lunedì 30 settembre 2013

Sesso e ecologia in D. H. Lawrence critico dell’industrialismo e amato da Drieu.



di Sandro Marano (Barbadillo.it)

Al suo apparire nel 1928, come pure nei decenni successivi, L’amante di Lady Chatterley suscitò scandalo, perché, pur essendo un grande romanzo, contiene“alcune delle più accese e struggenti pagine di erotismo della letteratura moderna”(Guido Almansi).
D. H. Lawrence però non è soltanto il profeta del vitalismo e d’una sessualità libera, gioiosa, consapevole. E’ anche un critico feroce dell’industrialismo, che abbrutisce gli uomini, rompe i ritmi naturali, genera miseria spirituale e materiale e distrugge il paesaggio.
Come ebbe modo di chiarire Pierre Drieu La Rochelle in alcune pagine di grande spessore dedicate allo scrittore inglese: “Lawrence, osservatore delicato, sensibile alla complessità delle cose, non vede solo il gesto sessuale. E non lo venera se non come lo schiudersi, come il segno ultimo di una completa rinascita dell’uomo. Quel che Lawrence vuole è l’uomo completo… Lawrence vuole che l’uomo ascolti tutte le proprie voci e ne ricomponga il coro. Anzitutto, vuole che l’uomo tenga conto del proprio corpo. Vuole che lo tenga in esercizio, in buona salute, che lo porti a spasso e lo circondi di campagna, sottraendolo alla città… Poi, Lawrence vuole che l’uomo ascolti il proprio cuore, sfrutti la propria anima… Lawrence ha un senso acuto delle forze intermedie tra il corpo e la ragione che sono nell’uomo e questo senso acuto gli viene giustamente dal fatto di conoscere l’importanza reciproca dei tre ordini… E’ in questo gioco di cerniera tra la vita fisica e la vita spirituale che si inserisce il malinteso su Lawrence maniaco del sesso, su Lawrence apostolo della libertà sessuale.” (in Prefazione a “L’uomo che era morto” di D.H. Lawrence, Gallimard 1933).
Oggi il nostro rinnovato interesse per Lawrence è soprattutto legato all’attualità del suo messaggio ecologico: “Farei piazza pulita delle macchine, le spazzerei via dalla faccia della terra, ponendo fine una volta per tutte all’era industriale, come si fa con un errore madornale” dice Oliver Mellors, il guardiacaccia protagonista insieme a Connie del romanzo.
E Drieu chiosa: “L’uomo si è perduto nelle astrazioni della scienza e dell’industria… avendo dedicato troppo del suo tempo e della sua meditazione ai prolungamenti artificiali della vita, si è a poco a poco, senza accorgersene, disabituato a vivere. Non sa fare più i gesti elementari della vita, che sono la vita intera. E se non sa fare più quei gesti, ben presto le sue scienze, le sue industrie, le sue arti se ne andranno alla deriva. Già la sua economia gli sfugge. Lawrence ha osservato tutto questo e sentito tutto questo in maniera tragica.”
Pagine di grande efficacia narrativa, vibranti d’indignazione contro la polluzione industriale sono rinvenibili dovunque nel romanzo. Basti pensare alla celebre descrizione, nel capitolo undicesimo, del viaggio in auto di Connie attraverso l’orrendo Tevershall, la grande zona industriale limitrofa alla sua abitazione. Ma già all’inizio del romanzo, Connie, che da poco è andata ad abitare nella tenuta che confina con la miniera e col villaggio dei minatori, scopre qual è il prezzo del progresso: ”poco distante si scorgeva la ciminiera del pozzo carbonifero di Tevershall, con le sue nubi di vapore e di fumo e, più lontano, nella bruma umida che avvolgeva la collina, le rozze case sparpagliate dell’abitato di Tevershall, che cominciava appena oltre i cancelli del parco e si trascinava in assoluta, disperata bruttezza per un paio di raccapriccianti, interminabili chilometri… L’altoforno del pozzo di Tevershall bruciava, bruciava da anni e anni e ci sarebbero volute migliaia di sterline per spegnerlo. Sicché bisognava lasciarlo bruciare. E quando il vento soffiava da quella direzione, il che accadeva spesso, la casa si riempiva del fetore di quella combustione sulfurea degli escrementi della terra.”
La domanda fondamentale che Lawrence si pone è la seguente: chi ha defraudato la gente della vita naturale in cambio di tutto questo orrore industriale? La sua risposta è: il denaro, vale a dire l’avidità, la corsa al guadagno, all’accumulazione, a ricchezze sempre maggiori. Nelle pagine finali del romanzo la professione di fede di Oliver contro il progresso, contro un mondo dominato dal denaro, è la stessa dello scrittore: “Se solo si potesse dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa! Ma non serve a nulla. Se solo li si educasse a vivere, anziché a guadagnare e a spendere.. allora non avrebbero bisogno di denaro. Ed è questo il solo modo per risolvere il problema industriale: insegnare alla gente a saper vivere e a vivere in bellezza” .
E Drieu riassume magnificamente: “Quando l’uomo naturale non esiste più, presto si disgrega anche l’uomo sociale”. Perdere il senso della natura, illudersi che si possa vivere a prescindere dalla terra significa perdere anche il senso della società, significa vedere nell’altro uomo solo un consumatore, un affarista, un competitore, lo specchio opaco dei propri egoismi!

domenica 29 settembre 2013

Bergoglio, il Papa 'piacione'

di Massimo Fini

E adesso ci tocca anche il Papa democratico, femminista, di sinistra e magari, chissà, antifascista. «Non sono mai stato di destra». Da quando esistono queste due categorie politiche, cioè dalla Rivoluzione francese, nessun Pontefice si era mai abbassato a tanto, a nominarle. E che significa «non sono mai stato di destra»? Forse che quel Cristo che ha sempre in bocca (povero Cristo), non del tutto legittimamente perchè il cattolicesimo non coincide col cristianesimo, riserva una maggior misericordia a quelli di sinistra (il discorso naturalmente vale, a segno contrario, se avesse detto «non sono mai stato di sinistra»)? L'atteggiamento da 'piacione', cioè di uno che vuole piacere a tutti senza dispiacere nessuno, compresa la tambureggiante retorica della modestia, la sua (il che è il massimo dell'immodestia), Bergoglio, intelligenza fine, da gesuita, non lo ha scelto a caso anche se magari ha assecondato un aspetto reale del suo carattere. Il significato profondo della fuviale intervista a Civiltà cattolica ce lo spiega in un pur contorto articolo sul Corriere (20/09) un cattolico doc come Vittorio Messori (cui, se lo conosco un po', devono essersi torte le budella nel dover far sue le 'aperture' di Bergoglio). Scrive Messori: «E' da questo desiderio di convertire il mondo intero, usando il miele ben più che l'aceto, che deriva una delle prospettive più convincenti fra quelle confidate dal Papa al confratello». Siamo alle solite: all'evangelizzazione. Che muove da uno slancio di generosità (se io posseggo la Verità perchè non farne partecipi anche gli altri?), ma è quel tipo di generosità, come certi favori non richiesti, che ti ricade in testa come una tegola. Nell'evangelizzazione c'è infatti, in nuce, il vizio oscuro che segnerà tutta la storia dell'Occidente, il tentativo di 'reductio ad unum' dell'intero esistente. L'evangelizzazione partorirà molti figli, apparentemente fra loro diversissimi. Il primo sarà l'eurocentrismo, il colonialismo europeo che si basa, almeno a partire dal XV secolo, sulla distinzione fra 'culture superiori' e 'inferiori' e il dovere delle prime di portare la civiltà, laica e religiosa, alle altre. Il secondo figlio -anche se ciò può apparir strano- sarà proprio l'Illuminismo che a Dio sostituirà, assolutizzandola, la Dea Ragione. La Rivoluzione francese e le truppe napoleoniche si incaricheranno di esportare, sulla punta delle baionette, questa inedita 'buona novella'. Il terzo figlio -il che puo' apparire ancora più strano- sarà la Rivoluzione sovietica che, sotto il manto del materialismo scientifico e dell'internazionalismo proletario, tenterà di ricondurre tutto il mondo sotto il suo modello (Trotzkij: «La Rivoluzione o è permanente o non è»). Il quarto figlio, il più compiuto e realizzato, è il modello di sviluppo industriale e finanziario di tipo capitalista. La sua formidabile espansione si basa su una sorta di 'evangelizzazione' mercantile e tecnologica che ha al suo fondo la convinzione che questo modello sia «il migliore dei mondi possibili». E' in virtù di questa convinzione che ci siamo intromessi in tutte le altre culture, assimilandole o, quando non è stato possibile, togliendole brutalmente di mezzo. Dio ha preso le forme della ruspa.

Quando Bergoglio afferma che «senza lavoro non c'è dignità» non so se si renda conto che cosi' si inserisce, a pieno titolo, nonostante le sue parole sulla solidarietà e la misericordia, in questo modello disumano. Un suo predecessore, un po' più autorevole, San Paolo, che la Chiesa l'ha fondata, definiva invece il lavoro «uno spiacevole sudore della fronte». Io non sono credente ma, pistola alla tempia, sto con Paolo non con Bergoglio.

sabato 28 settembre 2013

18 OTTOBRE: "LA SIRIA AVAMPOSTO DI LIBERTA' " , DIBATTITO E PROIEZIONI A CASAGGì VALDICHIANA


"La Siria avamposto di libertà":

Da mesi, gli Stati Uniti, stanno finanziando le truppe dei cosiddetti “ribelli”, mercenari provenienti da tutto il mondo e al soldo di Al Qaeda che, unendo gli interessi del fondamentalismo islamico a quelli delle potenze occidentali, stanno cercando di destabilizzare il governo siriano presieduto da Assad. La sovranità e la libertà della Siria, paese con una posizione geopolitica strategica e con un governo legittimo, hanno subito un pericoloso attacco, che però non ha minato il consenso e la tenacia dei siriani. In queste ultime settimane, complice l’impasse dei “ribelli”, il premio nobel per la pace Obama ha deciso di intervenire direttamente, minacciando di attaccare militarmente la Siria. Gli Stati Uniti, da decenni i “guardiani del mondo”, spingono per prendere parte all’ennesima guerra. Dopo le fallimentari campagne militari nella ex Jugoslavia, in Iraq e in Afghanistan; dopo l’attacco alla Libia, dopo l’appoggio ai bombardamenti israeliani in Palestina e i tanti conflitti foraggiati sotto banco e fatti combattere ad altri, si cercano nuovi nemici. Le motivazioni, come al solito, sono buone per il cabaret: Assad è un dittatore cattivo e usa i gas contro i “ribelli”. La realtà è un’altra: l’utilizzo dei gas è stato fatto da parte dei “ribelli” e, non a caso, Assad è un Presidente che ha azzerato la disoccupazione, migliorato i servizi, rifiutato le ingerenze del Fondo Monetario Internazionale e sviluppato una politica fondata sulla sovranità, poco avvezza al servilismo verso Washington. Schierati con noi al fianco del popolo siriano, contro l’egemonia imperialista americana, per il rispetto della sovranità, della libertà e dell’identità.

A Casaggì Valdichiana verrà analizzata la situazione siriana. L'evento con dibattito e proiezioni verrà condotto da Giovanni Feola,responsabile del Fronte Europeo per la Siria - associazione nata nel 2013 che raccoglie tutti i sostenitori e simpatizzanti europei della causa siriana - e Ouday Ramadan,rappresentante della comunità siriana in Italia.
La proiezione di documentari d'eccezione servirà per meglio comprendere le dinamiche della guerra civile siriana,la condizione dei civili e l'oscurantismo dei mas media occidentali. 
Casaggì Valdichiana, nel giorno in cui festeggia il suo primo anno di attività,a partire dalle ore 18 affronterà le ragioni e le conseguenze di un conflitto che ha coinvolto e tuttora coinvolge l'intera Comunità internazionale.


VENERDì 18 OTTOBRE
DALLE 18 APERITIVO
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A SEGUIRE DIBATTITO E PROIEZIONI CON OUDAY RAMADAN
E GIOVANNI FEOLA:
"LA SIRIA AVAMPOSTO DI LIBERTA' "
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CASAGGì VALDICHIANA - VIA DEL POGGIOLO 3

venerdì 27 settembre 2013

Perché non esiste una cultura di Destra


Brano tratto da "Una cultura per l’Europa", Edizioni Settimo Sigillo,di Adriano Romualdi che nonostante il tempo trascorso si dimostra sempre attualissimo.

Uno dei motivi che più ricorrono sulla nostra stampa e nelle conversazioni del nostro ambiente è la condanna del massiccio allineamento a sinistra della cultura italiana. Questa condanna viene formulata in tono un po’ addolorato, un po’ sorpreso, quasi fosse innaturale che la cultura si trovi ormai schierata da quella parte mentre a destra si incontra un vuoto quasi completo. Di solito si cerca di rendersi ragione di questo stato di cose con spiegazioni a buon mercato, quel tipo di spiegazioni che servono a tranquillizzare sé stessi e permettono di restare alla superficie delle cose. Si dice – ad esempio – che la cultura è a sinistra perché là si trova la maggior quantità di danaro, di case editrici, di mezzi di propaganda. Si dice anche che basterebbe che il vento cambiasse perché molti “impegnati a sinistra” rivedessero il loroengagément.

In tutto questo c’è del vero. Una cultura, o meglio, la base di lancio di cui una cultura ha bisogno, è anche organizzazione, danaro, propaganda. È indubbio che lo schiacciante predominio delle edizioni d’indirizzo marxista, del cinema socialcomunista, invita all’engagément anche molti che – in clima diverso – sarebbero rimasti neutrali. Ma ciò non deve farci dimenticare la vera causa del predominio dell’egemonia ideologica della Sinistra. Esso risiede nel fatto che là esistono le condizioni per una cultura, esiste una concezione unitaria della vita materialistica, democratica, umanitaria, progressista. Questa visione del mondo e della vita può assumere sfumature diverse, può diventare radicalismo e comunismo, neoilluminismo e scientismo a sfondo psicoanalizzante, marxismo militante e cristianesimo positivo d’estrazione “sociale”. Ma sempre ci si trova di fronte ad una visione unitaria dell’uomo, dei fini della storia e della società. Da questa comune concezione trae origine una massiccia produzione saggistica, storica, letteraria che può essere meschina e scadente, ma ha una sua logica, una sua intima coerenza. Questa logica, questa coerenza esercitano un fascino sempre crescente sulle persone colte. Non è un mistero per nessuno il fatto che un gran numero di docenti medii ed universitari è comunistizzato, e che la comunistizzazione del corpo insegnante dilaga con impressionante rapidità. E, tra i giovani che hanno l’abitudine di leggere, gli orientamenti di sinistra guadagnano terreno a vista d’occhio.

Dalla parte della Destra nulla di questo. Ci si aggira in un’atmosfera deprimente fatta di conservatorismo spicciolo e di perbenismo borghese. Si leggono articoli in cui si chiede che la cultura tenga maggior conto dei “valori patriottici”, della “morale” il tutto in una pittoresca confusione delle idee e dei linguaggi. A sinistra si sa bene quel che si vuole. Sia che si parli della nazionalizzazione dell’energia elettrica o dell’urbanistica, della storia d’Italia o della psicoanalisi, sempre si lavora a un fine determinato, alla diffusione di una certa mentalità, di una certa concezione della vita. A destra si brancola nell’incertezza, nell’imprecisione ideologica. Si è “patriottico-risorgimentali” e si ignorano i foschi aspetti democratici e massonici che coesistettero nel Risorgimento con l’idea unitaria. Oppure si è per un “liberalismo nazionale” e si dimentica che il mercantilismo liberale e il nazionalismo libertario hanno contribuito potentemente a distruggere l’ordine europeo. O, ancora, si parla di “Stato nazionale del lavoro” e si dimentica che una repubblica italiana fondata sul lavoro l’abbiamo già – purtroppo – e che ridurre in questi termini la nostra alternativa significa soltanto abbassarsi al rango di socialdemocratici di complemento. Forse gli uomini colti non sono meno numerosi a destra che a sinistra. Se si considera che la maggior parte dell’elettorato di destra è borghese, se ne deve dedurre che vi abbondano quelli che han fatto gli studi superiori e dovrebbero aver contratto una certa “abitudine a leggere”. Ma, mentre l’uomo di sinistra ha anche degli elementi di cultura di sinistra, e orecchia Marx, Freud, Salvemini, l’uomo di destra difficilmente possiede una coscienza culturale di destra. Egli non sospetta l’importanza di un Nietzsche nella critica della civiltà, non ha mai letto un romanzo dJünger o di Drieu La Rochelle, ignora il Tramonto dell'occidente né dubita che la rivoluzione francese sia stata una grande pagina nella storia del progresso umano. Fin che si rimane nella cultura egli è un bravo liberale, magari un po’ nazionalista e patriota. È solo quando incomincia a parlare di politica che si differenzia: trova che Mussolini era un brav’uomo e non voleva la guerra, e che i films di Pasolini sono “sporchi”. Basta poco ad accorgersi che se a destra non c’è una cultura ciò accade perché manca una vera idea della Destra, una visione del mondo qualitativa, aristocratica, agonistica, antidemocratica; una visione coerente al di sopra di certi interessi, di certe nostalgie e di certe oleografie politiche.

giovedì 26 settembre 2013

Il sacrificio della propria identità per il fine più alto: la Nazione...


di Mario vattani (barbadillo.it)

Siamo ormai nell’ultimo quarto dell’Anno del Serpente, e ho riacceso giorni fa il registratore digitale che avevo utilizzato per le tracce-base dei più recenti album di Sottofasciasemplice: Idrovolante e Filospinato. Ma nella luce arancione del riquadro delle tracks è apparso invece il nome dell’ultimo progetto registrato, segnato come “Kagoshima”.
E allora mi sono ricordato che proprio a Kagoshima, nella patria di Saigo Takamori (uno dei samurai artefici della rivoluzione Meiji, poi indomabile capo della ribellione di Satsuma) in una notte di primavera avevo composto le tracce di base di questo pezzo, che ebbe poi un percorso diverso dai precedenti. Circolò infatti nell’estate del 2008, e doveva teoricamente essere l’ultimo brano di Sottofasciasemplice: “Nazione”.
Un’edizione insolita, uscita in un contesto gotico o forse dark, e pubblicata solo su vinile, peraltro con un’etichetta diversa. Forse un modo per togliere il disturbo senza farsi troppo notare, filando all’inglese… e non a caso la versione originale, “Nation”, era proprio in inglese, e il testo in italiano ne è la traduzione. Strano anche il concetto della canzone stessa, per una band che nella “musica alternativa” fu certe volte considerata anarcoide e provocatoria: nel testo si raccontava la rinuncia alla personalità, al volto, all’espressione, il sacrificio della propria identità per un fine più alto, la Nazione.
Stavolta la “visione” – perché io parto sempre da quelle per scegliere poi suoni, ritmica, strumentazione e infine i testi – era quella di salire al crepuscolo i gradini di marmo di una sorta di Lincoln Memorial.

Nessuno intorno.
Nessuna sagoma tra gli alberi neri sui prati circostanti.
E in quel tempio repubblicano, assente l’enorme e ingombrante statua del sedicesimo Presidente americano, ascoltavo in piedi da solo la voce della Nazione, che proveniva da un altare imponente ma polveroso.
Dietro, le bandiere immobili, di colori irriconoscibili nella penombra.
La mia bandiera personale, a terra di fronte all’altare, insieme a tutti gli altri oggetti che mi definivano.

Mi parlava quindi la Nazione con una voce femminile ma buia, inquietante, a tratti isterica, quasi una Miss Havisham, la sposa abbandonata del romanzo di Dickens.
Nella versione in inglese poi, l’atmosfera nel tempio diventava quasi morbosa; un particolare nordico che nel testo italiano si perde, come si disperde la nebbia quando sorge il sole mediterraneo… Ma anche nell’edizione definitiva il sacrificio, come un rito in cui si donava se stessi, avveniva dopo il tramonto: “..chi vuole essere con me stasera, resterà con me per sempre..”.

La canzone “Nazione” fu pubblicata solo in italiano, e mi meravigliai di trovarla presto su internet e Youtube, nonostante si trattasse di una registrazione su vinile. Dopo questi anni, quella canzone rimane per me il racconto di una cosa vista ma non fatta, come un racconto del terrore in cui lo scrittore fa aprire al protagonista una porta che lui stesso però non aprirebbe mai, nonostante la curiosità.
Sono molte le canzoni di Sottofasciasemplice che raccontano cose viste, o immaginate, ma mai fatte. I protagonisti che animano i vari episodi di quell’avventura musicale sono delle forme mascherate. Hanno il volto fasciato, o portano un elmo arrugginito, vecchie uniformi, a volte addirittura una corona di ferro che poi precipita nella sabbia. Io do loro la voce che altrimenti non avrebbero. Mi immedesimo e faccio loro raccontare, come un medium ritmico, la loro storia, il loro fallimento, la loro condanna. Di quei personaggi non rimane nulla – oppure non sono mai esistiti – ma li anima lo stesso un’infinita voglia di catarsi o di rivalsa. Li fa vibrare la rabbia di non poter parlare ancora, come quella disperazione che fa ritornare nel mondo dei vivi dall’oltretomba i fantasmi o gli spiriti che non trovano riposo. A vederli insieme sono una bella collezione di mostri: a volte deformi, spesso disumani, sempre trasfigurati.

In ogni modo sono delle rappresentazioni, dei racconti.
E negli album di Sottofasciasemplice, che sono sempre dei percorsi con uno o più protagonisti, il più delle volte c’è un brano finale – spesso in antitesi, anche musicalmente, con il resto del disco – in cui si accendono le luci, e il medium, spossato dall’esecuzione, ridiventa se stesso, e lo dichiara.

In alcuni casi questo momento di verità è evidente, come in “Senza Croci” (Crociato, 2000): sul palco ormai vuoto il pubblico capisce che quelle che sembravano armature, armi, bandiere, personaggi mitologici, erano in realtà oggetti di cartapesta e altri attrezzi teatrali, strumenti utilizzati per una rappresentazione.

Io non ho mai pensato che si trattasse di musica “politica”. Di oltre 50 brani distribuiti su cinque album dal 1995 ad oggi, sono pochissime le canzoni che hanno dei chiari riferimenti di critica sociale, o che affrontano in modo diretto dei temi storico-politici.
Certamente, alcuni testi sono rivolti a una comunità militante, che riconosce un vocabolario nato da esperienze comuni, e mi fa piacere che negli anni molti giovani e meno giovani siano rimasti attratti o incuriositi da questo progetto molto personale… talmente personale che suono quasi sempre io tutti gli strumenti, ad eccezione forse dei fiati e della batteria.

Rivedendo oggi le tracce registrate molti anni fa a Kagoshima, ho constatato che, a differenza del protagonista di “Nazione”, io non ho rinunciato a me stesso, alle mie passioni, alla mia personalità e alla mia libertà di esprimermi e raccontare. E non ho nessuna intenzione di farlo, come non dovrebbe farlo nessuno di noi.

mercoledì 25 settembre 2013

Telecom agli spagnoli: l’Italia nazione ai saldi

di Augusto Grandi

Dopo il fallimentare “Salva Italia” finalmente un progetto che funziona: “Salda Italia”, l’Italia in saldo. Perché la cessione di Telecom agli spagnoli di Telefonica, così come la completa francesizzazione di Alitalia, rappresentano soltanto gli ultimi colpi, in ordine di tempo, di un percorso di svendite di tutto ciò che è italiano. Settori strategici? La Francia li ha definiti con precisione, ma in Italia il governo del Grigiocrate Monti prima e della disastrosa Alfetta dopo, non è stato in grado di fare altrettanto.

In realtà, però, non è neppure colpa del governo. Che va in giro per il mondo a cercare di svendere ai soliti noti i gioielli di famiglia, a partire da aziende strategiche del gruppo Finmeccanica. Con un percorso mediatico indecente quanto scontato: il ministro di turno spiega che occorre privatizzare per far quadrare i conti, l’agenzia di rating aggiunge che l’Italia è a rischio e Finmeccanica pure, dunque Letta vola in America per accontentare le multinazionali cedendo le aziende che preferiscono.

Ma con Telecom è un’altra questione. Forse ancora più preoccupante. Perché i politici, in teoria, si possono anche rottamare e sostituire. Mentre la cessione di Telecom dimostra che fallimentare è la classe imprenditoriale italiana. Le telecomunicazioni sono sempre più strategiche. E noi le cediamo perché i nostri imprenditori non san fare impresa. Ma sanno partecipare ai convegni dove spiegano come si deve fare impresa. E precisano che in Italia non è possibile, poiché la politica non crea le condizioni adatte.

Peccato che Telefonica non lo sappia. E si compri Telecom per fare impresa, anche in Italia. E non bisogna dimenticare che Telefonica è spagnola, proviene cioé da un Paese in teoria più in crisi di noi. Dove né il re né il primo ministro vedono una luce in fondo al tunnel (mentre in Italia qualcuno la vede a cadenza trimestrale). Ma dove gli imprenditori fanno gli imprenditori ed investono invece di lamentarsi. Investono e comprano. Telecom, adesso, ma prima si sono scatenati nel settore delle energie rinnovabili nonché in campo alimentare: Riso Scotti, Star, Fiorucci, Bertolli, Carapelli, Sasso. Italia non da bere ma da divorare.

E i francesi? Ora si prendono Alitalia, dopo aver fatto man bassa nel settore del lusso italiano, rilevando i principali marchi dell’abbigliamento, della gioielleria, degli accessori di moda. Senza dimenticare la presenza strategica francese, e tedesca, nel settore della grande distribuzione organizzata.

Vedono, vengono, comprano. E fanno impresa in Italia, dove i nostri imprenditori non riescono a sopravvivere. Certo, l’acquisizione di Telecom comporterà migliaia e migliaia di esuberi. Grazie all’incapacità di manager che verranno riciclati e andranno a far danni in altre aziende italiane. Da rovinare per poi vendere a chi arriva da fuori. Ma ci spiegano, i grandi manager, che non è più importante la provenienza della proprietà: siam tutti europei (quando va bene). Vero, ma dovrebbero dirlo ai lavoratori dei Paesi in cui tedeschi e francesi avevano delocalizzato alcune industrie. Quei lavoratori lasciati a casa quando è arrivata la crisi e quando le sedi centrali di Parigi e Berlino han deciso che bisognava chiudere gli stabilimenti all’estero per salvaguardare i lavoratori francesi e tedeschi. Perché loro – francesi, tedeschi, spagnoli – hanno un senso della priorità nazionale. Noi, al contrario, tuteliamo solo gli stranieri.

martedì 24 settembre 2013

11 OTTOBRE: A CASAGGì FIRENZE SI RICORDA "CHE" GUEVARA CON GABRIELE ADINOLFI...



Il 9 ottobre del 1967, quarantasei anni orsono, veniva ucciso Ernesto Guevara, meglio conosciuto come il "Che". Dopo una vita di avventure e di battaglie, a La Higuera, i governativi boliviani gli strappavano la vita, senza che la sua dignità vacillasse neanche per un attimo. Guerrigliero, scrittore e avventuriero, Guevara ha rappresentato per decenni l'icona di una certa sinistra, facendo bella mostra di sé in tutti i cortei del mondo, fino a diventare il brand pubblicitario di tribù metropolitane e affaristi delle idee. Quest'anno, a due giorni dall'anniversario della sua morte, a Casaggì abbiamo scelto di ricordarlo, parlando di lui con Gabriele Adinolfi. Lo faremo, come sempre, con la libertà e l'onesta intellettuale che ci contraddistingue: attraverso il confronto e il dibattito, la riflessione e la sintesi. E cercheremo di mettere insieme, per una sera, gli elogi trasversali e le critiche sferzanti ad uno dei più importanti personaggi del Novecento.

A sinistra, come a destra, Guevara ha sempre fatto parlare di sé. Per molti rappresenta un eroe, per altri un nemico, per tanti un brand, per altri ancora un emblema. E per noi? Per noi rappresenta un personaggio che ha sempre, inevitabilmente, prodotto una fascinazione oltre gli schemi. Buona parte del mondo identitario, infatti, non ha mai fatto mistero - da Jean Thiriart in avanti - di provare una sfacciata per simpatia per quell'argentino che, inseguendo un sogno rivoluzionario che restituisse all'America Latina una dimensione nazionale, aveva rovesciato un regime e poi, non contento, se ne era andato in giro per il mondo ad accendere altri fuochi, rifiutando le prebende e gli onori che Cuba gli avrebbe tributato.

Furono tanti i non comunisti che lo ebbero come amico: da Peron, a Franco, da Boumedienne alle pagine infuocate di Jean Cau. Il Che piaceva a tanti di quelli che la logica degli schieramenti poneva dall'altra parte della barricata: di lui piaceva lo spirito romantico, il richiamo alla Patria, l'abnegazione, la capacità di impersonificare la lotta fino al sacrificio estremo.

Gabriele Adinolfi, che sarà il protagonista della serata a Casaggì, motiva così questa fascinazione: "non si può non onorare il Che perché un uomo che abbandona cariche, onori, denari e privilegi per andarsene a vivere nelle selve, tra i monti, con un pugno di compagni di lotta, passando giornate intere con qualche goccio d'acqua e, se dice bene, una galletta, un uomo che sogna e che resta fedele al suo sogno mettendo carne, muscoli, nervi al suo servizio, non può non essere onorato. Lo detta chiaramente quel sentimento della vita, dell'onore e del sacro che è alla base dell'Idea del mondo che fece grande la nostra antichità e la nostra più recente primavera. Quell'Idea del mondo che – dalla Bhagavad Gita tramite i Luperci le Legioni mithraiche, la Cavalleria fino ai Werwolf – ha significato tutto il meglio che memoria d'uomo ricordi e che si condensa nella “Dottrina di Lotta e Vittoria” (che non coincide con il successo tangibile ma con il trionfo su di sé)".

VENERDì 11 OTTOBRE 2013
DALLE 20 CENA SOCIALE
DALLE 21.30 CONFERENZA
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PATRIA O MUERTE: L'ALTRO "CHE"
ANALISI TRASVERSALE DI UN RIVOLUZIONARIO
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CASAGGì FIRENZE - VIA FRUSA 37

NO IUS SOLI



C'è chi ha difeso questa terra col pugnale tra i denti e chi vorrebbe ucciderla con la burocrazia. La cittadinanza è appartenenza, sangue e suolo. E' il frutto di un percorso umano, storico ed etnico. L'italianità non è un timbro su un pezzo di carta, ma un atto d'amore. 

NO IUS SOLI: ITALIANI SI NASCE!

lunedì 23 settembre 2013

I numeri nell’ etica della nostra vita...



di Mario Michele Merlino (ereticamente.net)

Un amico era solito ripetere come ‘i proverbi siano la saggezza dei fessi’. Concordo. E m’è tornato a mente il detto che ‘la matematica non è una opinione’ alcuni giorni fa, passeggiando nei pressi del Colosseo dove ero passato a lasciare dei miei libri ad una piccola provvisoria libreria. Del resto, se ripercorro alcune tappe significative della mia vita, posso ben dire che vale, semmai, il contrario.

Giugno 1963, esami di maturità. Ho superato da un paio di mattine la parte degli orali comprendente l’italiano (molto buono lo scritto, discrete le mie conoscenze della letteratura, Dante in particolare), il latino (il rigore logico del periodo non è il mio forte, ma recupero su Lucrezio e Seneca), il greco è il mio asso nella manica (la letteratura del Perrotta mi ha imposto una attenzione pari ai fascicoli di Sette anni di guerra e il professor Morelli con le sue lezioni sulla nascita della tragedia non saprà mai d’avermi radicato l’idea di fare l’insegnante. Così mi cimento sull’Alcesti e come mai, pur avendo un ‘lieto fine’, venga considerata una tragedia. Vinco su tutta la linea e metto una ipoteca sulla mia promozione), la storia dell’arte non mi turba più di troppo (sono per natura un esteta e riflettere la mia immagine allo specchio mi conforta…).

Ahimè, gli orali comprendono anche matematica fisica, scienze, storia e filosofia. E via subito con il tormentone, che s’accompagnerà per tutta la mia vita – e, forse, anche in morte, visto che non riesco a calcolare quando mi tocca! -. Su seni e coseni le ondate ormonali della mia irrequieta ed inquieta giovinezza (tuttora mi chiedo cosa farò da grande!) mi trascinano al naufragio. Annaspo gorgoglio boccheggio… Il professore, un ciociaro verace, mi tende la mano e ha tutte le buone intenzioni per portarmi a riva, bagnato sì, ma salvo. ‘E va bene così (cantava Gianni Morandi). Passiamo a fisica. Mi dica un argomento a piacere (fatto inusitato ai miei tempi, altro che tesina a libera discrezione del candidato!)’. Panico. Ora veleggio, in mongolfiera, spinto da vento ostile fra le strampalate idee dell’Iperuranio platonico. Fingo di rifletterci su. ‘L’anello di Pacinotti’, mi azzardo. Mi guarda, mi scruta, sembra quasi fiutarmi, scuote leggermente il capo e ‘Ma è sicuro?’. Conclusione: cosa esso sia non lo so, immagino solo che debba essere qualcosa di particolarmente complicato…

Che noia la filosofia della scienza… Cartesio, il pavido ipocrita arrogante inventore(?) del metodo, che scaccia la domestica, da cui ha avuto una bambina, perché la piccina, ignara della grandezza del padre naturale, non gli consente di pensare con i suoi vagiti… O il Leibniz a rodersi il fegato e a schiattare in assoluta solitudine perché la ragion di Stato gli ha preferito Newton nella disputa sul calcolo infinitesimale…

Mi fermo qui. Diranno in cuor loro, tirando un sospiro di sollievo, i lettori di Ereticamente ‘ma a noi che ci frega del Merlino e di queste sue storie miserabili…’ (insensibili, incapaci di riconoscere la grandezza, non gettar perle ai porci, accidenti a voi!). Lo so, chiedo venia anche a te, negriero che ci dirigi con polso fermo e sadici intenti, pezzo da novanta di questo spazio ove, accanto a tanti seri e seriosi articoli, sopporti i miei, ligio alla norma che prevede trarre dalle liste protette anche un folle e disperato quale io sono! (Me li porti lo stesso i cannoli ricotta e canditi?)…

Andiamo, dunque, alla matematica se sia sempre e solo inoppugnabile somma di inalienabili principi o se, come il bambino della favola Il re è nudo!, si possa dirle di abbassare la cresta… Già che ci sono, mi trattengo un po’ a chiacchierare con dei giovani entusiasti vivaci impegnati capaci (penso a Marco di Firenze, ad Alessandro e Maurizio della provincia di Roma, i ragazzi di Spoleto e tanti altri). Quante energie, già, quanta storia che si rinnova con i suoi incanti le sue illusioni i fraintendimenti e le tante laceranti delusioni… Mi ritrovo in percorsi a me noti, in sentieri interrotti, in gabbie che mi apparivano dorate e che si rivelarono sbarre di prigioni… 

Ed ecco – e finalmente – matematica tra rigore scientifico e opinione. Leggo che tre esponenti della vecchia DC hanno aderito a questa realtà indefinita (tre, numero magico, ma cosa portano in dono come i Re Magi? Una modesta percentuale di voti in più o la reiterata abilità di fare traffici?). Ho visto in fila alcune espressioni del loro fallimento – e che, purtroppo, diviene il nostro agli occhi dell’opinione pubblica – in procinto di realizzare l’ammucchiata delle debolezze. Una forza, suppongono, ignari e arroganti. Una debolezza più una debolezza, non producono una forza, ma due debolezze. E questa è rigorosa matematica… Al contrario non ho ascoltato formulare idee, un progetto, una identità comunitaria all’interno di un sistema valoriale; mi si dirà che questa è opinabile ‘mia’ opinione. Il mondo delle Idee è retto da principi matematici e non si rende, in quello fenomenico, se non sotto forma di sua pallida ombra, cioè opinione… ma Nietzsche ci ha insegnato a pensare che le idee sono opinioni che hanno saputo divenire forza (non debolezza!)…

Il gioco è finito, i dadi sono rotolati sul tavolo verde, uno con numeri veri l’altro con quelli truccati… e, se c’è una morale, che ognuno se la cerchi… Scriveva il filosofo Giovambattista Vico: “la matematica è utile ma non è vera”.

domenica 22 settembre 2013

Un’esasperata emergenza


di Maria Paola Frajese (L'Intellettuale Dissidente)


“Il numero attuale dei detenuti in Italia ammonta a circa 67.000 contro circa 45.000 posti regolamentari, quindi la percentuale media di sovraffollamento è pari circa al 50%.” Questo recita la circolare del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria nell’ultima indagine conoscitiva sulla situazione delle carceri in Italia. Le norme sanitarie dispongono uno spazio minimo di almeno 9 metri quadri a detenuto, ma molti di loro sono costretti a vivere in 4 o 5 che possono scendere a 3 o anche meno, il valore limite di spazio vitale al di sotto del quale l’individuo è considerato in ristrette condizioni di “tortura”. In quasi tutti i penitenziari italiani si assiste a scene degradanti, 8 persone stipate in celle ideate per quattro o addirittura due persone. I ricorsi di chi è stato ristretto in spazi inferiori a 3 mq sono già più di 400. E’ qui che nasce la piaga del sovraffollamento carcerario alla base della sentenza di Strasburgo. La Corte Europea dei diritti dell’uomo, che aveva raccolto le denunce di 7 detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, ha rigettato il ricorso dell’Italia avverso alla sentenza dell’8 gennaio scorso in cui il sistema penitenziario italiano era condannato per trattamento inumano e degradante inflitto agli ospiti delle strutture carcerarie. La sentenza è definitiva dalla fine di maggio e l’Italia ha un anno di tempo per trovare una soluzione al sovraffollamento carcerario e introdurre una procedura per risarcire i detenuti che ne sono stati vittima.

Lo Stato deve correre ai ripari, potrebbe dover far fronte a migliaia di altre richieste di risarcimento, come quella di 100.000 euro pagata ai 7 denuncianti di Busto Arsizio e Piacenza, di altri detenuti già pendenti alla Corte Europea dei Diritti. Nel quadro di un’Italia in grave crisi economica e di grandi tagli, malgrado l’allarme, anche i tagli alla spesa dell’amministrazione penitenziaria non si fermano e se nel 2001 un detenuto costava mediamente circa 131 euro al giorno, dodici anni dopo, nonostante l’inflazione sia molto cresciuta, un carcerato costa giornalmente 113 euro.

L’Italia è tra i peggiori paesi d’Europa in termini di sovraffollamento carcerario nonostante il nostro Paese sia sotto la media europea quanto al numero dei detenuti rispetto alla popolazione, con 110 reclusi ogni 10mila abitanti, dove in Europa la media è di 135-140 detenuti ogni 10.000. Bisogna contare anche che nel nostro Paese i detenuti imputati non ancora giudicati colpevoli in via definitiva sono il 44% dei detenuti complessivi, circa 25.000 persone “parcheggiate” in attesa di giudizio.

Davvero preoccupante il triste fenomeno dei decessi negli istituti di pena di suicidi e morti cosiddette “bianche”, nel Lazio, ad esempio, dove il sovraffollamento è del 137% solo lo scorso anno i tentati suicidi sono stati 97 e gli atti di autolesione 309. Secondo il dossier della rivista Ristretti Orizzonti dal 2000 all’anno in corso sono morte in carcere 1392 persone, i suicidi sono stati 778. Se la redenzione dal reato e il reinserimento nel tessuto sociale sono i veri scopi della detenzione è fuor di dubbio che è urgente rimediare a questa ignobile situazione e offrire condizioni di vita carceraria completamente diverse da quelle attuali. I tempi di risoluzione di questo problema serio e annoso si assottigliano di giorno in giorno visto che il termine ultimo assegnato all’Italia, essa stessa condannata, è maggio 2014. Le cifre del sovraffollamento ci ammoniscono, ma, certamente, non bastano a raccontare le storie dolorose e i vissuti indegni di 67.000 persone rinchiuse per scontare una pena, non per perdere ogni residua dignità umana.

sabato 21 settembre 2013

Leni Riefenstahl, a dieci anni dalla morte una biografia riabilita la geniale regista di “Olympia”...

di Annalisa Terranova (Secolo d'Italia)


Un libro a metà tra ricostruzione storiografica e romanzo ricorda la grande regista tedesca Leni Riefenstahl a dieci anni dalla morte (avvenuta il 9 settembre del 2003). Firmata da Lilian Auzas, la biografia (Riefenstahl, Elliot, pp. 220, euro 18,50) “assolve” le simpatie politiche della protagonista e salva l’artista la cui reputazione nel dopoguerra era ormai irrimediabilmente compromessa. Di recente anche un altro libro, Marlene e Leni (Feltrinelli), di Gian Enrico Rusconi, aveva messo a fuoco il ruolo della Riefensthal nella Germania degli anni Trenta, affiancandola alla “rivale” Marlene Dietrich.


L’amore per il teatro e per il dramma è stato una costante nella vita di Leni Riefenstahl. Lei stessa lo confessa nelle sue Memorie, pubblicate nel 1987 (quindici anni prima della morte), pagine sulle quali ha faticato cinque anni, rimettendo ordine e forma in un’esistenza che si presenta come una sceneggiatura drammatica, con picchi di tragedia su cui a lungo resteranno accesi i riflettori della storia. Autrice di capolavori che costituiscono pietre miliari della storia del cinema, bollata nel dopoguerra come “la regista di Hitler”, dotata di una straordinaria forza di carattere che l’ha indotta a imbarcarsi in più di un’avventura difficile, un po’ diva capricciosa e un po’ amazzone emancipata incurante dei pregiudizi, tedesca in modo irrinunciabile e al tempo stesso cosmopolita e affascinata dal viaggio come scoperta, capace come nessun altro di costruire un’estetica dell’immagine in movimento, Leni Riefenstahl resta alla fine, per chi legge la sua autobiografia, inafferrabile e sfuggente, come se solo a lei spettasse l’onere e l’onore di squarciare il velo sul vero copione, sul personaggio reale, sulla “bella maledetta” (titolo del primo film da lei diretto, di cui era anche interprete).

La prima passione è per la danza: si iscrive al corso per principianti a sedici anni, ma saranno i “film di montagna” di Arnold Fanck a fare di lei una vera e propria diva del cinema. Nel primo di essi, La Montagna dell’amore, Leni ripropone la sua danza: sequenze da cui Hitler si dichiarò in seguito letteralmente affascinato. La montagna resterà sempre per Leni il rifugio ideale dove dimenticare ansie, disavventure e dispiaceri. Un archetipo del “luogo sublime” secondo la definizione del filosofo Remo Bodei: “Lo sguardo dall’alto sull’abisso ricorda il mistero insondabile dell’esistenza; il sentirsi sospesi tra terra e cielo; la lontananza dai miasmi della vita sociale e dalle meschinità quotidiane”.

Poco soddisfatta delle sue performance di attrice, si dedica al progetto di realizzare un film tutto suo. “Sentivo l’urgenza di creare qualcosa di totalmente mio. Cominciai allora a sognare e dai miei sogni nascevano immagini; fra le nebbie dell’indistinto riconobbi il sembiante di una giovane che viveva tra le montagne, una figlia della natura”. La giovane sarà appunto Junta, la protagonista della Bella maledetta (Das blaue Licht, 1932), la “strega” perseguitata dall’odio delle donne e dalla bramosia degli uomini che si arrampica al chiaro di luna verso una grotta di cristalli che emana una misteriosa luce blu. In quello stesso anno si colloca il primo incontro con Hitler, sollecitato dalla stessa Riefenstahl, che pure non era iscritta allo Nsdap e mai ne avrebbe preso la tessera. Il motivo? La curiosità, a detta dell’artista, che riferisce di un colloquio privato in un’atmosfera colloquiale, in cui il capo del nazismo avrebbe avuto tempo per corteggiarla e per parlarle del suo amore per la pittura e in cui lei gli avrebbe rivelato i dubbi che nutriva sui suoi pregiudizi razziali. Il Führer le avrebbe detto: “Quando saremo al potere, lei realizzerà i miei film”. Anni dopo, per giustificarsi, spiegherà: “Ripudiavo senza riserve il suo razzismo, ma approvavo totalmente i suoi progetti socialisti. In molti credevamo che il suo razzismo avesse soltanto valore teorico, di pura propaganda…”. Ma al di là dell’aspetto politico di quel rapporto, fiorì subito la leggenda di una relazione tra la regista e Hitler, un gossip che nel dopoguerra fu usato come arma di condanna (nelle false memorie di Eva Braun venne scritto che Leni danzava nuda per il Führer mentre l’amante ufficiale lo attendeva in camera) anche se i tribunali, cui l’artista si rivolse per difendersi dalle diffamazioni, hanno sempre riconosciuto l’infondatezza di tali accuse.

La natura sulfurea del nazionalsocialismo per Leni è invece tutta racchiusa nella figura di Joseph Goebbels, “una specie di redivivo Mefistofele”, “una persona pericolosa”, un uomo “volgare” e di “cattivo gusto”, un corteggiatore insistente che lei avrebbe più volte respinto e umiliato e che l’avrebbe ricambiata boicottando il suo lavoro per tutta la durata del Terzo Reich. Nei diari del ministro della Propaganda, del resto, non si leggono molti complimenti per Leni Riefenstahl, più volte definita un’isterica, una donna impossibile e che non si piega agli ordini.

Dal sodalizio con Hitler, un po’ subìto e un po’ cercato, sicuramente mai rinnegato del tutto dall’artista, nasce nel 1934 Il Trionfo della volontà, il film sul congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga, eccezionale documento sul regime dell’epoca con un registro narrativo singolare: le immagini e il sonoro (Wagner unito a canti nazisti e marce militari) sono infatti autosufficienti e non c’è bisogno di nessun commento. La città che si risveglia, la folla festante, i monumenti, le donne che sorridono sono rappresentati attraverso il “punto di vista” di Hitler. L’utilizzo di moderne tecnologie per supportare l’apparato rituale e simbolico del film che celebra la fusione quasi mistica di un popolo con il capo indiscusso attraverso una sinfonia di emozioni sapientemente dosata nel gioco di riprese e primi piani, rende la pellicola un potente strumento di coinvolgimento dello spettatore nella “visione” del Terzo Reich, un elemento che non fu mai perdonato a Leni Riefenstahl la quale, a sua volta, non ha mai rinnegato il suo film. In occasione del suo novantesimo compleanno, nel 1992, spiegava che il suo lavoro era stato in fondo quello, fortunato e terribile, di una testimone della seduzione collettiva esercitata dal nazionalsocialismo: “Ho solo spiegato come mai milioni di tedeschi hanno creduto in lui”. L’impatto del documentario celebrativo del Reich fu enorme e colpì anche Benito Mussolini, che propose all’artista di realizzare un film sulla bonifica delle paludi pontine ricevendo un cortese diniego: “La ringrazio per la fiducia, eccellenza, ma sto preparando un film sulle Olimpiadi di Berlino e temo che questo lavoro mi terrà occupata per almeno due anni”.

I Giochi olimpici si svolsero dal 2 al 16 agosto 1936 e furono protagonisti del capolavoro di Leni Riefenstahl, Olympia, girato con l’aiuto di quaranta operatori e una cinquantina di assistenti. La sfida di rappresentare in una fusione di immagini armoniche la competizione e la bellezza dei corpi, la volontà di vittoria, la tensione della prova, l’entusiasmo del pubblico, l’intenzione dell’atleta di superare se stesso fu ampiamente vinta dalla regista con una serie di innovazioni soprendenti: mise a punto un dispositivo equivalente al moderno zoom per adeguarsi alla rapidità degli spostamenti, fece scavare trincee nello stadio per riprendere le gare dal basso, grazie a un carrello verticale subacqueo gli operatori potevano riprendere i tuffi seguendo l’evoluzione in aria e l’immersione nella piscina, per le riprese aeree legò le macchine da presa a un pallone librato in aria offrendo ricompense a chi avesse restituito il materiale filmato, cosa che puntualmente avvenne, e ancora piccole cineprese vennero fissate alle selle degli atleti per riprendere le gare di equitazione. Giustamente celebri le sequenze della maratona, dove si traduce in immagini, con l’aiuto della colonna sonora di Herbert Windt, la volontà di andare avanti a dispetto della stanchezza del corpo.

venerdì 20 settembre 2013

La droga di Bernanke all’economia Usa


di Giuliano Augusto (Rinascita)

Troppa liquidità in circolazione, sia pure per acquistare titoli pubblici e privati, può rivelarsi controproducente innescando il riavvio dell’inflazione. Nonostante questo pericolo, e nonostante che fosse stata annunciata una progressiva diminuzione degli aiuti, la Federal Reserve ha stupito tutti e non ha avviato la cosiddetta “tapering”, la progressiva riduzione degli “stimoli monetari” all’economia. Una economia quella Usa che sta crescendo, sia pure troppo poco, grazie alla “droga”, perché di questo si tratta, che il presidente della Fed, Ben Shlomo Bernanke, sta praticando da anni con aiuti che attualmente ammontano a 85 miliardi di dollari al mese. Si era parlato di un taglio di circa 10 miliardi al mese ma poi i dati reali dell’economia e l’eccessivo rialzo dei tassi di interesse e dei rendimenti dei titoli del Tesoro, hanno suggerito a Bernanke di non fare nulla. E i mercati e gli speculatori su entrambe le sponde dell’Atlantico ed in Cina hanno festeggiato con un deciso rialzo dei listini di Borsa. A preoccupare la Fed è stata in primis la disoccupazione (quella “ufficiale” è al 6,5%) ma anche l’inflazione che cresce dello 0,1% mensile. Un livello giudicato intollerabile anche per una economia come quella americana. Si tratta, più o meno, della stessa linea perseguita, per statuto, dalla Banca centrale europea dell’ex Goldman Sachs, Mario Draghi. Resta la realtà di un Paese dove cittadini, imprese e banche passano il tempo ad indebitarsi e a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Dal 2008 ad oggi la Fed è intervenuta con un programma di acquisti di titoli per 3.600 miliardi di dollari. Mica bruscolini. Un po’ troppo anche per gli Usa dove democratici e repubblicani sono stati obbligati due volte ad intervenire, nell’agosto 2012 e quest’anno, per trovare un accordo al Congresso che permettesse di alzare “legalmente” il tetto del debito federale che da tempo ha superato il 100% rispetto al Prodotto interno lordo. Evidentemente anche Bernanke è convinto che gli Usa possono continuare ad indebitarsi oltre ogni misura ed oltre ogni decenza pur correndo il rischio di non trovare più compratori dei titoli federali.
Si tratta della stessa “droga” che sorregge il ruolo del dollaro come moneta di riferimento nelle transazioni finanziarie e commerciali internazionali, ad incominciare dalle materie prime e da quelle agricole. Un ruolo, quello del dollaro, che si fa forte, che si regge sullo status degli Usa come prima potenza militare globale. Una vera e propria moneta di occupazione in tutti gli angoli del mondo. In ogni caso, la gestione di Bernanke non dovrebbe rivelarsi troppo differente da quella del suo successore che gli subentrerà a gennaio del prossimo anno. Dopo il passo indietro di Lawrence Summers, l'ex segretario al Tesoro dell’amministrazione Clinton, già dato come favorito, il più autorevole candidato è Janet Yellen, attualmente vice di Bernanke. Un avvicendamento all’insegna della continuità, né poteva essere diversamente.

giovedì 19 settembre 2013

CASAGGì FIRENZE PRESENTA AREA CON FABIO RAMPELLI...


Casaggì presenta AREA, la storica rivista che, da anni, anima il confronto e il dibattito nel mondo identitario, lanciando spunti e sintesi di ottima fattura. Un pezzo di storia, che celebriamo assieme ad uno degli animatori della rivista, Fabio Rampelli, oggi deputato e dirigente di Fratelli d'Italia e da decenni in prima linea per la difesa di una visione del mondo improntata sui valori dell'identità, della socialità e del comunitarismo. 

Rampelli fu, assieme a tanti altri giovani, uno dei protagonisti delle magnifiche esperienze politiche e metapolitiche nate in seno al Fronte della Gioventù: dal contropotere studentesco di Fare Fronte all'ambientalismo di Fare Verde, dai progetti metapolitici alla volontà di costruire un immaginario culturale, lontano dalla retorica e dall'autoreferenzialità. Un confronto diretto, sincero e aperto, come nel nostro stile...

Con lui parleremo dei temi dell'attualità, delle prospettive della destra italiana, di ambientalismo, dei recenti scenari internazionali, della politica dell'attuale governo e delle sfide che caratterizzeranno l'anno politico appena iniziato. La serata di lunedì 30 settembre inizierà alle ore 19, con la presentazione della rivista, e proseguirà con una cena sociale. L'ingresso è libero e aperto a tutti: la cena sarà "pagata" con un contributo di pochi euro che servirà ad autofinanziare le attività del spazio.

LUNEDì 30 SETTEMBRE DALLE ORE 19
CENA A BUFFET E PRESENTAZIONE DI AREA
con Fabio Rampelli e altri ospiti
Casaggì Firenze - via Frusa 37

Craxi e i comici silenzi-dissensi di Giuliano Amato


di Massimo Fini


Questa 'stroncatura', a suo modo preveggente, di Giuliano Amato è stata scritta nel gennaio del 2007 sul mensile 'Giudizio Universale'.


La prima volta che vidi Giuliano Amato fu a un dibattito televisivo agli inizi degli anni Ottanta. Accesi la Tv proprio mentre diceva: «Io parlo uno splendido italiano». Poichè eravamo ancora molto lontani dall'era delle volgarità berlusconiane mi colpi' la prosopopea di questo professorino allora totalmente sconosciuto ai più e ai meno perchè, benchè ordinario dal 1975 di Diritto costituzionale comparato alla Sapienza, non aveva pubblicato nulla, com'è ormai usanza dei nostri docenti universitari, da Panebianco a Della Loggia. Questa alta considerazione di sé la si ritrova in una recente minibiografia autorizzata dove Amato si fa descrivere cosi': «Uomo politico, noto per la sua leggendaria intelligenza e raro acume nell'esaminare gli eventi». In realtà è uno straordinario specialista di surfing politico. Parte come «psiuppino», cioè all'estrema sinistra, al di là dello stesso Pci, ma quando il Psi riformista comincia la sua scalata al potere entra nelle sue file e, nel 1983, si fa eleggere deputato. Prima è oppositore di Craxi ma allorchè il segretario del Psi, divenuto premier, gli offre il posto di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ne diventa uno dei più fedeli 'consigliori'. Quando il Psi, sotto le mazzate di Mani pulite, crolla, non si schiera con Craxi ma nemmeno contro. Semplicemente diserta e si rifugia nella villa di Ansedonia a giocare a tennis con Giuseppe Tamburrano, e a curare gli 'amati studi' dove continua a non produrre assolutamente nulla. Dopo una lucrosa parentesi come presidente dell'Antitrust sarà pronto per diventare uno dei più eccellenti e potenti riciclati della Seconda Repubblica, essendo stato uno dei disastrosi protagonisti della Prima.
E' uno Svicolone nato, come il pavido leone di un famoso cartoon. Ma più che a un leone, per quanto imbelle, somiglia a un'anguilla. I suoi ragionamenti sono cosi' sottili, ma cosi' sottili da essere prudentemente impalpabili e quasi invisibili. Esilaranti sono i suoi rapporti col lider màximo del Psi come lui stesso li ha raccontati in un'intervista, a Craxi morto. Quando Amato era d'accordo col Capo esprimeva il suo incondizionato assenso, quando non lo era restava muto. Ha chiosato Rino Formica, un altro socialista che ha pero' avuto la decenza di ritirarsi a vita privata: «Quel passaggio sul silenzio-dissenso è assolutamente strepitoso...Se Amato era d'accordo esprimeva liberamente il suo consenso. Se invece affiorava un'increspatura, non dico un dissenso, ma anche una piccola perplessità, un dubbio, un trasalimento, Amato che faceva? Non si agitava, non parlava, si esprimeva in silenzio. Ma non un silenzio qualunque. No, un silenzio operoso. E Craxi capiva: se Giuliano sta zitto vuol dire che dissente. Metafisica pura».
Come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Craxi (1983-1987) e come ministro del Tesoro dal 1987 al 1989 nei governi Goria e De Mita, Giuliano Amato è stato protagonista in prima persona del sacco delle casse dello Stato perpetrato negli anni Ottanta, che ci ha regalato quasi due milioni di miliardi di debito pubblico in vecchie lire che ancora ci pesano sul groppone e per i quali l'Unione europea continua a strigliarci chiedendoci sempre nuovi sacrifici. Ma è sempre lo stesso Amato, lui même, divenuto nel 1992 premier, perchè Craxi è azzoppato dalle inchieste giudiziarie, che, per rattoppare in qualche modo la bancarotta che ha contribuito a creare, si introduce nottetempo, come un ladro che risalga da una fogna, nelle banche per prelevare i quattrini dai conti correnti dei cittadini, fatto inaudito nella storia di uno Stato di diritto. Il suo «raro acume nell'esaminare gli eventi» non gli servirà per percepire ciò che individui dotati di una intelligenza meno «leggendaria» hanno già capito da un pezzo, e cioè che la Prima Repubblica è sull'orlo di un crollo da cui lo stesso Amato, almeno per il momento, sarà travolto.
Molto disinvolto con i quattrini altrui, Giuliano Amato è attentissimo ai suoi. Guido Gerosa mi ha raccontato che durante le temperie di Tangentopoli Craxi invio' Amato a Milano per mettere un po' d'ordine fra i compagni. Il 'Dottor Sottile' invito' a cena i parlamentari lombardi, fra cui Gerosa, nel solito lussuosissimo e costosissimo ristorante che i socialisti frequentavano all'epoca della 'Milano da bere', tanto pagava il partito, cioè il contribuente con i soldi che il Psi, insieme agli altri, gli taglieggiava. Ma alla fine di questa cena, fra la costernazione generale, annuncio': «Si fa alla romana». Le casse del Psi, saccheggiate da Craxi & co., erano vuote. Sarebbe quindi toccato al proconsole Amato pagare di tasca sua. E non era cosa.

mercoledì 18 settembre 2013

Napolitano: «Studiate il Novecento». Ma gli “agit prof” strappano ancora le pagine scomode...



di Mariano Folgori (Secolo d'Italia)

Lo studio della storia è fondamentale per difendere o riconquistare il senso dell’identità nazionale. Il tema è stato rilanciato da Giorgio Napolitano in questo momento di crisi della coesione sociale e nazionale. «Desidero esprimere il mio vivo apprezzamento per l’iniziativa che intende approfondire temi e problemi della complessa eredità politica, culturale e istituzionale del Novecento, giovandosi della formula, positivamente sperimentata, dei cantieri di storia»: è questo il messaggio che il Presidente della Repubblica ha inviato agli organizzatori del convegno nazionale che si svolge nel campus di Fisciano (Università di Salerno) dalla Società Italiana per lo Sviluppo della Storia Contemporanea. 

«Studiare le vicende storiche del secolo breve e analizzarne tanto gli antefatti quanto le scelte da cui discendono le realtà che viviamo significa ripercorrere il cammino del progresso economico e sociale che, in particolare nella seconda metà del Novecento, ha trasformato profondamente l’Italia e gli italiani in un quadro di straordinaria evoluzione», afferma il capo dello Stato. «Coltivare, promuovere e diffondere la storia contemporanea rappresenta uno strumento essenziale – soprattutto per le giovani generazioni – al fine di meglio comprendere il processo di crescita democratica del nostro Paese che compì un progresso fondamentale con l’approvazione della Costituzione».

Si tratta di parole indubbiamente sagge e condivisibili. Speriamo solo che questa alta esortazione possa essere intesa nel modo giusto nelle scuole e nelle università del nostro Paese. Per troppo tempo abbiamo assistito oll’occultamento e alla manipolazione, da parte di certi “agit prof”, di troppe pagine ritenute scomode dalla cultura di sinistra, una cultura che ha a lungo dettato legge all’interno del sistema educativo italiano. Proprio perché, come dice Napolitano, quella del Novecento è una «complessa eredità politica» è augurabile che non ci siano più fogli strappati. Ancor oggi, per tanti professori di storia, la parola “revisionismo” rimane una bestemmia. E si tratta di una grave ostacolo sulla via della conquista delle memoria condivisa, da tanti auspicata ma da pochi realmente perseguita.

martedì 17 settembre 2013

Una tomba ricoperta di fiori.


di Mario M. Merlino (ereticamente.net)

Oggi Charonne è stata integrata all’interno del tessuto urbano di Parigi e trasformatasi in una banlieu come lo sono le periferie di tante capitali d’Europa. Lo si avverte immediatamente appena si accede all’esterno della fermata della metropolitana. Il grigio dell’anonimo, dello squallore, di un non so che di sporco che ti avvolge e che penetra nella mente nel corpo e che non si configura solo per i sacchi di immondizia e le carte gettate a terra. Eppure c’è un angolo che s’è protetto, si è conservato ed è ciò che attira i visitatori, beh, diciamo un tipo specifico di visitatori. Ad esempio quelli che hanno letto I sette colori, coinvolti ed emozionati e affascinati da quello spazio ove si svolge una delle prime e fondamentali scene e, dal 1957, tomba del suo autore.
E’ la chiesa di Saint-Germain- de Charonne, nel XX arrondissement, rue de Bagnolet…’Videro a mezza costa, improvvisamente, spiccare la piccola chiesa col suo campanile e il suo galletto, relitto meraviglioso di un antico villaggio. Sulla sua vetta, fra case moderne, essa sola serba il ricordo dei borghi di periferia fra i lillà, e delle antiche pene umane. Davanti ad essa è stata allargata la piazza, alla quale si sale sempre per una gradinata di pietre dove, nello Charonne paesano, dovevano essere belli a vedere i grandi matrimoni e le prime comunioni. Ma le cose non sono tanto cambiate, e si dimenticano le case alte di mattoni rossi per quella torre di pietra grigia riparata col cemento, per il recinto che domina la strada, e dal quale si affacciano alberi e croci. Essa sola, infatti, credo, in Parigi, ha serbato il suo piccolo cimitero invaso dalle erbe, il suo cimitero di campagna dove già non v’è più posto per i futuri morti’. Se questa è la descrizione del luogo, in esso i due protagonisti, Caterina e Patrizio, disvelano il sentimento, che stava nascendo in loro, sfiorandosi la mano. Con gesto delicato e leggero perché lo scrittore amava questi toni, la leggerezza appunto, che egli riteneva (purchè non trattasse delle scelte di fondo, di stile interiore potremmo dire) espressione della giovinezza dei suoi incanti dei sogni, priva di certa pesantezza dell’essere.
Il 6 febbraio 1945, alle ore 11 (così dal verbale d’esecuzione redatto dal suo avvocato Jacques Isorni) il dramma si è consumato. Robert Brasillach è stato prelevato dal carcere di Fresnes e condotto al forte di Montrouge, legato al palo e fucilato da un plotone composto da dodici uomini. Pallido con la sciarpa rossa al collo e la fotografia della madre sul petto, con voce alta e gli occhi rivolti verso il cielo. ‘Coraggio!’ e ‘Viva la Francia!’ sono state le sue ultime parole. Su un foglio di carta Isorni raccoglie la grossa goccia di sangue che gli scivola dalla fronte ‘per portarla a quelli che l’amano’…
Il suo corpo viene portato a Thiais, là dove le tombe non portano nome, dove è vietato erigere una stele o deporre soltanto un fiore. Nessuna pietà per chi è stato condannato a morte. Poi lo stesso giovane che, in tribunale, alla lettura del verdetto aveva gridato tra il pubblico ‘E’ una vergogna!’ (pronto Brasillach gli aveva risposto ‘No, è un onore!’) gli cede un posto nella tomba di famiglia al Père Lachaise, fino appunto al ’57 quando l’amico e cognato Maurice Bardèche riesce ad ottenere la traslazione a Charonne, dove ha trovato definitiva pace con la madre Marguerite Brasillach-Maugis. Una tomba che è un tripudio di fiori… perché quella goccia di sangue dal colore vermiglio è tanto simile al sole che, sempre e comunque, s’impone sulle tenebre, la menzogna, l’ottenebramento.

lunedì 16 settembre 2013

Morto il cantautore Michele Di Fiò, colonna sonora dei “cuori neri” degli anni Settanta



di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

Adesso Michele saprà cosa c’è ad un passo dal cielo, come cantava nelle sue canzoni. Michele Di Fiò, cantautore che ha accompagnato la generazione di ribelle della destra negli anni Settanta, ci ha lasciati sabato. Era nato il 7 aprile (e proprio “Aprile” si chiama una delle sue più belle canzoni) del 1956.Era di San Costanzo in provincia di Pesaro. Il suo cognome era Logiurato, ma aveva scelto il nome d’arte di Di Fiò in omaggio alla moglie che si chiama Fiorenza. Professionalmente aveva iniziato la sua attività verso il 1973, suonando nei piano-bar e nei locali. Fu uno dei primi cantautori alternativi solisti di destra. Iniziò a farsi conoscere, fece provini alla Rca, ma pur essendo bravo e dotato di talento, Michele aveva un grosso handicap: quello di non appartenere alla parte politica “giusta” per fare carriera. Sì, perché come molti altri suoi colleghi dell’epoca, da Fabrizio Marzi alla Compagnia dell’Anello, dagli Amici del Vento agli Zpm, Michele Di Fiò era uno di quelli che, se non fossero stati “fascisti”, sarebbero diventati famosi. Insomma, penalizzati dalla fede. Ma lui non ne voleva sapere, e come dichiarò in un’intervista, era contento che le sue canzoni avessero fatto da colonna sonora a una generazione di “cuori neri” suoi coetanei. Non si mise d’accordo con la Rca per non dover modificare le sue canzoni e sottoporsi alle leggi omologanti del consumismo.

Tentò di fare da solo, fondando una casa discografica ed editrice, La Mosca bianca, che ebbe per alcuni anni un certo successo nell’ambiente dei giovani missini. Ma prima, nel 1977, dopo essere andato al Campo Hobbit I, esce la sua prima raccolta autoprodotta, “Seveso e no”, dove oltre ai temi politici si affrontano anche quelli ambientali o semplicemente esistenziali. Nel 1978 esce il suo Lp “Ad un passo dal cielo c’è…”,e nel 1979 “Cervello”, per molti il suo Lp più convincente, con il quale arriva i primi posti nella speciale classifica della manifestazione “Centocittà”, organizzata da moltissime radio libere italiane. E questo era un successo di cui Michele andava molto fiero, poiché si confrontava con cantautori “normali” e commerciali. Con il suo 45 giri “Rock” inaugura “La Mosca bianca”, del 1980. Il retro era la stupenda “Italia”, il brano che Michele volle dedicare ad Alberto Giaquinto e alla sua storia: “… le auto bruciate e le mani, una piazza sepolta da mille bandiere… oggi è morto un fratello, domani saremo più forti”. Nel 1981 l’ultimo Lp, “Cavalcare la tigre”, che ebbe ugualmente un grande successo, sia pure “underground”, ossia limitato all’ambiente dei giovani del Fronte della Gioventù.

Il suo stile era melodico ma nello stesso tempo arrabbiato, era molto bravo con la chitarra, affrontava non solo temi strettamente politici ma nelle sue ballate parlava di amore, di aborto, di società,di femminismo, di emigrazione, di decadenza del sistema (“è la tua condanna a morte, cara vecchia società…”) ma soprattutto di speranza. Il suo più grande cruccio, come ci racconta Fabrizio Marzi, che lo conosceva bene, fu sempre quello di essere stato lasciato solo dalle strutture del partito, l’allora Msi, i cui dirigenti non ebbero la lungimiranza per capire di quale utilità sarebbe stata la creazione di un circuito musicale giovanile alternativo, con tanto di casa discografica, riviste e quant’altro. Chi lo capì, ma non fu ugualmente ascoltato, fu Teodoro Buontempo, che con la sua Radio Alternativa causò un epocale cambiamento nel costume giovanile missino e che, se appoggiato convenientemente dal partito, avrebbe cambiato anche l’incidenza dei missini nella società. Ma, come dice Michele, è veramente difficile cavalcare la tigre… “Era un poeta, un ragazzo pieno di iniziative di idee”, dice ancora Fabrizio Marzi: “Lo conobbi ad Acireale, a uno spettacolo che facemmo al teatro Maugeri, rimasi colpito dalla sua determinazione e dal suo entusiasmo…”. “Ci siamo sempre sentiti – ricorda ancora l’autore di “Zoo” – , ma lo rividi nel 1995, alla festa nazionale del Secolo d’Italia a Rieti, a un interessante convegno sulla musica alternativa. Lui comunque era estremamente deluso da tutto il nostro mondo politico…”.

Nel 2007 Michele Di Fiò in un’intervista, fece una lucida e forse profetica analisi su gran parte del mondo post missino: “Politicamente la sinistra ha sempre aiutato, promosso e pagato artisti della loro area; per quanto riguarda la destra è stato solo un problema di soldi o per non esporsi, o per che cosa? La Destra (…) non è abituata alle grandi cose, salta fuori solo al momento opportuno quando c’è qualcosa da prendere. Qualcuno pensa ancora che la maggioranza di questi sta su quel carro per la Fede? No, c’è sempre, sempre un tornaconto, basta cercare e lo si trova. Per questo è importante essere liberi, non essere costretti”. Di questa sua autentica rabbia restano oggi le sue canzoni, i suoi versi, la sua sensibilità che arricchirono la musica alternativa accompagnando nei suoi sogni la generazione degli anni di piombo. Viveva in campagna, con la sua adorata famiglia, la moglie Fiorenza e le sue figlie Valentina e Debora, diceva di non rimpiangere nulla e di aver avuto una vita felice. “Posso dire che nella vita ho fatto esattamente ciò che ho voluto, non ho mai timbrato cartellini e non sono mai stato a busta paga di nessuno. Penso di avere vissuto una esistenza libera e senza condizionamenti”, disse nell’intervista citata. Se a lui è rimasta la rabbia di non aver avuto abbastanza da un certo mondo politico, è vero però che quella comunità umana alla quale lui apparteneva ha avuto moltissimo da lui, e lo ringraziamo con le parole della sua canzone forse più bella, “Italia”: “Il tuo ultimo bacio ed un ciao…”.

sabato 14 settembre 2013

Chiusura del Tribunale di Montepulciano: La Giustizia non si taglia!



Questo è il volantino diffuso dall'Ordine degli Avvocati di Montepulciano contro una riforma che mortifica non solo la giustizia,ma anche il territorio.
Nell'indifferenza delle istituzioni e della politica,Casaggì si schiera dalla parte degli avvocati,dei dipendenti del Palazzo di Giustizia e di tutti i cittadini che subiranno le conseguenze pregiudizievoli,in termini economici e di fruizione dei servizi, di una riforma "sbagliata" decisa e portata avanti da un ministro imposto dall'alto senza alcuna rappresentatività e legittimazione popolare.



Siria, l’altolà di Putin all’aggressione


di Nando de Angelis (Rinascita)

Il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin in un intervento sul New York Times ha avvertito che l’Onu potrebbe subire la stessa sorte del suo precursore, la Lega delle Nazioni, se i paesi influenti bypassano le Nazioni Unite e intraprendono un’azione militare senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Il leader russo ha dichiarato che non si possono ignorare le decisioni del Consiglio di sicurezza sostenendo che “la legge è la legge e va rispettata, che ci piaccia o meno. In base all'attuale normativa, l'uso della forza è consentito solo per autodifesa o per decisione del Consiglio di sicurezza. Tutto il resto è inaccettabile e rappresenterebbe un atto di aggressione. Dobbiamo smetterla di usare il linguaggio della forza e tornare sulla strada della diplomazia”. Un eventuale attacco degli Stati Uniti contro la Siria, nonostante la forte opposizione di molti paesi e importanti leader politici e religiosi, tra cui il Papa, si tradurrà in altre vittime innocenti e potrebbe fare espandere il conflitto oltre i confini siriani e dare inizio ad una nuova ondata di terrorismo. ”La situazione che oggi è venuta a crearsi nel mondo, ed in particolare quella in Siria e negli stati che la circondano, mi ha indotto a rivolgermi direttamente ai cittadini americani e ai politici”, ha sottolineato ribadendo l’opinione di Mosca secondo cui ci sono fondati motivi di pensare che in Siria le armi chimiche siano state utilizzate dalle forze dell’opposizione e non dall’esercito siriano con lo scopo preciso di provocare e coinvolgere nel conflitto i loro più potenti sostenitori esteri. Ha aggiunto che la decisione unilaterale degli Stati Uniti potrebbe sbilanciare l’intero sistema del diritto internazionale e minare gli sforzi per risolvere il problema del nucleare iraniano e il conflitto israelo-palestinese, destabilizzando ulteriormente il Medio Oriente e il Nord Africa.