giovedì 31 gennaio 2013

Esempio Islanda
















di Andrea Perrone (Rinascita)

La Corte europea dà ragione al popolo islandese. L’Islanda dovrà rimborsare solo l’importo minimo previsto per legge pari a 20mila euro a tutti quei risparmiatori britannici e olandesi che avevano investito nella banca online Icesave e che era ignobilmente fallita nel 2009. La Corte Ue del libero scambio ha inoltre respinto il ricorso dei governi di Gran Bretagna e Olanda – che chiedevano al governo di Reykjavik la cifra stratosferica di 2 miliardi di euro – contro i rimborsi minimi concessi ai correntisti di Icesave.

Il confronto con Londra e Amsterdam risale al 2009 quando l’Islanda, dopo il crack del suo sistema finanziario, si era rifiutata di restituire i soldi ai 350mila utenti inglesi e olandesi della Icesave, il conto online della banca Landesbanki che aveva attirato 4,5 miliardi di euro di depositi grazie ai tassi d’interessi particolarmente elevati. Il rifiuto del popolo islandese è stato più volte motivato grazie ad un paio di referendum che hanno sottolineato a larga maggioranza la volontà di rifiutare qualsiasi restituzione di danaro da parte degli islandesi perché non colpevoli del fallimento della banca. I veri responsabili sono stati infatti individuati e sono riconducibili a banchieri e politici che hanno speculato sulla banca e fatto finta di nulla pur sapendo che stava per fallire. Per questo il popolo islandese costituito in maggioranza da pescatori e allevatori si è detto assolutamente contrario a qualsiasi rimborso che avrebbe portato l’isola ad una crisi economica irreversibile.

Le autorità bancarie britanniche e olandesi, dopo un primo serrato confronto con l’Islanda, avevano deciso di rimborsare al 100% i loro concittadini rimasti a bocca asciutta, riservandosi di rivalersi in sede legale su Reykjavik. Da parte sua l’Islanda, grazie alla ripresa della sua economia e al riassetto del suo sistema creditizio, ha provveduto a rimborsare la cifra di 20mila euro a testa prevista dagli accordi con l’Unione europea. E dopo una serie di minacce – da parte di Londra e Amsterdam – che preannunciavano già la loro opposizione all’ingresso nell’Ue dell’Islanda, qualora Reykjavik non avesse rimborsato i loro cittadini, Gran Bretagna e Paesi Bassi hanno deciso di fare ricorso alla Corte europea per il libero commercio, opponendosi alla decisione di rimborsare i propri cittadini e clienti Icesave per una quota minima, ma subendo una sonora sconfitta. La sentenza del tribunale Ue, nonostante tutto, ha fatto giustizia ad un Paese come l’Islanda che è uscita completamente risanata dal fallimento da 80 miliardi di euro delle sue banche Kaupthing, la Glitnir e la Landsbanki. Un default equivalente a più di dieci volte il Prodotto interno lordo dell’isola. L’ennesima vittoria per il piccolo Stato dell’Europa settentrionale che, dopo aver rimandato a casa i tecnocrati del Fondo monetario internazionale, pronti a concedere un prestito ad usura in cambio di duri sacrifici, è riuscita a far riprendere la sua economia, che nel 2013 dovrebbe crescere del 2,9%.

Un bel successo per un Paese che conta poco più di 300mila abitanti e che nonostante questo ha avuto il coraggio di opporsi all’usura internazionale, alla Perfida Albione e all’Olanda. A fallire come aveva ricordato subito dopo la scoperta del crack finanziario l’attuale primo ministro di Reykjavik, Johanna Sigurdardottir è stato tutto il sistema fondato sul libero mercato. “Le banche private hanno fallito, il sistema di supervisione ha fallito, la politica ha fallito, l’amministrazione ha fallito, i media hanno fallito e l’ideologia di un mercato libero e non regolamentato ha fallito completamente”, aveva chiosato il premier. La risposta del popolo islandese è stata dunque un bell’esempio che dovrebbe essere seguito da tutti quei popoli che vittime dei Signori del denaro intendono affrancarsi dal loro iniquo dominio.

mercoledì 30 gennaio 2013

CASAGGI' : UNA SERIE DI INIZIATIVE PER RICORDARE I MARTIRI DELLE FOIBE



Casaggì Valdichiana,con Fratelli d'Italia, mette in campo una serie di iniziative per ricordare la tragedia delle foibe e dell'esodo degli istriani,dei giuliani e dei dalmati dalle terre italiane oltre il confine orientale.E' nostro dovere ricordare un eccidio passato per decenni sotto silenzio e compiuto dai partigiani comunisti di Tito,che con il benestare dei "colleghi" italiani che poi hanno dato vita al PCI,hanno massacrato decine di migliaia di nostri connazionali la cui sola colpa era quella di non voler rinnegare la propria italianità dinanzi alla prepotenza del conflitto etnico e ideologico. Ricordare è un dovere,per costruire una memoria condivisa e rafforzare la nostra identità nazionale,spesso lesa da pagine come questa.

NEI MESI DI FEBBRAIO E MARZO 2013
RACCOLTA DI FIRME PER INTITOLARE UNA STRADA AI MARTIRI INFOIBATI
NEI COMUNI DI TORRITA DI SIENA E MONTEPULCIANO

SABATO 16 FEBBRAIO 2013 ORE 16:30
DEPOSIZIONE DI UNA CORONA NEL PIAZZALE "MARTIRI DELLE FOIBE"
A SINALUNGA,DAVANTI AL PENNY MARKET,IN PROSSIMITA' DI VIA DELL'OPERA

SABATO 9 MARZO 2013 ORE 15
GRANDE CORTEO TRICOLORE CON GIORGIA MELONI
PIAZZA SAVONAROLA-FIRENZE






martedì 29 gennaio 2013

Il fascismo e gli italiani. Per alcuni anche il consenso fu una “colpa”











di Annalisa Terranova (Secolo d'Italia)

Le parole di Silvio Berlusconi su Benito Mussolini e il conseguente dibattito che si è sviluppato sul fascismo che “fece bene” o che, per altri, “fece tutto male” non poteva essere trascurato dagli storici. Così oggi Il messaggero, nella pagina culturale, ricollega tutta la discussione al saggio dello storico fiorentino Filippo Focardi dedicato alla rimozione delle “colpe” della Seconda guerra mondiale. Il saggio s’intitola Il cattivo tedesco e il bravo italiano (Laterza) e si fonda sulla tesi che proprio Berlusconi ha in questi giorni rilanciato e che risulta essere condivisa da una larga fetta dell’opinione pubblica: il fascismo è stata una dittatura all’acqua di rose, il suo unico errore sono state le leggi razziali e l’entrata in guerra a fianco della Germania. La crudeltà di Hitler e dei nazionalsocialisti non avrebbe contagiato, secondo questa narrazione autoassolutoria, i “bravi italiani”. Una chiave interpretativa di natura quasi antropologica che si riscontra anche nel cinema (con pellicole recenti come Mediterraneo di Salvatores ma prima ancora con film come Tutti a casa di Comencini, che risale al 1960) e che si riflette inevitabilmente sulla politica e sulla storiografia con letture indulgenti del Ventennio quali quelle di De Felice, Montanelli e Petacco.

Ma è sulle cause che hanno consentito questa lettura delle colpe dell’Italia nel secondo conflitto mondiale che il saggio di Focardi raggiunge il suo punto più inquietante: sarebbe stata la mancanza di una “Norimberga italiana” a lavare la coscienza agli italiani contagiati dal fascismo, unitamente all’amnistia concessa da Palmiro Togliatti nel 1946. In pratica l’intento di questa storiografia massimalista sarebbe quello di informare di più e meglio sulle colpe degli italiani, in blocco complici del regime, per sfatare la visione che fino ad oggi si è avuta della dittatura fascista e del consenso che ricevette. Un invito contraddittorio e controproducente, oltre che fondato su premesse inesatte.

Perché? In primo luogo perché contraddice l’esito di quella necessaria pacificazione che leader lungimiranti come Togliatti vollero perseguire. Poi perché, lamentando la mancanza di una “Norimberga italiana”, non si tiene conto delle atroci e dolorose stragi del dopoguerra operate dai partigiani in modo sommario e indiscriminato e rimaste impunite. Infine, il nocciolo della questione sta tutto nel concetto di “colpa”, non individuale ma attribuibile a un intero popolo. È lecito allo storico farne uso, cioè procedere nella sua ricerca sulla base di un pregiudizio? Di certo è bizzarro che si utilizzi un concetto di questo tipo in una disciplina che esclude da sé e dal suo farsi principi assoluti come verità, male, o bene. Non esiste una verità storica, come non esistono, nella storia, il bene e il male assoluti. E non esiste neanche una direzione unica verso la quale la storia si indirizza. Il contro-revisionismo che il saggio di Focardi finisce con l’auspicare, in definitiva, rappresenta solo un cattivo servizio, di natura tutta ideologica, alla ricerca storica che (fin dalla storiografia positivista dell’Ottocento) non deve né assolvere né condannare i fatti, ma avvicinarsi faticosamente alla loro genesi.

lunedì 28 gennaio 2013

Ecco cosa racconta il feroce assalto della centrale in Algeria




di Massimo Fini
Per capire le ragioni della spaventosa ferocia degli assalitori dell'impianto di In Amenash e la reazione altrettanto cruenta dei reparti speciali dell'esercito algerino bisogna fare un passo indietro di circa vent'anni. Nel 1991 le prime elezioni 'libere' algerine, dopo trent'anni di una sanguinaria dittatura militare, furono vinte dal Fis (Fronte islamico di Salvezza) con il 78,5% dei consensi. Allora i generali tagliagole, con l'appoggio dell'intero Occidente, politico e intellettuale, annullarono le elezioni sostenendo che il Fis avrebbe instaurato una dittatura. Per la verità il Fronte islamico di Salvezza, a dispetto del nome, non era particolarmente fanatico comprendendo, in maggioranza, gruppi religiosi moderati. In ogni caso in nome di una dittatura puramente ipotetica si ribadiva quella precedente. Tutti i principali dirigenti del Fis furono messi in galera. Una pessima pedagogia 'democratica'. Perché insegnava che le elezioni, perno di ogni democrazia, vanno bene se le vinciamo noi occidentali o i nostri amici, se le vincono gli 'altri' non valgono più.

Cosa succede in un Paese, qualsiasi Paese, quando quasi l'80% della popolazione si vede derubata del proprio voto? Una guerra civile. E così fu. I gruppi più decisi e più estremisti del Fis costituirono il GIA (Gruppo Islamico Armato) e diedero inizio ad una guerriglia durata molti anni. Il bilancio approssimativo è di 200 mila morti la maggior parte civili come ormai avviene in tutte le guerre moderne. Ma non sono certamente tutti addebitabili al GIA. Mohamed Samraoui, ex numero due dell'antiterrorismo, riparato in Francia, in un libro del 2003 ('Cronache di un anno di sangue'), ha raccontato come molte stragi di civili e la cancellazione di interi villaggi, attribuite al GIA, fossero opera dei reparti speciali dell'esercito, camuffati da estremisti islamici, per indirizzare l'odio della popolazione sui guerriglieri e giustificare agli occhi del sensibile Occidente i 15 mila desaparacidos e le orribili torture che si praticavano nelle carceri algerine. Ha anche raccontato come il suo capo, Smaïn Lamari, gli ripetesse: “Sono pronto a eliminare tre milioni di algerini pur di mantenere la legge e l'ordine”. C'è quasi riuscito, in un senso e nell'altro. Rispetto agli anni novanta la guerriglia ha perso molta della sua forza, ma molti gruppi di resistenti sono rimasti. E' ovvio che una situazione del genere sia il 'brodo di cottura' ideale per quelli che Lorenzo Cremonesi sul Corriere chiama gli 'jiaidisti veri' cioè coloro che hanno in testa la 'guerra totale' all'Occidente, e che sono accorsi in massa in Algeria. Del resto non è casuale che colui che ha guidato l'attacco, Mokhtar Belmokhtar, abbia chiesto in cambio della liberazione di due ostaggi americani quella di due terroristi, di nazionalità molto diversa, detenuti negli Stati Uniti: lo sceicco egiziano Omar Abdel Rahman e la scienziata pakistana Aafia Siddiqui, proprio a sottolineare che la guerra fra Islam ed Occidente è ormai globale. Peraltro nel commando che ha assaltato la centrale di In Amenas c'erano, oltre ad algerini, yemeniti, egiziani, siriani, tunisini, mauritani, libici e persino tre occidentali, un francese, un inglese e un canadese. Così da una pur grave guerra civile, ristretta all'Algeria, rischia di nascere, anche come conseguenza di quell'antico scippo di elezioni che gli islamici avevano vinto legittimamente, un conflitto totale.
L'ingiustificato attacco della Francia al Mali del Nord è stato un pretesto perché l'operazione contro la centrale di In Amenas era stato preparata due mesi fa. Ma l'Occidente dovrebbe stare più attento a offrire simili pretesti. Perché, alla lunga, potrebbero diventare ragioni.

domenica 27 gennaio 2013

Norma Cossetto, una storia da ricordare...


Norma Cossetto era una splendida ragazza di 24 anni di Santa Domenica di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l'Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite).

Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici.

Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, quindi gettata nuda nella Foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio urla e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare pietà.

Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate.

Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite di armi da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri. Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la
prigionia venne violentata da molti.

La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima,nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra.

E' PER RICORDARE STORIE COME QUESTA CHE SABATO 9 MARZO SAREMO IN PIAZZA, COME OGNI ANNO, COI NOSTRI TRICOLORI. UN CORTEO COMPOSTO, TRASVERSALE, AL QUALE PARTECIPERANNO TUTTI I MOVIMENTI E LE ASSOCIAZIONI ATTIVI SUL TERRITORIO, PER NON DIMENTICARE I MARTIRI INFOIBATI, GLI ESULI IN FUGA DALLE TERRE IRREDENTE E I TANTI SOPRUSI SUBITI DAI NOSTRI CONNAZIONALI PER MANO DEI PARTIGIANI COMUNISTI DI TITO. 


SABATO 9 MARZO ORE 15 - PIAZZA SAVONAROLA - FIRENZE
CORTEO DEL RICORDO
CON GIORGIA MELONI E ALTRI OSPITI



sabato 26 gennaio 2013

CASAGGì FIRENZE: BLITZ SU CONSOLATO CINESE PER IL TIBET LIBERO.


CASAGGì FIRENZE, BLITZ SUL CONSOLATO DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE.
AFFISSO STRISCIONE PER LA LIBERTA’ DEL TIBET. LA GIOVANE DESTRA A FIANCO DEL POPOLO TIBETANO IN LOTTA E DEI GIOVANI MONACI VOTATI AL MARTIRIO.


Questa notte i militanti del centro sociale di destra CASAGGì FIRENZE hanno affisso un lungo striscione sul consolato fiorentino della Repubblica Popolare Cinese, in solidarietà coi monaci tibetani che – in numero sempre maggiore – scelgono il martirio dandosi fuoco per attirare le attenzioni dell’opinione pubblica in merito all’occupazione del Tibet e alla continua violazione dei diritti umani, spesso taciuta dai media internazionali per squallidi tornaconti commerciali.

La Repubblica Popolare Cinese sta occupando illegittimamente da oltre mezzo secolo uno stato indipendente e sovrano, sta massacrando i suoi abitanti, sta costringendo all’esilio centinaia di suoi cittadini, sta violando ripetutamente i diritti umani, sta sradicando le sue tradizioni millenarie, sta colonizzando attraverso una migrazione forzata i suoi territori, sta costruendo imponenti opere urbanistiche e infrastrutturali che stanno distruggendo il suo equilibrio naturalistico e ambientale.

Casaggì, simbolicamente, ha scelto di stare vicina ai tibetani in lotta per la libertà e per l’indipendenza. Nei giorni scorsi, nei pressi del consolato cinese, l’estrema sinistra ha vergato alcune scritte vergognose quali “TIBET E’ CINA” e “FUORI LA RELIGIONE DALTIBET”, dimostrando la reale natura di un marxismo militante che non ha ancora assimilato il concetto dell’autodeterminazione dei popoli e che è pronto ad appoggiare anche disumane azioni di repressione, se fatte nel nome del comunismo.


venerdì 25 gennaio 2013

Yokoi Shoichi, la lunga guerra dell’ultimo samurai


di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

Molti soldati giapponesi furono ritrovati in tutta l'Asia nei decenni successivi alla fine del conflitto con gli Usa. Non si volevano arrendere o non seppero che la guerra era finita.

Yokoi Shoichi, l’ultimo samurai che il 24 gennaio del 1972, 41 anni fa, fu trovato nell’isola di Guam delle Filippine, è stato nelle ultime ore protagonista di segnalazioni sul web, ricostruzioni storiche (su Rai storia) e omaggi on line (sul blogQelsi) e con lui l’etica dei soldati giapponesi, desunta dal tradizionale codice di guerra Bushido, di cui la cultura nipponica è ancora profondamente intrisa. Quando il 15 agosto l’imperatore Hirohito accettò la resa e quando la firmò nella baia di Tokyo il 2 settembre seguente, molti soldati del Sol Levante pensarono che non fosse vero e alcuni considerarono le notizie come propaganda del nemico. Oltre a questo, molti soldati che erano sparsi nelle più remote isole del Pacifico, semplicemente non ne vennero a conoscenza, a volte per anni. Qualcuno per decenni. Uno di questi soldati-fantasma, che gli americani chiamano Japanese holdouts, Yokoi Shoichi, divenne suo malgrado il simbolo di tutti i suoi commilitoni che non vollero o non poterono arrendersi.

La consegna imperiale era chiara: non arrendersi per nessun motivo al nemico. E lui la rispettò, nascondendosi nella giungla insieme con due altri militari, ai quali sopravvisse dopo la loro morte, avvenuta nel 1964. Dal 1944 al 1972 Yokoi è rimasto sull’isola, che non è grandissima, sopravvivendo con quello che la natura gli offriva, nutrendosi anche di corteccia, e utilizzando il suo equipaggiamento militare. Quel 24 gennaio di 41 anni fa due pescatori di Guam stavano mettendo trappole per i gamberi di fiume, quando videro sbucare dalla vegetazione quello strano personaggio vestito con fibre ricavate dall’ibiscus. Dapprima pensarono fosse un abitante di un villaggio, ma poi si resero conto che così non era e, dopo una breve colluttazione, riuscirono a ridurlo all’impotenza. Tornato in Giappone, Shoichi fu accolto come un eroe nazionale, anche perché, saputo dell’esito della guerra, dichiarò di provare vergogna per essere ritornato vivo in patria. Il popolo giapponese lo circondò di rispetto al punto che gli venne conferita la “Medaglia della grande Asia dell’Est”. Su di lui è stato scritto il libro “28 Years in the Guam Jungle: Sergeant Yokoi Home from World War II”. Trovò la sua nazione profondamente cambiata, e in realtà non riuscì mai a inserirvisi, anche se si sposò e andò a vivere con la moglie Mihoko nella prefettura di Aichi, mentre la sua grotta sotterranea a Guam è oggi un’attrazione turistica. Partecipò a molte trasmissioni televisive, tenne conferenze sulla sue singolare esperienza e insegnò nei corsi di sopravvivenza. Morì dove era nato, a Saori, nel settembre 1997.

Quello di Yokoi non è stato né il primo né l’ultimo caso di soldati-fantasma giapponesi ritrovati, anche se lui è il più famoso, come ha ricordato in questi giorni il sito internet “Qelsi”. Due anni dopo fu ritrovato, con il fucile in mano, nell’isola filippina di Lubang, il tenente dell’esercito imperiale Hiroo Onoda, che è ancora vivente. Addirittura fu necessario, nel 1974, che il suo ufficiale superiore si recasse nell’isola per convincerlo ad arrendersi. Su di lui c’è una bella canzone di Massimo Morsello, “Hiroo Onoda e la sua guerra”. E nel 2004, sempre nelle Filippine, emersero dalla giungla di Mindanao due ultraottuagenari, entrambi della 30esima divisione dell’esercito imperiale nipponico, che le truppe del generale Douglas McArthur non erano riuscite a stanare. Tra l’altro, i due erano in una zona controllata da gruppi antigovernativi musulmani. Stando a notizie stampa, i due si erano nascosti anche perché temevano un processo per alto tradimento, giacché erano sopravvissuti alla sconfitta… Negli anni successivi al dopoguerra, molti altri soldati giapponesi furono trovati, soprattutto nelle Filippine, ma anche a Iwo Jima. Nel 1949 ben 15mila giapponesi di stanza in Vina, si arresero tra i monti della Manciuria dove si erano allocati. Negli anni Sessanta qualcuno fu ucciso in scontri con le truppe di Manila, mentre due di loro combatterono in Vietnam con i Vietminh.

giovedì 24 gennaio 2013

FOIBE: IL 9 MARZO GRANDE CORTEO A FIRENZE!






Come da tradizione, anche quest’anno, con tutte le realtà militanti e politiche della destra toscana, ricorderemo i MARTIRI DELLE FOIBE. Lo faremo con un mese interamente dedicato alla memoria dell’esodo dei giuliano-dalmati e delle decine di migliaia di italiani trucidati dal comunismo titino, che culminerà nel grande corteo tricolore di SABATO 9 MARZO A FIRENZE, che vedrà la partecipazione di GIORGIA MELONI e di molte altre personalità di richiamo locale, regionale e nazionale. 

Ricorderemo con i nostri tricolori le decine di migliaia di innocenti torturati e uccisi, gettati vivi - spesso a guerra terminata - nelle cavità carsiche del confine orientale e dimenticati dall’oblio di una cultura imposta e faziosa che ha relegato questa tragedia sotto silenzio. Ricorderemo le vittime di un odio cieco, massacrati perché “colpevoli” di essere italiani e di non voler rinnegare la propria italianità. 

Ci saremo perché crediamo che la Patria non sia soltanto un’eredità dei nostri padri, ma un prestito dei nostri figli. E vorremmo tramandare ai nostri figli il senso di una memoria condivisa, l’amore per l’identità nazionale e la precisa volontà di far parte di un Popolo che sia prima di tutto una Comunità cosciente delle proprie radici, orgogliosa dei sacrifici dei propri fratelli e pronta ad onorare il proprio sangue versato. Perchè la nostra missione non è soltanto quella di vivere il presente e di onorare il passato, ma anche di costruire il futuro nel solco di quei valori etici e morali che sono il solo e vero antidoto per salvare la nostra Civiltà dalla crisi in atto. 

GRANDE CORTEO TRICOLORE 
SABATO 9 MARZO ORE 15 - PIAZZA SAVONAROLA - FIRENZE 
CON GIORGIA MELONI 
E TUTTI I MOVIMENTI DELLA DESTRA TOSCANA

mercoledì 23 gennaio 2013

L’uomo sceglie le sue catene


di Alessandro Lauro

Abbiamo creato noi le nostre stesse catene. Su questo punto oramai non nutro alcun dubbio. La situazione italiana precipita e peggiora dal punto di vista economico giorno dopo giorno. Mi sembra superfluo dire che non bisogna credere alle fandonie che i partiti (tutti) vogliono farci credere. Vedremo se le urne castigheranno o meno coloro che da decenni ci hanno condotto fin qui. Di sicuro la soluzione, a mio parere, non verrà da queste elezioni e forse neanche da quelle future.

Il dramma,serio, serissimo della disoccupazione galoppante (che con ogni probabilità non si arresterà per ora -salvo miracoli -) deve indurci a fare alcune considerazioni. Non mi stancherà mai di ripeter(mi)e che e’ il concetto di lavoro e salario che va costantemente riveduto. La granparte dei disoccupati di oggi e di domani arrivano doppiamente impreparati al loro destino. Trovano difficoltà nei ricrearsi una posizione e devono far fronte a mutui o affitti da pagare, pena la beffa oltre al danno. Inoltre a tutto questo va aggiunto, che a differenza dei loro padri o nonni, hanno perso una manualità e un saper fare che gli sarebbe utile e non poco per tamponare la mancanza di salario e reinventarsi un mestiere. Ancora una volta dobbiamo tristemente constatare che ci siamo fatti illudere che il ricco sia colui che ha più denaro e non chi sa farne a meno in modo sempre maggiore. Una volta tagliata,finita, scomparsa la fonte monetaria, se non sai essere e fare sei spacciato. Anche questo e’ il dramma di chi perde il lavoro. E si badi bene che la colpa non e’ del lavoratore, che è nato e cresciuto in un habitat dove “manuale” è stato (è?) sinonimo di inferiorità e povertà. Un inganno diabolico, architettato e studiato nei minimi dettagli.

Del resto (ed ho già affrontato il tema su questo spazio) seppur si decidesse di uscire in modo netto e forte dal sistema crescita scriteriata, non se potrebbe uscire del tutto e non per motivi utopistici ma per concreti ostacoli. Ne ho già discusso qui e riapro volentieri il tavolo: problema abitativo. Il ragionamento e’ semplice. Seppur si volesse lavorare quattro ore al giorno (una in più rispetto a quella teorizzata da Silvano Agosti) e dedicare le restanti ore al vero lavoro (orto, autoproduzione,riuso etc etc) e ai propri interessi e affetti(senza per questo sentirsi in colpa, come la società sembra farci sentire ogni qualvolta capita), resterebbe per molti il problema di come pagarsi una casa (anche di modeste dimensioni e costi) o come pagarsi un fitto (modesto) con il minimo di salario che ipoteticamente si andrebbe a guadagnare. Perchè di un tetto,modesto ma dignitoso, ne abbiamo tutti diritto e bisogno.

Scrivo questo non per vedere nero (non è mio stile) nè per giustificare chi decide di sacrificare la sua vita all’occupazione salariata (lungi da me) ma per trovarvi una soluzione che eviti si compiere gli stessi errori fatti fino ad ora.

Le soluzioni più semplici sarebbero due, a scelta oppure sapientemente mixate: dare più valore alle buste paga dei lavori realmente utili alla collettività (tra cui le famose tecnologie della decrescita). Oppure abbassare e calmierare costi e fitti e renderli accessibili a tutti. Del resto che civiltà è quella che non sa garantire un tetto per tutti? il mondo animale, ritenuto inferiore, non nega un tetto a nessuno.

Mi rendo conto dell’enormità della cosa ma proviamo ad immaginare la stragrande maggioranza delle persone con un tetto sicuro e garantito (e non da garantirsi ogni fine mese presso uno sportello bancario) e meno ore di lavoro salariato ma ben retribuito, e noi vedremmo il mondo cambiato e in evoluzione. Non è un problema secondario a mio parere, anzi è un vero problema che rallenta di molto la corsa al cambiamento.

Perchè noi tutti (o quasi) siamo costretti a lavorare dietro salario? principalmente per garantirci una sussistenza materiale che esclusi casi eccezionali quali acquisto di merci elettroniche o di salute, tale sussistenza può essere garantita dal proprio lavoro personale, mentre un salario decente può essere accantonato per acquisti di case,fitti o emergenze(che come tali si auspicano essere sporadiche). Se resta il problema abitativo però risulta tutto più difficile sia da un punto di vista organizzativo che da un punto di vista psicologico per chi sceglie di uscire dal sistema della crescita. Si rischia un corto circuito.

La disoccupazione di oggi, questo dramma, ci deve spingere a rivedere anche l’educazione lavorativa delle future generazioni, le quali già si affacciano ad un mondo lavorativo pronto a sbranarli e poi gettarli senza neanche riciclarli nel migliore dei casi. Mentre una parte di essa va allegramente avanti pensando a lauti compensi per vivere comodamente con il denaro guadagnato. Basta farsi un giro tra certe scolaresche per porsi il problema. Forse l’unico sciopero ad oltranza da fare sarebbe quello del lavoro salariato. Bloccare tutto per capire e far capire che la vita è altro, che non sono i soldi che ti garantiscono la felicità (anzi), e che una volta che tutto si è fermato potresti sentirti anche più libero e più uomo con pari dignità con tutti. Come natura ha e continua a creare. Quest’ultima è una provocazione, chiaramente non fattibile realisticamente, e l’appello che faccio è agli economisti, imprenditori, filosofi, intellettuali e gente comune che hanno sposato lo stile della decrescita felice, affinchè si possa trovare una soluzione realistica al problema, così da poter avanzare e creare proposte e aprire un varco grosso di speranza nel futuro. Intanto continuo a chiedermi:

come mai un ragno non si costruisce dieci ragnatele per mangiare, nè una lumaca tre gusci per vivere, nè un orso si fitterebbe due caverne per trascorrerci il suo letargo, ne’ un uccello quattro nidi? Possibile che l’uomo sia l’unico animale a costruirsi le sue catene ed incatenarvisi?

martedì 22 gennaio 2013

CASAGGì: "IN BOCCA AL LUPO" A TORSELLI, NOSTRO PUNTO DI RIFERIMENTO UMANO E POLITICO...


ELEZIONI 2013, CASAGGÌ: “LA COMPOSIZIONE DELLA LISTA ‘FRATELLI D’ITALIA’ È IL DEGNO RICONOSCIMENTO AD UN PERCORSO LIBERO, MILITANTE E IDENTITARIO”.

“LA NOSTRA INDIPENDENZA DAI PARTITI RESTA INTATTA, MA FACCIAMO UN ‘IN BOCCA AL LUPO’ A FRANCESCO TORSELLI, UNO DEI NOSTRI PUNTI DI RIFERIMENTO UMANI E POLITICI”.

Casaggì Firenze, assieme a tutta la sua rete italiana di spazi identitari e Comunità militanti, augura a Francesco Torselli, storico animatore della nostra esperienza metapolitica e culturale, un grande “in bocca al lupo” per le prossime elezioni politiche.

Torselli è candidato al terzo posto, dopo Giorgia Meloni (che però è candidata come capolista in tutte le circoscrizioni d’Italia) ed Achille Totaro, senatore uscente ed anch’egli amico di tante sfide combattute dalla stessa parte, non ultimo il grande corteo che da un decennio organizziamo insieme per onorare il ricordo dei martiri italiani infoibati e che anche quest’anno riproporremo terminata la tornata elettorale, nel collegio toscano per la Camera dei Deputati nella lista “Fratelli d’Italia”.

Francesco Torselli è stato e continua ad essere un punto di riferimento per tutti quei giovani che negli anni si sono avvicinati a Casaggì: una persona umile, che ha sempre svolto con encomiabile impegno il proprio ruolo istituzionale, conquistato a suon di preferenze, portando avanti centinaia di battaglie, risultando sempre tra gli eletti più presenti e più attivi e riscuotendo successi anche importanti come la “cacciata” di Equitalia da Firenze, le tante proposte contro l’emergenza abitativa e la vicinanza agli operai a rischio di licenziamento.

Casaggì ci tiene comunque a precisare la propria indipendenza di fondo da qualsiasi struttura di partito, rimarcando la propria vocazione ad andare oltre la logica degli apparati per dedicarsi con più vigore all'ambito militante, culturale e metapolitico, ma tenendo saldi i propri punti di riferimento e non precludendosi la possibilità di utilizzare le istituzioni come strumento utile a veicolare progetti e valori.

Francesco Torselli è stato tra i fondatori di Casaggì, è cresciuto con molti di noi ed anche se oggi ha scelto di seguire un percorso politico nelle istituzioni rappresenta comunque l’identità e la storia della nostra Comunità; una Comunità cresciuta senza sosta negli ultimi anni e in grado di aver preparato persone che raccolgono consenso e stima trasversali. A lui va il nostro sostegno militante e attivistico, oltre alla nostra più sincera stima.

lunedì 21 gennaio 2013

L’attualità del “Pensiero Nazionale” di Stanis Ruinas al tempo del turbocapitalismo
















di Giorgio Ballario (Barbadillo)

Fa scalpore, nell’Italia normalizzata da Monti e poteri finanziari, scoprire che esistono ancora i comunisti. Quelli veri: brutti, cattivi e violenti. Non i democratici bersaniani, pronti all’inciucio con il professore bocconiano; e neanche gli scoloriti vendoliani. I comunisti che, fedeli alla propria tradizione, hanno messo in pratica la filosofia del partito armato. E pazienza se adesso hanno i capelli bianchi e stonano cantando l’Internazionale ai funerali di Prospero Gallinari. L’odierno stupore dei moderati fa il paio con le indignate lamentele di poco più di un mese fa, quando i giornali scoprirono con orrore che al funerale di Pino Rauti era pieno di fascisti non proprio politically correct.
Fascisti e brigatisti, Rauti e Gallinari. Difficile immaginare due realtà così diverse fra loro, quasi antitetiche. Eppure ci fu un tempo, molto più tragico e violento di oggi, in cui i due mondi si parlavano, cercavano intese e punti di contatto. Erano gli anni della guerra civile, periodi di scontri fratricidi e reciproche violenze che non si sono mai più cicatrizzate. Mentre da Radio Londra si ascoltavano voci italiane che incitavano il popolo ad abbandonare il fascismo morente, a disertare, a unirsi alle file dei partigiani; dall’altra parte c’era chi lanciava un appello al proletariato e alla classe operaia, invitandoli a stringersi intorno alla bandiera della Rsi, in funzione antinglese e anticapitalista. «Il nemico comune è il capitalismo; e il capitalismo è la peggiore dittatura. Churchill e Roosevelt non sono dittatori nel significato corrente della parola; ma il sistema che essi rappresentano, il capitalismo, anzi il supercapitalismo, è la più opprimente e mostruosa delle dittature».
Sono parole di Stanis Ruinas, di cui oggi ricorre il ventinovesimo anniversario della scomparsa, avvenuta a Roma, nell’indifferenza generale, il 21 gennaio del 1984. Il giornalista e intellettuale sardo (vero nome Giovanni Antonio De Rosas) nel Dopoguerra animerà uno dei più originali ed anomali percorsi politici compiuti da un gruppo, non piccolo, di giovani usciti dall’esperienza della Rsi. «Fascisti-comunisti» venivano chiamati, oppure «comun-fascisti», «camicie nere di Togliatti» e «fascisti rossi». Oggi, per usare il felice neologismo che ha dato il titolo al romanzo di Antonio Pennacchi, diremmo fasciocomunisti.
Un manipolo di intellettuali, giornalisti e militanti che si riunì intorno al quindicinale Pensiero Nazionale, che arrivò a fiancheggiare il Pci e a caldeggiare l’ingresso di molti ex fascisti nelle file comuniste, trovando l’appoggio (e anche finanziamenti) di alcuni illustri dirigenti del partito di Togliatti, come Pajetta, Longo e il futuro segretario Enrico Berlinguer. A metà degli Anni Cinquanta, esaurita l’esperienza filo-comunista, la redazione di Pensiero Nazionale si avvicinò alle idee di Enrico Mattei in tema di politica economica, energetica ed estera e sul piano culturale si aprì verso tutto ciò che costituiva un fenomeno di rottura con il conformismo dell’Italia democristiana, come pure della più ottusa ortodossia comunista.
Ma facciamo un passo indietro, per comprendere meglio la parabola di Stanis Ruinas. Nato a Usini, in provincia di Sassari, nel 1899, Giovanni Antonio De Rosas cresce con ideali mazziniani ed è quindi repubblicano, antiborghese e anticapitalista. Comincia a collaborare a giornali e varie testate con lo pseudonimo di Stanis Ruinas, sposando fin da subito le idee del fascismo “sansepolcrista”, cioè socialista, antimonarchico, contrario all’ingerenza del Vaticano. Nell’arco del Ventennio collabora a L’Impero, Il Popolo d’Italia, Il Resto del Carlino e dirige il Popolo Apuano e il Corriere Emiliano. Nel periodo del massimo consenso mussoliniano le sue idee intransigenti lo fanno un po’ cadere in disgrazia agli occhi del regime: Ruinas viene sospeso e poi radiato dal Pnf «per indisciplina e scarsa fede» e sottoposto a vigilanza speciale, fino alla riconciliazione avvenuta alla vigilia della Seconda guerra mondiale grazie al libro Viaggio per le città di Mussolini del 1939.
Nella guerra contro le forze «plutocratiche» e «trustistiche» inglesi e statunitensi, e ancor più con la nascita della Repubblica sociale italiana, Stanis Ruinas vede finalmente incarnarsi il fascismo delle origini e la possibilità di realizzare quella rivoluzione per la quale si è sempre battuto. La socializzazione e la ricerca di un accordo con gli antifascisti per impedire la guerra civile diventano i cardini attorno ai quali ruota la sua azione giornalistica e politica. Ma l’evolversi della situazione, con la Rsi nelle mani dei tedeschi e comunque condizionata da mille equilibrismi, frustrerà le sue aspettative; anche se Ruinas respingerà sempre l’accusa secondo cui il fascismo repubblicano sarebbe stato l’espressione estrema della reazione capitalista. Anzi, nel Dopoguerra ribalterà l’accusa sui comunisti italiani, colpevoli di collusione con la borghesia per aver scelto di partecipare al governo Bonomi e di aver accettato l’alleanza con l’Inghilterra e gli Usa. «A costo di passare per un ingenuo – scriverà – confesso di non comprendere come uomini che si autoproclamano rivoluzionari, socialisti, comunisti, anarchici, e che per i loro ideali hanno sofferto la galera e l’esilio, possano plaudire all’Inghilterra plutocratica e all’America trustistica, che in nome della democrazia e della libertà democratica devastano l’Europa».
Nel maggio del ’45 Ruinas viene arrestato per un mese e processato, ma poi assolto. Finirà di nuovo in carcere cinque anni dopo e ci resterà per 40 giorni, prima di essere prosciolto per mancanza di prove. L’accusa? «Istigazione alla rivolta armata contro i poteri costituiti». In alcuni articoli, infatti, aveva invitato il Pci a rifarsi con la forza per l’estromissione dal governo De Gasperi e, davvero incredibile, a prendere le armi assieme agli ex militanti di Salò.
La rivista Pensiero Nazionale viene fondata nel ’47 e anche se avrà sempre una diffusione limitata (non più di 15 mila copie) riesce comunque ad essere presente in tutti i capoluoghi di provincia e ad animare il dibattito politico. All’inizio degli Anni Cinquanta i gruppi che fanno capo al quindicinale si costituiscono in movimento politico, raccogliendo circa 20 mila iscritti; ma l’iniziativa non dà risultati significativi, anche perché il Pci ostacola la nascita di un partito indipendente della Sinistra Nazionale, che pure avrebbe dovuto essere alleato e contiguo. In seguito, come detto, Ruinas e i suoi collaboratori (tra cui figurano il linguista Tullio De Mauro, l’ ex diva degli Anni Quaranta Elsa De Giorgi, i pittori Giulio Turcato e Tonino Caputo, lo scrittore e critico cinematografico Alessandro Damiani, giovani reduci della Decima Mas, come Lando Dell’Amico,Giampaolo Testa ed Alvise Gigante) si avvicinano alle posizioni di Mattei e negli Anni Sessanta assumono posizioni filo-arabe, terzomondiste e favorevoli ad una più stretta collaborazione con i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo.
Con l’Msi, che raccoglie gran parte degli “ex camerati” di Stanis Ruinas, il giornalista sardo avrà sempre un rapporto conflittuale. Il direttore di Pensiero Nazionale considera chiuso il capitolo del Ventennio, respinge le posizioni nostalgiche e “bolla” il partito neofascista come un movimento conservatore e atlantista, usato dalla Dc per irregimentare la gioventù in funzione anticomunista. Nella sua polemica contro i dirigenti missini (in particolare Michelini e poi Almirante), Ruinas risparmia però i militanti più giovani e in buona fede, tra i quali non mancano fra l’altro coloro che in larga parte condividono le idee di Pensiero Nazionale e dei “fascisti rossi”. Si pensi a Giorgio Pini, Roberto Mieville, Beppe Niccolai, Giano Accame… E in seguito all’ala rautiana e ad esperienze editoriali come La voce della fogna e Linea.
Il quindicinale di Ruinas continua a uscire fino al 1977, quando ormai ridotto ai minimi termini cessa le pubblicazioni. Il suo vulcanico direttore muore sette anni più tardi, il 21 gennaio del 1984. Negli ultimi tempi la sua originale parabola politica, e quella dei “fasciocomunisti”, è stata riscoperta grazie importanti libri storici come Fascisti rossi di Paolo Buchignani (Mondadori) e La sinistra fascista di Giuseppe Parlato (Il Mulino). Attualmente esiste un piccolo movimento che definisce Sinistra Nazionale e si rifà in parte alle idee di Stanis Ruinas anche il quotidiano Rinascita, diretto da Ugo Gaudenzi.

domenica 20 gennaio 2013

L'Occidente fomenta il terrorismo


di Massimo Fini

Da una settimana caccia francesi, sostenuti sul piano logistico dalla Gran Bretagna e, più discretamente, dagli Stati Uniti (informazioni via satellite) , stanno bombardando le truppe degli islamici integralisti e dei Tuareg che, dopo aver preso il potere, con l'appoggio della maggioranza della popolazione,(all'80 per cento musulmana) nel Mali del Nord, facendone uno stato secessionista con Gao come capitale, puntano ora verso sud per unificare l'intero Paese e imporre la sharia.
Il presidente francese, il socialista Hollande,e il suo ministro degli Esteri Fabius giustificano l'intervento come « lotta al terrorismo che non interessa solo la Francia ma l'intera Europa ». E Bernard-Henry Levy, dopo aver parlato, a proposito delle truppe islamiche, di 'esercito del terrore', scrive che l'intervento militare francese « Conferma sul piano dei principi il dovere di protezione già stabilito dall'intervento in Libia : una volta, crea un precedente, due volte fa giurisprudenza...per chi pensa che la democrazia non abbia più frontiere é un passo avanti.... Riafferma l'antica teoria della guerra giusta di Grozio e San Tommaso.... Ripete infine il ruolo eminente della Francia, in prima linea nella lotta per la democrazia ». Contro questo unanismo 'patriottico' delle élites francesi (che Céline, nel suo 'Viaggio al termine della notte', riferito alla prima guerra mondiale, sferzo' ferocemente bollandolo per quello che era : un modo per mandare allegramente al macello i giovani francesi in nome di un'astrazione che soddisfaceva i concretissimi interessi della borghesia delle retrovie) si é levata solo la voce di Dominique de Villepin, l'ex ministro degli Esteri transalpino, già noto per il celebre discorso all'Onu contro Colin Powell e la guerra all'Iraq. Villepin ha denunciato « una missione dagli obbiettivi poco chiari, l'unanismo dei favorevoli alla guerra il 'déjà vu' degli argomenti contro il terrorismo ».
Villepin ha ragione. Qui il terrorismo, almeno, per il momento, non c'entra nulla. Come si possono considerare 'terroristi' milioni di islamici, sia pur integralisti, e un'intera etnia come quella dei Tuareg ? Sono dei ribelli che considerano il governo centrale di Bamako troppo prono ai voleri dell'Occidente e ai suoi stili di vita e che vogliono invece conservare i propri. Si tratta di una classica guerra civile fra fazioni di uno stesso Paese che hanno concezioni diverse dell'esistenza. Che diritto ha l'Occidente (parlo di diritti, di principi quelli richiamati da Bernard- Henry Levy non di interessi) di ingerirsi, con la violenza, con i bombardamenti,con i Mirage che partono da migliaia di chilometri di distanza, nelle vicende interne di un Paese che gli é lontanissimo geograficamente e culturalmente?Nessuno, con buona pace di Grozio, di San Tommaso, di Hollande e di Bernard-Henry Levy.Il fatto é che l'Occidente totalizzante vuole omologare a sè tutte le realtà che non le sono omologhe o i Paesi che non si mettono al suo servizio (se lo fanno possono applicare la sharia, come in Arabia Saudita, nel più feroce dei modi, non olet, altro che i sacri principi).
Col pretesto di combattere il terrorismo noi lo stiamo fomentando.Nella guerra 'asimmetrica' dove l'Occidente usa mezzi tecnologici sofisticatissimi, irraggiungibili, imbattibili e chi non ci sta ha a disposizione solo pick-up, mitragliatrici, granate e i propri corpi, a costoro resta solo il terrorismo .Ed é quanto, prima o poi, avverrà e anzi, sia pur non in Mali, sta avvenendo (vedi l'attentato in Algeria). Un preannuncio ci viene proprio dal Mali « Voi ci avete attaccato, senza ragione, sul nostro territorio- hanno detto i ribelli del Mali- e allora noi abbiamo il diritto di attaccarvi sul vostro, in Francia, in Europa, ovunque ». Se dopo l'Afghanistan, l'Iraq, Somalia, la Libia, il Mali la protervia occidentale continuerà su questo passo non potremo meravigliarci se anche nella tranquilla e, tutto sommato, ancora ben pasciuta Europa, cominceranno a saltare in aria i grandi magazzini.

sabato 19 gennaio 2013

Berlino rivuole il suo oro ma a Fort Knox forse non c’è più


di Filippo Ghira (Rinascita)

La Germania ha paura che sia in arrivo una crisi finanziaria senza precedenti ed ha incominciato a ritirare dall’estero parte delle sue riserve in lingotti d’oro delle sue circa 4.000 tonnellate. Per la precisione sono 3.396. La scelta è caduta su tutti i lingotti detenuti presso la Banca di Francia, 374 tonnellate e una parte di quelle conservate a Fort Knox. Alla Riserva Federale Usa, Berlino ha depositato nel tempo un 45% pari a 1.800 tonnellate. La Bundesbank ritirerà così 300 tonnellate non subito e tutti insieme ma nell’arco di sette anni. Sembra una quantità trascurabile ma in questi casi è il segnale che conta. Una mossa che ha messo sull’avviso i mercati finanziari e i governi di tutto il mondo che si sono interrogati sull’ipotesi che la signora Merkel e il suo governo, dati per vincenti alle elezioni di autunno, considerino imminente ed inevitabile una crisi finanziaria in grado di fare impallidire gli effetti di quella del 1929. Una crisi che potrebbe infliggere un colpo mortale al sistema dell’euro e che di conseguenza si ripercuoterebbe sul livello dei debiti pubblici dei Paesi membri del sistema di moneta unica.
Se le cose stessero davvero così, non si spiegherebbe allora perché la Bundesbank abbia deciso di lasciare al loro posto le oltre 500 tonnellate di oro detenute presso la Banca d’Inghilterra. Eppure Londra non fa parte dell’euro che non ha mai amato e ha preferito tenersi la sterlina. E in tale ottica ha assunto un atteggiamento ambiguo con un piede dentro ed uno fuori dell’Unione tanto da indurre un europeista storico come il francese Jacques Delors a dichiarare che la Gran Bretagna dovrebbe andarsene dalla Ue perché costituisce soltanto un elemento di disturbo. Un ruolo che è apparso chiarissimo durante la recente crisi finanziaria quando dalla City londinese e dai paradisi fiscali sotto la sovranità britannica (Cayman, Guernsey e Jersey) sono partite buona parte delle operazioni speculative della finanza anglo-americana contro i titoli pubblici europei (italiani e spagnoli in testa) e di conseguenza contro l’euro.
La mossa della Bundesbank nasce probabilmente anche dalla considerazione che l’economia Usa si trova sull’orlo del collasso per il generale indebitamento della sua economia. Sono indebitati i cittadini per tutti gli aspetti della propria esistenza (consumi e mutuo). E’ perennemente in rosso la bilancia commerciale con un debito che supera abbondantemente i 600 miliardi di dollari. E soprattutto sono indebitate perennemente le casse federali con un debito che ha superato da tempo il 100% sul Prodotto interno lordo tanto da spingere Obama e i repubblicani a raggiungere nell’agosto scorso un accordo bipartisan per alzarne il tetto legale. Una operazione che si sta ripetendo adesso a fronte dell’incapacità di tenere a freno la dinamica della spesa pubblica. A dimostrazione che gli Usa e i suoi cittadini vivono ben al di sopra delle proprie possibilità e che la tenuta del dollaro è frutto più che altro del ruolo di prima potenza militare globale che utilizza la propria moneta come moneta di occupazione.
Per tale motivo la Merkel sospetta e teme che gli Usa possano fare bancarotta e che vantando o millantando chissà quali crediti verso la Germania possano cercare di trattenersi l’oro tedesco che ha cominciato a depositarsi presso la Federal Reserve subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. C’è poi un altro fatto che non fa dormire sonni tranquilli alla Cancelliera ed è il fatto che la Cancelliera, è non è la sola in Germania e in Europa, a sospettare che le riserve di oro depositate presso Fort Knox non siano in realtà pari alla quantità ufficiale dichiarata. Siano esse di proprietà degli Usa o di un altro Paese. Non è un sospetto nuovo. Esso nasce dall’ipotesi che gli Usa abbiano potuto indebitarsi oltre ogni limite perché hanno venduto o hanno dato in garanzia i lingotti giacenti alla Federal Reserve. I propri e quelli ricevuti in deposito. Il periodo di 7 anni che sarà necessario per riportare a casa appena il 13% dell’oro tedesco fa sospettare che quella sia tutt’altro che ipotesi. Perché è ovvio che se i lingotti tedeschi fossero lì in custodia sarebbe sufficiente andare a riprenderli. Quello che manca nel panorama finanziario internazionale è di conseguenza la fiducia. E quei lingotti, che incominciarono ad essere lasciati a Fort Knox per paura di una invasione sovietica non hanno più ragione di trovarsi lì. Lo stesso pensano i governi di altri Paesi come l’Olanda. Ma quando manca la fiducia reciproca può innescarsi un meccanismo incontrollabile che, in conseguenza di un effetto domino può produrre sconquassi a livello globale. Così una manovra, quella tedesca, pensata per tutelarsi, potrebbe avere un effetto completamente opposto.

venerdì 18 gennaio 2013

Il giudice canditato getta un'ombra sulla sua attività















di Massimo Fini

Alle prossime elezioni si presenteranno come candidati numerosi magistrati (Grasso, Ingroia, Dambruoso, per dire dei più noti) che fino a pochi giorni fa erano in piena attività nell'amministrazione della giustizia.Si tratta di un'aberrazione. Un magistrato non dovrebbe entrare in politica perché questo getta un'ombra sulla sua attività pregressa. Il magistrato puo' anche essersi comportato nel modo più corretto e imparziale ma al cittadino resta il legittimo dubbio che abbia svolto il suo delicatissimo lavoro non ai fini superiori della giustizia ma per favorire gli interessi di parte della formazione politica con cui si é candidato. Questo dubbio basta per inficiare tutta la sua attività di magistrato. Come la moglie di Cesare non solo deve essere onesta ma deve anche apparirlo, cosi' un magistrato non solo deve essere imparziale ma deve anche apparire tale. E se si immerge nella lotta politica questa apparenza di imparzialità si dilegua. Tra l'altro poiché tutti i magistrati che abbiamo citato si sono candidati in formazioni di sinistra o di estrema sinistra, si finisce per dare ragione a Berlusconi quando delira sui complotti delle 'toghe rosse' ai suoi danni e sostiene che esiste un 'partito dei giudici'. Dice : i magistrati sono cittadini come tutti gli altri e ne hanno quindi gli stessi diritti, anche quello, dismessa la toga, di fare politica attiva. I magistrati non sono cittadini come tutti gli altri é la loro delicatissima funzione, che puo' incidere sulla libertà e l'onorabilità delle persone, che impone loro dei limiti e dei doveri che i normali cittadini non hanno. Uno dei provvedimenti che dovrebbero essere presi nella prossima legislatura - ma é una utopia sperarlo- é una legge che impedisca ai magistrati, lasciata la toga, di entrare nella politica attiva o quantomeno che imponga un congruo lasso di tempo (cinque anni) fra l'abbandono della toga e il loro impegno attivo in politica. In questi cinque anni possono fare di tutto : gli avvocati, i pittori, i carpentieri ma non i politici. Lo stesso discorso vale per le 'esternazioni' dei magistrati in carriera. Anche qui il limite alla libertà di espressione garantito a tutti i cittadini dall'articolo 21 della Costituzione é dato dalla loro funzione. Ci sono soggetti istituzionali che proprio a cagione dell'ufficio che svolgono hanno più doveri e quindi più limiti degli altri. Il Presidente della Repubblica é, come la Magistratura, un organo di garanzia, anzi il massimo organo di garanzia. Il suo primo dovere é quello di essere, e di apparire, imparziale. Non puo' dire « il partito Tal dei Tali non mi piace », anche se lo pensa, deve limitarsi a sussurrarlo in un orecchio a sua moglie. Oggi invece assistiamo ad un profluvio di dichiarazioni 'politiche' da parte dei magistrati, in convegni, in dibattiti, in conferenze stampa, nei talk show, e spesso su procedimenti in corso e addirittura su procedimenti di cui hanno la titolarità. Ci furono tempi, non poi tanto lontani, in cui il magistrato parlava solo 'per atti e documenti'. Erano, appunto, altri tempi. Di un'Italia più sobria, meno narcisista e più civile.

giovedì 17 gennaio 2013

Petrolio, gas e uranio: la Guerra Infinita ora trasloca in Mali


di Giorgio Cattaneo

Tripoli e Gaza, Damasco e Kabul, Baghdad e Mogadiscio. Missili, droni e petroliere che salpano con scorta militare, per paura dei pirati. Ricchi contro poveri, secondo un copione sempre più confuso: la secessione filo-occidentale del Sud-Sudan petrolifero appena infrastrutturato dalla Cina e il rapido congelamento della “primavera araba”. Eliminato Gheddafi, ora tocca al Mali, il “nuovo Afghanistan”, raccontato come ultimo terreno di lotta scelto dal radicalismo islamico per battersi contro l’Occidente. Non è solo quello, avverte Ennio Remondino: al contrario dell’Afghanistan, il Mali custodisce immense riserve di petrolio e gas algerino, accanto a nuovi giacimenti scoperti in Niger e in Mauritania. Inoltre, il Mali confina con le maggiori riserve mondiali di uranio, ed è al centro delle rotte europee dei clandestini e della droga. Dall’aprile 2012, “Al Qaeda nel Maghreb islamico” (Aqim) controlla questo territorio: e da lì può influire sulla trasformazione radicale delle rivolte nei paesi arabi.

Se il regime di Gheddafi poteva qualificarsi come “stabilizzatore” dell’area, arginando il fondamentalismo armato, la regione ha perso l’ultimo grande politico autorevole nel lontano 1978:

Thomas Sankara, padre fondatore del Burkina Faso, era divenuto il leader del riscatto nonviolento dell’Africa. Non sopravvisse allo storico discorso del vertice di Addis Abeba sulla cancellazione del debito con cui l’Occidente perpetua la schiavitù finanziaria del continente nero e la rapina delle sue risorse: Sankara fu assassinato in un attentato che inchieste indipendenti attribuiscono alla Francia, con l’appoggio della Cia e di forze africane, dalla Costa d’Avorio alla Libia di Gheddafi. Unico capo di Stato africano a chiedere formalmente la liberazione di Nelson Mandela, allora detenuto, Sankara guidò una rivoluzione radicale e senza violenze, con un unico obiettivo: restituire sovranità politica ed economica all’Africa, cominciando dal Burkina Faso. Era una rivoluzione pericolosa, perché potenzialmente contagiosa: mentre il Burkina è poverissimo, i suoi vicini sono ricchi di materie prime. Niger, Mauritania. E appunto: Mali.

Una guerra contro i “crociati”: questo l’odierno proclama di “Aqim”, che minaccia i 5.000 francesi tuttora residenti nel paese sub-sahariano. Sul fronte opposto, l’esercito maliano è appoggiato dalla Cedeao, Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, con 3.500 soldati provenienti da Niger, Nigeria e Togo, più Senegal, Benin, Ciad e Burkina Faso, a bilanciare la defezione di Costa d’Avorio, Mauritania e Liberia, mentre l’Algeria resta su posizioni attendiste perché non gradisce “aiuti” occidentali nell’area. Venti di guerra: «Sul fronte occidentale – scrive Remondino su “Globalist” – da sempre Usa e Francia si sono dichiarati favorevoli a una soluzione armata stile Libia, disponibili per fornire logistica e addestramento». Secondo “Washington Post”, “Le Figaro” e “Jeune Afrique”, gli Stati Uniti potrebbero utilizzare droni, mentre Parigi ha già dato il via alle forze speciali già presenti nella regione, dotate di supporto aereo. Con 500.000 sfollati su 15 milioni di abitanti, l’opzione militare era data per scontata da mesi: Onu, Cedeao,  
Unione Africana e Ue condividono il timore di un’implosione del Mali attraversato da spinte secessioniste, col radicamento di gruppi islamici radicali e la destabilizzazione dell’intera regione.

Pesa l’incertezza del potere locale, tra scosse e colpi di Stato come quelli organizzati da Amadou Toumani Touré, ex generale, alle prese con le ribellioni nel nord del paese e i movimenti Tuareg dell’Azawad, un milione e mezzo di nomadi. Clientele tribali: «Il favoritismo verso dirigenti mediocri, la corruzione, l’incanalamento delle risorse verso la capitale che assorbe il 90% di abitanti a danno delle regioni del nord e la penetrazione dei gruppi jihadisti di matrice qaedista nel Sahel – scrive Remondino – hanno progressivamente eroso le capacità mediatrici di Touré», convinto di poter controllare Aqim anche grazie al supporto occidentale – uomini e mezzi – nella “lotta al terrorismo”. Ma il vento che spira dal Mediterraneo cambia in fretta, aggiunge Remondino: tra l’Africa che assaggia la democrazia e l’estremismo c’è di mezzo la Libia. Sono almeno 2-3 mila uomini ben addestrati i reduci Tuareg della guerra libica combattuta al fianco di Gheddafi: tornati a casa, nel nord del Mali, hanno chiesto l’indipendenza della regione, pena l’avvio della guerriglia, affrontata da un esercito maliano «demotivato» e assistito dai francesi.

La situazione precipita a marzo, con il golpe del capitano Amadou Sanogo, che spacca in due in paese sbriciolando l’esercito. Risultato: qaedisti insediati a Timbuctù e in gran parte del territorio, fino alla periferia della capitale, Bamako. La guerriglia islamica diretta da comandanti algerini si prepara a esercitare la “legge coranica” nelle città conquistate e i militari invocano l’aiuto internazionale. Capitola il golpista Sanogo, che si impegna a restituire il potere formale al Parlamento, mentre l’Onu rifiuta di intervenire con una forza armata, lasciando così esplodere lo scontro – militare, politico e religioso – tra i Tuareg dell’Azawad e i jihadisti. Vincono questi ultimi, scacciando i Tuareg. «Su invito del “Consiglio per la Sicurezza e la Pace” riunito a luglio dall’Unione Africana ad Addis Abeba – racconta Remondino – si cerca di ottenere l’invio di una forza militare internazionale per fronteggiare i qaedisti ed evitare il loro radicamento nel nord», mentre il Mali torna a invocare l’aiuto dell’Onu. «Nell’attesa, la Francia decide per tutti, con i propri parà ma con l’aiuto dei droni  Usa». Servirebbe un politico prestigioso, ma non c’è più. L’ultimo è stato ucciso 35 anni fa. Era pericoloso: sosteneva che la ricchezza dell’Africa dovesse restare agli africani.

mercoledì 16 gennaio 2013

Anche l’Anpi in campagna elettorale: gli antifascisti tiepidi fuori dal Parlamento…


di Valerio Goletti (Secolo d'Italia)

In molti se lo chiedono: è possibile una campagna elettorale senza il ritorno dei vecchi fantasmi ideologici? No, in Italia ancora no. Lo si vede molto bene dall’ondata di surreale indignazione che sta colpendo Beppe Grillo reo di avere “sdoganato” i fascisti del terzo millennio di Casapound. In realtà nessuno di quelli che hanno utilizzato quest’arma retorica ci ha creduto veramente nel fatto che Grillo è pericoloso per la democrazia. Non sembrava loro vero, in definitiva, di trovare contro il Movimento 5 Stelle l’argomento degli argomenti, l’accusa di antifascismo troppo tiepido. Per chi avesse dubbi basta leggere oggi sull’Unità l’intervista a Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi. Ebbene Smuraglia dice proprio questo: Grillo, rifiutando la pofessione di fede antifascista, si è posto fuori da una “concezione unitaria” del paese che sovrappone la storia della democrazia a quella dell’antifascismo. “Vede – disquisisce Smuraglia – il fatto è che non si può che essere antifascisti se si amano libertà e democrazia. Non se ne esce”. Invece il paese vorrebbe uscirne, da questi vincoli sofistici, da questi logori assiomi dettati dai vincitori di una geurra mondiale più di 60 anni fa. E vorrebbe uscirne non certo per abbracciare la dittatura e non solo per riconciliarsi con tutte le sue memorie. Vorrebbe uscirne perché è stanco di un’altra dittatura, quella del conformismo ideologico che ha pesato per troppi decenni sul dibattito delle idee in questo paese. L’Anpi si appresta a lanciare un appello perché tutte le forze politiche si riconoscano nei valori della Costituzione, perché nel nuovo Parlamento vi siano solo eletti che si riconoscono nei “valori fondamentali”, antifascismo in primis. Smuraglia è convinto che questo valga più di qualsiasi programma e di qualsiasi proposito innovatore. Quanta nostalgia dell’arco costituzionale, quanto desiderio di trovare comunque un nemico ideologico. I colpi di coda di un’ortodossia mummificata…

martedì 15 gennaio 2013

Il PD rassicura la City: siamo liberisti e montiani


di Filippo Ghira (Rinascita)

Da quando la sinistra italiana ha deciso di non essere più una sinistra di classe ma una sinistra dei diritti civili, di tipo “liberal”, si è verificato un mutamento antropologico dagli effetti devastanti.
Quando parliamo di sinistra, nel caso italiano, ci riferiamo ovviamente all’ex Partito Comunista che iniziò la sua trasformazione socialdemocratica e filo-liberista al congresso della Bolognina nel 1989. Visti gli esiti degli ultimi 20 anni si deve concludere che tale mutamento era già nel Dna del vecchio PCI. Si ebbe insomma la morte della volontà di cambiare gli assetti sociali del nostro Paese. Una morte della quale i vari Occhetto, D’Alema, Veltroni e Bersani non sono stati altro che gli esecutori testamentari. Dalla Bolognina in poi è cominciata per gli esponenti del vecchio Pci-Pd-Ds ora nel PD una frenetica corsa a farsi accreditare negli ambienti dell’Alta Finanza. In particolare quella anglofona alla quale si sono continuamente offerte garanzie sul fatto che i futuri governi italioti di sinistra, di sinistra-centro o di centro-sinistra, con il PD incluso, proseguiranno nella strada intrapresa al termine della quale non ci sarà più la ricerca di un minimo di giustizia sociale e di una redistribuzione del reddito ma molto più semplicemente le più ampie facilitazioni di azione per gli esponenti del Libero Mercato. Banche e società finanziarie. In altre parole per gli speculatori. I quali, ora più che mai, vogliono che nel prossimo governo ci sia la presenza, per loro rassicurante, di Mario Monti molto apprezzato dagli anglofoni per le consulenze prestate a Moody’s e a Goldman Sachs. Due società, è sempre utile ricordarlo, che a diverso titolo hanno speculato contro l’Italia e contro i nostri titoli di Stato.
L’ultimo a rimanere folgorato sulla via della City londinese è stato Stefano Fassina, attuale responsabile economico del PD, sempre presente nei talk show televisivi, che ha cercato di rassicurare che la gioiosa macchina da guerra di Bersani e Vendola vincerà le elezioni. E che dopo i ludi cartacei Mario Monti sarà a fianco di Bersani per completare il lavoro di macelleria sociale già avviato. Come questo sia possibile con un Vendola che, almeno a parole, continua a dire qualcosa di sinistra, non è dato sapere e quelli del PD preferiscono glissare.
Fassina, nel corso dei suoi incontri a Londra con gli speculatori della City, un bis della visita di D’Alema nel 1998 subito dopo essere stato nominato capo del governo, ha rilasciato un’incredibile intervista al Financial Times, organo ufficiale degli anglofoni londinesi, nella quale ha indicato nei “populisti” come Grillo e Berlusconi i veri nemici del PD. Mentre Monti e i montiani sono dei potenziali alleati con i quali ci è identità di vedute sull’europeismo e sulla necessità di “alcune riforme strutturali”. Come la piena attuazione di quella del lavoro che dovrà permettere la più ampia libertà di licenziamento per le imprese, specie per quelle quotate in Borsa. In tal modo gli investitori e gli speculatori anglofoni avranno la certezza che le imprese italiane potranno usare i licenziamenti come strumento per ottenere maggiori profitti e di distribuire maggiori dividendi e saranno rassicurati sul fatto che i propri soldi sono stati investiti bene. Monti for ever insomma. Da capo del governo o da super ministro del’Economia. Anche se Bersani e compagnia avevano attaccato la sua decisione scendere in campo come candidato a Palazzo Chigi alla guida di una lista centrista, i legami che il Professore ha con gli ambienti della finanza anglofona sono troppo necessari al PD che senza il paravento dell’ex commissario europeo (Concorrenza e Mercato Interno) non potrebbe durare molto e vedrebbe lo spread tra Btp e Bund tedeschi arrivare a quota 600 punti. Del resto è stato lo stesso Monti a dichiarare che le sue misure alla lacrime e sangue sono state necessarie per le politiche economiche fallimentari dei precedenti governi. Quindi non solo quello di Berlusconi ma anche quello di Prodi (2006-2008) nel quale lo stesso Bersani era ministro dello Sviluppo. Insomma per gli anglofoni, se Fassina non è più l’estremista di un tempo e se Bersani ha mostrato buona disponibilità con le sue liberalizzazioni (le famose “lenzuolate”), un governo del PD dovrà essere tenuto costantemente sotto controllo. E chi meglio di Monti? E Fassina, fedele alla linea auspicata dalla canaglia liberista di oltre Manica e di oltre Atlantico, ha annunciato che il governo Bersani (più Monti) cercherà un accordo tra i sindacati e le imprese per congelare i salari in cambio di investimenti.
Insomma stipendi sempre più bassi e libertà illimitata di licenziare quando si presentassero le condizioni della riforma Fornero, ossia le necessità economiche delle imprese. Una novità da fare invidia agli Stati Uniti dove una tale opzione rappresenta la regola.
Con un occhio poi rivolto alla situazione interna, Fassina, per conto di Bersani, ha quindi fatto l’equilibrista, sostenendo che l’austerità imposta dalla Germania e dalla Banca centrale europea deve essere attenuata per favorire la ripresa dell’economia e quindi dell’occupazione. In cambio l’Italia a guida Bersani, all’interno di un gioco di sponda con Hollande, auspica un nuovo patto di bilancio a livello europeo con maggiori poteri di veto alla Commissione europea sui conti pubblici dei singoli Stati. Come le due cose possano coesistere lo sa soltanto Fassina che ha pure aperto all’idea di un supercommissario lanciata dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. Il primo passo per accentrare a livello europeo le uscite e le entrate. Il primo passo per fare nascere quel mostro burocratico in grado di svuotare la sovranità degli Stati come vogliono gli usurai internazionali.

lunedì 14 gennaio 2013

Almeno allo stadio lasciateci fischiare


di Massimo Fini

Dopo i cori razzisti contro Boateng nell'amichevole Pro Patria – Milan, la FIGC e il Viminale hanno deciso di varare la 'linea dura'. Lo stesso giocatore preso di mira dai cori razzisti potrà rivolgersi all'arbitro che, in accordo col responsabile dell'ordine pubblico, potrà decidere per la sospensione temporanea ma anche definitiva della partita. Va da sé che il razzismo allo stadio é incivile, cretino e anche un po' ridicolo (spesso i tifosi che contestano il 'negher' dell'altra squadra hanno tre o quattro giocatori di colore nella propria, il che, per la verità, attenua la gravità del fenomeno e fa dubitare che si tratti di razzismo vero e proprio).Tuttavia non sono d'accordo con la 'linea dura'. Lo stadio di calcio non é solo un luogo di sport e di spettacolo, oggi anche, e forse soprattutto, di un business che sta svuotando questo gioco dei suoi contenuti mitici, rituali, simbolici, identitari che ne hanno fatto la fortuna per più di un secolo.E' un'arena. Dove parte degli spettatori – non necessariamente solo i giovani – va per sfogare i propri istinti e quell'aggressività che una società moderna, civile, illuminista comprime in tutti i modi. Ma un 'quantum' di aggressività é necessaria all'essere umano perché fa parte della vitalità (quella vitalità che noi italiani abbiamo perduto e che ci fa cosi' tremebondi davanti agli immigrati balcanici o magrebini che invece l'hanno conservata). L'aggressività non puo' quindi essere completamente eliminata da una società, perché é vitale e perché, se troppo compressa, finisce poi per esplodere, all'improvviso, nelle forme più violente e pericolose, come il coperchio di una pentola tenuta troppo a lungo sotto pressione. Le società preilluministe lo sapevano benissimo e si sono ingegnate a creare istituti in cui canalizzare l'aggressività, senza annullarla, ma tenendola sotto controllo ed entro limiti accettabili. La festa orgiastica, la guerra ' ritualizzata ', (diembi) dei neri africani, ma anche il carnevale europeo durante il quale ci si poteva permettere cose proibite durante il resto dell'anno, hanno questo significato. Non é un caso che nell'antica Grecia il 'capro espiatorio' fosse chiamato 'pharmako's ', medicina. Si scaricava su di lui l'aggressività collettiva che, altrimenti, agendo all'interno della comunità l'avrebbe distrutta. Naturalmente noi moderni non possiamo più avvalerci di questi antichi espedienti. Ci manca anche la guerra, per noi la fanno le macchine. Ci rimane solo lo stadio. Ecco perché credo che allo stadio la violenza, finché rimane verbale, vada tollerata. Altrimenti a furia di imporre la tolleranza a tutti i costi, il 'politicaly correct' , le buone maniere si finisce nei delitti delle ' villette a schiera' , come li ha chiamati Ceronetti, dove tutto é lindo e pulito, corretto, ma un mattino uno si alza e sbudella una mezza dozzina di vicini.Infine, i Paesi occidentali, con l'intrusione violenta del loro modello, hanno distrutto l'economia, la socialità, l'equilibrio delle popolazioni dell'Africa nera e le hanno ridotte alla fame. Ma di questo le 'anime belle' non si curano. Per loro l'Intollerabile é dare del 'negher' a un nero. Schifosi ipocriti.