. Con noi, assieme ai tanti ospiti nazionali che interverranno, ci saranno tutti i movimenti politici del territorio che difendono l’identità di questo paese e hanno a cuore il suo futuro. Non ci saranno simboli di partito, ma solo vessilli tricolore: perché non ci interessa il destino di una parte, ma quello di un Popolo.

GRANDE CORTEO TRICOLORE
SABATO 22 FEBBRAIO ORE 15
PIAZZA SAVONAROLA - FIRENZE
CON OSPITI NAZIONALI E TUTTI I MOVIMENTI

La “Milano che ricorda” ha reso omaggio ad Anita, la mamma di Sergio Ramelli


di Giovanni Trotta (Secolo d'Italia)

Quando arrivò l’annuncio della morte di Sergio Ramelli al consiglio comunale di Milano, nel 1975, molti consiglieri comunali applaudirono. E fischiarono al missino Tomaso Staiti di Cuddia, che in quel momento aveva la parola. Chiedetelo a Ignazio La Russa, che della famiglia fu l’avvocato e che la Milano di quegli anni se la ricorda bene. La Milano di Avanguardia Operaia e delle Hazet 36, le chiavi inglesi con cui il fiduciario del Fronte della Gioventù fu massacrato sotto casa sua. Stavolta non c’erano extraparlamentari che facevano le foto ai partecipanti al funerale, come accadde alle esequie di Sergio. E stavolta la cerimonia si è potuta tenere senza cariche della polizia né denunce per apologia di fascismo. Il funerale nella chiesa del quartiere e un breve e silenzioso corteo fin sotto casa, davanti alla targa in ricordo di suo figlio Sergio, il giovane missino ucciso nel 1975 da esponenti dell’estrema sinistra: così la il popolo milanese ha tributato l’ultimo saluto ad Anita Ramelli, 79 anni, scomparsa lo scorso 23 dicembre. Ai funerali, alla chiesa Santissimi Nereo e Achilleo di Milano, in viale Argonne, c’erano (tra le circa 500 persone presenti) praticamente tutti i vertici degli ex An, passati oggi a Fratelli d’Italia. La leader del partito, Giorgia Meloni, Ignazio La Russa (tra quelli che hanno portato a spalla il feretro) e il fratello Romano, il parlamentare Massimo Corsaro, l’assessore regionale Viviana Beccalossi, i consiglieri comunali Riccardo De Corato e Marco Osnato, l’europarlamentare Carlo Fidanza. Fuori dalla chiesa, le corone di Fratelli d’Italia e CasaPound. Ai lati dell’ingresso – a salutare l’arrivo e l’uscita del feretro – numerosi militanti di formazioni della destra cittadina. Quindi, al termine della cerimonia, il corteo fino alla vicina casa in via Paladini, la deposizione dei fiori sotto la targa dedicata a Sergio Ramelli e l’ultimo saluto a ”mamma Anita”. Ignazio La Russa, annunciandone la morte, ha ricordato «commosso e con immutato affetto Anita Ramelli, mamma di Sergio, il mio amico allora diciottenne attivista del Fronte della Gioventù ucciso brutalmente sotto la sua abitazione a Milano il 29 aprile 1975 dai militanti della sinistra extraparlamentare legati ad Avanguardia Operaia. In questi 38 anni Anita è sempre rimasta vicina alle varie generazioni dei giovani di destra che nel nome del figlio hanno sempre trovato motivi di impegno ideale – ha aggiunto – Dopo la signora Mattei scompare purtroppo un’altra delle mamme di quei tanti ragazzi di destra che sono rimasti vittime della violenza politica. Ai familiari di Anita a cui ero particolarmente legato, giungano le mie sincere condoglianze».

sabato 28 dicembre 2013

Nel cuore della foresta. Favola lupesca sul bene e sul male

di Gian Maria Bavestrello


Il rumore delle imposte che spengono gli ultimi raggi di sole si accavalla all’eco delle spranghe che sigillano le porte. Gli uomini versano il colpo nella canna del fucile, mentre le donne, giunta la destra tra le perle del rosario, accarezzano i loro bambini con la sinistra. Un dolce rito esorcistico a sigillo delle difese che un povero villaggio può schierare contro la minaccia divampante là fuori, protetta dall’oscurità e dal silenzio di algide notti invernali. Un assassino seriale si aggira tra le lande della contea, affamato e a caccia di denaro. E’ spietato, feroce, privo di scrupoli, dicono quei pochi che hanno potuto raccontare l’ incontro con tale demonio.

Addirittura, giurano costoro, quest’assassino può trasformarsi in belva. In un lupo, dicono. Un lupo mannaro dal pelo ispido e dalle fauci letali. La sua stirpe, raccontano i vecchi, affonda le proprie origini nella notte dei tempi. Fu creata da un patto stretto illo tempore con Satana in persona e rinnovato, equinozio dopo equinozio, da sangue innocente versato in nome di questa blasfema alleanza. Vinto dalla paura, al calar della bruma, nessuno osa più addentrarsi nella foresta. Anche di giorno gli abitanti hanno paura a sfidare la selva, dove si racconta che il lupo abbia la propria laida tana. La legna accatastata per l’inverno è sempre più scarsa, le provviste sempre più povere, le comunicazioni con le altre terre sempre più rade. Gli uomini sempre più miserevoli e infelici.

Arrivò in Paese, un giorno, un sapiente, forse un filosofo. Uno straniero apparso proprio dalla foresta, tra lo stupore degli abitanti. Non si scosse quando il governatore e il prevosto lo misero al corrente dei fatti. “I vostri padri hanno separato il Bene dal Male, come se destra e sinistra, luce e oscurità, giorno e notte, non si appartenessero intimamente. Fate bene ad aver paura del licantropo, perché è più vicino a voi di quanto non riusciate a immaginare, ma i vostri occhi sono troppo miopi per riuscire a vederlo”.

Il filosofo guardò verso l’orizzonte e additò la foresta: “Avete espulso le creature del bosco dalla vostra terra per costruire le vostre case, ma non potete estirparne gli spiriti dalla vostra anima. Essi vi si rivoltano contro. Un uomo diventa un lupo quando il lupo non è potuto diventare uomo”.

Il governatore e il prevosto si guardarono per consultarsi, ma quando si rivolsero nuovamente al filosofo costui era sparito. Dopo pochi attimi, alle loro spalle si manifestò una figura golemica, un’ombra che lentamente si svelò insieme a occhi iniettati di sangue, denti lunghi quanto un palmo di mano, pelo ispido e aguzzo, grigio come la cenere. “Andate nella foresta e trascorrete lì la notte”, disse il licantropo ai poveretti, pregni di terrore. “Non so se vi ucciderò, ma avete scelta? Se non manterrete fede al patto, io tornerò per giudicare la vostra codardia. Non siate così folli da confidare nella mia pietà”.

Al tramonto i due uomini, impauriti e tremanti, si recarono nel cuore della foresta. Qui, tra rumori sinistri e versi di animali ignoti, udirono un pianto infantile. Era un neonato. La sua pelle appariva ricoperta da una peluria inusuale per una creatura di così pochi mesi, i suoi occhi erano rossi come le fiamme dell’inferno e la sua dentatura metteva in mostra canini che sarebbe stato difficile giudicare umani. “Non possiamo lasciarlo qui – disse il prevosto- domani mattina lo porteremo con noi in paese, forse il medico riuscirà a guarirlo dalla licantropia”. Non era stato, del resto, proprio il filosofo a dire che “un uomo diventa un lupo quando un lupo non è potuto diventare uomo”? “E se non esistesse cura?”, chiese il Governatore. “In nome di Dio, lo uccideremo”. Attesero l’alba, il lupo non si era manifestato. Fiduciosa, la coppia si reincamminò verso il villaggio. Fu sul limitare del bosco che reincontrarono il filosofo. “Non avete compreso ciò che vi ho detto – esordì – la vostra presunzione vi acceca e vi spinge a pensare che quel bambino sia affetto da ciò che chiamate malattia. Per questo desiderate sottrarlo alla foresta, che lo ha partorito e accudito, invece di reimparare voi a farne parte”.

Nessuno, da quel giorno, li rivide mai più. Nelle sere più uggiose c’è chi dice che il vento porti con sé le loro grida, infrangendole contro le imposte chiuse e le porte sprangate.

venerdì 27 dicembre 2013

L’impossibile chimera della rivoluzione

Eppure, dietro l'apparente banalità di questo processo, dietro le tappe sistematiche di una rivolta che nello storico ritorno dell'uguale si è sempre, allo stesso modo, manifestata, epoca dopo epoca, a noi manca qualcosa


di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

Per metterla in evidenza possiamo prendere spunto da un’interessante intuizioni di Pier Paolo Pasolini, che già negli anni 70′ vedeva come il Nuovo Potere, la teologia del Capitalismo imperante, con i valori del consumismo e dell’edonismo, non è più una maschera da mettere e da levare, come potevano esserle le ideologie del primo Novecento. Il Nuovo Potere è proprietario delle nostre coscienze, innanzitutto perché lega la coscienza alla cosa. Il materialismo integrale che permea la realtà dell’agire secondo le logiche del profitto e dell’accumulazione di cose, è il fenomeno che impossibilità ogni movimento, ogni azione al di fuori del perimetro capitalista. Così, ciò che ci manca, quella tappa indefinita, che ha mosso ogni insurrezione, sin da i tempi di Spartaco, è essenzialmente lo slancio. Non l’iniziativa, non la soluzione, ma lo slancio, quello sincero. Ogni mutamento storico secondo il filosofo Peter Sloterdijk è sintomatico di uno sfogo dell’Ira, l’impulso primitivo di una rabbia che, quando non può più essere canalizzata in un punto focale preciso – quale la guerra, la gestione della res pubblica, la religione, la rivoluzione – allora si evolve in altro, cerca un altro sfogo, si ribella. Noi non abbiamo più punti focali – ecco perché Sloterdijk parla di era della post-storia – ma convogliamo l’Ira in una spirale, quella del consumo, che non si sazia mai. Così la rivoluzione è di fronte alle porte di ogni salotto, proprio sotto la finestra, tuttavia sorgono i dubbi della nostra cattiva coscienza: e le rate della macchina, del frigo e della tv, e il contratto telefonico, e il mutuo? Le catene dell’uomo moderno sono il debito, il debito che abbiamo nei confronti delle cose. Le nostre coscienze sono sodomizzate dalle cose. La rabbia è una pulsione repressa, quotidianamente sfogata nellacosa e vivificata nuovamente dalla cosa. Così, mentre il reale sembra trasformabile, noi abbiamo perso lo slancio appartenente alla natura dell’umanità. Se non cambiamo noi, le cose non cambieranno, e dopo i forconi, arriveranno altri per seminare chimere e raccogliere piazze vuote.E’ senza dubbio vero che non viviamo nel migliore dei mondi possibili, e che la democrazia non è lafine della Storia, ed è altrettanto vero che l’uomo democratico non è l’ultimo uomo come sostiene Francis Fukuyama. E’ vero che il reale è trasformabile, perché, dopotutto, il reale si è sempre trasformato. Sembra conseguentemente vero che la nostra realtà – permeata da un capitalismo totalizzante, che in qualsiasi sfera, intrapsichica e comportamentale, domina l’individuo – possa essere cambiata. La collettività intera sente quindi la necessità di questo cambiamento e, finalmente, tutti quanti, lo aspettiamo. La storia è costellata da rivoluzioni e sommosse, giungeranno anche le nostre. Arriveranno. Abbiamo paura, ma saremo i protagonisti di ogni tumulto. Eppure, dietro l’apparente banalità di questo processo, dietro le tappe sistematiche di una rivolta che nello storico ritorno dell’uguale si è sempre, allo stesso modo, manifestata, epoca dopo epoca, a noi manca qualcosa. Un anello mancante, una tappa incompiuta, che sembra essere sparita dal manuale d’istruzioni del buon rivoluzionario.

giovedì 26 dicembre 2013

Le feste (di Alfredo Cattabiani). I simboli del Natale tra mondo classico e cristianità


di Alfredo Cattabiani (Barbadillo)


Barbadillo.it augura ai nostri lettori sinceri auguri di buon Natale e buone feste con un articolo gioiello dello scrittore e studioso di miti Alfredo Cattabiani. (Michele De Feudis)

Le feste natalizie sono costellate di cerimonie ed usanze di cui non tutti conoscono il significato profondo, l’origine e l’evoluzione. Alcune di esse derivano da tradizioni pagane cristianizzate. Questa commistione di usanze di ispirazione evangelica con altre precristiane è dovuta alla collocazione calendariale del Natale che, diversamente dalla Pasqua, è errata storicamente.

Nel vangelo di Luca si narra soltanto che nel periodo in cui nacque Gesù c’erano a Betlemme dei pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al gregge. Siccome sappiamo che i pastori ebrei partivano per i pascoli all’inizio della primavera, in occasione della loro Pasqua, e tornavano in autunno, è evidente che il Cristo nacque tra la fine di marzo e il primo autunno; tant’è vero che fino alla fine del III secolo il Natale veniva festeggiato, secondo i luoghi, in date differenti: il 28 marzo, il 18 aprile o il 29 maggio.

Nella seconda metà del secolo III si affermò nella Roma pagana il culto del sole, di cui l’astro non era se non una manifestazione sensibile. In suo onore l’imperatore Aureliano aveva istituito una festa al 25 dicembre, il Natalis Solis Invicti, il Natale del Sole Invitto, durante il quale si celebrava il nuovo sole “rinato” dopo il solstizio invernale.

Molti cristiani erano attirati da quelle cerimonie spettacolari; sicché la Chiesa romana, preoccupata per la nuova religione che poteva ostacolare la diffusione del cristianesimo più delle persecuzioni, pensò bene di celebrare nello stesso giorno il Natale di Cristo.

La festa, già documentata a Roma nei primi decenni del IV secolo, si estese a poco a poco al resto della cristianità. La coincidenza con il solstizio d’inverno fece sì che molte usanze solstiziali, non incompatibili con il cristianesimo, venissero recepite nella tradizione popolare. D’altronde non si trattava di una sovrapposizione infondata, perché fin dall’Antico Testamento Gesù era preannunciato dai profeti come Luce e Sole. Malachia lo chiamava addirittura “Sole di giustizia”. Per questi motivi già nei primi secoli l’accostamento del sole al Cristo era abituale, come testimonia Tertulliano: “Altri ritengono che il Dio cristiano sia il sole perché è un fatto notorio che noi preghiamo orientati verso il sole che sorge e nel giorno del sole ci diamo alla gioia, a dire il vero per un motivo del tutto diverso dall’adorazione del sole”.

Collegata a questo simbolismo di luce è l’usanza di adornare l’uscio di casa con piantine come il pungitopo o l’agrifoglio dalle bacche rosse, mentre quella del vischio è una tradizione celtica cristianizzata. La si considerava una pianta donata dagli dei poiché non aveva radici e cresceva come parassita sul ramo di un’altra. Si favoleggiava che spuntasse là dov’era caduta una folgore: simbolo di una discesa della divinità, e dunque di immortalità e di rigenerazione. La natura celeste del vischio, la sua nascita dal Cielo e il legame con i solstizi non potevano non ispirare successivamente ai cristiani il simbolo di Cristo: come la pianticella è ospite di un albero, così il Cristo, si dice, è ospite dell’umanità, un albero che non fu generato nello stesso modo con cui si generano gli uomini.

Alla luce delle antiche feste solstiziali si seguivano alcune usanze, come ad esempio quella di accendere fuochi e falò che hanno, si dice, la funzione simbolica di “bruciare” le disgrazie e i peccati dell’anno morente, di purificare, ma anche di ricevere dal sole, composto di fuoco, nuova energia, fertilità e fecondità: sole che altro non è se non il simbolo di Cristo, come si è già detto.

Ma torniamo alla notte di Natale quando, una volta e ancora adesso in qualche famiglia toscana o emiliana, si accendeva dopo la cena di magro un ceppo che rappresenta simbolicamente l’Albero della Vita, il Cristo, dicendo: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa, le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelli, abbondino il grano e la farina e si riempia la conca di vino” – “Il giorno del pane”, lo chiamavano: per questo motivo si mangiavano, come oggi d’altronde, dolci a base di farina che hanno nomi diversi secondo le regioni: pangiallo, pane certosino, pandolce, panforte, pampepato e panettone.

Perché mai il pan dolce? L’usanza di consumare questo alimento nei periodi solstiziali potrebbe risalire agli antichi Romani, perché Plinio il Vecchio riferisce che alla festa del Natalis Solis Invicti si confezionavano le sacre e antiche frittelle natalizie di farinata.

Con l’avvento del cristianesimo si modificò l’interpretazione riferendosi alle parole di Gesù: “lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più lame e chi credei n me non avrà più sete; io sono il pane della vita”. Il Pane della Vita s’incarnò proprio a Betlemme, che nell’ebraico Bet Lehem significava “Casa del Pane”, nome dovuto probabilmente al fatto che proprio in quella cittadina era un immenso granaio, essendo circondata da campi di frumento. Quanto al ceppo, non è il solo simbolo arboreo natalizio: lo è anche l’abete che fin dall’epoca arcaica fu considerato un albero cosmico che si erge al centro dell’universo e lo nutre.

Fu facile ai cristiani del nord assumerlo come simbolo del Cristo. Nei paesi latini l’usanza si diffuse molto tardi, a partire dal 1840, quando la principessa Elena di Maclenburg, che aveva sposato il duca di Orléans, figlio di Luigi Filippo, lo introdusse alle Tuileries suscitando la sorpresa generale della corte. Persino i suoi addobbi sono stati interpretati cristianamente: i lumini simboleggiano la Luce che Gesù dispensa all’umanità, i frutti dorati insieme con i regalini e i dolciumi appesi ai suoi rami o raccolti ai suoi piedi sono rispettivamente il simbolo della Vita spirituale e dell’Amore che Egli ci offre. Anche l’usanza della tombola nel pomeriggio del Natale ha una derivazione pagana: durante i Saturnali, che precedevano il solstizio e sui quali regnava Saturno, il mitico dio dell’Età dell’Oro, si permetteva eccezionalmente il gioco d’azzardo, proibito nel resto dell’anno: esso era in stretta connessione con la funzione rinnovatrice di Saturno il quale distribuiva le sorti agli uomini per il nuovo anno; sicché la fortuna del giocatore non era dovuta al caso, ma al volere della divinità.

Nella Roma antica, in occasione dell’inizio dell’anno si usava anche donare delle strenae che arcaicamente erano rametti di una pianta propizia che si staccavano da un boschetto sulla via Sacra, consacrato a una dea di origine sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e felicità. Poi a poco a poco si chiamarono strenae anche doni di vario genere, come succede ancora oggi.

É invece soltanto cristiana l’usanza del Presepe. Il primo, vivente, con il bue e l’asino nella mangiatoia, risale al 1223 a Greccio, un paese vicino a Rieti: lo ideò san Francesco d’Assisi ispirandosi a una tradizione liturgica sorta nel secolo IX, quando in molti Paesi europei si formarono dall’ufficio quotidiano delle ore i cosiddetti uffici drammatici a rievocare le principali scene evangeliche con brevi dialoghi. Successivamente quei primi esperimenti si ampliarono in strutture più vaste e complesse, sicché il tema della Natività ispirò nel monastero di Benedikburen un vero e proprio dramma al cui centro campeggiava quella del presepe.

Ispirandosi a quelle sacre rappresentazioni Francesco volle rievocare la scena della Natività con un bue e un asino in carne ed ossa. “L’uomo di Dio” scrisse san Bonaventura da Bagnoregio “stava davanti alla mangiatoia, ricolmo di pietà, cosparso di lacrime, traboccante di gioia”.

Ancora oggi a Greccio si celebra il presepe vivente da cui sono derivati quelli inanimati. La mangiatoia era vuota ma il cavaliere Giovanni di Greccio, molto legato a Francesco,affermò di avere veduto un bellissimo fanciullino addormentato che il beato Francesco, stringendolo con entrambe le braccia, sembrava destare dal sonno.

* da Avvenire del 2 marzo 2003

lunedì 23 dicembre 2013

Il dopoguerra secondo confindustria



di Eugenio Orso


Le fonti d’informazione come confindustria, con il suo CSC, cioè il noto centro studi del sindacato padronale, sono un po’ più attendibili di quelle governative, tutte tese, per ragioni di opportunità politica, a nascondere o a falsare una drammatica situazione sociale, occupazionale e produttiva.

A quanto sembra, il CSC annuncia che la recessione è finita, ma lo fa con molte cautele, senza lasciare troppo spazio alla speranza di un miglioramento, in tempi brevi, della situazione generale del paese.

Il CSC, rifuggendo dai giri di parole, ci avverte che la seconda, drammatica recessione, a partire dal propagarsi nel mondo degli effetti reali della crisi iniziata con i “sub-prime”, è paragonabile a una guerra per i danni e le macerie che ha lasciato dietro di se. Quasi due milioni di posti di lavoro (unità di lavoro equivalenti a tempo pieno, per il centro studi) sono svaniti e la drammatica morsa creditizia, operata dal sistema bancario, continuerà ancora a lungo, almeno fino al 2015 nello scenario più negativo. Ne deduco che dalla prima crisi si conteranno almeno otto anni di “vacche magre” (anzi, scheletriche) e non soltanto sette. Se la guerra, ossia la recessione neocapitalistica, è veramente finita, sembra che il dopoguerra potrà essere altrettanto negativo e socialmente drammatico. Oltre sette milioni di senza lavoro, in una stima prudente, e quasi cinque milioni di poveri veri, fino ad ora. Nei prossimi due anni si vedrà … Il tutto condito da un crollo dei consumi delle famiglie che possiamo definire epocale (fine della tanto deprecata società dei consumi?). Sempre che le ostilità non riprendano improvvisamente, a causa di un ennesimo shock orchestrato dalla grande finanza internazionalizzata, perché, in quel caso, la situazione potrà precipitare ulteriormente. Del resto, la debolezza del paese, dal punto di vista sociale e occupazionale, si manterrà anche il prossimo anno e il pil, tanto santificato, se crescerà, crescerà di un’inezia, meno dell’uno per cento (0,7% secondo il centro studi, che rivede a ribasso precedenti proiezioni). Faccio notare che questa specie cahiers de doléances/ libro nero riferito al dopo guerra-recessione l’ha scritto il CSC, non io, o qualche anticapitalista in vena di sputtanare il sistema. La peggiore ipotesi, nel dopoguerra e a partire dall’anno nuovo, è che il rispetto degli “impegni” presi in sede europea implichi la rinuncia forzata a un punto di pil, con conseguenze negative sul temutissimo spread e ricadute ancor più negative sulla società. 

Se la guerra è veramente finita (ma ne siamo certi?) da ciò che scrive il centro studi di confindustria è facile dedurre che l’Italia è un paese sconfitto. Abbiamo perso la guerra e soltanto ora ce ne siamo accorti. L’Italia – potenza manifatturiera in continente e nel mondo – è forse il grande sconfitto in Europa, ma non certo l’unico, perché l’area europeo-mediterranea esce complessivamente sconvolta dal conflitto. Che pare continui in Grecia. Le macerie visibili, le distruzioni del tessuto produttivo, i segni dei continui “bombardamenti” neocapitalistici ed europoidi ci sono tutti. Lungo le direttrici del Veneto e nei distretti industriali del nord, gli edifici industriali e i capannoni chiusi intorno ai quali già cresce un po’ di vegetazione, abbandonati all’incuria perché nessuno può riattivarli, lo testimoniano ampiamente. Il proliferare continuo del numero dei poveri veri, dei mendicanti, di coloro che dormono nelle stazioni, sempre più sporche e prive di manutenzione, ugualmente lo dimostra. Case senza riscaldamento (e senza luce) sempre più numerose, perché la cosiddetta “economia della bolletta” ammazza le famiglie monoreddito. Edifici pubblici e privati senza manutenzione, che fra qualche anno cadranno in pezzi. Ma non è tutto. Le macerie morali, invisibili quanto le ferite che offendono lo spirito, sono forse le più difficili da rimuovere e le più insidiose.

Per l’Italia ci sarà un lungo dopoguerra, interrotto forse una ripresa improvvisa del conflitto, con un ultimo “bombardamento” finanziario ordinato delle aristocrazie globali del danaro e della finanza, ma non è prevista alcuna ricostruzione. Questo gli analisti del centro studi di confindustria ovviamente non lo scrivono, ma lo lasciano intendere, non volutamente, quando con aridi numeri cercano di prevedere i possibili scenari del dopoguerra. Non ci sarà ricostruzione, come avvenne dopo la seconda guerra mondiale, dal 1947 agli anni cinquanta. Perché, a differenza di allora, la spietata Global class finanziaria, perfettamente organica al neocapitalismo e senza problemi di coscienza, non prevede per il paese alcun “Piano Marshall”. Le risorse del paese si saccheggiano, le sue strutture produttive si smantellano, la popolazione si spreme fino all’inverosimile, e poi si passa ad altro, ad altri “mercati”, ad altre “bolle”, lasciando dietro di se solo macerie. Materiali e Morali. 

Grazie, comunque, al centro studi di confindustria e ai suoi analisti per aver chiarito che non abbiamo vissuto una semplice recessione, ma una vera e propria guerra.

domenica 22 dicembre 2013

Cultura. Wounded Knee e la fine degli indiani d’America



di Francesco Filipazzi (Barbadillo)

Il 29 dicembre 1890 si chiudeva la storia degli Indiani d’America, con il massacro di Wounded Knee. Una civiltà sterminata dai colonizzatori provenienti dall’Europa nel corso di lunghi massacri e prevaricazioni. Pochi conoscono nel dettaglio le vicende che portarono alla cancellazione dei “pellerossa” e nomi come Sand Creek e Wounded Knee non richiamano nulla alla mente. Questo ragionamento venne fatto probabilmente da Dee Brown, bibliotecario e poi professore all’università dell’Illinois, che nel 1970 pubblicò il successo editoriale “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” (Bury my Heart at Wounded Knee) in cui ripercorre la storia coloniale del nord America fra il 1860 e il 1890, un’epoca di “violenza, rapacità, audacia, sentimentalismo, sfrenata esuberanza, caratterizzata da un atteggiamento quasi reverenziale verso l’ideale di libertà personale di coloro che già la possedevano”, recita l’introduzione, in cui l’autore spiega di aver raccolto le testimonianze e le documentazioni degli indiani, per parlare della conquista del West dal punto di vista di chi l’ha subita.

Fra le pagine incontriamo quindi le tribù native, come i Sioux e i Navaho, assieme ai nomi di capi leggendari come Alce Nero e Nuvola Rossa. La storia di un popolo che ha combattuto strenuamente per la propria terra, la loro terra, che l’uomo bianco si è preso con la forza senza averne diritto, sterminando i bisonti per togliere il primario sostentamento a chi vi abitava, uccidendo uomini donne e bambini. Nelle frasi dei capi indiani troviamo la saggezza e la fierezza di una civiltà che abitava il continente americano da migliaia di anni e che è stata chiusa nelle riserve, subendo un’ingiustizia senza precedenti.

Un lunghissimo resoconto, fatto di date, descrizioni storiche e frasi pronunciate dagli stessi indiani, di cui si riescono coglier alcuni tratti distintivi. Essi non erano un popolo unico, come ad esempio gli Aztechi, ma un insieme di tribù, con alcuni tratti comuni, inseriti in un contesto che li rendeva un’unica nazione, anche se forse prima dell’arrivo delle navi e della polvere da sparo non ne erano consapevoli. Quello dei nativi americani era un mondo tradizionale e dimostrazione ne è l’ultima frase del libro, in cui Alce Nero per simboleggiare la fine della Nazione parla di un cerchio senza più centro, utilizzando una figura comune alla Tradizione indoeuropea*.

Un mondo ricco che purtroppo non esiste più e di cui abbiamo poche vestigia, uomini forti e saggi caduti ma invitti.Uomini già morti, Wovoca ha visto che saran risorti.


*Per approfondimento sulla simbologia del centro e i centri spirituali, cfr René Guénon, Il Re Del Mondo.

sabato 21 dicembre 2013

Il mito dell'uomo perfetto sta spingendo la Scienza a ogni sorta di atrocità


di Massimo Fini

Il Conformista di due settimane fa (6/12) era stato intitolato «Uomini ridotti a chip è questo il rischio della scienza estrema». Era un'ipotesi. Adesso è un fatto. O quasi. Domenica scorsa Rai2 ha mandato in onda un programma, 'A come Avventura', in cui si dava conto in termini entusiastici di studi, assai avanzati, degli scienziati del mitico MIT per inserire nel cervello un chip che ci permetterà di controllare le nostre emozioni, ira, gelosia, stress, ansia, e di ricondurle a livelli 'accettabili'. E' l'ossessione della Scienza di creare l'uomo perfetto, del Doctor Frankenstein. Un Superuomo che non soffra, nè fisicamente nè esistenzialmente. Solo che questo Superuomo si rivela, a conti fatti e del tutto contradditoriamente, un normotipo, omogeneo, omologato: se tutti siamo perfetti non c'è più alcuna diversità fra di noi. Senza contare che di questi chip inseriti nei nostri cervelli potrebbe impadronirsi un Grande Fratello manovrandoci a suo piacimento.

Aldous Huxley ne 'Il mondo nuovo' aveva immaginato che il Potere, per acquietare gli individui e renderli disponibili e docili, gli avesse indotti a masticare quotidianamente il 'soma', una sorta di betel, una droga soft, cosi' soft da non essere avvertita come tale. Ci aveva azzeccato in pieno: basta sostituire il termine 'soma' con 'consumo'.

Comunque sia qui non siamo in un romanzo di fantascienza o nel laboratorio di uno 'scienziato pazzo' alla Frankenstein ma nel 'sancta santorum' della Scienza e della medicina tecnologica. Sono inoltre arrivati a conclusione altri studi per rimuovere dalla nostra memoria esperienze dolorose. E questo è anche più inquietante del Doctor Frankenstein. Perchè l'esperienza del dolore è formativa («Ogni malattia che non uccide il malato è feconda» scrive Nietzsche) ed è pedagogica e indispensabile per evitare guai peggiori. Se il bambino mettendo la mano sul fuoco non sentisse dolore se la brucerebbe.

A me sembra che questa scienza, autoreferenziale, innamorata di sè, stia diventando il nostro maggior pericolo. Perchè nella sua ansia di perfezione tende a togliere all'uomo tutto cio' che ha di umano. L'uomo, ogni uomo, è un impasto di Bene e di Male, di salute e di malattia, di inquietudine e di serenità, di dolore e di felicità, di ansia e di quiete, e tutti questi elementi sono inscindibili, l'uno non esisterebbe senza l'altro («ognuno di questi opposti mutandosi è l'altro e a sua volta l'altro mutandosi è l'uno», Eraclito).

Poichè c'è nell'aria, anche senza il bisogno di ricorrere a chip ficcati nel cervello, questa tendenza all'omologazione universale, a fare di ogni uomo un normotipo, al 'politically correct' esistenziale spinto fino al ridicolo (adesso sono stati istituiti pure 'corsi di addestramento per padroni di cani e gatti'), all'astrazione perfezionista di origine protestante e nordeuropea, insomma a cavarci il poco sangue che ci è ancora rimasto nelle vene, io provo un certo sollievo, lo confesso, quando sento di un delitto dovuto a qualche incomprimibile impulso. Vuol dire che, nonostante tutto, sotto questa gelida tecnorealtà, la vita, sia pur volta al negativo, scorre ancora.

venerdì 20 dicembre 2013

Dell'anima e il corpo...


di M. M. Merlino (ereticamente.net)


Nella contrapposizione tra l’anima e il corpo è quest’ultimo ad avere la peggio. Su questo, tanto il mito quanto la filosofia e, va da sé, le religioni sono stati lungamente d’accordo. Da una parte vi è tutto un coro di elogi alla sua immortalità e dall’altra la constatazione del suo essere finito; da una parte l’armonia delle forme di contro l’imperfezione della materia; da un lato la si eleva a luogo privilegiato della retta conoscenza e al suo opposto l’erroneità inevitabile dei sensi prigionieri dell’hic et nunc. DallaGaia Scienza, Nietzsche: “A- ti allontani sempre più dai viventi, presto ti depenneranno dalle loro liste. B- è l’unico mezzo per partecipare al privilegio dei morti. A- a quale privilegio?. B- quello di non più morire”. E il gioco si potrebbe arricchire di nuove mosse e tasselli.

(Non appaia arbitrario come, nella Scuola di Atene, ai Musei Vaticani, Raffaello metta al centro Platone e lo tratteggi con il dito – l’indice e non il medio! – rivolto verso il cielo. Difatti ne è riprova il dialogo Fedone ove si discetta intorno all’immortalità dell’anima con varie dimostrazioni, tutte le più suggestive e acute, nella cella ove Socrate è in attesa di bere la cicuta. 

E il Maestro, che vede la morte un atto liberatorio, rimprovera i discepoli che si disperano e si danno al pianto, fino a pregare Critone, quale ultima sua volontà ed estreme sue parole, di portare a suo nome un dono, quel gallo divenuto celeberrimo, al dio della guarigione… Forse, sospettano i filologi e i critici, atto mai avvenuto perché – e si rileggano gli ultimi passi dell’Apologia di Socrate, scritta da un Platone giovane e desideroso di riportare fedelmente le parole pronunciate di fronte ai giudici – egli lascia aperta la domanda se sia meglio per i suoi carnefici restare in vita o per lui andare serenamente incontro al proprio destino… Ma si sa che lo scorrere degli anni rende sempre più il Socrate storico un pretesto, un artifizio, una pallida ombra, un dispetto e postuma vendetta. Quel plebeo e demagogo e trattato quale volgare sofista da Aristofane e tanto odiato dal Nietzsche de La nascita della tragedia si trasforma in un aristocratico che distingue gli uomini tramite la funzione che devono esercitare nella pòlis).

Plotino racconta come fosse desiderio dell’anima – ‘un potere senza pace’ la definisce – di avere la visione del mondo ideale non più sotto forma di compiuta totalità ma di poterne cogliere l’essenza tramite ‘frammenti e successioni’, cioè ‘materializzare’ il tempo e portarlo con sé nei fenomeni del mondo. Non è ancora la dissoluzione del sapere l’assoluto a dominio delle idee – permane, certo, il patimento di essa in terra e il bisogno di ricercare la via verso la Patria che sta in cielo. Eppure, se essa abbisogna della temporalità, concedendosi all’imperfezione, non si rende essa stessa espressione di quell’imperfezione? Il conoscere si realizza per connessioni relazione e somiglianza, cioè com-unione (vicinanza)…

Il percorso verso questa consapevolezza e delle sue (tragiche) conseguenze sarà lungo contorto doloroso contraddittorio ma, osiamo dire alla luce di queste brevi e incompiute annotazioni, inevitabile necessario e, chissà?, di feconda liberazione… Insomma la storia dell’anima nel suo essere nel corpo dissolve l’idea teologica e finalista degli accadimenti, ma attraverso la rete di connessioni – causali o casuali? – rettifica il senso di se stessa nel suo essere senza scopo. La filosofia dell’assurdo, utilizzando il titolo acuto del libro, edito nel 1937, di Giuseppe Renzi (il cui recupero avviene negli anni ’70 soprattutto ad opera dell’Adelphi) quale sfida provocazione e, se vogliamo ardire spingersi oltre e ancora, un destino, anzi il Destino… È l’anima, dunque, che volutamente accetta d’essere ‘miserrima’, il mettersi in gioco, o è il corpo che trova la consapevolezza di spezzare le catene, il suo essere egli il diseredato e chiedere pari dignità? Il campo del conflitto del ritrovarsi del superamento, né vincitori né vinti, non può essere che la storia ove il tempo si misura e misura.

E di nuovo attingiamo alla parola del padre di Zarathustra: “Anima mia, io ti restituii la libertà su tutte le cose create e increate; e chi conosce, come tu la conosci la voluttà di ciò che verrà? … E, in verità, il tuo respiro ha già il profumo di canti futuri”. Sono costoro canti di gioia canti d’amore o canti di guerra? Nietzsche non ce lo dice… Sta a noi, ripercorrendo il legame dell’anima e del corpo, della nostra anima e del nostro corpo, dare risposta.

giovedì 19 dicembre 2013

In ricordo di Sergio Neri, il combattente in scooter: dalla Decima Mas al Msi ...



di Massimiliano Mazzanti (Secolo d'Italia)

A tanti anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Sergio Nesi era ancora, per il tutti, il Comandante. Non solo nella sua Bologna, che ancora girava in ”scooter”, quasi fosse un ragazzino, fino a qualche mese fa, ma in tutti gli ambienti in cui si conservava memoria del suo passato di indomito combattente agli ordini del principe Junio Valerio Borghese. Uomo d’azione, dunque, ma anche di penna, raffinata e accorta, tanto che il suo Decima Flottiglia nostra… non è solo un libro di ricordi del tempo bellico, ma il testo ufficiale adottato dall’Ufficio storico della Marina per ciò che riguarda i mezzi d’assalto operanti nel triennio ’43-’45. Petroniano “doc”, era nato a Corticella, quando ancora l’attuale quartiere a nord del capoluogo emiliano faceva comune a parte, il 25 maggio 1918. A 19 anni, entra all’Accademia navale, nel leggendario corso “Alcione”, e diventa “aspirante guardiamarina” proprio alla vigilia del grande conflitto. Dopo varie esperienze di comando nel Nord Adriatico, si trova a Portorose, quando l’Italia viene macchiata dall’onta dell’8 settembre.

Senza esitazioni, si schiera con la Repubblica sociale italiana e rientra in servizio nella X Mas. È in questo frangente, quando assume il Comando della Base operativa Sud di Fiumicino, che porta a segno una delle sue imprese più significative, affondando una corvetta nemica a bordo di uno Sma. Impresa che valse a Nesi la medaglia d’argento al Valor militare. Catturato al largo di Ancona, dove tentava, nel novembre ’44, un’ulteriore azione di assalto navale contro le soverchianti forze nemiche, fu internato in Algeria e poi a Taranto. Mai domo, Nesi non attese amnistie o liberazioni, fuggendo dal campo e rientrando, dopo varie traversie, nella sua amata Bologna. Il dopoguerra lo vide brillante ingegnere del Genio Civile, dove svolse una luminosa carriera terminata col ruolo di direttore generale.

Alla professione ministeriale, accompagnò anche la passione di memorialista militare, con una decina di volumi sulla storia della X Mas e del principe Borghese tutt’ora apprezzatissimi non solo dai cultori della materia, ma dagli accademici. Iscritto al Movimento sociale Italiano – Destra nazionale, pur non avendo mai aspirato a una carriera politica, non mascherò mai i suoi sentimenti, illustrando con la sua adesione e la sua presenza costante alle manifestazioni del partito la federazione di Bologna.

mercoledì 18 dicembre 2013

Come un impavido spettinato al vento della primavera



di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)


Eccoci giungere al primo giro di boa, mentre la superficie apparentemente calma del mare a stenti cela l’agitazione dei flutti sottostanti. Nascoste, si dimenano creature dimenticate, timidamente feroci, spudoratamente discrete. Mi sembra di cogliere negli spavaldi riflessi dell’acqua la sfida generazionale che pretende, come l’innamorata in attesa del suo bacio, il nostro coraggio.
Come un impavido spettinato al vento della primavera.
La chiameranno “rivoluzione” e noi ne parleremo sottovoce, ma i nostri sguardi si poseranno su di lei e sulle sue sinuose forme. Sarà come far l’amore.
Sarà musica che oltrepassa la banalità e si batte con il mediocre, vincendolo.
Eppure siamo colpevoli di un inganno primordiale, tale da costringerci a confondere lo Stato con il Popolo e, ancor peggio, con il Bene comune, quando altro non è che una controparte contrattuale dotata di maggiore effettività (peraltro intermittente e parziale).
Un contraente, dunque, che non onora i propri obblighi ma che pretende la puntualità delle nostre prestazioni, che si rifiuta di liquidare i creditori ma che perseguita i rispettivi debitori, che resta inerte quando un’anziana donna perde il diritto di abitare la propria casa poiché occupata dall’ultimo dei prepotenti. Così, saremo noi i primi tra i combattenti.
Ogni logica sembra ricadere nel perfido circo storiografico in cui legge e giustizia coincidono, per cui ciò che è norma rappresenta ciò che è giusto. Nulla di più falso. 
Non dimentichiamoci che versiamo tasse e contributi non per entrare nell’Eden dei Giusti, ma per ricevere altrettanto in termini di servizi pubblici, cedendo a voi il dannato compito di giudicare quantità e qualità dei servizi. 
Ed ecco che, non a caso, la nostra sarà la battaglia della qualità sulla quantità. 
Dobbiamo sognare grandiose conquiste, poiché anche nei sogni stiamo cedendo il passo alla banalità, alla paura, al nemico, mentre il giudice si innalza a censore di moralità, rubando indegnamente il posto ai sacerdoti, mentre il politico assomiglia sempre più ad un minuto Faust, privo, tuttavia, di quella grandezza che Goethe ha saputo disegnare nei suoi lineamenti. Dobbiamo tornare a sognare da innamorati, magari sognando proprio lei, la bella Nasten’ka. Ma stavolta rubiamole il cuore. Stavolta scegliamo di essere “tra i fiori il ciliegio e tra gli uomini il guerriero”, perché questa sera ci ricorderà il vento della primavera.

martedì 17 dicembre 2013

FIRENZE: CASAGGì SIGILLA SEDE CGIL. "GLI ITALIANI NON SI ARRENDONO, LA CGIL Sì"...



FIRENZE: CASAGGì E FRATELLI D'ITALIA SIGILLANO SEDE CGIL. SOLIDALI CON I FORCONI IN PROTESTA, NON CON CHI DISERTA. 


Firenze - La scorsa notte i militanti del centro sociale di destra "Casaggì Firenze" e di Fratelli d'Italia hanno simbolicamente "sigillato" la sede della CGIL in via Pier Capponi 7, esponendo uno striscione con la scritta: "Gli italiani non si arrendono, la CGIL sì". L'azione dimostrativa della giovane destra è fatta in riferimento alle prese di distanza della CGIL dalle proteste dei Forconi, andate in scena in tutta Italia senza simboli di partito e di parte, ma solo sotto i vessilli tricolori. Il gesto, già portato a termine nella notte di sabato a Roma dal coordinamento Rotta di Collisione, vuole sottolineare l'incoerenza di un sindacato che tutela i lavoratori, ma solo a patto di poterne politicizzare e dirigere il malcontento. 

"Le migliaia di persone che in queste ore stanno montando i presidi di protesta in tutte le città italiane - spiegano il consigliere comunale di FdI Francesco Torselli e i dirigenti di Casaggì - sono lavoratori come gli altri, strozzati dalle tasse e dal precariato, vessati da un governo che nessuno ha eletto, privati di ogni futuro da una classe politica al servizio dei poteri forti". 

"Il sindacato che per decenni ha rappresentato il simbolo della lotta operaia - proseguono gli esponenti della destra fiorentina - sta bollando i moti spontanei di questi giorni come "proteste di destra", mostrando una pregiudiziale vuota e un'incapacità di analisi politica disarmante. Per questo, "simbolicamente", ne abbiamo sigillato la sede".

lunedì 16 dicembre 2013

Ecco Marino: ai No-Tav permise di accamparsi ovunque, ai forconi vieta pure le tende...




di Domenico Buni (Secolo d'Italia)

C’è chi può e chi non può. Ai No-Tav i Marino-boys hanno concesso tutto, spazi e accampamenti. Ai forconi no, non sono graditi. È la politica del Pd. Dopo aver taciuto sulle manifestazioni di No-Tav e centri sociali che nei mesi scorsi hanno devastato Roma – perché erano manifestazioni della sinistra, quindi “giuste” – adesso il comune di Roma si oppone alla pacifica manifestazione dei forconi, ossia della popolazione di tutta Italia che protesta da una settimana. La verità è che poiché quella dei forconi non è una protesta cavalcata e gestita dalla sinistra o dalla Cgil, allora deve essere “cattiva”. «No a tendopoli ad oltranza in piazza del Popolo». Lo fa sapere il Campidoglio tramite il vicesindaco di Roma Luigi Nieri, di Sel. «Mercoledì prossimo – si legge nella nota di Nieri – si svolgerà a Roma una manifestazione con un presidio fisso dei Forconi in piazza del Popolo. Il Campidoglio, in attesa delle decisioni della Questura, è contrario a qualsiasi “occupazione” ad oltranza della piazza, così come è stato annunciato. Pur nel rispetto della libertà di espressione di ciascuno, non vogliamo che Piazza del Popolo – conclude – si trasformi in una tendopoli». Ma perché, l’accampamento che fecero i suoi amici a Porta Pia, che cos’era, se non una tendopoli?

Intanto, nonostante Sel, i forconi mercoledì arriveranno a Roma: «Vogliamo le dimissioni del governo e ribadiremo la nostra richiesta anche nel presidio previsto per mercoledì prossimo, in piazza del Popolo», ha affermato Mariano Ferro, uno dei leader dei Forconi. «La nostra rivolta è stata fatta con le mani in tasca – ha aggiunto – e intendiamo proseguire con questa modalità non violenta. Tuttavia, saremo determinati a raggiungere i nostri obiettivi. Sono migliaia le persone che passeranno un Natale terribile, senza sapere come far fronte ai loro impegni economici – ha concluso – Noi siamo idealmente accanto ad ognuno di loro e combattiamo per loro, anche se tanti non hanno nemmeno il coraggio di far sapere in quali condizioni precarie sono finiti».

sabato 14 dicembre 2013

Il mito e la favola



di Mario M. Merlino (Ereticamente)


Tutto ha inizio con il mito. Tutto È mito. Ed ogni civiltà, la cultura di un popolo, si fonda su forme di immaginario collettivo che, custodite e tramandate nei tempi antichi dalla casta sacerdotale, si danno un proprio linguaggio. Linguaggio espresso in simboli richiami suggestioni immagini emozioni capaci di dare vita ad una complessa costruzione la cui sorte, preda della mutevolezza del tempo, finisce per trasformarsi in un nascondimento cristallizzazione perdita della chiave d’accesso tanto che diviene simile a stanza ingombra d’oggetti e immersa nella oscurità. Per esseri, stupiti e stupidi, diranno i saccenti della modernità (Nietzsche se n’era fatto ben consapevole quando riconosceva che “l’oggi appartiene alla plebe”), superstizione primitivismo… e l’essenza quale verità storica si fa oblio lasciando solo, quasi fosse testimonianza archeologica, vane parole.

(Con ‘la morte di Dio’, ai sacerdoti aedi rapsodi oracoli si sono andati a sostituire, nell’età dell’ideologia , ove impazzano illuminismo e marxismo, vari servitorelli sciocchi ora della carta stampata ora dei parlamenti ora da storici facili ad usare il postulato e ben meno l’indagine e, poi, la genia dei sociologi psicologi analisti e il cinema la radio la televisione).

Il termine mito risuona certo ancora per vicende politiche (ad esempio, per il vetero mondo comunista fa battere il cuore la Comune di Parigi e la rivoluzione bolscevica; per noi la Marcia su Roma con le squadre sui BL18 manganello bombe a mano e solidi randelli e la battaglia di Berlino, come suggeriva Adriano Romualdi, dove s’erano dati appuntamento per la Finis Europae volontari francesi scandinavi spagnoli) o per le cronache sportive (la tifoseria i colori della propria squadra lo scudetto portato in trionfo tra grida canti e clacson) o per gruppi rock (Bob Dylan e Joan Baez furono ‘icone’ durante la guerra del Vietnam per tutti coloro, pacifisti e non, che rifiutavano ogni ingerenza militare USA nel Sud-Est asiatico). E ben poco conta se, a volte, questi miti sono il gioco delle maschere e su di essi è passato il tritacarne della storia, l’ingiuria del tempo e dei vincitori, l’effimero mondo di una stagione sotto i riflettori…

(Nel mio studio la bandiera della Confederazione sudista si accompagna a quella della Siria di Assad e lo scudetto della XMAS con quelli a ricordo dei raduni dei reduci dell’Afrikakorps, gli elmetti della Wehrmacht e della guerra civile di Spagna con la bandiera, bianca e la croce nera dei cavalieri teutonici, della Marina Imperiale durante la Grande Guerra, la foto di Mila quella di Salvatore da legionario in Ciad di Robert Brasillach assorto di Ugo Franzolin in divisa, quando era corrispondente di guerra nella RSI, di Riccardo pensoso e presago forse della fine tragica e precoce e la sua foto, ormai sbiadita dal troppo tempo trascorso, di quando illusi credevamo d’essere eterni come dei in terra e prima che venisse a trovarmi nella notte del 21 dicembre ’69, cella di isolamento… miti della mente, miti del cuore).

Ci sembra, noi che tutto sappiamo e di tutto facciamo chiarezza (idioti! “Ultimi!” griderebbe il mio amico Richard Benson…), che possiamo disvelare ogni meccanismo, tacito e nascosto, in quanto detentori dei ‘lumi’ della ragione e di rigorosa analisi marxiana… Il muro del Père Lechaise ove i comunardi furono trucidati a gruppi, dopo essersi essi stessi macchiati di orrendi delitti…Lenin che arriva in Russia su un treno messo a disposizione dello Stato Maggiore tedesco e Trockij con una valigia piena di dollari fornitigli dal giudaismo americano… gli agrari i sabaudi gli industriali la guardia regia dopo la grande paura del Biennio Rosso… Himmler che va alla ricerca di una impossibile pace separata con gli Alleati mentre nel bunker si spengono le estreme illusioni in un crepuscolo degli dei (idoli?)… le squadre del cuore travolte dagli scandali e la musica, sì, la musica asservita alle case discografiche e al profitto…

Allora riprendiamoci il mito da cui tutto ebbe inizio… Perché dove abbiamo lasciato il cuore e le emozioni per farci invadere dall’arroganza della ragione, noi carnefici e vittime? Fu Socrate, il plebeo, come pensava nel suo furore iconoclasta Nietzsche, o Platone che confuse le Idee con un più originario Essere, come voleva Martin Heidegger? Il mito originario e quello della condizione umana da cui, con straordinaria capacità dell’uomo greco, si passò al logos e fu della filo-sofia la nascita (portando addosso il peccato originario della scissione tra cielo e terra di cui, nel Timeo, dà ardita descrizione lo stesso Platone).

Urano (il Cielo), dunque, sovrastava con il suo corpo possente Gea (la Terra) e la costringeva all’amplesso e a partorire i Titani. Stanca del suo peso essa si rivolse a Cronos (il Tempo), l’ultimo dei suoi nati, e gli mise in mano un falcetto, in uso fra i pastori e gli agricoltori. Quando, dunque, Urano le si approssimò, venne con un sol colpo evirato e, avendo perso l’organon (lo strumento) per appagare i suoi desideri, si ritrasse e per sempre… Ecco perché cielo e terra non comunicano più fra loro, sebbene avvertiamo la nostalgia della luna e del cielo stellato, ad essi volgiamo lo sguardo e i desideri… Fu il Tempo a causare la frattura (Sant’Agostino lo definisce il dispiegarsi dell’anima nella sua mondanità), fu il divenire e la limitatezza (l’imperfezione di fatto) della condizione umana. Soggetta al perire, soggetta al dolore… Ora tutto ciò è soltanto ‘favola’?