lunedì 31 dicembre 2012

Dall'Afghanistan alla Siria: il nuovo teorema delle guerre dell'Occidente

di Davood Abbasi

Il fiasco militare, le perdite umane e le spese pesantissime delle campagne militari degli Usa e dei suoi alleati in Afghanistan ed Iraq hanno indotto i teorici della guerra in Occidente alla creazione di un modello di guerra che potremmo chiamare di "quarta generazione"; un modello messo in atto in Libia e che attualmente viene usato ai danni della Siria.

Nella guerra di quarta generazione il confronto militare non è diretto, almeno nella fase iniziale, ed il grosso della guerra è svolto invece da una operazione pesante di guerra psicologica che si realizza con un diretto attacco alle menti dei membri del fronte nemico, soprattutto ai danni dei suoi leader politici. In pratica si tratta di rompere la volontà politica dell'avversario. Se nel tipo di guerra di terza generazione, si cercava di occupare direttamente il territorio nemico, nel nuovo modello l'obbiettivo centrale è il "regime change" nel paese aggredito.

La guerra di "quarta generazione", se condotta correttamente taglia fuori anche la popolazione del paese aggredito; per comprendere la ragione facciamo un esempio. In una guerra come il Vietnam, la popolazione si univa in guerra contro l'aggressore straniero; nella guerra di quarta generazione però la diffusione di menzogne e la guerra psicologica crea divisione tra governo e popolazione e per questo la gente non ha il ruolo di prima.

In pratica uno degli obbiettivi della guerra psicologica a base della guerra di quarta generazione è mettere contro il governo la gente, indebolire gli strumenti di controllo del governo, incoraggiare la gente alla disobbedienza ed al disordine. La guerra quindi assume un aspetto irregolare e si usa a tratti l'opposizione interna e a tratti quella al di fuori del paese; si cerca di creare una sinergia tra le minacce diplomatiche che via via si vanno a formare dall'estero e le azioni di disobbedienza nella nazione.

Il modello è molto crudele perchè solo usando il potere dei media e impiegando il minimo di risorse militari i governi vengono destabilizzati.

L'esempio lampante di questa nuova strategia di guerra occidentale è la Siria. La guerra in Siria è iniziata con proteste pacifiche alle quali l'amministrazione Assad rispose con un pacchetto di riforme. In questa situazione però le nazioni occidentali ed alcuni paesi arabi, che forse da tempo aspettavano tale occasione, hanno iniziato a mettere in atto il piano di guerra, seguendo il modello della quarta generazione dei conflitti.

Attraverso il confine con la Turchia migliaia di terroristi armati sono stati introdotti nella nazione e persino le forze di al Qaeda sono state impiegate per destabilizzare il paese. Nel mirino di questa operazione, in primo luogo, sta il sistema coordinato ed efficiente della Siria, ed il potere del governo centrale. Questo potere per circa 60 anni è stato il principale ostacolo alla realizzazione del progetto sionista di controllare una zona che va dal Nilo all'Eufrate. Un elemento che in questa guerra è stato sfruttato ad arte dai nemici della Siria è il pericoloso, violento e disumano odio settario che sta nel wahabbismo, una pericolosa deriva dell'Islam sunnita che ha la maggiore espressione nella monarchia saudita, in al Qaeda ed in realtà come quella dei talebani afgani. Altro elemento che le guerre di quarta generazione prevedono è l'impiego delle tecnologie all'avanguardia. Per la Siria possiamo ricordare le agenzie di intelligence occidentali che forniscono ai ribelli informazioni e foto satellitari sugli spostamenti delle forze siriane; ciò per non parlare dei sistemi di comunicazione, delle armi ed ecc...

Contemporaneamente a tutto ciò tutti i paesi coinvolti nella guerra, in questo caso la Siria, portano avanti anche una azione diplomatica pesante. I ribelli vengono riconosciuti come rappresentanti della nazione nemica, naturalmente viene usato anche lo strumento delle sanzioni.

La parte conclusiva della guerra poi può essere anche l'intervento militare diretto e persino in questa parte si cerca di usare la tecnologia dei droni assassini, per ridurre al minimo le perdite.

Di solito ci sono potenze contrarie a questa fase finale che poi alla fine vengono "comprate" con adeguati incentivi politici o economici.

In generale si può dire che nel modello di guerra di "quarta generazione" dell'Occidente, si cerca di ridurre al minimo l'uso diretto e palese della forza militare e ciò viene riservato solo per la fase finale, per dare il colpo di grazia al nemico già indebolito con tutta una serie di iniziative che non comportano, per gli aggressori, spese eccessive e soprattutto perdita di vite umane. La guerra è basata soprattutto su azioni di carattere psicologico, menzogne dei media, pressioni diplomatiche, sanzioni e sostegno a gruppi terroristici e/o a forze di opposizione armata.

domenica 30 dicembre 2012

Oltre la retorica di Eataly, il Governo Monti è contro i prodotti locali


di Federico Cenci

Sei mesi fa, durante l’inaugurazione dell’importante sede romana della sua catena, il grintoso fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, ebbe a dire parafrasando Dostoevskij: “La bellezza ci salverà”. Non c’è che dire, l’intuizione che l’ha spinto a intraprendere questa attività è - da un punto di vista imprenditoriale - molto bella (o, almeno, alquanto redditizia). Quell’affermazione, tuttavia, apparve a molti piuttosto spavalda, giacché pronunciata all’interno di un grigio titano di cemento - di quattro piani e 16mila metri quadri - che è poco aderente a un’accezione di bellezza. Un fabbricato, tra i tanti finiti presto in stato d’abbandono, che i mondiali di calcio “Italia ‘90” portarono in dote alla città di Roma. Con buona pace dei suoi fin troppo pazienti abitanti.

Accordo tra Eataly e Ntv
Quelle polemiche appartengono però al passato. Oggi i commenti critici hanno ceduto il passo agli elogi. Elogi che durante la mattinata di giovedì hanno accompagnato la presentazione dell’accordo che Eataly e l’azienda Ntv (Nuovo Trasporto Viaggiatori) hanno sottoscritto con il Ministero dell’Ambiente per dar vita a un progetto di riduzione delle emissioni di Co2 che sorgerà a Torino. All’incontro dal titolo “Il buono del progresso sostenibile. Il Made in Italy che salvaguarda l'ambiente” era presente, al fianco di Oscar Farinetti e Giuseppe Sciarrone (amministratore delegato di Ntv), Corrado Clini, ministro dell’Ambiente.

Quest’ultimo ha sfoggiato a parole, davanti ai taccuini dei giornalisti presenti, la sensibilità verso i prodotti italiani che caratterizzerebbe il Governo Monti. Il ministro Clini ha quindi ricordato: “Sono stati firmati vari accordi con imprese italiane finalizzati a far emergere il valore aggiunto della qualità dei nostri prodotti e dei nostri processi produttivi”. Egli ha poi lasciato la sala con un laconico giudizio e un incitamento finale: “Siamo i primi in moltissimi campi; basta piangere, avanti di corsa con le cose che sappiamo fare”.

Governo contro prodotti locali
Peccato però che a ostacolare questa corsa vi sia di mezzo proprio lo stesso Governo Monti. È notizia del luglio scorso che l’Esecutivo ha deliberato di impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale una legge della Regione Calabria(1) atta a “sostenere il consumo di prodotti agricoli anche a chilometri zero”. Quale infrazione sarebbe contenuta in questa legge regionale tale da rendere il Governo così sollecito nel tentativo di bloccarne l’attuazione? Ebbene, è stato lo stesso Consiglio dei Ministri a rispondere ai curiosi: la presenza di disposizioni che, nel favorire la commercializzazione di prodotti locali, violano la libera circolazione delle merci in contrasto con i principi comunitari. Ergo, le leggi a tutela dei prodotti locali non s’hanno da fare.

La tutela delle multinazionali, la morte delle piccole imprese
Questo ricorso, per chi ha memoria e voglia di ricordarlo, è come un’abrasione che scalfisce le belle parole pronunciate a Eataly dal ministro Clini. Soffoca il tentativo di rilanciare l’agricoltura italiana e favorisce ulteriormente le multinazionali. Un asse Roma-Bruxelles teso alla tutela del capitalismo e all’incremento del triste fenomeno dell’abbandono delle terre. Già nel 1998, infatti, la Comunità europea emanò una direttiva - confermata da una sentenza della Corte di Giustizia europea del 12 luglio scorso - che riserva alle multinazionali la commercializzazione e lo scambio delle sementi vietandolo agli agricoltori. Nessun Governo - né italiano né di ciascuno degli altri 26 Paesi dell’Ue - si è preoccupato di far rilevare che quella direttiva europea, concedendo l’esclusività del commercio alle sole ditte sementiere, è anch’essa da considerare un ostacolo al libero mercato.

Un’omissione che conferma che almeno nell’Ue sono tutti d’accordo: il mercato è da ritenere libero soltanto quando asseconda la bramosia dei pochi e schiaccia le piccole imprese locali. Di bello, in questo tentativo di omologazione che premia le multinazionali, non c’è proprio nulla. È una cappa, grigia come l’edificio che ospita Eataly, la quale opprime la cultura e le tradizioni locali, e strangola la sovranità anche in campo alimentare. Senza scomodare Dostoevskij, chissà se Farinetti - insignito di riconoscimenti per la sua attività imprenditoriale eco-sostenibile - conviene con questa considerazione.



(1) legge regionale n. 22 del 2012 della Regione Calabria

sabato 29 dicembre 2012

La disoccupazione è la grande paura



di Andrea Angelini (Rinascita)

Finire disoccupati è la paura più grande dei cittadini europei.
Una paura sentita dal 48% dei cittadini del’Unione che in Italia sale al 51%. E le prospettive sono tutt’altro che incoraggianti considerato che la Banca centrale europea ha stimato che la situazione peggiorerà anche nel 2013. Il sondaggio semestrale di Eurobarometro rispecchia comunque una maggiore fiducia rispetto al rapporto precedente con un 41% (+1%) di cittadini europei che ritengono che l'Unione europea stia andando nella giusta direzione per uscire dalla crisi ed affrontare le nuove sfide globali.
Secondo quello che è un ufficio studi della Commissione europea, e le cui conclusioni per tale motivo dovrebbero essere prese con le pinze, i cittadini continuerebbero a vedere nell’Unione il soggetto più efficace nell’affrontare gli effetti della crisi economica. E molto di più dei governi nazionali. Una affermazione piuttosto difficile da sostenere soprattutto in quei Paesi nei quali l’applicazione delle misure ultraliberiste imposte dalla Commissione europea ha provocato i disastri che sono davanti agli occhi di tutti. L’Unione e la Commissione avrebbero il 23% del gradimento. A ruota seguono i governi nazionali (20%) e il Fondo monetario internazionale (15%).
Le preoccupazione più sentita dai cittadini europei a livello personale è l'inflazione (44%). A livello nazionale c’è la disoccupazione (48%). Seguono la situazione economica generale (37%), l'inflazione (24%) e il debito pubblico (17%).
Nei giorni scorsi sono stati resi noti anche i risultati dalla III indagine Isfol sulla qualità del lavoro in Italia dalla quale emerge incredibilmente un Paese ideale e senza particolari problemi. La maggioranza dei lavoratori italiani si ritiene soddisfatta del proprio lavoro. Con un 20% che dice di esserlo molto e il 67,8% abbastanza. Soltanto un 11% è poco soddisfatto ed un 1,7% è del tutto insoddisfatto. La poca soddisfazione deriva in particolare dalla consapevolezza di avere poche prospettive di migliorare la propria carriera e ricevere mansioni più elevate (un 58% del totale) e di aumentare il livello della retribuzione (54%).
La crisi e la recessione continuano comunque a fare sentire i loro effetti. Quest’anno la disoccupazione ha subito una vero e proprio balzo passando dall’8,4% del 2011 ad un livello tra il 10,8% e l’11,2%. Per un Paese come l’Italia che godeva di un diffuso sistema di legami sociali e familiari a livello locale in grado di fungere da contrappesi, si tratta di un dato preoccupante che ci porta alla pari di altri Paesi nei quali è il Libero Mercato, duro e puro, a creare occupazione.

venerdì 28 dicembre 2012

Il ricordo di Adriano Romualdi...


di Gianfranco de Turris 


Se lo sono chiesto, ce lo siamo chiesto, me lo hanno chiesto nel 1983, nel 1993, nel 2003: che cosa avrebbe fatto, che cosa avrebbe detto, che avrebbe scritto, come si sarebbe comportato Adriano se fosse stato vivo?
 
Una domanda cui non è facile rispondere, anche per uno come me che della storia fatta con i “se” si occupa. Una domanda però che sottintende un senso di distacco, di privazione, ancora d’incredulità di fronte al suo destino, di sotterranea ammirazione per un uomo immaturamente e tragicamente scomparso a causa di un’imperscrutabile e terribile decisione del Fato (che nel 2000 ha voluto ripetersi con Marzio Tremaglia), anche da parte di chi non l’ha mai conosciuto se non, forse, attraverso i suoi scritti.

Adriano era della mia generazione, quella degli anni ’40, ma il primo di tutti essendo nato proprio nel 1940: oggi avrebbe avuto 63 anni, un signore di una certa età con sicuramente alle spalle molti libri, moltissimi articoli, forse anche una carriera universitaria.

Personalmente già mi sono posto l’interrogativo presentando il volume di tutti gli scritti di Adriano dedicati ad Evola (Su Evola, Fondazione Evola, 1998), ma oggi come oggi non riesco a pensare esattamente alla sua posizione rispetto alla politica odierna, se non che sarebbe stato intransigentemente all’opposizione di quella attualmente espressa dal partito erede del MSI, soprattutto sarebbe stato contro la sua politica non-culturale. Infatti, l’azione di Adriano fu sempre su questo piano che possiamo definire metapolitica, secondo gli insegnamenti evoliani. In tutti questi anni, se fosse vissuto, la sua importanza avrebbe potuto essere, nonostante alcune sue rigidità caratteriali, quella di un catalizzatore culturale: sarebbe diventato un’importante figura di riferimento, organizzatore e promotore d’iniziative, in polemica con l’ufficialità. Per semplice induzione sono quasi sicuro che avrebbe polemizzato con gli indirizzi presi, nella sua ultima fase, dalla Nuova Destra, e penso proprio che in qualche modo ambiguo avrebbero cercato d’incastrarlo, com’è successo a molti altri, durante gli anni del terrorismo e dello stragismo, in qualcosa di losco, di certo lontanissimo dal suo modo di pensare e dai suoi intenti. Era, infatti, una personalità di primo piano, anche per essere il figlio di Pino, uno dei fondatori del MSI ed alla fine vice-segretario, e si esponeva parlando e scrivendo: insomma poteva dare fastidio e per le sue idee e per essere una figura aggregatrice.

Era, proprio per quel suo scarto di pochi anni di età, un “fratello maggiore” (mi pare che la definizione sia di Maurizio Cabona), perché l’unico “maestro” della Destra italiana del dopoguerra, anche se non voleva essere chiamato così, era e rimane Julius Evola, di cui Adriano, per la lunga vicinanza e frequentazione, e per essere stato il primo a divulgarne ed interpretarne la “visione del mondo”, può considerarsi l’unico vero “allievo”. Come tale, come “fratello maggiore”, aiutò ed incoraggiò diversi di noi aprendoci le pagine de L’Italiano, uno dei mensili politico-culturali degli anni ’70, su cui si fecero le ossa in molti e dove si dibatterono argomenti oggi comuni ma che allora erano “nuovi” per la Destra ufficiale e del tutto trascurati: non solo cinema e narrativa contemporanea, ma anche fumetti, uso dei mass media, scienza, ecologia, letteratura fantastica, nuove tecnologie e nuove forme d’espressione, analisi della persuasione occulta, tendenze del costume italiano.

Una parte cospicua della storia della cosiddetta “destra pensante” si dovrà fare esaminando le pagine de L’Italiano soprattutto nel periodo in cui Adriano se n’occupò abbastanza direttamente, cioè negli anni della “contestazione”, fra il 1967 ed il 1973.

Era, infatti, del parere che più che lamentarsi della situazione esistente si dovesse agire concretamente sul piano, appunto, culturale e metapolitico. Conclude, infatti, così il suo saggio Perché non esiste una cultura di Destra del 1965 ed in edizione definitiva del 1970: “Bastano pochi cenni per tracciare le linee di sviluppo di una cultura di destra. Ma quest’astratto orientamento incomincerà a prendere forma quando dei singoli si metteranno a scrivere ed a fare”.

Penso che molti dei suoi amici di allora, magari prendendo strade personali diverse, questa via l’abbiano seguita: hanno scritto ed hanno fatto, nei limiti quantitativi consentiti dalle difficoltà insite all’establishment culturale italiano, per parlare degli ostacoli frapposti dalla stessa Destra ufficiale.

Ma l’hanno fatto.

L’idea che Adriano aveva di cultura la espresse in questo suo saggio, ancor oggi attuale e preveggente, per il semplice motivo che, a distanza di quasi 40 anni, le condizioni – diciamo così ambientali – non sono cambiate affatto. Le ragioni essenziali e di fondo di questa storica difficoltà della “cultura di destra”, a parte le situazioni contingenti e pratiche che non venivano per nulla da lui sottovalutate, Adriano le sintetizzava così: “Ciò non deve farci dimenticare la vera causa del predominio dell’egemonia ideologica della Sinistra. Esso risiede nel fatto che là esistono le condizioni per una cultura, esiste una concezione unitaria della vita materialistica, democratica, umanitaria, progressista. Questa visione del mondo e della vita può assumere sfumature diverse, può diventare radicalismo e comunismo, neo-illuminismo e scientismo a sfondo psicanalizzante, marxismo militante e cristianesimo positivo d’estrazione “sociale”. Ma sempre ci si trova di fronte ad una visione del mondo unitaria dell’uomo, dei fini della storia e della società”.

Invece – ecco la contrapposizione secondo le sue parole – “dalla parte della Destra nulla di tutto questo. Ci si aggira in un’atmosfera deprimente fatta di conservatorismo spicciolo e di perbenismo borghese (…). A Destra si brancola nell’incertezza, nell’imprecisione ideologica. Si è “patriottico-risorgimentali” e s’ignorano i foschi aspetti democratici e massonici che coesistettero nel Risorgimento con l’idea unitaria. Oppure si è per un “liberalismo nazionale” e si dimentica che il mercantilismo liberale e il nazionalismo libertario hanno contribuito potentemente a distruggere l’Ordine Europeo. O, ancora, si parla di “Stato Nazionale del Lavoro” e si dimentica che una Repubblica Italiana fondata sul lavoro ce l’abbiamo già – purtroppo – e che ricondurre in questi termini la nostra alternativa significa soltanto abbassarsi al rango di Socialdemocratici di complemento”.

E concludeva: “Basta poco ad accorgersi che se a Destra non c’è una cultura, ciò accade perché manca una vera idea della Destra, una visione del mondo qualitativa, aristocratica, agonistica, antidemocratica; una visione coerente al di sopra di certi interessi, di certe nostalgie e di certe oleografie politiche”.

Ecco perché nel saggio La “nuova cultura” di Destra, Adriano criticava le idee dell’allora nominato “consigliere culturale” del MSI, Armando Plebe, che era riuscito ad annacquare la piattaforma ideale dell’allora Destra Nazionale facendola diventare neo-illuminista, pragmatica, de-ideologizzata ed al massimo anti-comunista: “egli”, scriveva Adriano, “sotto il profilo ideologico è piuttosto un liberale che un uomo di Destra”. Plebe incassò e non replicò, ma si ricordò di queste critiche, tanto che dopo la sua morte non ebbe la minima remora a definire la posizione di Adriano come “l’aspetto più retrivo ed infecondo della cultura di destra”. Quasi quasi aveva ragione a contrario: nel senso che le posizioni dell’attuale partito che dovrebbe rappresentare la Destra italiana sembrano essere proprio quelle propugnate da Plebe; basti leggere il colloquio-intervista del suo presidente a La Repubblica (4 Novembre 2003) dove, alla domanda “Quali sono le nuovi componenti culturali del suo partito”, così risponde: “Indicherei tre radici essenziali: nazionale, nell’accezione non di nazionalismo ma di amor-patrio; liberale; cattolica”. Come ben si vede, Adriano aveva già capito tutto 40 anni fa. La sua posizione, infatti, faceva riferimento alla “Rivoluzione Conservatrice” nel senso più ampio, e non solo tedesco, del termine. Lo confermò in quello che fu uno dei suoi ultimi scritti: la risposta ad un’inchiesta su “le scelte culturali dei giovani di destra” che avevo preparato per Il Conciliatorema che poi venne pubblicata, poiché si era bruscamente troncata la mia collaborazione con il mensile milanese, sulla rivista dell’Ingegner Volpe, Intervento, nell’aprile 1973, pochi mesi prima del fatale incidente, e che ora ho riunito nel volume I non-conformisti degli anni Settanta(Ares, 2003).

Una rivoluzione che, come ben si sa, si rivolgeva ai valori del passato per andare avanti, secondo una definizione di Moeller Van Den Bruck da Adriano citata: “Essere conservatori non significa dipendere dall’immediato passato, ma vivere dei valori eterni”. Frase che – se permettete – accosterei ad un altro grande cui mi avvicinano alcuni miei interessi: Tolkien, il quale a sua volta diceva: “Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti”. In fondo esprimono lo stesso concetto.

Nel prendere questa posizione Adriano metteva in pratica i dettami di Julius Evola che già nel 1950, scrivendo per i ragazzi reduci dell’esperienza della RSI, su Orientamenti al punto secondo consigliava di abbandonare il contingente e mantenere l’essenziale. Per questo motivo, Adriano, pur essendo dissenziente su certe posizioni evoliane, poteva concludere così la sua risposta all’inchiesta prima ricordata: “Se mi è permessa una valutazione personale, noi che abbiamo letto da adolescenti Gli uomini e le rovine (e non siamo poi così pochi) siamo nel nostro ambiente – grazie ad Evola – i soli non qualunquisti”. Appunto, quel che è diventata la Destra ufficiale di oggi. Ma questa possibilità da lui indicata, purtroppo, non è mai stata sfruttata, né sembra possibile farlo attualmente anche se ci sarebbero le condizioni teoriche ottimali per farlo. Infatti, la Sinistra è ideologicamente,culturalmente e moralmente allo sbando: regge solo per il suo essersi da mezzo secolo innestata profondamente nei gangli della cultura italiana e per il rimanervi grazie alla forza d’inerzia, alla convivenza ed al mutuo soccorso. Oggi a sinistra si stanno ammettendo le colpe delle stragi compiute dopo il 25 aprile, si stanno ammettendo i compromessi ed i silenzi colpevoli nei confronti di Stalin e Togliatti, si riconosce l’asservimento degli storici ad una visione comunista con il conseguente condizionamento d’intere generazioni, si ammettono connivenze, complicità, conformismi. Eppure, non si riesce ad approfittare di questo momento di gravissima crisi perché l’ambiente della Destra Politica non è cambiato rispetto a quello descritto da Adriano 40 anni fa, non si è creata una “visione del mondo”, si è andati avanti alla giornata al punto da, alla fine, negare se stessa, rinnegando il proprio passato praticamente in blocco, rifiutando tutti i suoi riferimenti culturali, preferendo il Nulla o il qualunquismo (il che è quasi la stessa cosa) ad un serio ripensamento e ad una riattualizzazione: non ha rifiutato il contingente e mantenuto l’essenziale, ma ha rifiutato sia il contingente che l’essenziale. Ha tagliato, com’è stato scritto con grande compiacimento dei progressisti (ma strumentalmente, ai fini della politica-politicante), tutte le sue radici. Aggiungiamo che ha distrutto i ponti ed ha bruciato i vascelli alle sue spalle: ma non esiste alcun futuro senza un passato. Tanto meno con un passato costruito all’impronta, da neofiti, da nuovi arrivati. Ma c’è di peggio. Non ci si limita a rifiutare il passato di tutto un mondo umano, ma, per essere ben accetti, lo si denigra e lo si offende, andando addirittura contro certe correnti storiografiche che cercano di riequilibrare giudizi puramente ideologici su di esso, con un cinismo assoluto e strumentale. Sicché, per tornare a noi, si è potuto leggere che Adriano era un esaltato, che viveva condizionato dal nibelungico crepuscolo del nazismo, al punto di essere affetto da “autismo ideologico” e di rappresentare una “cultura di addetti alla nostalgia” (Marco De Troia, Fronte della Gioventù, Settimo Sigillo, 2001), quasi un piccolo cattivo maestro nazista, razzista e radicale (G.S. Rossi, La destra e gli ebrei, Rubettino, 2003), perché ovviamente il grande cattivo maestro era Julius Evola, entrambi contrapposti ai “buoni” del vecchio MSI, quelli che poi avrebbero creato l’attuale entità politica sua erede.

Di fronte a questo rinnegamento e a questa denigrazione da parte di una destra che si vuole accreditare presso i “poteri forti” attuali, non si può fare a meno di pensare a qualcosa di concreto, non solo ricordando Adriano, ma ristampando in edizione critica le sue opere da troppo tempo scomparse. Fosse vissuto sino ad oggi, con alle spalle il curriculum culturale di 40 anni di attività, sarebbe stato un punto di riferimento, come ho detto, di una resistenza non solo culturale e metapolitica, ma anche morale. Non essendoci più, noi non possiamo far altro che cercare di seguire gli spunti, le idee, i riferimenti che ci ha lasciato, adeguandoli ai tempi naturalmente, come del resto avrebbe fatto anche lui. Tempi questi che, mai – credo – Adriano avrebbe voluto prevedere, pur avendoli in parte immaginati, anche nelle sue visioni più pessimistiche.

giovedì 27 dicembre 2012

Mario Monti (Weimar reloaded)


di Maurizio Blondet

Lo scorso 14 dicembre il nostro ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, è volato a Washington ad incontrare il suo pari grado, Tim Geithner, e «investitori» finanziari non meglio identificati. Ad essi, secondo Il Corriere, Grilli ha spiegato il piano del governo Monti per ridurre un poco il debito pubblico, che Monti ha continuato a far salire rispetto al PIL, inarrestabile. Il calo del PIL (e non le tasse, secondo Grilli) ha fatto sì che esso si divaricasse dal debito: quello scende e, per forza, questo sale. La soluzione è aumentare il PIL «nominale», cioè quello reale più l’inflazione (che è al 2%, secondo loro), per far convergere le due entità.

Come fare? Tranquilli, ha detto Grilli ai finanzieri esteri: «Il continuo aumento della disoccupazione spinge chi cerca un posto ad accettare compensi sempre minori pur di lavorare, ridando così un po’ di competitività di prezzo alle imprese». Le imprese italiane potranno dunque «ridurre i costi… del lavoro» (Il Tesoro e la via anti-debito).
Ecco dunque il progetto di «rilancio» e «crescita» di Monti (e di Bersani poi, per cui Monti è «un punto di non ritorno»): nessuna liberazione delle imprese dallo strangolamento della burocrazia pletorica inadempiente, nessun taglio ai «costi della politica»; niente blocco degli statali e dei loro stipendi, già il 15% superiori a quelli privati; niente fiscalità che non sia persecutrice di chi produce, nessun taglio agli statali di lusso con stipendi miliardari. Quello che vuol ridurre, il governo, sono i salari privati, ossia di quelli che producono, non dei parassiti. Mettendo in competizione gli occupati con i disoccupati, costretti ad «accettare compensi sempre minori».

A parte l’odiosità morale, è il caso di avvertire che proprio questa «soluzione» fu quella che stroncò definitivamente l’economia della repubblica di Weimar (1919-1933), e fece sì che i tedeschi votassero il NSDAP e la facessero finita col liberismo. Non fu infatti l’iper-inflazione, come alcuni credono, a provocare il rigetto della democrazia; l’inflazione tedesca, benché atroce per la classe media, era già finita nel 1923, e l’istituzione pluralista durò ancora 10 anni. A provocare il tracollo fu invece la deflazione, unita alla recessione, provocata da programmi di «austerità» rigorosi secondo l’ortodossia liberista, e infine il taglio dei salari privati ordinato per decreto dal cancelliere Heinrich Bruening.
I punti di contatto fra la repubblica italiana d’oggi, e fra Monti e Bruening, sono così numerosi da inquietare. 

Andiamo per ordine:
Fu la prima globalizzazione (1919-1929): vigeva il Gold Standard, il che significa: negli scambi internazionali si usava una moneta comune globale: l’oro, e le monete in quanto erano agganciate all’oro con cambio fisso. Una volta domata l’inflazione, la Germania – sconfitta nella Prima Guerra Mondiale – riagganciò il marco all’oro, e conobbe una rapida ripresa.

Crescita drogata da grandi prestiti USA: la Germania era stata condannata a pagare colossali «riparazioni» a Francia e Gran Bretagna perché bollata dalla «comunità internazionale» (la conosciamo bene anche oggi) come colpevole della Grande Guerra. Tutti gli anni avrebbe dovuto versare 2,5 miliardi di marchi oro fino al 1929 (piano Dawes), poi 37 versamenti di 2,05 miliardi di Reichsmark, poi altri di 1,65 miliardi di marchi fino al… 1988 (piano Young). Berlino non ce l’avrebbe mai fatta, se il governo americano (appunto Dawes e Young, banchieri-politici USA) non avesse fornito altrettanto enormi crediti.
Tanta generosità non era disinteressata, e fruttava grassi profitti. Gli USA avendo venduto forniture belliche gigantesche agli Alleati durante la guerra europea, erano divenuti i grandi creditori del mondo, e Fort Knox traboccava di oro affluito dai Paesi debitori (che erano poi gli alleati; ma gli affari sono affari). Il Gold Standard obbligava a moltiplicare di altrettanto i dollari: un mare di liquidità in eccesso stava per abbattersi sull’economia USA, che già subiva la recessione inevitabile una volta finita la super-produzione bellica. La Federal Reserve e i banchieri USA impedirono tale effetto abbassando artificialmente i tassi – la stessa cosa fatta da Greenspan negli anni ’90, e da Bernanke poi – ed incitando all’esportazione di dollari: come nella storia dei petrodollari degli anni ’70, esportarono così la loro inflazione all’estero.

Assoluta libertà di circolazione dei capitali: questa fu la decisione decretata da Washington e da Londra, potenze vincitrici. I capitali americani, poco remunerati in patria, affluirono in Germania. Nel 1925, il tasso di sconto della Federal Reserve era del 3%; in Germania, era sul 10%. Negli anni seguenti, la remunerazione del capitale investito in USA fu sul 4%, in Germania spuntava l’8%. Il doppio.

Pura finanza speculativa, perché basata su un circolo vizioso finanziario: i capitalisti USA si facevano prestare dalla FED al 4%; con questa liquidità indebitavano i tedeschi all’8%, e con questi prestiti i tedeschi pagavano le riparazioni a francesi e inglesi. Come «garanzia» per i generosi prestiti, furono ipotecate la Reichsbank (la Banca Centrale), le Reichsbahn (le ferrovie nazionali), i diritti di dogane e l’imposta sui consumi.
Ma una parte delle riparazioni doveva essere pagata in merci e beni: e dunque parte dei prestiti USA andarono anche a finanziare l’industria tedesca.

La repubblica di Weimar piaceva all’alta finanza USA come uno Stato «business friendly»: le dava le due garanzie che il liberalismo capitalista desidera in un Paese per investire, il «mercato» e la «democrazia». E inoltre, i salari tedeschi erano bassi – milioni di soldati smobilitati cercavano un lavoro a qualunque prezzo – e i bassi salari stimolano sempre gli investimenti industriali: come abbiamo visto fino ad oggi in Cina.

Bolle finanziarie: il risultato di tanto denaro a disposizione provocò oltre ad un surriscaldamento industriale, gigantesche «bolle». Rapidamente, i terreni e i fabbricati rincararono del 700% a Berlino, e del 400% ad Amburgo. I giornali seguaci del liberismo (perché pagati dai capitalisti) lanciarono una campagna per «liberalizzare gli affitti». Gli affitti erano stati bloccati durante la guerra; ma ormai era «ingiusto», dicevano i media, visto che gli immobili si erano tanto apprezzati, che essi rimanessero fermi. Una legge sbloccò gli affitti, che crebbero immediatamente del 125%. A pagarli erano soprattutto gli operai, appena urbanizzati, risucchiati nelle metropoli dall’industria assetata di manodopera. Berlino passò da 2 a 6 milioni di abitanti, e gli alloggi non bastavano mai. I padroni immobiliari erano quelli che guadagnavano.

Anche a spese delle industrie, che pagavano di più affitti e mutui e fidi per i fabbricati industriali. «L’economia era sempre più dipendente dal capitale estero; il peso degli interessi continuava a crescere (…) I crediti esteri erano per lo più a breve, ma erano piazzati in investimenti a lungo termine, sicchè la minima crisi economica presso i creditori avrebbe avuto conseguenze gravissime per la repubblica» (così lo storico Horst Moeller).

Allora la crisi fu quella del 1929, che da un giorno all’altro lasciò l’economia germanica a secco di capitali americani. Oggi è stata la crisi dei sub-prime in USA, che ha destabilizzato il sistema bancario globale, rivelandone l’insolvenza.
Ma intanto, tra il 1925 e il ’29, l’economia cresceva trionfalmente. Erano Die Goldener Zwanziger, i dorati anni ’20 immortalati dalle vignette di Grosz, coi ricconi grassi in cilindro, sigaro e frac che palpano puttanelle (figlie della classe media rovinata) nei cabaret. Gli industriali tedeschi rispondevano al peso crescente degli interessi passivi e dei costi da «bolla» sui fabbricati, creando un apparato industriale ad alta intensità di capitale, in modo da risparmiare sui salari.

«Le industrie smantellavano le vecchie fabbriche e le rimpiazzavano coi più nuovi macchinari. La Germania stava diventando il Paese industriale più avanzato del mondo, più degli stessi Stati Uniti (…) l’intero sistema ferroviario fu rinnovato…». Così Bruno Heilig, giornalista ebreo dell’epoca, che scampò nel 1938 a Londra (Bruno Heilig, “Why the German Republic Fell”).

Non mi dilungherò sulle «privatizzazioni» scandalose e truffaldine che allora prosperarono. Mi limito a citare il nuovo porto sulla Sprea, che il municipio di Berlino rammodernò spendendo milioni di marchi, attrezzandolo di gru e magazzini (era il porto che serviva il rifornimento della capitale) e che poi fu ceduto a due privati – con l’argomento che la mano pubblica non poteva gestirlo «con efficienza e profitto» . Il consorzio privato, Schenker & Busch, pagò 396 mila marchi – unico pagamento per 50 anni di affitto (il solo prezzo d’affitto del nudo terreno del porto sarebbe stato di 1 milione di marchi l’anno) e per giunta si fece dare dal comune un prestito di 5 milioni di marchi come capitale operativo. L’alto funzionario pubblico responsabile del progetto, e che aveva poi consigliato la privatizzazione, lasciò l’impiego pubblico e fu assunto da Schenker & Busch con uno stipendio principesco. Intanto «i lavoratori berlinesi, già aggravati dal rincaro delle pigioni, pagavano un tributo a quei privati per ogni pezzo di pane che mangiavano» (Heilig).

La crescita a credito cominciava a perdere colpi. Gli interessi sui debiti degli industriali crescevano, crescevano i costi degli affitti e dei macchinari. Ma per qualche anno «ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori» (Heilig). È significativo che anche durante il boom dei Venti Dorati, i disoccupati restarono tanti, si mantennero sui 2 milioni. Tanto meglio, per gli industriali: manodopera a basso costo. E coi «risparmi» sui salari, comprarono macchinari ancora più efficienti onde aumentare la produttività. Così gli aveva insegnato il liberismo anglosassone. E i tedeschi sono allievi-modello.

L’altra faccia della produttività. Accadde quello che sempre accade quando si retribuisce troppo il capitale (i banchieri, essenzialmente) e poco il lavoro: le merci, prodotte in quantità sempre maggiore, non trovano acquirenti, perché i consumatori (che sono i lavoratori) hanno perso potere d’acquisto.
Gli imprenditori corsero ai ripari applicando i dettami del liberismo americano appena appreso. Nel 1931, ridussero la quantità di merci prodotte, sperando con ciò di sostenerne i prezzi. Ma così facendo «interessi, tasse, ammortamenti ed affitti, ossia le spese fisse, divise su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni bene. Il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti, fino a divorarli» (Bruno Heilig).
Quali misure vennero prese? Altri licenziamenti in massa. Ovviamente, «per ogni lavoratore licenziato era un consumatore che scompariva», ha scritto Heilig, sicché i datori di lavoro «ne ebbero ben poco sollievo».

Già. A far colare a picco le imprese erano i «costi non comprimibili», non già il costo del lavoro; ma questo era il solo ritenuto «comprimibile» – e fu compresso senza pietà. Furono i costi incomprimibili, nel corso del 1931, a rendere insolventi sempre più imprese. Gli interessi sui debiti diventarono impagabili, e non furono più pagati. Con l’insolvenza dei debitori-imprenditori, cominciarono a fallire le banche.

Il cancelliere Heinrich Bruening, salito al potere nell’ottobre ‘31, spese miliardi di marchi (dei contribuenti) per «salvare le banche», applicando da allievo modello i dettami del liberismo anglosassone. Come oggi, quando sono le banche a crollare per i loro investimenti sbagliati, il «mercato» viene sospeso, e invece di lasciarle fallire, si invoca la mano visibile dello Stato, l’intervento pubblico a loro favore.

Non bastò, ovviamente. Allora Bruening, che ormai gestiva l’economia a forza di decreti d’autorità, lanciò una politica di austerità e rigore, tagli di bilancio, deflazione deliberata. Il cancelliere «ascoltava i funesti consigli del dottor Sprague, l’emissario della Bank of England. Il quale naturalmente voleva la continuazione della politica di deflazione ad ogni costo; deliberata permantenere il valore dei fantastici investimenti della City in Germania» (Robert Boothby: Recollections of a Rebel, 1978).
Anche oggi, il rigore e la deflazione decretati da Mario Monti sono nel solo interesse dei grandi creditori internazionali, che vogliono mantenere il «valore dei loro investimenti». Proprio di questo il nostro (loro) Grilli è andato a rassicurare gli investitori americani che creerà «crescita» tagliando i i salari.

Nel 1931, Bruening fece lo stesso: per decreto, ordinò una riduzione generale dei salari del 15%. Nella sua teoria, riteneva che riducendo il potere d’acquisto del lavoratori, si sarebbe prodotta di conseguenza una riduzione dei prezzi. Il «prezzo umano», la messa alla fame dei lavoratori e delle loro famiglie, non gli sembrò indegno d’esser pagato.
La massa salariale prima del 1929, ossia nel boom liberista, ammontava a 42,4 miliardi di marchi. Durante il cancellierato Bruening scese a 32 miliardi (il Terzo Reich la fece risalire, nel 1937, a 48,5 miliardi).

Ovviamente, il drastico taglio dei salari non funzionò come sperava Bruening, anzi accelerò il tracollo. Come abbiamo visto, i prezzi delle merci erano determinati da fattori ben diversi che dalle paghe: dai costi incomprimibili, dal servizio del debito, dagli indebitamenti per comprare suoli sopravvalutati dalla bolla. Bruening avrebbe dovuto agire su quelli. Non lo fece.

I disoccupati salirono a 7 milioni: un terzo della forza-lavoro nazionale; a cui si dovettero aggiungere «i «disoccupati parziali», part time e precari, altri milioni non censiti.
«L’apparenza di prosperità economica degli anni Venti si rivelava ingannevole. Quando la crisi americana del 1929 e la poca fiducia nella stabilità economica e politica di Weimar spinsero (gli stranieri) a ritirare i crediti, l’economia tedesca collassò… La generazione giovanile si vide privata di possibilità professionali, economiche e sociali; era sradicata e si sentiva derubata dell’avvenire». (Moeller). «La classe media (era) spazzata via: questa la situazione ad un anno dall’apice dalla prosperità» (Heilig).

In quell’anno, il numero dei deputati nazisti al Reichstag passò da 8 a 107. Avevano votato per loro 13,4 milioni di tedeschi; il 60% erano persone che prima non avevano votato, astenendosi. Nel gennaio 1933, divenne cancelliere Adolf Hitler. E cominciò la ripresa, usando ricette contrarie a quelle del liberismo (1).

Oggi, i poteri forti – che hanno la memoria lunga – hanno agito d’anticipo, di fatto favorendo un colpo di Stato dall’alto in Italia, svuotando di senso le votazioni; hanno accelerato la creazione della giunta oligarchica a livello europeo, in modo – mentre cadono a picco tutti i dati dell’economia reale – da prevenire una deriva «populista» della volontà popolare, che scalzi il loro potere come avvenne «allora».


1) Bruening se ne andò in USA, dove fu accolto a braccia aperte dall’Università di Harvard. Vi restò come docente di politica liberista fino al 1951.

mercoledì 26 dicembre 2012

Ma nessuno piange in Occidente per le bambine afgane saltate su una mina (italiana)














di Massimo Fini

Mentre tutta l'America, Obama in testa, piangeva per la strage dei venti bambini uccisi in una scuola di Newtown (Connecticut) da un ragazzo di vent'anni (certamente folle, ma anche prodotto estremo di un popolo che ha la violenza nel sangue oltre che di un 'mal de vivre' che coinvolge l'intero Occidente, si pensi a quello che accade a casa nostra, soprattutto contro le donne) e i media internazionali dedicavano ogni giorno una mezza dozzina di pagine al tragico evento, in Afghanistan dieci bambine che stavano raccogliendo legna in un bosco vicino al loro villaggio nel distretto di Chanarhar (Afghanistan orientale) sono saltate su una mina, uccise, mentre altre due rimanevano gravemente ferite. I media internazionali hanno dedicato alla notizia -quando l'hanno fatto- poche righe. E questo si capisce. Gli afghani, sia pur bambini, non sono esseri propriamente umani come gli occidentali e, tantomeno, gli americani. Non appartengono alla 'cultura superiore'. Più interessante è come è stata data la notizia. “Si tratterebbe di una mina anticarro forse residuo dell'invasione sovietica o di un ordigno, sempre anticarro dei Talebani”. Un cumulo di menzogne. Per attivare una mina anticarro ci vuole il peso di un blindato, non basta certo quello di un bambino. La mina era anti-uomo. I Talebani non le usano. Non solo e non tanto perché con un editto del 15 ottobre del 1998, quando era in guerra con Massud, il Mullah Omar le proibì considerandole “immorali”, ma perché alla guerriglia non servono. E' molto difficile infatti immaginare che un soldato Nato si aggiri, a piedi, in un bosco. Le forze Nato si muovono esclusivamente sui blindati. Era una mina anti-uomo di provenienza Oto Melara (bisogna pur che i nostri lavoratori abbiano un posto, costi quel che costi, la vita altrui o la propria come all'Ilva di Taranto). Alla Nato,invece, le mine anti-uomo fan molto comodo perché per preparare i loro attacchi i Talebani si muovono a piedi, protetti dalla boscaglia. Ha disseminato quindi questo tipo di mine sul territorio afghano, soprattutto intorno alle proprie basi e ai propri avamposti. Se poi salta in aria qualche bambino in cerca di legna o di pinoli, pazienza, è un 'incidente', magari da attribuire all'occupazione sovietica di quaranta o trent'anni fa. Del resto gli americani non ci vanno con mano leggera, nemmeno quando ci sono di mezzo i bambini. Non più di un paio di mesi fa un caccia, chiamato in soccorso da un fortino assediato, ha ucciso nove bambine, anch'esse occupate a far legna nel bosco, scambiandole per dei pericolosi guerriglieri.
Sono circa 80 mila i civili afghani morti da quando è iniziata la 'missione di pace' Isaf-Nato. O uccisi dai bombardieri, spesso droni senza equipaggio, che sparano alla 'dove cojo cojo', o dalla reazione della guerriglia che di fronte a un nemico invisibile deve ricorrere sempre più spesso al terrorismo (cosa che non fece con i sovietici che avevano almeno, in una guerra meno tecnologica e più 'umana' la dignità di stare sul campo) che, pur mirato a obbiettivi militari e politici, ha anch'esso i suoi inevitabili 'effetti collaterali'. E poiché spesso per prendere un paio di guerriglieri, invece di mandare fuori le truppe a rastrellare (troppo pericoloso), si bombardano interi villaggi, dove sono rimasti quasi esclusivamente donne, vecchi e bambini (ecco perché a raccogliere legna nel bosco c'erano delle ragazzine sotto i 12 anni), mentre gli uomini validi sono a combattere, la 'strage degli innocenti' è incalcolabile e incalcolata.
Per anni in Occidente si è parlato, spargendo copiosamente lacrime di coccodrillo, delle 'guerre dimenticate'. Adesso la guerra 'dimenticata' la stiamo facendo noi. E non ne parliamo o, se ne parliamo, ne diamo un'informazione completamente distorta. Per non coprirci di vergogna.

martedì 25 dicembre 2012

Significati e mistica delle cerimonie e delle usanze del Natale

di Alfredo Cattabiani

Le 
feste natalizie sono costellate di cerimonie  d usanze di cui non tutti conoscono il significato profondo, l’origine e l’evoluzione. Alcune di esse derivano da tradizioni pagane cristianizzate. Questa commistione di usanze di ispirazione evangelica con altre precristiane è dovuta alla collocazione calendariale del Natale che, diversamente dalla Pasqua, è errata storicamente. Nel vangelo di Luca si narra soltanto che nel periodo in cui nacque Gesù c’erano a Betlemme dei pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al gregge. Siccome sappiamo che i pastori ebrei partivano per i pascoli all’inizio della primavera, in occasione della loro Pasqua, e tornavano in autunno, è evidente che il Cristo nacque tra la fine di marzo e il primo autunno; tant’è vero che fino alla fine del III secolo il Natale veniva festeggiato, secondo i luoghi, in date differenti: il 28 marzo, il 18 aprile o il 29 maggio.

Nella seconda metà del secolo III si affermò nella Roma pagana il culto del sole, di cui l’astro non era se non una manifestazione sensibile. In suo onore l’imperatore Aureliano aveva istituito una festa al 25 dicembre, il Natalis Solis Invicti, il Natale del Sole Invitto, durante il quale si celebrava il nuovo sole “rinato” dopo il solstizio invernale. Molti cristiani erano attirati da quelle cerimonie spettacolari; sicché la Chiesa romana, preoccupata per la nuova religione che poteva ostacolare la diffusione del cristianesimo più delle persecuzioni, pensò bene di celebrare nello stesso giorno il Natale di Cristo. La festa, già documentata a Roma nei primi decenni del IV secolo, si estese a poco a poco al resto della cristianità.

La coincidenza con il solstizio d’inverno fece sì che molte usanze solstiziali, non incompatibili con il cristianesimo, venissero recepite nella tradizione popolare. D’altronde non si trattava di una sovrapposizione infondata, perché fin dall’Antico Testamento Gesù era preannunciato dai profeti come Luce e Sole. Malachia lo chiamava addirittura “Sole di giustizia”.

Per questi motivi già nei primi secoli l’accostamento del sole al Cristo era abituale, come testimonia Tertulliano: “Altri ritengono che il Dio cristiano sia il sole perché è un fatto notorio che noi preghiamo orientati verso il sole che sorge e nel giorno del sole ci diamo alla gioia, a dire il vero per un motivo del tutto diverso dall’adorazione del sole”.

Collegata a questo simbolismo di luce è l’usanza di adornare l’uscio di casa con piantine come il pungitopo o l’agrifoglio dalle bacche rosse, mentre quella del vischio è una tradizione celtica cristianizzata. La si considerava una pianta donata dagli dei poiché non aveva radici e cresceva come parassita sul ramo di un’altra. Si favoleggiava che spuntasse là dov’era caduta una folgore: simbolo di una discesa della divinità, e dunque di immortalità e di rigenerazione. La natura celeste del vischio, la sua nascita dal Cielo e il legame con i solstizi non potevano non ispirare successivamente ai cristiani il simbolo di Cristo: come la pianticella è ospite di un albero, così il Cristo, si dice, è ospite dell’umanità, un albero che non fu generato nello stesso modo con cui si generano gli uomini. Alla luce delle antiche feste solstiziali si seguivano alcune usanze, come ad esempio quella di accendere fuochi e falò che hanno, si dice, la funzione simbolica di “bruciare” le disgrazie e i peccati dell’anno morente, di purificare, ma anche di ricevere dal sole, composto di fuoco, nuova energia, fertilità e fecondità: sole che altro non è se non il simbolo di Cristo, come si è già detto.

Ma torniamo alla notte di Natale quando, una volta e ancora adesso in qualche famiglia toscana o emiliana, si accendeva dopo la cena di magro un ceppo che rappresenta simbolicamente l’Albero della Vita, il Cristo, dicendo: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa, le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondino il grano e la farina e si riempia la conca di vino” – “Il giorno del pane”, lo chiamavano: per questo motivo si mangiavano, come oggi d’altronde, dolci a base di farina che hanno nomi diversi secondo le regioni: pangiallo, pane certosino, pandolce, panforte, pampepato e panettone. Perché mai il pan dolce? L’usanza di consumare questo alimento nei periodi solstiziali potrebbe risalire agli antichi Romani, perché Plinio il Vecchio riferisce che alla festa del Natalis Solis Invicti si confezionavano le sacre e antiche frittelle natalizie di farinata. Con l’avvento del cristianesimo si modificò l’interpretazione riferendosi alle parole di Gesù: “lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete; io sono il pane della vita”. Il Pane della Vita s’incarnò proprio a Betlemme, che nell’ebraico Bet Lehem significava Casa del Pane, nome dovuto probabilmente al fatto che proprio in quella cittadina era un immenso granaio, essendo circondata da campi di frumento.

Quanto al ceppo, non è il solo simbolo arboreo natalizio: lo è anche l’abete che fin dall’epoca arcaica tu considerato un albero cosmico che si erge al centro dell’universo e lo nutre. Fu facile ai cristiani del nord assumerlo come simbolo del Cristo. Nei paesi latini l’usanza si diffuse molto tardi, a partire dal 1840, quando la principessa Elena di Maclenburg, che aveva sposato il duca di Orléans, figlio di Luigi Filippo, lo introdusse alle Tuileries suscitando la sorpresa generale della corte. Persino i suoi addobbi sono stati interpretati cristianamente: i lumini simboleggiano la Luce che Gesù dispensa all’umanità, i frutti dorati insieme con i regalini e i dolciumi appesi ai suoi rami o raccolti ai suoi piedi sono rispettivamente il simbolo della Vita spirituale e dell’Amore che Egli ci offre.

Anche l’usanza della tombola nel pomeriggio del Natale ha una derivazione pagana: durante i Saturnali, che precedevano il solstizio e sui quali regnava Saturno, il mitico dio dell’Età dell’Oro, si permetteva eccezionalmente il gioco d’azzardo, proibito nel resto dell’anno: esso era in stretta connessione con la funzione rinnovatrice di Saturno il quale distribuiva le sorti agli uomini per il nuovo anno; sicché la fortuna del giocatore non era dovuta al caso, ma al volere della divinità.

Nella Roma antica, in occasione dell’inizio dell’anno si usava anche donare delle strenae che arcaicamente erano rametti di una pianta propizia che si staccavano da un boschetto sulla via Sacra, consacrato a una dea di origine sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e felicità. Poi a poco a poco si chiamarono strenae anche doni di vario genere, come succede ancora oggi.

É invece soltanto cristiana l’usanza del Presepe. Il primo, vivente, con il bue e l’asino nella mangiatoia, risale al 1223 a Greccio, un paese vicino a Rieti: lo ideò san Francesco d’Assisi ispirandosi a una tradizione liturgica sorta nel secolo IX, quando in molti Paesi europei si formarono dall’ufficio quotidiano delle ore i cosiddetti uffici drammatici a rievocare le principali scene evangeliche con brevi dialoghi. Successivamente quei primi esperimenti si ampliarono in strutture più vaste e complesse, sicché il tema della Natività ispirò nel monastero di Benedikburen un vero e proprio dramma al cui centro campeggiava quella del presepe.

Ispirandosi a quelle sacre rappresentazioni Francesco volle rievocare la scena della Natività con un bue e un asino in carne ed ossa. “L’uomo di Dio” scrisse san Bonaventura da Bagnoregio “stava davanti alla mangiatoia, ricolmo di pietà, cosparso di lacrime, traboccante di gioia”. Ancora oggi a Greccio si celebra il presepe vivente da cui sono derivati quelli inanimati. La mangiatoia era vuota ma il cavaliere Giovanni di Greccio, molto legato a Francesco, affermò di avere veduto un bellissimo fanciullino addormentato che il beato Francesco, stringendolo con entrambe le braccia, sembrava destare dal sonno.

lunedì 24 dicembre 2012

Tremila gli italiani detenuti all'estero



di Fabio Polese (Rinascita)

I due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre non sono gli unici italiani imprigionati in terra straniera: sono circa 3mila i nostri connazionali detenuti all’estero. Poco più di 2mila sono detenuti nelle carceri europee - con in testa la Germania che ne detiene più di mille - il restante degli italiani si trova nelle carceri di diversi angoli del mondo, dall’Asia agli Stati Uniti, dall’Africa al Sud America. Ma il dato più allarmante è che, secondo i dati forniti dalla Farnesina, circa duemila detenuti devono essere ancora processati e solo una trentina sono in attesa di essere trasferiti in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla «Convenzione di Strasburgo» nei casi che riguardano le persone già condannate.
C’è chi finisce in carcere per le proprie responsabilità e chi ci finisce per una ingiustizia. Ma una cosa è chiara: in diversi Paesi vengono negati anche i più elementari diritti sanciti dalle convenzioni internazionali come l’assistenza di un avvocato durante gli interrogatori o la presenza di un interprete. In alcuni casi le notizie lasciate trapelare dalle autorità sono talmente poche e generiche che mancano gli elementi per fornire una idea dettagliata sul processo. Complici spesso il silenzio dei nostri media e la diplomazia italiana, che non sempre riesce a far fronte in maniera adeguata a queste situazioni.
Alcune storie corrispondono ad evidenti ingiustizie. Un esempio potrebbe essere quello di Carlo Parlanti, detenuto nella prigione californiana di Avenal e recentemente liberato dopo aver scontato l’85 per cento della sua pena. Parlanti è rientrato in Italia il 15 febbraio del 2012 da colpevole, nonostante ci fossero diverse documentazioni che è possibile quantomeno definire «ambigue» e che, tuttavia, sono state utilizzate al processo come prove contro di lui. Arrestato in Germania nel 2004 perché segnalato con un «red alert» dell’Interpool per un presunto stupro avvenuto negli Stati Uniti ai danni della sua ex compagna Rebecca White, ha scontato otto anni per violenza sessuale. Parlanti, manager informatico di Montecatini, che ha più volte denunciato diverse falsificazioni di prove contro di lui, si è sempre dichiarato innocente e, per questo, non ha mai voluto patteggiare. Se lo avesse fatto, sarebbe rientrato in Italia molto prima. «Seppur non vi sono referti medici, seppure la sig.ra White è stata inconsistente e quanto raccontato va oltre la realtà, penso che il sig. Parlanti l’abbia danneggiata psicologicamente da renderla inconsistente». Così il Giudice americano ha commentato e «giustificato» la sentenza emessa il 7 aprile del 2006 che condannava Parlanti a scontare nove anni di reclusione.
Sempre negli Stati Uniti troviamo il caso di Enrico «Chico» Forti, condannato all’ergastolo. La sua storia è iniziata la mattina del 16 febbraio del 1998 quando, in una spiaggia della Florida, viene ritrovato il corpo senza vita di Dale Pike. Di questo omicidio viene accusato Forti, un produttore televisivo del Trentino che era in trattativa con il padre di Dale per l’acquisto di un albergo.
Il processo a Forti, che si è sempre dichiarato innocente, non si è basato su una minima prova che potesse inchiodarlo ma, nonostante questo, la giuria americana lo ha condannato all’ergastolo, affermando che «la Corte non ha le prove che Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ha la sensazione, al di là di ogni dubbio, che sia stato l’istigatore del delitto». Recentemente il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha presentato l’iniziativa «Una chance per Chico», che ha come obiettivo quello di raccogliere fondi per la richiesta di revisione del processo.
In India non sono solo i marò ad essere ostaggio del governo di Nuova Delhi. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono rinchiusi a Varanasi, in India, condannati all’ergastolo con l’accusa di aver assassinato il loro amico e compagno di viaggio, Francesco Montis, secondo una teoria che la polizia locale ha definito di «triangolo amoroso» e di «delitto passionale»: la Boncompagni che era la ragazza di Montis, durante il viaggio in India nel 2010, si sarebbe innamorata di Bruno ed insieme avrebbero così pensato di ucciderlo.
Nel primo esame effettuato sul corpo di Montis dalla polizia e dal medico dell’ospedale che ne ha constatato il decesso, non sono stati rilevati né lividi, né ferite sul corpo. I due giovani italiani sono stati condannati all’ergastolo nella sentenza di primo grado e in quella d’appello. «Il prossimo 3 gennaio - ha detto la mamma di Tomaso Bruno - sarà presentata l’istanza alla Supreme Court dopo la sentenza di secondo grado che ha confermato la condanna all’ergastolo».
Nelle drammatiche storie degli italiani detenuti all’estero c’è chi ha perso la vita, la storia di Mariano Pasqualin è una di queste. Pasqualin è un ragazzo di Vicenza che è stato arrestato per traffico di droga a Santo Domingo nel giugno del 2011. In una galera del posto, dopo pochi giorni dal suo arresto, il 2 agosto, ha trovato la morte in circostanze alquanto sospette. Nonostante la richiesta della famiglia di far rientrare in Italia la salma al fine di procedere con un’autopsia che ne svelasse le cause del decesso, le autorità di Santo Domingo hanno arbitrariamente deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri. Questa vicenda è costellata da molte ombre, che nessuno, tra organi di stampa e istituzioni in Italia, ha voluto approfondire.
Queste storie di sofferenza e spesso anche di ingiustizie, che vengono lasciate al buio più cupo, sono solo alcune delle vicende che riguardano i nostri connazionali detenuti all’estero. Rompere il muro di silenzio, anche nei casi più scomodi, è dovere di tutti. Ogni persona, innocente o colpevole che sia, ha il diritto di essere processata regolarmente, senza discriminazioni e aiutata da quello che dovrebbe essere il proprio Stato.

Fabio Polese è autore, insieme a Federico Cenci, del libro «Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero», Eclettica Edizioni.
www.levocidelsilenzio.com


I due marò a casa per Natale
800 mila euro per farli tornare a casa per Natale. Tanto è costata la cauzione pagata dallo Stato italiano per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò detenuti in India da febbraio scorso perché accusati dell’uccisione di due pescatori indiani mentre erano imbarcati sulla petroliera italiana Enrica Lexie come sicurezza contro la pirateria. L’Alta Corte del Kerala, chiamata ieri mattina a pronunciarsi sulla richiesta presentata dai legali dei due di una licenza per le festività natalizie, ha concesso due settimane a partire dal momento in cui lasceranno il Paese. 
In collegamento con l’Italia, Latorre e Girone si sono detti felici e hanno ringraziato i ministri della Difesa e degli Esteri, Di Paola e Terzi, aggiungendo che torneranno in India per attendere il processo e rispettare la parola data: “Noi abbiamo una parola sola ed è parola di italiani”, hanno dichiarato. 
L’Italia tuttavia conta sul fatto che possano finalmente arrivare “decisioni della Suprema Corte indiana perché rientrino finalmente in patria per essere sottoposti alla giustizia italiana”. I due fucilieri dovranno tornare a Kochi entro il 10 gennaio per attendere la sentenza della Corte suprema di Nuova Delhi sulla giurisdizione del loro caso, contesa tra India e Italia. I due marò a casa per Natale
800 mila euro per farli tornare a casa per Natale. Tanto è costata la cauzione pagata dallo Stato italiano per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò detenuti in India da febbraio scorso perché accusati dell’uccisione di due pescatori indiani mentre erano imbarcati sulla petroliera italiana Enrica Lexie come sicurezza contro la pirateria. L’Alta Corte del Kerala, chiamata ieri mattina a pronunciarsi sulla richiesta presentata dai legali dei due di una licenza per le festività natalizie, ha concesso due settimane a partire dal momento in cui lasceranno il Paese. 
In collegamento con l’Italia, Latorre e Girone si sono detti felici e hanno ringraziato i ministri della Difesa e degli Esteri, Di Paola e Terzi, aggiungendo che torneranno in India per attendere il processo e rispettare la parola data: “Noi abbiamo una parola sola ed è parola di italiani”, hanno dichiarato. 
L’Italia tuttavia conta sul fatto che possano finalmente arrivare “decisioni della Suprema Corte indiana perché rientrino finalmente in patria per essere sottoposti alla giustizia italiana”. I due fucilieri dovranno tornare a Kochi entro il 10 gennaio per attendere la sentenza della Corte suprema di Nuova Delhi sulla giurisdizione del loro caso, contesa tra India e Italia. 

domenica 23 dicembre 2012

CASAGGì FIRENZE, BLITZ CONTRO MATTEO RENZI...



 
  CASAGGì FIRENZE e FRATELLI D’ITALIA: "AZIONE DIMOSTRATIVA A PALAZZO VECCHIO PER PRESENTARE I "REGALI" DI RENZI AI FIORENTINI"

TORSELLI E SCATARZI (FdI): "TRE ANNI E MEZZO DI PROMESSE DISATTESE, PRIVATIZZAZIONI, SPRECHI E MALGOVERNO DELLA CITTÀ"

Oggi, domenica 23 dicembre 2012, una delegazione di militanti del “centro sociale di destra” Casaggì Firenze, guidati dal consigliere comunale Francesco Torselli (Fratelli d’Italia) ha messo in atto un’azione dimostrativa di fronte a Palazzo Vecchio per mettere in mostra le promesse disattese e i tanti errori della giunta guidata dal rottamatore.

Gli attivisti della destra identitaria hanno lasciato dei pacchi regalo sotto l’albero natalizio allestito dal sindaco e hanno srotolato un lungo striscione con la scritta: "Tanti Auguri da Matteo Renzi".

Su ogni pacco è stato scritto un problema della città, che il sindaco Renzi ha pensato bene di “regalare” ai fiorentini: la privatizzazione di Ataf, la riduzione del centro storico ad una vetrina, la chiusura di 1200 esercizi commerciali, i famosi 100 punti che nessuno ha mai visto realizzarsi, le cooperative rosse che il rottamatore ha lasciato al loro posto, l’assenteismo del primo cittadino, le sue passeggiate televisive, il disastro di Sas e la scelta di manager incapaci, il caos delle nostre strade dissestate e trafficate, la mancanza di alloggi popolari per le famiglie italiane indigenti, la svendita del tessuto urbano alle multinazionali, i quartieri ghetto in mano alla delinquenza e alla guerra tra etnie, i tanti sprechi pubblici registrati e dimostrati.

"Abbiamo voluto ricordare - spiegano Torselli e Scatarzi - ai fiorentini, quali regali il sindaco Renzi lascerà anche quest'anno sotto l'albero di natale: promesse disattese ed amministrazione della città gravemente insufficiente".

"Un sindaco che si era presentato - concludono i due esponenti di Fratelli d'Italia - con mille promesse e mille slogan, ma che dopo tre anni e mezzo si è dimostrato soltanto in grado di sfruttare la nostra città per crearsi quella visibilità necessaria ad accreditarsi come soggetto politico nazionale".




Lo sapete che il 95% dei rivoltosi siriani non è siriano?

di Francesco Morosini

Chi combatte veramente in Siria? Secondo le fonti di intelligence tedesche solo il 5% dei rivoltosi è siriano. Il resto proviene da gruppi armati religiosi, addestratisi dall’Iraq all’Afghanistan fino alla Libia. Il timore di Usa ed Europa è che aiutando la rivolta si aiuti in realtà un fronte jihadista aggressivo


I soldati occidentali non mettevano piede in Medio Oriente dalla Guerra di Suez. È successo di nuovo qualche giorno fa, quando Germania e Usa, sotto l’ombrello della Nato, sono arrivati al confine tra Siria e Turchia per posizionare le batterie di missili Patriot che saranno l’ombrello strategico di Ankara contro il lancio di missili a corto e medio raggio che partono dalla Siria.

Non c’è dubbio che il conflitto siriano è oggi in cima alle preoccupazioni della comunità internazionale. Per il numero di vittime civili che sta facendo, senz’altro. Ma anche per le implicazioni geopolitiche che il conflitto avrà sui nuovi equilibri mediorientali. Per adesso, la volontà di schiacciare la rivolta da parte delle truppe rimaste fedeli ad Assad, con il supporto delle forze speciali iraniane, è determinata dalla certezza che in Siria non ci sarà nessun intervento internazionale. Tutte le cancellerie sanno – o temono – che l’implosione del regime siriano avrebbe effetti di destabilizzazione su tutto il Medio Oriente. A differenza della Libia, infatti, la Siria non è isolata. Essa è anzi la cerniera strategica delle proiezione di potenza iraniana verso il Mediterraneo e l’avamposto per il tentativo del blocco sunnita – guidato da Arabia Saudita e Qatar – per contenere la mezzaluna sciita. Sempre a differenza della Libia, la rivolta è frammentata non solo geograficamente ma soprattutto lungo faglie confessionali. I componenti del Consiglio nazionale siriano sono per lo più esuli con scarsi contatti con gli insorti sul campo. E qui sta la principale difficoltà di analisi e interpretazione dei fatti siriani che si perdono nella “nebbia della guerra”.

Chi combatte veramente in Siria? Quali sono gli interlocutori più affidabili per una possibile transizione nel dopo-Assad? Secondo le fonti di intelligence tedesche solo il 5% dei rivoltosi è siriano. Il resto proviene da gruppi armati, spesso a forte matrice religiosa, addestratisi ormai in vari campi di battaglia, dall’Iraq all’Afghanistan fino alla Libia. Il timore degli Usa e di molti europei è che aiutando la rivolta, fornendo armi e munizioni, si aiuti in realtà un fronte jihadista aggressivo e potenzialmente pericoloso. Un pericolo ritenuto almeno pari alla minaccia di Assad di usare le armi chimiche, le cui riserve sono state spostate nelle scorse settimane dai pretoriani del regime.

Quello siriano è un gioco regionale ma è anche un Great Game globale. Russia e Cina appoggiano Assad e il suo tentativo di soffocare la rivolta. Anche il governo iracheno dello sciita al-Maliki lo sostiene, benché in modo più sfumato. Lo fa in odio ai sunniti siriani, legati a quelli iracheni, e anche verso la Turchia. Ankara ha infatti concesso asilo politico al vicepresidente iracheno condannato a morte per terrorismo. Tra l’Iraq e la Siria esiste una frattura storica, quella tra Baghdad e Damasco, per una sorta di primazia politica e culturale. Era così anche ai tempi del Ba’ath, quando il governo siriano decise addirittura la creazione di una Repubblica Araba Unita con l’Egitto pur di creare un forte contrappeso all’Iraq. 

Non è però l’unica faglia regionale quella tra le due capitali della sunna. I curdi iracheni ad esempio appoggiano i curdi siriani, nella prospettiva di un possibile futuro stato curdo dall’Anatolia del sud ai pozzi di petrolio di Kirkuk. I palestinesi sono invece molto divisi. L’ufficio politico di Hamas ha abbandonato negli scorsi Damasco per trasferirsi in Turchia. I palestinesi rifugiati da decenni in Siria – circa mezzo milione - sono divisi al loro interno tra chi esprime gratitudine all’élite alawita di Assad per averli ospitati e chi invece appoggia la prospettiva di una Siria a maggioranza sunnita.

Come ogni crisi internazionale, anche quella siriana oscilla tra la soluzione militare e quella politica. Per adesso questa seconda prevale, nella misura in cui la frammentazione del fronte delle opposizioni, il supporto iraniano ad Assad e il pericolo che i jihadisti si impadroniscano di troppe armi e soprattutto di quelle chimiche lascia il fronte internazionale in una posizione di assoluta ambiguità. 

Di certo non appare semplice immaginare un salvacondotto per Assad e i suoi familiari, almeno stando alle dichiarazioni del raìss di Damasco che ha dichiarato di voler vivere e morire in patria. Sta di fatto che la scorsa settimana alcuni emissari siriani hanno fatto il giro del Sud America per raccogliere la disponibilità dei governi ad ospitare il presidente e i suoi familiari, lasciando il paese ad una transizione politica. 

Delle due l’una: o si accelera il supporto militare al fronte delle opposizioni, dando una spallata definitiva al presidio di Assad su una parte ancora maggioritaria del Paese, oppure si preme per una sua uscita soft, macchiata dalle enormi sofferenze già inflitte alle popolazioni civili ma prevenendo il rischi che nuovi massacri si ripetano in una Siria ormai allo stremo delle forze. Il rischio altrimenti non è solo quello di una guerra infinita ma anche della creazione di sacche di presidio territoriale e di conflittualità perpetua tra fazioni e gruppi armati. Assad potrebbe ad esempio chiudersi a Damasco e dintorni, facendo nascere una sorta di “villayet alawita”, circondato da province praticamente autonome. Non passerebbe molto tempo e il caos raggiungerebbe anche il Libano e di lì il resto del Levante.
L’attesa, quindi, semplicemente non è un’opzione.

venerdì 21 dicembre 2012

Oggi l'ultima copia cartacea del Secolo d'Italia


di Marcello de Angelis

Questo è l’ultimo numero del Secolo d’Italia prodotto con carta e inchiostro. Forse dire “l’ultimo” è troppo definitivo, perché nella vita vale il detto “mai dire mai”, ma sicuramente, da domani, sotto la mia direzione e quindi almeno in parte sotto la mia responsabilità, questa storica testata si svincolerà dalla materialità per trasferirsi nella rete. Ho passato i 50 anni e ho cominciato a lavorare a 17 anni in tipografia. Carta e inchiostro, per molti anni per me non sono stati meno sacri che carne e sangue. 

Non mi piacciono molto i cambiamenti, sono nostalgico per Dna. Eppure negli ultimi dieci anni ho dovuto ammettere e accettare che il mio mondo di rotative e acidi tipografiche è destinato a sparire come altri pezzi importanti del mio piccolo mondo antico. Già oggi i nostri lettori sul web sono dieci volte superiori a quelli che si spostano per andare in edicola. E lo stesso prodotto, sul web o cartaceo, costa enormemente di meno. Le imprese sono fatte di prodotto e persone che producono. 

Per il prodotto costano materiali, realizzazione e trasporto. Poi c’è quello che orrendamente viene definito “costo del lavoro”, le persone. Una filosofia aziendale normale taglia il costo del lavoro per investire sul prodotto. Ma il nostro prodotto non sono la carta e l’inchiostro, ma le idee. E le idee vengono dall’esperienza e dalla sensibilità delle persone e dalla storia, che per noi è comune anche se oggi straordinariamente confusa. Oppure, voglio essere ottimista, semplicemente “plurale” e quindi in divenire verso qualcosa di futuro che ci rivedrà tutti insieme. la mattina, ormai, persino io appena sveglio accendo il computer e mi leggo i quotidiani e le rassegne stmpa “on line”. 

Quindi, anche questa volta, ho alzato le mani e mi sono arreso alla modernità e – forse – anche alla comodità se non addirittura alla pigrizia. Per molti di voi è lo stesso e per moltissimi altri lo sarà a breve. Che il Secolo sia uno strumento di informazione o di testimonianza una cosa è certa: il suo messaggio deve raggiungere più persone possibile, il più velocemente e a minor costo. Quindi, da gennaio, sarà “on line”. La battaglia continua, con altri mezzi.