giovedì 29 maggio 2014

E i parassiti-oligarchi pensano al Ttip...



di Lorenzo Moore (Rinascita)

L’Europa della miseria, paladina dell’usura bancaria e aggrappata agli scampoli di potere a lei delegati da Wall Street, dalla City e da Francoforte (Bce), vorrebbe rispondere allo schiaffo ricevuto dai popoli d’Europa nelle recenti elezioni che hanno bocciato il partito unico ppe-pse dell’euro-crazia, con un nuovo salto nel buio: l’accelerazione della firma del l’infame Ttip, la creazione cioè di un’ulteriore area di libero scambio, di flessibilità nel lavoro, di tagli sociali, di sudditanza alle politiche economiche, agricole e tecniche degli Stati Uniti.
I negoziati, già in corso – e caldeggiati dallo stesso Barack Obama nel suo recente viaggio alle colonie occidentali europee, Italia compresa – ma nel segreto più assoluto, dicono i paladini-oligarchi dell’Unione europea, dovrebbero condurre, in tempi brevissimi, alla firma quantomeno di un “mini-patto subito” Ue-Usa.
I media disinformatori dell’Occidente – in Italia Corriere della sera in testa – “giustificano tale patto-capestro come una mossa per “rispondere alla nuova aggressività della Russia di Vladimir Putin”, sbandierando la questione ucraina – un manifesto caso di conculcamento della libera volontà di un popolo europeo di scegliere il proprio naturale destino: in quel caso il desiderio della maggioranza pro-russa dell’Ucraina orientale – come motivo essenziale per tale scelta.
La stampa embedded e i media omologati spacciano tale mini-patto come la possibilità di creare “un’area commerciale Usa-Ue senza precedenti”, foriera di chissà quale volano allo sviluppo e al benessere economico.
Nulla di più falso.
La prima conseguenza dell’eventuale firma clandestina (da parte di rappresentanti non eletti dai popoli europei!) di un tale accordo “transatlantico”, ridurrebbe le economie nazionali dell’Europa occidentale alla mercè dei grandi capitali delle multinazionali d’oltreoceano, con tutto il loro carico di deregolamentazioni, flessibilità nel lavoro, spaccio di prodotti chimici e surrogati, dagli ogm in giù, e cioè ad un grande mercato di consumo dei beni nordamericani e di progressiva scomparsa delle produzioni europee autoctone.
Non a caso in Francia, Marine Le Pen, diventata la guida del primo partito nazionale, oltre a chiedere l’immediate dimissioni di Hollande (i socialisti sono ormai il terzo partito d’oltralpe e non hanno più rappresentatività), e a chiedere la rottura del patto che ha imposto ai popoli europei una moneta unica a debito, l’euro, ha posto come terzo motivo di battaglia la denuncia del Ttip.
Come non è un caso che Mario Draghi, per nulla afflitto dallo schiaffo all’eurocrazia, da Sintra in Portogallo, ha annunciato un proseguimento tetragono della politica di anti-deflazione e di immissione di liquidità a buon mercato alle banche, senza alcun cenno né alla crisi economica dei cittadini (e non delle banche) né a possibili interventi come quelli sugli eurobond, ormai quasi unanimemente sollecitati dagli stessi suoi sponsor liberaldemocratici del ppe e del pse.
Per quanto riguarda l’Italia – purtroppo egemonizzata da un Pd governativo schierato su posizioni di partecipazione all’Ue, alla Bce e al Fmi – le prospettive, con la prossima assunzione della presidenza dell’Unione europea da parte di Matteo Renzi, sono catastrofiche. Il suo vice-ministro alla Miseria (lo chiamano “Sviluppo”), Carlo Calenda, si sta dando un gran da fare, qui e negli stessi Usa, perché questo vergognoso mini-patto Ue-Usa possa essere firmato già a novembre, dopo le elezioni statunitensi dette di “medio termine” (che i “democratici” nordamericani non vogliono turbare immettendo nella campagna elettorale un tema – quello del commercio transatlantico appunto – non del tutto digerito da quel partito e dai suoi elettori).
Il mini-patto che andrebbe ad essere firmato, riguarderebbe, allo stato, il fondamentale settore dell’energia (con gli Stati Uniti intenzionati a sostituirsi alla Russia e al gas che a noi per esempio giunge a Monfalcone con forniture – più care e prive, al momento degli adeguati mezzi di deposito e trasporto – di gas da scisto, la tecnologia sperimentale Usa di estrazione del gas dalla frantumazione delle rocce), e i comparti di agricoltura, auto, chimica, farmaceutica, cosmetica, tessili e para medicali. Poi si passerebbe ad accordi specifici su ogm, trasporti, audiovisivi, servizi finanziari.

Occorre una mobilitazione dal basso, di popolo, subito, per bloccare sul nascere, prima che sia troppo tardi, questa esiziale rinuncia nazionale ed europea alla propria indipendenza economica.

mercoledì 28 maggio 2014

La deindustrializzazione in Italia: un’analisi


di Francesco Boezi (L'Intellettuale Dissidente)

Sono dell’autunno dell’anno scorso le notizie che ci danno in netto calo nelle classifiche europee per quanto riguarda il settore industriale, superati dalla Spagna e persino scalzata dalla Grecia del deficit per quanto attiene ad alcuni fattori di produttività. Ma proponiamo questa analisi procedendo per vie temporali: è il 1947 , col Trattato di Parigi, De Gasperi cede una parte della nostra sovranità ed ottiene di essere seguito per mano dagli USA, leggasi Piano Marshall, per far tornare questo paese in una condizione sostenibile. La situazione economica-industriale del paese è, infatti, in difficoltà nitida a causa della guerra appena combattuta ed ha così inizio il processo di ricostruzione .Al centro del tutto c’è il fattore energetico, quindi Mattei, fino al miracolo degli anni 60′, sintetizzando estremamente il processo di cui si parla. 

A questo punto il mondo si accorge che l’Italia è andata a scavalcare la Francia e insidia persino la Germania quale prima potenza industriale europea. Cosa è cambiato da quegli anni ad oggi affinchè tutto ciò venisse così profondamente invertito fino a farci restare, assieme alla Finlandia, come l’unico paese europeo che non solo non cresce a livello industriale ma decresce persino? Alcuni sostengono che non siano un caso gli episodi delle morti di Mattei e Moro e legano profondamente questi eventi da una parte al fastidio che l’Italia stava dando a grosse compagnie petrolifere, dall’altro al fatto che l’entrata dei comunisti al governo con Moro avrebbe inibito la possibiità di utilizzo del nucleare, altro grosso interesse da tenere d’occhio per capire a fondo questa vicenda. Tra i sostenitori di questo genere di tesi, va ricordato, su tutti, Nino Galloni che già nel 2007 pubblicò un libro dal titolo “Il grande mutuo.

Le ragioni profonde della prossima crisi finanziaria” e nel 2005 aveva dato alle stampe “Misteri dell’euro, misfatti della finanza”. Seguendo sempre questa linea di pensiero, arriviamo agli anni 80′, gli anni dove prevalsero le tesi supereuropeiste dei Ciampi per intenderci, cui diede seguito l’attuazione di un programma di destrutturazione del settore pubblico legato alle famose privatizzazioni che paiono proprio essere poste lungo il filone di una visione antisovranista, da alcuni chiamata, senza troppi fronzoli, antitaliana. Un vero e proprio depauperamento delle nostre industrie di stato, quelli che in gergo politico alcuni hanno osato chiamare ” i gioielli di famiglia”. Da questo punto, si va dritti fino alla costituzione dell’UE per come la conosciamo, con la BCE, la moneta unica e la contemporanea scomparsa dell’Italia industriale. Cosa ci ha ridotto così? Realmente ci fu un patto tra Kohl e Mitterand teso a far concretizzare l’unificazione tedesca in cambio dell’abbandono del marco e della deindustrializzazione italiana?

La sensazione è che, per quante tesi possano costituirsi, è consolidata l’immagine di una classe politica sin troppo stantìa dinanzi a questo processo, se non complice, quantomeno incapace di leggere a fondo le situazioni e gli esiti delle stesse, su tutte le privatizzazioni citate e le mancate liberalizzazioni susseguenti. All’interno di questo quadro, l’esecutivo Ue ci fa notare che: l’esecutivo Ue, “i salari reali sono rimasti pressoché stabili, evidenziando l’importanza di colmare il divario di produttività e nel contempo di migliorare l’allineamento dei salari alla produttività. Un ulteriore contributo – sottolinea la Commissione – potrebbe derivare da un alleggerimento del cuneo fiscale sul lavoro”. Ordini riceviamo, seppur velati ma pur sempre ordini, ed esecutori vengono piazzati sugli alti scranni della nostra Repubblica al fine di svolgere i compiti che ci vengono assegnati in una posizione politica evidentemente debole dalla quale non riusciremo ad uscire sino a quando gli agenti della nostra rinascita saranno mossi dai fili di quanti pare proprio abbiano contribuito a buttarci giù.

Abbiamo enormi risorse, legate specialmente alla sfera della qualità, sulla quale potremmo essere, se solo volessimo, spanne sopra tutti. Ed in parte lo siamo ancora. Ecco, quindi, che l’unica arma che ci resta a disposizione nell’invertibile per ora contesto di mercato globale, resta il fare ciò che meglio di altri sappiamo fare nella maniera qualitativamente migliore che conosciamo. La delocalizzazione è un altro grosso problema legato all’argomento di quest’analisi: posta l’impossibilità attuale di un’unica politica economica europea e posta un’attuazione di politiche fiscali volte alla protezione dei prodotti continentali, anche quì, l’unica arma che ci resta per risorgere o provare a farlo è la tanto agognata qualità. Qualcosa che nessun accordo sottobanco, nessun complotto o presunto tale potrà sottrarci mai. Ma per raggiungere livelli qualitativi di spicco, anzi, per tornare a raggiungerli, servirebbe un patto sociale tra politici, imprenditori e classe operaia. Un patto inossidabile di rinascita nazionale. Chimere? Probabilmente sì, questo non toglie che occorra la presunzione di indicare una strada.

martedì 27 maggio 2014

Elezioni. L’Europarlamento sarà eurocritico come mai. Ppe e Pse verso larghe intese



Francesco Filipazzi (Barbadillo)

Il Parlamento Europeo cambia volto e la legislatura che sta per aprirsi si annuncia interessante a partire proprio dalla sua composizione. Se già si parla di “larghe intese” tra Popolari e Socialisti è proprio perché avanzano, per la prima volta con numeri consistenti, le forze euroscettiche, che pur nelle differenze intendono mettere in discussione la moneta unica e l’impianto stesso dell’Unione Europea e che hanno conquistato in molti paesi la maggioranza dei voti.

I dati più clamorosi sono quelli di Francia e Regno Unito. Nel paese d’oltralpe Marine Le Pen e il suo Front National hanno ottenuto il 25% dei voti, mentre al di la della Manica l'Ukip di Nigel Farage ha raggiunto il 31%. Entrambi ora, prime forze nei rispettivi paesi, annunciano di voler andare anche al governo. Probabilmente questi due partiti, molto diversi fra loro, non si alleeranno ma Farage, per la prima volta, sabato ha prefigurato delle convergenze con il partito della fiamma tricolore francese, che cercherà comunque, assieme agli olandesi del PVV (al 14% e al di sotto delle aspettative) e alla Lega Nord italiana, di creare un gruppo europeo.

Possibili alleati dell’Ukip potrebbero essere invece i tedeschi di Alternativa per la Germania, che hanno raggiunto il 7% e per la prima volta ‘entrano’ in Europa, condividendo con gli inglesi una matrice liberale e quindi comunanze di intenti più larghe, assieme ai danesi del Dansk folkeparti che hanno preso il 26% dei voti. Fra parlamentari non ancora iscritti e EFD, guidato proprio da Farage, le forze eurocritiche possono contare su 139 deputati.

Nonostante l’ascesa di queste ultime, la maggioranza relativa del Parlamento Europeo è rimasta in mano al Partito Popolare Europeo, che si attesta sui 212 seggi. Al suo interno le varie compagini sono abbastanza eterogenee e probabilmente sarà ancora presente il partito ungherese di Viktor Orban, formalmente popolare ma in realtà leader nazionalista a tutti gli effetti che ha sfidato e sfida senza paura l’UE e il Fondo Monetario Internazionale.

Il Pse, 185 seggi, nonostante la crescita si ritrova in difficoltà, schiacciato fra le forze euroscettiche e quelle della destra tradizionale. Il PS francese, storicamente guida del socialismo europeo, ha subito un crollo storico, attestandosi attorno al 14% e ora lo scettro di partito socialista più importante d’Europa passa al PD di Matteo Renzi.

Infine da segnalare gli eletti che si posizionano, per così dire, a “ destra della destra”. In Germania l’NPD elegge un deputato, Alba Dorata ne elegge tre in Grecia, così come Jobbik in Ungheria.

sabato 24 maggio 2014

Il Piave mormorava non passa lo straniero...e l'austriaco non passava!


"Sicure l’Alpi, libere le sponde,
e tacque il Piave, si placaron l’onde.
Sul patrio suolo vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò nè oppressi, nè stranieri!"

venerdì 23 maggio 2014

23/05/1992 – 23/05/1992: In ricordo di Giovanni Falcone e della sua scorta




"Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana".

In ricordo di Giovanni Falcone e della sua scorta
23.05.1992 – 23.05.1992

giovedì 22 maggio 2014

Ventisei anni fa scomparve Almirante, domani la Messa in piazza del Popolo


tratto da Redazione Secolo d'Italia

Oggi ricorre il 26° anniversario della morte di Giorgio Almirante, lo storico segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano scomparso a Roma alle 10,08 della mattina del 22 maggio 1988 dopo una lunga malattia. Il giorno prima, il 21 maggio, morì il presidente del Msi, Pino Romualdi, altra figura storica della destra italiana. Alle loro salme resero omaggio i rappresentanti delle istituzioni e dei partiti politici, anche esteri. Ai funerali di entrambi, che vennero celebrati nella chiesa di piazza Navona a Roma, partecipò un milione di persone venute da tutta Italia. Per ricordare la figura di Giorgio Almirante una Santa Messa verrà celebrata domani (venerdì) alle 19.30 nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma (la Messa è domani perché oggi in piazza del Popolo c’è il comizio elettorale del presidente del Consiglio).
Ma quest’anno cadrà anche il Centenario della nascita di Almirante. Per ricordare la vita del più amato segretario del Movimento Sociale Italiano e illustrarne l’opera la Fondazione Giorgio Almirante e la Fondazione Alleanza Nazionale stanno organizzando una serie di convegni in Italia e all’estero. Il primo si terrà nella Sala della Regina di Montecitorio il 26 giugno prossimo.

mercoledì 21 maggio 2014

Economia. Il capitalismo italiano sempre più in mano a fondi stranieri (senza etica)


di Leo Junior (Barbadillo)

C’è chi può contare sui fondi sovrani e chi sui fondi che fanno capo a gruppi pensionistici, parrocchie scozzesi, gruppi di consumatori. E poi c’è l’Italia, che dispone solo di un ceto di capitalisti egoisti, scarsamente lungimiranti, tendenzialmente avari e con scarsa propensione agli investimenti di qualsiasi genere. I capitalisti dei “salotti buoni” che, di buono, non hanno nemmeno i salatini o gli aperitivi. Un mito, quello dei salotti buoni, falso e creato da Cuccia e da Gioanin Lamiera, in arte Gianni Agnelli.

Sono stati i salotti buoni a determinare la fine dell’Olivetti dopo la morte di Adriano. Sono stati i salotti buoni a farla scomparire del tutto dopo il disastro provocato da Carlo De Benedetti. E la fine della chimica nazionale, della telefonia, di tutti i vari settori strategici, è sempre merito dell’incapacità dei salotti buoni e di quella Mediobanca che ne era la massima espressione.

Ma i vuoti,si sa,vengono sempre colmati.E la fine del capitalismo assistito italiano sta provocando l'ingresso in forze di fondi stranieri.Statali e, soprattutto, privati. Che, di fatto, ormai controllano anche il simbolo della passata sovranità economica italiana, rappresentata dall’Eni. Le scelte, in assemblea, vengono indirizzate dai fondi, invece che dallo Stato italiano. E questo determinerà anche le prossime scelte di natura strategica in campo energetico per il nostro Paese. Spinto verso gli acquisti del gas e del petrolio estratti, con disastri ambientali, con la fratturazione del sottosuolo.

L’Italia è totalmente disarmata di fronte a queste offensive. Da noi i gruppi di consumatori si frantumano in mille rivoli per accontentare le pulsioni politiche dei vari aspiranti leader di questi movimenti. E, dividendosi, non permettono la creazioni di fondi credibili. Così sono i fondi stranieri ad attirare i risparmiatori italiani. Pronti a guadagnare anche sui disastri provocati dai medesimi fondi all’economia del nostro Paese. Perché gli investimenti, così come arrivano, possono andarsene e spesso se ne vanno.

D’altronde in questa fase le aziende italiane sono in vendita a prezzi di saldo. E chi ha i soldi, all’estero, investe su Finmeccanica ed Enel, su Generali e Telecom. Mentre gli italiani stanno a guardare e non riescono neppure a boicottare la Centrale del Latte di Torino che ha inserito nel proprio board la disastrosa Elsa Fornero. In un Paese normale un simile schiaffo alla popolazione avrebbe provocato una diserzione di massa dei consumatori nei confronti dei prodotti della Centrale. Così come è avvenuto, all’estero, ogni volta che i fondi legati a chiese o gruppi religiosi e puritani, hanno ritenuto offensive pubblicità o scelte aziendali delle imprese in cui erano stati investiti i denari dei fondi. Si vendevano le azioni e non si compravano i prodotti, con boicottaggi che obbligavano le aziende ad uniformarsi alle scelte etiche degli investitori.

Ma noi siamo in Italia. Tutto passa, tutto si dimentica. E si dimentica, soprattutto, che i padroni delle aziende italiane non sono più gli incompetenti membri dei salotti buoni.

martedì 20 maggio 2014

Buon compleanno Barone, sono ben 116! Julius Evola nel ricordo di Giano Accame


tratto da Destra.it

Franco Volpi, stretto collaboratore di Adelphi e di Repubblica, va ormai considerato – specie per gli approfondimenti nella cultura tedesca da Schopenhauer a Heidegger e Schmitt – come il più interessante studioso italiano di filosofia. Nella puntata su Evola della serie sulle Intelligenze scomode del Novecento per Rai Educational, con Sergio Tau ho trasmesso di Volpi questa dichiarazione:
Quando realizzai il Dizionario delle opere filosofiche, prima in Germania e poi in Italia, uno dei problemi più spinosi fu quello riguardante la filosofia italiana. Quali autori, quali filosofi, oltre agli scontati Croce e Gentile, andavano inseriti in questo Dizionario per avere una scelta sufficientemente rappresentativa? La mia prima idea fu quella di inserire come terzo grande pensatore del Novecento italiano Julius Evola.
Ne risulta che tutti e tre gli autori più rappresentativi del Novecento italiano erano di destra. Croce, beninteso, come Einaudi, apparteneva alla destra antifascista (mentre erano filofascisti tra gli economisti Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni). Se partiamo da questo primo dato per un breve giro del mondo arriviamo alla conclusione che un’assai larga parte dell’intelligenza del secolo scorso fu di destra. E con qualche eccezione, come Croce o Borges (antiperonista), lo fu d’una destra fascista o accusata di fascismo.

Ma nell’ambito della destra non fascista vanno ricordati per importanza nella cultura mitteleuropea gli scrittori austriaci, in gran parte ebrei, nostalgici dell’impero asburgico: da Stefan Zweig, suicida nel ricordo de Il mondo di ieri, a Franz Werfel che si convertì al cattolicesimo, a Joseph Roth con La cripta dei cappuccini e La marcia di Radetsky, a Lo Stendardo di Alexander Lernet-Holenia (non ebreo), a Hugo von Hofmannsthal, lo scrittore d’una grande famiglia ebraica assimilata che formulò l’espressione “rivoluzione conservatrice”.

Fu accusato di nazismo Martin Heidegger, considerato a livello mondiale il maggiore filosofo del secolo. E se Heidegger fu solo epurato, Carl Schmitt, maggiore politologo del Novecento, venne imprigionato per un anno dagli americani a Norimberga sotto accusa d’aver collaborato coi capi nazisti che nello stesso carcere furono impiccati. In realtà né Heidegger, né Schmitt, né Ernst Jünger, l’anarca di destra che con Schmitt e Heidegger scrisse libri a quattro mani, né Oswald Spengler, autore del Tramonto dell’Occidente, né Werner Sombart, geniale storico dell’economia, condivisero gli orrori del nazismo.

Col nazismo vennero confusi per la loro appartenenza alla composita galassia della “rivoluzione conservatrice” di cui il nazismo fu la componente più volgare e perciò vincente. Tratto comune a tutti loro fu il pensiero della crisi, da cui anche il fascismo era reattivamente germinato. Fu vicino al fascismo romeno Mircea Eliade, il maggior studioso del fenomeno religioso, ed è stato seppure impropriamente avvicinato al nazismo lo studioso svizzero della psicologia del profondo e degli archetipi, Carl Gustav Jung, secondo solo a Freud (con cui finì in polemica) nella psicanalisi. Nell’edizione italiana un saggio dell’americano Richard Noll è stato addirittura intitolato Jung, il profeta ariano (Mondadori 1999).

In Psicologia e alchimia del 1944 Jung citava Evola e da accuse d’antisemitismo si difese così nel 1934: “L’inconscio ariano ha un potenziale maggiore di quello ebraico; questo è il vantaggio e lo svantaggio di una giovinezza non ancora completamente sfuggita alla barbarie. Nella mia opinione è stato un grande errore di tutta la psicologia medica precedente applicare categorie ebraiche, che non sono nemmeno vincolanti per tutti gli ebrei, indiscriminatamente a cristiani, tedeschi o slavi. Così facendo la psicologia medica ha dichiarato che il segreto più prezioso dei popoli germanici – la profondità creativamente profetica dell’anima – è un garbuglio infantile e banale, mentre per decenni la mia voce ammonitrice è stata sospettata di antisemitismo. L’origine di tali sospetti è Freud. Non conosceva l’anima germanica più di quanto la conoscano i suoi imitatori tedeschi. La potente apparizione del nazionalsocialismo, che tutto il mondo osserva con occhi stupiti, ha forse insegnato loro qualcosa di meglio?”.

Il carattere reattivo accomuna il romanziere e premio Nobel norvegese Knut Hamsun, filonazista, e il romanziere giapponese Yukio Mishima, tre volte candidato al Nobel e “fascista di ritorno”: omosessuale (o bisessuale, perché ebbe anche moglie e figli) e contento d’esser stato riformato evitando i rischi della guerra, ottenne successi in Occidente come scrittore decadente; ma avendone compresa poi la vanità, tornò alle tradizioni degli antichi samurai, creò una formazione paramilitare, il Tate no Kai, Società degli Scudi, e in polemica contro l’asservimento del Giappone agli Stati Uniti si suicidò col rito del seppuku a 45 anni.

Anche gli scrittori fascisti francesi, da Pierre Drieu la Rochelle, suicida, a Robert Brasillach, fucilato per collaborazionismo, a Lucien Rebatet, lungamente carcerato, sorsero per reazione alla decadenza del loro paese, che di lì a poco a perse l’impero coloniale. È riconosciuto fra i geni del secolo l’anarchico Céline, imprigionato per collaborazionismo e antisemitismo, che fu lo straordinario innovatore della prosa narrativa francese; così come Ezra Pound, sbattuto dagli americani in una gabbia e poi tredici anni in manicomio criminale per il suo filofascismo, fu l’innovatore del modo di fare poesia in lingua inglese (influenzando l’irlandese Yeats e Eliot, entrambi premi Nobel e con inclinazioni fascistoidi, così come nel mondo inglese ebbero tratti fascistizzanti sia T.E. Lawrence (Lawrence d’Arabia), autore del classico I sette pilastri della saggezza, che D.H. Lawrence, autore del Serpente piumato e di Lady Chatterley); e Filippo Tommaso Marinetti, fondatore col futurismo della più completa fra le avanguardie del Novecento, giacché comprese poesia, prosa, pittura, scultura, musica, teatro, cucina, ecc., che poté vantare d’aver superato per primo le regole sintattiche con cui per secoli s’era fatta poesia, da Omero a d’Annunzio (altro precursore del fascismo).

Non solo quindi tre eccezionali maestri nell’arte della parola, ma anche punte avanzate nelle più ardite espressioni d’avanguardia. Inizialmente futurista e poi creatore d’una sua forma espressiva volta all’interpretazione grafica della rivoluzione fascista fu Mario Sironi, ormai considerato il maggior pittore italiano del Novecento. E se Sironi fissò l’immagine del fascismo nella pittura murale, Leni Riefenstahl, che rimane la maggior regista di documentari, filmò l’immagine del nazismo riprendendone nel Trionfo della volontà un congresso di partito a Norimberga.

L’elenco dei geni di destra potrebbe allungarsi includendovi altri premi Nobel, da Guglielmo Marconi, fascistissimo presidente dell’Accademia d’Italia, a Luigi Pirandello, a Konrad Lorenz, il maggior studioso di comportamento animale. Ma non fu tipicamente di destra l’inventiva tecnico-scientifica da cui sorse la radio, anche se il Duce si avvalse tra i primi della possibilità di comunicare col popolo via etere; né l’etologia di Lorenz si presta a essere rigidamente etichettata. Il relativismo pirandelliano venne invece assimilato al fascismo da Adriano Tilgher ottenendo il consenso di Mussolini, che nel recensirne i Relativisti contemporanei nel novembre 1921 aveva scritto:
La definizione è esattissima. Il Fascismo è stato un movimento super-relativista, perché non ha mai cercato di dare una veste definitiva programmatica ai suoi potenti stati d’animo, ma ha proceduto per intuizioni frammentarie. Se per relativismo deve intendersi il dispregio per le categorie fisse, per gli uomini che si credono i portatori di una verità obiettiva immortale, per gli statici che si adagiano, invece che tormentarsi e rinnovellarsi incessantemente, per quelli che si vantano di essere sempre uguali a se stessi, niente è più relativistico della mentalità e dell’attività fascista. Se relativismo e mobilismo universale si equivalgono, noi fascisti abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e di dirci volta a volta: aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti – noi siamo veramente i relativisti per eccellenza.
Insomma: nessuno in politica era mai stato così… pirandelliano come Mussolini. E Pirandello, ostentatamente iscrittosi al Partito fascista dopo l’assassinio di Matteotti, aveva in tante novelle e opere teatrali temi di critica non marxista, non economicista, al costume borghese, alla corruzione liberaldemocratica ne I vecchi e i giovani e scritto in Berecche e la guerra un racconto interventista. Furono inoltre di destra alcuni geni dell’organizzazione, come Henry Ford (autore tra l’altro d’un libro antisemita, che dovette ritirare dalla circolazione per evitare boicottaggi alle vendite delle sue automobili), che segnò lungo quasi tutto il secolo nel mondo per milioni di operai il modo di lavorare in fabbrica. O come in Italia Italo Balbo, che a capo dell’Aeronautica militare realizzò voli transoceanici in grandi formazioni, mentre prima di lui queste prodezze erano affidate a prove di coraggio solitario. O come Renato Ricci, che assunto il compito d’organizzare la gioventù italiana si recò in Inghilterra da Baden-Powell, fondatore degli scouts, che gli diede preziosi consigli, e in Germania da Walter Gropius, del movimento architettonico Bauhaus. Creata l’Opera Nazionale Balilla, fece costruire 890 Case del Balilla, 1.470 palestre, 2.568 campi sportivi, 40 teatri, 22 piscine, 520 ambulatori, una quantità di locali per biblioteca e una dozzina di Collegi, fra cui l’Accademia di educazione fisica al Foro Mussolini, l’Accademia femminile di Orvieto, i Collegi navali di Venezia e Brindisi, il Collegio aeronautico di Forlì, le Scuole marinaretti di Sabaudia e Cagliari e mise in mare la nave scuola Palinuro per educare gli scugnizzi napoletani. Gandhi venne a visitarlo. Con 12mila dirigenti Ricci mise 6 milioni di ragazzi a far ginnastica, tra cui 2 milioni e mezzo di Balilla, oltre 2 milioni di Piccole italiane, 960mila Avanguardisti, quasi mezzo milione di Giovani italiane.

Ricci aveva 28 anni quando Mussolini gli affidò quell’incarico e non volle avvalersi di collaboratori più vecchi di lui. Fece quindi realizzare il Foro Italico, rimasto tra i capolavori mondiali dell’architettura sportiva, da architetti giovanissimi, tra cui Luigi Moretti, che affermatosi tra i grandi architetti del Novecento in età matura fu chiamato negli Stati Uniti a progettare il complesso del Watergate. Accanto a Moretti altro genio dell’epoca fu Giuseppe Terragni, a cui si deve, tra altre opere entrate nella storia dell’architettura, la Casa del Fascio di Como. Ma ecco come il figlio di Renato Ricci, architetto Giulio, ha raccontato i criteri selettivi usato da suo padre per il Foro Italico: “Il primo che chiamò fu Del Debbio, che aveva 28 anni, e gli fece fare l’Accademia, lo Stadio dei Marmi e il primo piano regolatore del Foro Mussolini. Poi venne Costantini, che aveva 25 anni. Lo conobbe premiandolo a una gara di sci. Disse che aveva bisogno di lavorare. Mio padre lo chiamò a Roma e lui fece l’obelisco, le piscine, il tennis. Giulio Pediconi si presentò al Ministero e chiese del lavoro. Ricci gli domandò: “Quanti anni ha?”. “23″. “Quanto lavoro ha fatto?”. “Niente”. “Allora venga a lavorare per me”. L’architetto Pediconi ha fatto la Fontana della Sfera. Poi ha chiamato l’architetto Pintonello, che aveva collaborato con Costantini alla realizzazione del monolito e gli diede l’incarico dello Stadio Olimpico. Anche Moretti fu chiamato a collaborare al Foro quando aveva poco più di 23 anni: predispose il piano regolatore definitivo del Foro, che susseguiva quello precedente di Del Debbio. Moretti ha progettato la Casa delle Armi e altri lavori che avrebbero dovuto essere realizzati, compreso uno stadio per 400mila persone. Rimase legato, come del resto gli altri architetti e artisti, a mio padre fino all’ultimo giorno. E il giorno che mio padre uscì, nel 1950, di prigione, trovò sulla porta di Regina Coeli Moretti commosso, che piangeva, e lo portò con la sua macchina a casa”.

Il Novecento è stato connotato dal particolare valore politico attribuito proprio dal fascismo alla cultura. Renzo De Felice, descrivendone l’uscita con pochi compagni da partito socialista per aderire alle agitazioni interventiste, disse che Mussolini aveva scelto il “partito della cultura”. Era infatti interventista la cultura delle riviste del primo Novecento: quella più di destra, fiorentina, con Papini, Prezzolini, Soffici, ma anche quella che era inconsapevolmente una “sinistra della destra” con le pubblicazioni futuriste e del sindacalismo rivoluzionario, due movimenti d’avanguardia destinati a confluire nel fascismo. Poté sembrare sulle prime una scelta perdente rispetto alla posizione di prestigio goduta da Mussolini in casa socialista, eppure la via della cultura fu una scorciatoia verso la conquista del potere e l’estensione dei consenso.

Ci ripensò Gramsci, tormentandosi in prigione. Dal marxismo aveva appreso che la cultura era sovrastruttura: fu l’esempio di Benito Mussolini a suggerirgli l’importanza dell’egemonia culturale nella società per giungere al potere e conservarlo. Solo un vecchio trombone come Norberto Bobbio poté teorizzare stupidaggini secondo cui dove c’era cultura non c’era fascismo e viceversa. Una sinistra salottiera, sempre più vuota d’idee ma supponente, di queste cretinate si compiace da decenni, senza rendersi conto d’aver solo imitato tecniche usate dal fascismo per l’estensione del consenso attraverso eccezionali promotori di cultura come Giovanni Gentile con l’Enciclopedia italiana e la Normale di Pisa, organizzazioni come i Littoriali, i Guf, le riviste dei Berto Ricci, ancora le riviste e i premi d’arte di Bottai, la legge Bottai del 2% da destinare alle arti sul costo degli edifici pubblici, ma soprattutto la piena libertà di scelta stilistica, dai classicisti sino agli astrattisti, garantita agli artisti durante tutta la durata del regime.

L’imitazione ha giovato elettoralmente alla sinistra, meno alla cultura italiana e anche mondiale, la cui creatività nella seconda metà secolo fu meno brillante che non tra le due guerre.
Per vie molteplici, oggi, si fa sempre più preciso il senso, che una minaccia oscura incombe sull’intera civilizzazione d’Occidente. Nella crisi, investente non questa o quella forma speciale, ma la compagine dell’intero mondo moderno, sembra che si preannuncino i sintomi della fine di un mondo, del tramonto di una cultura.

lunedì 19 maggio 2014

Il tradimento di Efialte


tratto da Azione Tradizionale

300 è un film che ha fin troppo affascinato l’ambiente politico della destra nonostante le sue incongruenze e inesattezze, che ad un pubblico poco attento potrebbero sembrare invece delle realtà storiche e simboliche. Ma aldilà del “fomento” e dello stravolgimento di alcune verità, ed a prescindere dal riferimento fantasioso a Sparta ed alle Termopili, nel film sono comunque presenti degli interessanti spunti di riflessione.

Facciamo subito una premessa: 300 è un film fantasy basato sulla grafic novel di Frank Miller, e quindi NON è un film storico sulla battaglia delle Termopili. Inoltre siamo i primi ad sostenere che il film in troppe parti tende a presentare gli spartani ed i persiani come in realtà non erano, ma questo è dovuto proprio al fatto che è soltanto una storia di fantasia basata liberamente sul glorioso sacrificio dei 300 opliti. Diciamo questo per evitare facili polemiche sul personaggio di cui qui parliamo, anche perché se volessimo basarci soltanto sul racconto storico di Erodoto avremmo solo da constatare il tradimento di “Efialte figlio di Euridemo che, convinto di ricevere da Serse qualche grande ricompensa, gli parlò del sentiero che portava alle Termopili attraverso i monti.”

Ma l’Efialte di 300 non è solo il traditore per denaro, quello per antonomasia prima ancora di Giuda. Nel famoso film il giovane soldato è rappresentato come un essere deforme, uno spartano “mancato” dato che fu salvato dai genitori dalla morte certa che gli spettava secondo la severa legge di Lacedemone. Egli è quindi già un figlio del tradimento, quello dei genitori, che oltretutto lo crescono facendogli credere comunque di essere uno spartano, a tal punto che il padre lo addestra e gli dona mantello, scudo e corazza.

Consapevole di questo, Efialte vuole riscattare l’onore della propria famiglia ed offre il suo servizio a re Leonida, ma già nel farlo pone un’implicita condizione: “Permettimi di redimere il nome di mio padre servendo te in combattimento”. Il rifiuto del re è immediato, le menomazioni fisiche del giovane non gli permettono di alzare lo scudo abbastanza da proteggere il soldato al suo fianco, questo è inammissibile nell’esercito spartano che combatte come una singola impenetrabile unità. Ma non si tratta di un rifiuto assoluto, perché gli viene subito offerto di dare un contributo più che utile alla vittoria di Sparta: soccorrere i feriti. Non tutti siamo fatti per essere soldati, e portare acqua ai feriti e prendersene cura avrebbe significato evitare che lo dovesse fare un vero guerriero, sottraendosi dalla battaglia e quindi mettendo a repentaglio la vita degli altri e la vittoria. Del resto in ogni organizzazione tradizionale ad ognuno viene sempre dato il posto che gli spetta secondo la propria natura e qualificazione; in questo il Leonida cinematografico mostra coerenza, e la magnanimità di un capo che offre una possibilità a chi vuole riscattarsi.

Ma Efialte questo non può capirlo, forse perché non ha ricevuto un’autentica educazione spartana, forse perché è troppo schiavo del suo ego gonfio di pretese e aspettative di fare quello che vuole e non quello che deve; probabilmente entrambe le cose, essendo una la conseguenza dell’altra. Quindi il ragazzo rifiuta l’offerta e, piuttosto che appartenere con dignità ed umile semplicità al fronte che sente suo, preferisce passare al nemico. Lì avrà il suo contentino: un’armatura e le armi. In cambio dovrà “soltanto” indicare a re Serse qual è il sentiero per aggirare i 300 e colpirli alle spalle; in cambio dovrà soltanto condannare il suo nome a millenni di disonore.

La sua menomazione fisica può essere assunta a valore esemplificativo: quello che si vede sul suo corpo non è altro che il riflesso di ciò che è presente nella sua anima, l’incapacità fisica di combattere simboleggia la sua incapacità interiore di lottare contro sé stesso, contro i suoi istinti e le sue bassezze. E’ così che molto spesso chi non è all’altezza di una situazione o di un compito, magari perché troppo debole per imporsi una regola o delle rinunce, invece di riconoscere i propri limiti tende a considerare ciò che faceva come privo di interesse o di senso, quasi ad odiarlo, come a doversi giustificare (vedi la volpe e l’uva). Ancora più grave quando questo accade nel caso si avesse comunque la consapevolezza di stare compiendo il giusto ed il vero; in questo caso accade anche che il debole cada veramente in basso e si rivolti completamente contro, in una maniera che non esitiamo a definire satanica, cercando quindi di indebolire e sottrarre forze al fronte di cui faceva parte. E’ questo il caso del nostro Efialte.

Ed è il caso piuttosto tipico dei “convertiti” infatti quello di voler dimostrare a tutti, ma soprattutto a se stessi, la forza della loro scelta non facendo altro che parlare male di quello che fino a poco tempo prima era il loro credo, a volte perfino combattendolo esplicitamente e non solo a parole. Esempio questo di chi non capisce che le vie tradizionali portano ad una vetta comune se percorse verso l’alto; di chi invece di riconoscere di non essere in grado di percorrere la via più diretta, e perciò faticosa, sostiene che essa era sbagliata e ne sceglie un’altra più comoda. Ma così facendo la percorre verso valle, se non verso un precipizio; e più si era arrivati in alto con la via precedente, più rovinosa sarà la caduta.

Queste persone impersonificano la contraddizione e l’incoerenza in maniera così palese che possono fungere da “esempio al contrario” per chi ha la capacità di riconoscerle, ma possono trascinare via con se coloro che invece ne sono attratti e che dimostrano così di non avere la necessaria capacità di discernimento. Inoltre in cuor loro non avranno mai pace perché, come dicevamo prima, continuano a sapere nel profondo che la parte lasciata era quella del vero e del giusto.

Per questo a tutti loro facciamo lo stesso augurio di re Leonida: “Efialte, dico a te: possa tu vivere in eterno.”

domenica 18 maggio 2014

Così il Bel Paese è diventato il regno del malaffare



di Massimo Fini

Nella prima conferenza stampa, all'indomani dell'arresto di Claudio Scajola, il Procuratore di Reggio Calabria Cafiero De Raho, ha dichiarato: «L'aspetto che colpisce è come una persona che ha ricoperto ruoli al vertice dello Stato possa curarsi di un'altra persona condannata e latitante nella consapevolezza di chi si muove come se essere condannati per associazione mafiosa non conti nulla. E' impressionante». Scajola è stato ministro dell'Interno cioè colui che dovrebbe contrastare il fenomeno mafioso e ogni forma di criminilità. In contemporanea è esploso lo scandalo Expo, poi quello degli sperperi milionari e clientelari della Sogin e da ultimo il coinvolgimento, sia pur a livello di indagini preliminari, di Giovanni Bazoli, ex consigliere di Ubi, banchiere di lungo corso, cattolico, finora 'al di sopra di ogni sospetto', in affari poco chiari della quinta Banca italiana. 

Sì, è impressionante ciò a cui stiamo assistendo in Italia. Adesso Renzi, per l'Expo, ha nominato una task force che dovrebbe controllare la legalità delle operazioni. Chiude la stalla quando i buoi sono scappati. Ma a parte questo non c'è nessuna certezza che fra i controllori ci siano soggetti migliori dei controllati («Qui custodiet custodes?»). Perché in Italia il più pulito c'ha la rogna. E' un Paese marcio fino al midollo. 

L'altro giorno La Stampa mi ha intervistato per chiedermi se ci trovavamo di fronte a una nuova Tangentopoli. Una domanda finto-ingenua. Tangentopoli non è mai finita. Semplicemente, come un virus mutante, la corruzione ha cambiato alcune sue modalità. Del resto che cosa ci si poteva attendere di diverso se quasi all'indomani di Mani Pulite, con i testimoni del tempo ancora in vita, tutta la classe politica e buona parte di quella giornalistica, con un gioco delle tre tavolette trasformò i magistrati nei veri colpevoli, i ladri in vittime e Antonio Di Pietro, da idolo delle folle, divenne l'uomo più odiato d'Italia? Nel frattempo tutti i governi, di destra e di sinistra, hanno inzeppato i Codici penali di norme dette 'garantiste' che rendono quasi impossibile perseguire i reati economico-finanziari, quelli di 'lorsignori', e comunque di far fare qualche anno di gabbio ai responsabili. 

Ma al di là delle sanzioni penali, manca la sanzione sociale. A me colpì la vicenda di Luigi Bisignani. Bisignani, già trovato con le mani sul tagliere della P2 (uffa, che barba, storia vecchia), nella stagione di Mani Pulite fu condannato per reati contro la Pubblica Amministrazione. Il cittadino normale si sarebbe aspettato che uno così non avrebbe mai potuto mettere più piede in un ufficio pubblico. Ma nel 1996 lo troviamo bel bello come principale consigliere di Lorenzo Necci, amministratore straordinario delle Ferrovie arrestato in quell'anno. Evidentemente esiste una vastissima framassoneria di politici, di ex politici, di amministratori, di ex amministratori, di finanzieri, di imprenditori, di brasseur d'affaires, uomini che si fiutano, si riconoscono, si cooptano, si autotutelano per combinare insieme affari sporchi ultramilionari. Il che ha dei riflessi sul cittadino comune che, di fronte a questo mulinar di denaro criminale si dice: «Ma proprio io devo far la parte del cretino e ostinarmi a rimanere onesto?». Per rimanere onesti in Italia bisogna essere dei frati trappisti. Perché una differenza con la vecchia Tangentopoli c'è. Allora la gente scese in strada colma di indignazione. Oggi non si muove foglia. In parte siamo diventati, a nostra volta, dei disonesti, in parte ci siamo mitridatizzati e consideriamo la corruzione, anche la più sfacciata e macroscopica, un fatto normale, banale, che fa parte nostra vita. Pubblica e privata.

sabato 17 maggio 2014

Economia. Il sindacato in crisi? Ripensiamolo” integrale

di  Mario Bozzi Sentieri


Il sindacalismo italiano non gode di buona salute. Dopo essere stato, per decenni, la quarta gamba del sistema di potere/rappresentanza italiano, sembra ora destinato a subirne la stessacrisi. Apparentemente è una situazione paradossale. Nel momento in cui la depressione, che ha colpito la nostra economia, richiederebbe una più forte domanda sociale ed adeguate contromisure (a cui proprio il sindacato dovrebbe dare il suo contributo) le tradizionali forme di rappresentanza dei lavoratori mostrano la corda. Perfino la “concertazione”, utilizzata quale strumento compensativo delle tensioni sociali, è stata accantonata dal governo in carica, senza particolari reazioni da parte dei vertici sindacali.

Vengono al pettine le tante contraddizioni accumulatesi negli anni: la perdita dell’identità “classista”, il ruolo di potere delle Confederazioni (con il conseguente persistere di un sistema di privilegi), la mancanza di regole trasparenti nella rappresentanza (con l’emergere di una sostanziale autoreferenzialità), il radicarsi di un sistema di gestione delle risorse, che sfugge ai controlli.

A venire meno è poi lo slancio ideale, provocato dal tramonto delle vecchie ideologie. Il sindacato si è burocratizzato, adagiandosi su se stesso, appesantito dall’automatismo delle deleghe e dal prevalere dei pensionati sugli iscritti attivi.

Sono lontani i tempi in cui il mondo del lavoro era portatore di un progetto sociale di cambiamento, in grado di coinvolgere l’intera società e di immaginarla integralmente diversa, anche a costo di dare scandalo.

Pensiamo all’idea corridoniana dello Stato da “conquistare” (innanzitutto a livello di nuova coscienza collettiva), alla concezione dello “sciopero generale” inteso come scontro tra due volontà di potenza (quella della borghesia e quella del proletariato), alla forte domanda di modernizzazione (contro/oltre un’Italietta mediocre e pavida), all’aspirazione di coniugare idea nazionale e lotte sociali, alla polemica contro l’infame camorra del parlamentarismo e all’ambizione di un nuovo sistema di rappresentanza politica e sociale, costruito intorno alle categorie organizzate.

Pura Storia ? Semplici icone del tempo che fu ? Pensiamoci… a noi pare che, mutati i tempi ed i “contesti”, da quelle idee possa partire una nuova stagione per un sindacalismo che voglia e sappia essere “integrale”, cioè portatore di un’idea alta e nobile di società.

Di fronte al rifluire della politica in mera protesta, al venire meno dell’orgoglio del ruolo di lavoratore, alla necessità di modernizzazione del Paese, allo scontro tra economie “nazionali”, all’inadeguatezza delle attuali forme di rappresentanza partitocratica, è da una nuova consapevolezza di ruoli e di azioni, espressione di un’idea sindacale “integrale”, che può passare una speranza autentica per il mondo del lavoro ed una nuova volontà di trasformazione sociale e politica.

Così com’è il sindacalismo italiano può solo tirare a campare. Con il rischio, alla fine, di essere travolto dall’onda di piena della crisi e delle sue intime, non risolte contraddizioni.

venerdì 16 maggio 2014

Anima e corpo



di Marcello Veneziani


Anima e corpo, che fai, ripieghi nel tuo petto come il ribelle di Junger?

Cerco un punto di partenza dopo la caduta di ogni orizzonte storico e metastorico. E non si può che ripartire dall'anima e dal corpo che sono tutto quel che siamo al netto di ogni altra cosa. L'essenziale, l'autentico, l'originario. L'anima è intesa come una patina di vaghezza per definire l'ineffabile, funziona bene come titolo di cd, canzoni, terapie, percorsi di benessere. Il corpo è invece un'ossessione in salute, performance e giovinezza, c'è un morboso attaccamento e insieme la voglia radicale di abolirlo, di modificarlo. Io parto dalla storia universale dell'anima e dalla storia intima e puerile del corpo, per poi indagare i rapporti tra i due.

Cosa risalta agli occhi quando li affronti?

Da una parte, parlando d'anima, hai l'impressione di toccare qualcosa che si è atrofizzato, un'energia spirituale che non riusciamo più a capire, come se si fosse disattivata una facoltà. Dall'altra, parlando di corpo, noti una specie di horror fati, di orrore della propria condizione, una voglia di modificare i corpi o perfino abolirli, come se la natura fosse la prigione da cui evadere.

E tu proponi un ritorno alla dimensione intima e all'interiorità?

No, nessun intimismo, io propongo di ripartire mettendo a nudo l'anima e il corpo. Ma col proposito di uscire dalla gabbia dell'Io e scoprire i nessi che ci legano al mondo, ritenendo che l'anima sia il punto in cui si concentra la nostra identità ma anche il luogo in cui ricongiungersi all'Essere, rifluirvi. L'anima è il respiro dell'Essere; quel fiato ci anima ma proviene da un'origine e vi ritorna.

Ma l'anima può avere un luogo, può essere localizzata?

L'anima non abita dentro un corpo o un luogo più di quanto un corpo o un luogo non viva dentro l'anima. Mi addentro nelle case dell'anima, nel genius loci, nei luoghi e nelle figure che li vegliano, come gli angeli. Ma l'anima è un ponte più che un sito.

Non c'è una sola citazione nel libro, né un autore né un testo. Strana scelta, perché?

Perché ho voluto raccontare un pensiero, in modo diretto e concentrato, senza disperdersi. Chi conosce, riconoscerà le allusioni a testi e autori, chi non conosce magari ne resterà incuriosito, ma in un'opera che cerca l'impersonalità, gli autori, a cominciare da me, sono solo postazioni, figure, ombre dell'Autore.

Ho difficoltà a inserire questo libro in un genere, come lo definiresti?

Anima e corpo non rientra in alcun genere e rifiuta di arrestarsi davanti a una soglia: no, questa è letteratura o questa è psicologia. Se indaghi su anima e corpo non puoi tener fuori, per dire, Rilke o Proust, Eliade o Jung, Plotino o il Papa, solo perché entri in un altro campo. Qui il campo è l'anima, non scrivo per accademia o per discipline.

L'anima coincide con la coscienza?

La coscienza è una facoltà dell'anima che vigila tramite la mente e assume consapevolezza e responsabilità rispetto alla vita, al mondo e al nostro agire.

Trattando d'anima entri nella prospettiva religiosa ma senza riferimenti cristiani…

L'anima è per così dire un “corpo estraneo” alla cristianità, vi approda per altre vie, filosofiche e non solo, con il platonico Agostino. L'anima deriva da Pitagora e Platone, o proviene dagli spiriti metafisici d'Oriente. Per i cristiani c'è lo spirito e c'è la carne. Il senso universale e non personale di anima si ritrova nello Spirito Santo, di cui Gioacchino da Fiore annunciò l'avvento dopo l'età del Padre e l'età del Figlio.

Poi ti soffermi sul Pescatore d'anime, il Pietro di oggi, Papa Francesco...

Sì, sulla sua simplicitas che accompagna l'eclissi del sacro e l'esaltazione del santo, la sua religione così domestica e puerile, periferica rispetto al luogo in cui si costituì e dove poi sorse la scristianizzazione, l'Europa. È il risveglio o l'eutanasia della fede?

Sei critico sul tentativo di fondare la missione cristiana nel nome dell'amore

L'amore è predilezione, dunque da un verso è il contrario della giustizia perché non dà a ciascuno il suo; e dall'altro non si sposa con la carità, perché è elettivo mentre la carità è universale, non fa distinzioni se non di urgenza. Dedico un capitolo all'amor profano e alla patologia dell'unicità (tu solo, unico e insostituibile). In ogni vero amore combaciano anima e corpo; anche quando non c'è sesso, c'è cura e premura. Un amore disincarnato tra persone non è amore. Amare è resistere alla morte, a-mors.

Tramite l'amore torniamo alla realtà e allo spirito del nostro tempo...

Osservando la vita quotidiana, la sfera politica, economica e sociale, il pensiero, noto i segni di una perdita della realtà. Scompare la realtà e mentre è esaltata, viene negata pure la natura. Viviamo in una bolla, non solo speculativa ma mediatica e tecnologica che ci separa dalla realtà, dalle anime e dai corpi e ci rende automi oltreché artificiali.

Un mondo senza via d'uscite nella realtà; messaggio disperato, allora?

Speranza e disperazione sono stati d'animo, non sono la verità delle cose. Sono pre-visioni, non visioni. E a una visione della vita si deve tornare, in un percorso che nutra l'anima, la coltivi, in relazione al corpo e alla vita. Educare... Incarnare l'anima e ritrovarla al centro della vita per non finire in balia del tempo, del corpo e della morte. Vivere è connettersi, la morte è sconnessione, perché separa anima e corpo. Ma poi congiunge su altri piani. Una scintilla di fiducia illumina oltre la catastrofe...

Quale verità ti ispira nel sostenere queste cose, quale lume, fede o tradizione?

Nessuno detiene le chiavi della verità ma ciò non significa che non esista. Quel che sostengo è frutto di pensiero, scommessa e intuizione, visione, cultura e tradizione rapportati all'esperienza della vita, ma la verità non è dentro di me, semmai io sono dentro la verità, ne abito uno spicchio. Vi sono poi altri spicchi di verità ignoti a noi che sappiamo di non sapere. La massima aspirazione per un uomo non è avere la verità ma essere nella verità. La verità non è in me, ma la mia aspirazione è animarmi in Lei, dentro di Lei. L'uomo, al più, ha tensione di verità, ha passione del vero.

Non hai accennato per niente alla politica, che pure avrebbe bisogno di un'anima...

Vent'anni fa quando nacque Forza Italia scrissi un editoriale su l'Indipendente sul tema la destra ha bisogno di un'anima; mi telefonò Berlusconi e mi disse che erano agli inizi ma si stavano attrezzando e mi cantò in anteprima l'inno di Forza Italia. Per lui l'anima era l'inno... Per An l'anima era tabù, temeva l'accusa di apologia del fascismo... e per la Lega l'anima è una cosa che fanno a Roma, mentre a Nord c'è la padanima...Scherzi a parte, è difficile trovare l'anima in politica, semmai si tratta di salvare l'anima dalla politica. Poi certo, in linea di principio, alla politica manca proprio un'anima, i leader sono seduttori non carismatici, mancano le passioni ideali.

Da La cultura della destra ad Anima e Corpo, cosa c'è in mezzo a questo passaggio?

C'è Plotino e c'è Seneca, c'è l'Amor fati e la Sposa Invisibile, c'è il Viandante e ancora altro... E c'è un cambiamento di vita: c'è la solitudine dopo la famiglia e gli amori, c'è la perdita dei cari, c'è l'età, c'è il disincanto totale, c'è il rifiuto di andare in tv e in vetrina, c'è l'abbandono di incarichi, premi letterari e altro, c'è la rinuncia all'auto, c'è il ritiro a Talamone, c'è il liberarsi per gradi da quella gabbia opprimente che è l'Ego...

giovedì 15 maggio 2014

Renzi e Soros, l`amico amerikano...


di Giuliano Augusto (Rinascita)


Matteo Renzi si sta evidenziando come un politico più che affidabile per le logiche del mondialismo e per gli interessi dell'Alta Finanza. Le speranze riposte su di lui oltre Atlantico e oltre Manica sono forti. La conferma più nota è quella dell'articolo del settimanale Time che già nel 2009, quando guidava la Provincia di Firenze, lo presentava come “l'Obama italiano”. Quindi come una persona sulla quale contare, sui tempi lunghi, per guidare la “trasformazione” dell'Italia secondo i desiderata di Wall Street e della City che, quando si tratta di fare quattrini, mettono subito da parte le storiche rivalità esistenti tra gli inglesi e la loro ex colonia. E non si tratta soltanto dei disegni per mettere le mani sulle aziende ancora sotto controllo pubblico, come Eni, Enel e Finmeccanica. E guarda caso, giorni fa nell'Eni è stato sancito il passaggio in minoranza del socio pubblico (Tesoro e Cassa Depositi e Prestiti) rispetto a quelli privati. Per lo più, fondi di investimento anglofoni, dotati di risorse finanziarie quasi infinite. Sempre in questi giorni, Renzi ha raccolto il plauso e l'incoraggiamento di un simpatico (si fa per dire) criminale del calibro di George Soros, con cui si era già annusato in America, che lo ha indicato come “l'ultima occasione per la svolta italiana”. Soros è molte cose. Allievo di un altro deteriore individuo come Karl Popper, il filosofo della cosiddetta “società aperta”, il finanziere ungherese naturalizzato americano rappresenta una delle più velenose teste di ponte delle strategie mondialiste tendenti a creare un unico grande mercato globale sul quale possano circolare liberamente materie prime, merci, prodotti finiti e ovviamente lavoratori. Del resto perché stupirsi? Con il lavoro ridotto a merce, tutto è ormai possibile. Da questa impostazione mentale, non scordiamo che il padre di Soros è stato uno dei principali araldi di quella non lingua che è l'esperanto, nascono tutte le risorse finanziare che Soros ha impiegato per creare organismi che in Serbia, come in Georgia e in Egitto, hanno guidato le rispettive “rivoluzioni democratiche” all'interno di una strategia più generale funzionale agli interessi degli Stati Uniti e all'accerchiamento della Russia. Ma Soros è anche altro, è stato anche altro e la sua vicinanza a Matteo Renzi è quantomeno inquietante. Fu infatti il Quantum Fund di Soros a speculare massicciamente, insieme ad altri, contro la lira nell'autunno del 1992. Un attacco partito da Wall Street e dalla City con l'obiettivo di mettere in difficoltà l'Italia e fare capire al governo di allora, quello di Giuliano Amato, che era necessario e salutare che si procedesse con il processo di privatizzazione delle aziende pubbliche che ci era stato suggerito durante la famigerata Crociera del Britannia del 2 giugno precedente. La lira, dopo l'inutile difesa che ne aveva fatto la Banca d'Italia di Ciampi, venne svalutata del 30% rendendo più conveniente per la stessa percentuale l'acquisto di diverse società pubbliche da parte di operatori esteri. Ora Renzi ha già fatto filtrare la buona novella di essere pronto a completare l'opera mettendo sul mercato quel che resta di Eni, Enel e Finmeccanica e dintorni. Soros, come molti altri, è preoccupato della debolezza di Pittibimbo, come lo chiama Dagospia, all'interno del Partito Democratico dove sta montando l'insofferenza del vecchio apparato del PCI-PDS-DS nei confronti del principale esponente dell'anima popolare-democristiana del partito. Soros teme che alle prossime elezioni europee che i partiti euroscettici e populisti ottengano un risultato eclatante. Partiti guidati da figure carismatiche che seppure hanno in mente un sistema formalmente democratico nei fatti risultano autoritari e in grado di manipolare l’opinione pubblica”. Una bella faccia di bronzi quella di Soros se solo si pensa a tutto il battage pubblicitario che la stampa del sistema finanziario utilizza per lodare l'euro ed esaltare il Libero Mercato. E soros, che di queste logiche è parte integrante, pensa che Renzi rappresenti la nuova generazione ed è positivo, a suo dire che voglia cambiare la macchina dello Stato che è molto inefficiente e il mercato del lavoro ancora troppo poco flessibile. Ache per lo speculatore per eccellenza, l'obiettivo resta, ora e sempre, quello del precariato diffuso. E Renzi, evidentemente, è d'accordo con lui.

mercoledì 14 maggio 2014

Pil, Mib, Pin, Borsa. La vita è "una prigione" di numeri e denaro


di Massimo Fini

«Il Pil nell'eurozona nel 2014 salirà del 1,2% e nel 2015 sarà del 1,7%, mentre in Italia è +0,6% nel 2014 e dovrebbe essere del +1,2% nel 2015. Questo secondo la Commissione europea. Per l'Istat invece la crescita italiana nel 2015 sarà dell'1% e quella degli investimenti sarà dell'1,9% nel 2014 e dovrebbe salire del 3,5% nel 2015. La spesa delle famiglie nel 2014 è di +0,2% mentre la disoccupazione è al 12,7%, ma per la Commissione europea salirà al 12,8%...». Così ci informava lunedì il TG1, per poi dare variazioni microdecimali nei giorni successivi. Poi c'è la Borsa («il fulcro della razionalità pura» secondo Hegel), il Ftsi Mib, il Nasdaq, altri numeri in perenne oscillazione. Le nostre vite dipendono da entità astratte, Fmi, Bce, Wto, sigle come nel mondo di Orwell, che si esprimono anch'esse in cifre di cui non capiamo nulla. Se nevica poco questo fatto naturale è immediatamente tradotto in cifre, quelle della perdita economica degli imprenditori del settore e degli albergatori. Se piove poco si calcolano i danni per gli agricoltori, se piove troppo si fa il conto dei danni economici prima ancora che delle vittime. Poi ci sono l'Iban, il Pin, la carta di credito, il bancomat, il codice fiscale, ancora numeri, sempre legati al denaro. Il denaro sarà anche «la logica della materia» come dice ancora Hegel o 'razionalità pura' come scrive Max Weber, ma bisogna cominciare a prendere atto che si tratta di una razionalità e di una logica che ci sono diventate nemiche.

Viviamo in un mondo matematico, numerico, quantitativo da cui l'uomo sembra scomparso. E' esso stesso cifra, numero, statistica. Nella migliore delle ipotesi siamo stati degradati a 'consumatori' o piuttosto a tubi digerenti, a lavandini, a water che devono ingurgitare nel più breve tempo possibile ciò che altrettanto rapidamente produciamo. Altrimenti crolla il sistema economico. Ma dobbiamo essere, al tempo stesso, risparmiatori, altrimenti crolla il sistema economico. E' una delle conseguenze dell'astrattezza illuminista. E il denaro è l'astrazione delle astrazioni. E' un niente, un puro nulla, è una logica proiettata verso un futuro che, quando l'astrazione supera certi limiti, diventa inesistente. In circolazione, come fa notare Giulio Tremonti, uno dei pochissimi che sembra aver capito dove stiamo andando a parare, ci sono cento trilioni di dollari, una bolla che prima o poi ci cadrà sulla testa con conseguenze apocalittiche. Altro che puntare sulla crescita come affermano tutte le leadership mondiali che non si comprende se 'ci sono o ci fanno', cioè se hanno capito benissimo e se ne fregano continuando a drogare il cavallo già dopato nella speranza che faccia ancora qualche passo oppure se non hanno capito niente. Probabilmente sono tutte e due le cose: degli imbecilli in malafede.

In ogni caso, anche grazie al denaro («la tecnica che unisce tutte le tecniche» secondo Simmel), abbiamo creato un mondo troppo complesso e interconnesso che, con tutta evidenza, non siamo più in grado di governare. Come ha scritto uno scienziato americano basterebbe un black out della Rete di una settimana per creare un altro tipo di apocalisse (se permettete è il tema di un mio romanzo, 'Il Dio Thoth').

Ho nostalgia di un mondo più semplice. Qualche estate fa mi ero spinto fino a uno dei paesi più sperduti del centro della Corsica, Muna. C'era un uomo, Paulo, che teneva un baracchino. Mi offerse un bicchiere di vino e abbiamo fatto amicizia (lì funziona così, o gli vai a sangue o è meglio che giri al largo). Alla fine gli ho chiesto: «Di nome come fai?». «Che vuol dire? Sono Paulo de Muna». Anch'io vorrei essere «Massimo de Muna».

martedì 13 maggio 2014

Mostre Arte. Ardengo Soffici dal caos del “Secolo spietato” alle immagini del paesaggio italiano...



di Renato de Robertis (Barbadillo.it)

Ardengo Soffici: le mostre, i paesaggi e la tradizione

Dopo Arturo Martini ecco Ardengo Soffici. Ecco un’altra mostra sull’arte italiana del Novecento. Un’altra storia artistica da rileggere. Ma, principalmente, ecco una vicenda artistica vissuta nel ciclone del secolo breve. C’è veramente in giro un’attenzione culturale molto frizzante. C’è chi scrive sull’ultimo Sironi, quello cupo e pessimista. Chi rilegge il Martini minimalista, quello della terracotta. E ora c’è chi propone i paesaggi di Soffici: quelli toscani, silenziosi, cézanniani. Ed è questa la proposta: Ardengo Soffici: giornate di paesaggio, nelle Scuderie Medicee, Poggio Caiano (Prato), sino al 27 luglio.
All’artista toscano la cultura italiana deve molto. Deve una grande attività di divulgazione culturale. L’uomo, che appoggiò il Fascismo, divulgò l’opera poetica di Arthur Rimbaud; e quanti oggi lo ricordano? L’uomo, che firmò il ‘Manifesto della Razza’, internazionalizzò l’arte italiana proponendo analisi su Cèzanne e il Cubismo. Un artista con grandi contraddizioni. Ma un vero artista. I suoi paesaggi italiani tentavano nuove sintesi artistica. Per rinnovare la pittura. Per ‘asciugare’ il paesaggio dopo la stagione impressionista. E per ritornare all’essenzialità della rappresentazione.
Tuttavia, qualcosa appare non detto. Una mostra su Soffici necessita di una più chiara storicizzazione; per questo si ha l’impressione di una mostra un po’ disattenta al relativo quadro storico-culturale; una mostra in cui viene ricordato più un pittore di paesaggi che l’artista del suo tempo; sembra, allora, che non ci sia traccia dell’intellettuale borghese elacerbiano, dello “spalancatore di porte e finestre” come lo considererà Giorgio Morandi.
Un pittore emozionante il Soffici. Il pittore delle valli toscane e profonde. Ma quei paesaggi furono un suo momento di tregua; una tregua dopo gli anni di “combattimento ideale” con Papini e con il Fascismo. Va scritto esplicitamente: la figurazione essenziale delle giornate di paesaggio è comprensibile solo dopo aver inquadrato la stagione del ritorno all’ordine. Cioè, non si scopre il lirismo pittorico di Soffici senza riferirsi ad una certa idea dell’arte che, dopo le infatuazioni futuriste, ritornò a Giotto, alla pittura sacra, al racconto della dignitas italica e medievale.
Di sicuro questa mostra conduce il critico a recuperare i nomi di Funi e Drudeville, cioè di quegli artisti che non accettavano l’idea della morte della civiltà occidentale. In questi, come in Soffici, era forte l’idea di un’arte indirizzata al cambiamento ma senza perdere il contatto con la tradizione. Quante verità ci sono nei contadini toscani di Soffici! Quanta poesia nelle sue donne stilizzate e laboriose! In lui si respira la modernità che si congiunge con la forma dell’arte toscana e con la pittura murale del Quattrocento.
Nella mostra, accanto ai paesaggi di Soffici, è positivamente rimarchevole la visione di tele di altri pittori. Quindici opere di italiani del Novecento invitano a considerare Soffici nel quadro di una generazione che esprime De Chirico e Carrà. Ed è questo un aspetto che andrebbe sviluppato maggiormente. Ed è questo un punto di partenza per evitare di de-storicizzare un altro artista. In tanti vorrebbero de-storicizzare la scomoda arte della prima metà del Novecento e farlo per appropriarsi di una carica storico-artistica unica.
Insomma, per conoscere Ardengo Soffici, per dialogare con la sua arte, per percepire lo spirito del paesaggio italiano da lui dipinto, diviene fondamentale rileggere la personalità di questo artista. Un artista che dall’avanguardia giunse alla restaurazione fascista; dal rifiuto del classicismo poi arrivò ad imitare Giotto; e dal caos delle vicende del secolo spietato raggiunse le immagini di un mondo ideale, le immagini del paesaggio italiano.

lunedì 12 maggio 2014

La drag queen trionfa all’Eurovision. Un’altra vittoria del pensiero unico che non ama le differenze…


di Annamaria Gravino (Secolo d'Italia)

È diventata un caso diplomatico la vittoria all’Eurovision di Conchita Wurst, la drag queen austriaca con la barba. Per il vicepremier russo Dmitri Rogozin il risultato della competizione canora tra cantanti di tutta Europa, che si è svolta a Copenaghen, «ha mostrato ai sostenitori dell’integrazione europea il loro futuro: una donna barbuta». Il vicepresidente della Duma, il nazionalista Vladimir Zhirinovski, poi ha parlato di «fine dell’Europa: loro non hanno più uomini e donne, hanno questo». La vittoria della 25enne Conchita, all’anagrafe Tom Neuwirth, è stata accolta invece trionfalmente dall’Austria, che con il presidente Heinz Fischer ha sostenuto che è stata «innanzitutto una vittoria per la diversità e la tolleranza in Europa». Ma l’approdo di Wurst sul podio non è giunto affatto inatteso. Era stato, anzi, anticipato da tutti i pronostici della vigilia, formulati come se quella che si stava celebrando non fosse una gara musicale ma un derby tra forze dell’oscurantismo e mondo illuminato. E sono proprio i commenti di natura politica a dire che la vittoria di Wurst è stata prima di tutto una vittoria del politicamente corretto. Così quest’Europa, in cui parlare di madri e padri significa sempre di più esporsi all’accusa di omofobia, ha conquistato la sua nuova icona nel plauso generale. Con pochissime eccezioni. «Senza quella non avrebbe alcuna chance, siamo seri», aveva detto Emma già prima della finale, a proposito della barba di Cinchita e scherzando sul fatto che cercava l’avversaria per raderla. Una battuta evidentemente dettata dal clima del contest, in cui l’italiana si è piazzata solo ventunesima, lasciando perplessi i critici musicali. Dunque, se proprio si deve travalicare l’aspetto artistico, non è di «diversità» e «tolleranza» che si deve parlare. Wurst rappresenta il terzo sesso o sesso indistinto, protagonista di quella ideologia gender che dilaga in Europa e che, in Italia, trova la sua applicazione più aggressiva nelle scuole, mascherata da lotta all’omofobia. «Secondo la teoria del gender, l’umanità non è divisa tra maschi e femmine, l’umanità è un’informe massa di persone che scelgono chi vogliono essere», ha spiegato in un convegno del 2008 la storica Lucetta Scaraffia, chiarendo che tutto ciò era l’ultimo approdo dell’«utopia dell’uguaglianza» che, dopo aver abbandonato il campo socio-economico, si era convertita ai temi antropologici. Per questo, tra le molte cose che si possono dire della vittoria di Wurst all’Eurovision, non dovrebbero trovare spazio espressioni come «vittoria della diversità» e nemmeno come «vittoria della tolleranza», visto che se c’è un’ideologia che oggi come oggi si sta dimostrando profondamente intollerante è proprio la gender. Semmai, si può parlare di vittoria del politicamente corretto e del pensiero unico che lo alimenta.