mercoledì 31 ottobre 2012

Halloween? Una festa “imperialista” e “pericolosa per la psiche dei bambini”

Tratto da Azione Tradizionale

Mentre Halloween si diffonde sempre più nel cosiddetto “Occidente”, scalzando le feste che – a seconda degli usi – miravano a celebrare i morti, riaffermando così la continuità dei vivi coi propri padri, in alcune parti del mondo c’è chi dice no. E’ il caso del Venezuela di Chavez o della Russia di Putin. Nel primo, Halloween è stata liquidata come festa “imperialista e neocolonialista”; all’ombra del Cremlino, invece, ci si è spinti oltre, parlando di festa “pericolosa per la psiche dei bambini”. Come la si guardi, resta il tentativo di contrastare questo ennesimo strumento del “soft power” a stelle e strisce che, prima di dominare con le armi, governa il mondo grazie al controllo delle menti e dei cuori.

“Festa imperialista e neocolonialista”. Venezuela, Chavez cancella Halloween

«Una festa imperialista e neocolonialista». L’ultima crociata di Chavez è contro Halloween. A pochi giorni dalla sua quarta rielezione, il presidente bolivariano ha cancellato i festeggiamenti dagli hotel Venetur, la catena statale nata dagli espropri bolivariani. La decisione è stata innescata da una ribellione telematica. La miccia è partita da Twitter, dove ha iniziato a circolare una foto che ha fatto infuriare la base chavista. Nello scatto la hall di un albergo Venetur che promuoveva la notte delle streghe. «Perché spendono i nostri soldi per una festa gringa?», «Halloween non c’entra nulla con la cultura venezuelana», «Inizieremo a celebrare anche il Ringraziamento?», i primi cinguettii di protesta. La timeline del ministro del turismo, Alejandro Fleming, è stata invasa da centinaia di messaggi di indignazione in poche ore. Di qui la decisione di proibire ogni tipo di festeggiamento.

- – - -

Niente Halloween nelle scuole russe. “Pericoloso per la psiche dei bambini”

Niente Halloween nelle scuole russe, troppo pericoloso per i bambini e la loro salute «psichica e fisica»: il ministero regionale dell’Istruzione a Krasnodar, Russia del Sud rurale e conservatrice, ha proibito zucche e fantasmi nelle scuole. Ovviamente non sono mancati pareri di psicologi, secondo i quali «i bambini che partecipano a questi festeggiamenti spesso si impauriscono, avvertono sentimenti di oppressione e aggressione, e sono inclini al suicidio», riporta un comunicato delle autorità. Ma soprattutto è una festa troppo americana, e al posto di vampiri e morti viventi le scuole sono state invitate a organizzare eventi «ispirati ai valori tradizionali russi.

martedì 30 ottobre 2012

Siamo schiavi della propaganda



                                            Big Brother Is Watching You

di Lorenzo Vitelli (L'intellettuale dissidente)

La propaganda è, banalmente, l’arte di persuadere attraverso mezzi di comunicazione vocali o visivi in grado di trasmettere efficacemente idee ed informazioni di stampo politico. L’obiettivo di questa disciplina, dunque, è la persuasione, e il suo strumento principale è la retorica, quella forma di discorso – costellato di simboli, concetti, metafore e allegorie – che già Platone, più di duemila anni fa, nel suo Gorgia, criticava:

“La retorica, dunque, a quanto pare, è artefice di quella persuasione che induce a credere ma che non insegna nulla intorno al giusto e all’ingiusto”. (Platone, Il Gorgia)

La propaganda appunto, che nasce sotto forma di arte – e, forse, proprio l’arte nasce come propaganda – non insegna niente a nessuno. Il suo fine non è quello di ragionare o di educare, ma è di far credere. Nei suoi dialoghi il Socrate di Platone distingue molto bene il credere dal sapere, poiché il primo, a differenza del secondo, è un atto emotivo. Il sapere, inversamente, è un atto del pensiero logico e razionale, ed è proprio per questo che, per imporsi in maniera più travolgente la propaganda si smarca dalla “ratio” e dal confronto dialettico, per convertire la sua forza verso le nostre passioni. Paura, odio, rabbia, orgoglio, solidarietà, fratellanza: questi i principali istinti che la propaganda vuole scaturire.


Ad esempio, osservando questo volantino americano della seconda Guerra Mondiale che paragona i governi dell’Asse – quello nazista e quello giapponese – ad un mostro a due teste che, assetato di sangue, sradica la famosa statua newyorchese, il primo sentimento che ci colpisce è la paura. A questo iniziale impatto istintivo ne seguiranno altri, che comporteranno un senso si sfiducia e di biasimo nei confronti di questi due Paesi presentati come ” ladri di libertà”.

Già migliaia di anni fa, nel Paleolitico, sono stati trovati i primi “slogan” che possiamo dire propri della propaganda: maschere dall’espressione torva o corpi dalla gestualità minacciosa. Questa prima embrionale forma di persuasione, intenta a trasmettere paura al nemico, già contiene in “potenza” tutto ciò che diventerà in seguito.

La propaganda odierna infatti, gioca ancora su questo semplice schema di retorica (simboli); sfera emotiva (paura, odio); esortazione (idee, opinioni), ma la tecnologia moderna le ha permesso di fare enormi passi avanti e riuscire ad insinuarsi non solo nella nostra vita quotidiana, ma con l’uso dei messaggi subliminali, anche nell’inconscio. Famoso fu quello di cui fece uso l’ex Presidente francese Francois Mitterand, che inserì una sua immagine quasi impercettibile nel logo della rete nazionale “Antenne 2″ durante la campagna elettorale.


La propaganda contemporanea si concentra sopratutto sul bombardamento mediatico sino ad avere una forte influenza sui nostri comportamenti e sulle nostre scelte sia sociali che politiche. Il modello di società orwelliana in 1984 , è uno dei migliori esempi di controllo sociale attraverso la propaganda che, con una strategia di terrore, riesce ad invertire i valori e plasmare una nuova realtà paradossale.


“WAR IS PEACE, SLAVERY IS FREEDOM, IGNORANCE IS STRENGHT!” (Orwell, 1984)


A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo diversi travagli, l’opinione comune crede fermamente di essere uscita dall’idea di regime propaganda, ma, oggi, questa situazione può dirsi vicina quanto lo era ai tempi dei totalitarismi del primo cinquantennio del Novecento o dei due “blocchi” – quello occidentale e quello comunista – della Guerra Fredda. Se in passato era palese e vistosa, oggi è sottile e complessa, gioca su sentimenti consci e inconsci, studia la psicologia, le nostre reazione comportamentali, esamina l’opinione pubblica e il mercato, ci rinchiude in schemi concettuali dai quali, finalmente, riesce difficile uscirne. La propaganda è fautrice e strumento del cosiddetto “pensiero unico”, quella mentalità che dal 45′ in poi, tra politicamente corretto e scorretto, vero e falso, democratico e anti-democratico, giudica il giusto e lo sbagliato, associa modelli politici e concetti filosofici, sistemi economici e modi di vita, plasma l’Occidente verso il livellamento intellettuale e sociale, verso la standardizzazione del pensiero e dell’essere, concepito nel solo ambito dell’apparire e, quindi, del consumare.

Nient’altro rimane da fare che seguire i consigli ancora di chi, più di duemila anni fa, ci diceva di non credere ma di sapere, di ragionare, non di abbandonarsi alle passioni facili, di soffrire la verità, se necessario, piuttosto che accontentarsi di una bugia, poiché è la verità che rende l’uomo tale, e, se questa non diviene nuovamente motore essenziale della nostra vita e della storia, se non crediamo che sia essa la vera fonte di libertà, allora il futuro – e già il presente lo sta facendo – ci darà la condizione di vita che meritiamo.

lunedì 29 ottobre 2012

Il Paradiso in frantumi

di Daniele Bernardi

Quando, nel 1958, il poeta americano Ezra Pound venne scarcerato dopo dodici anni di reclusione all’interno del manicomio criminale di Washington (il Saint Elizabeths Hospital), l’amico Ernest Hemingway, già insignito del Premio Nobel per la letteratura, inviò al suo antico maestro un assegno corrispondente alla somma di 1500 dollari. Il poeta, commosso dal gesto, non spese mai il denaro. Girò il biglietto e sul retro vi scrisse «Da riscuotere in Paradiso». Dopodiché fece plastificare il foglio e lo utilizzò per il resto dei suoi giorni come ferma carte (l’aneddoto è ben riferito nel bel libro di Piero Sanavio, La gabbia di Ezra Pound, Libri Scheiwiller, Milano, 1986).
All’interno dell’opera di Ezra Pound, nello sterminato libro dei Cantos, si trovano molti riferimenti e riflessioni sul Paradiso. Nei frammenti che concludono l’opera, ad esempio, è scritto: «I sogni cozzano / e si frantumano – / e che ho cercato di costruire un paradiso / terrestre». E ancora «Ho provato a scrivere il Paradiso / Non ti muovere, / Lascia parlare il vento / Così è Paradiso». Ma uno dei versi che torna, martellante, in una delle più celebri sezioni del testo (I Canti Pisani) è questo: «Le Paradis n’est pas artificiel». Il riferimento a Charles Baudelaire è evidente, ma non è tutto. I Canti Pisani, come certamente molti sanno, sono stati pensati e scritti durante il periodo di prigionia che il poeta trascorse all’interno del Disciplinary Training Center (un campo di concentramento costruito dall’esercito americano nei pressi di Pisa). I fatti sono piuttosto noti: nel 1945, accusato di alto tradimento da parte del suo paese (aveva tenuto dei discorsi per la Radio del governo italiano in cui esponeva le sue teorie economiche e affermava il suo dissenso nei confronti dell’entrata in guerra degli Stati Uniti), il poeta venne segregato in una gabbia esposta al sole durante il giorno e illuminata con dei proiettori la notte. Dopo circa trenta giorni, in preda a uno stato confusionale, ebbe un collasso e in seguito venne trasferito nell’infermeria. Qui cominciò a trascrivere i versi che, durante la brutale reclusione, si erano affollati nella sua mente come tante formiche impazzite.
Pound, con la sua opera e il suo pensiero, si prefiggeva un obbiettivo. La poesia, per questo autore assolutamente moderno, non poteva semplicemente essere la «pura registrazione del mal di pancia» (raccontava, in una celebre intervista che gli fece Donald Hall, che sulla coppa di ponce degli studenti dell’Università di Pennsylvania era scritto «qualsiasi cretino può essere spontaneo»). L’arte doveva essere la bussola, la guida, per la costruzione di una società più giusta. I letterati, custodi delle parole, modellando il linguaggio avevano il compito di mantenerlo vivo, dinamico e umano: «Quando il loro lavoro marcisce […], cioè diventa inesatto, o eccessivo, o barocco, o motoso, l’intera macchina del pensiero e l’ordine individuale e sociale vanno in fumo». Ecco quindi a cosa corrispondeva la costruzione di un Paradiso terrestre. Ed ecco perché, forse, dietro le sbarre della gabbia, il verso dagli echi baudelaireiani sbatteva nella sua mente come un uccello in cattività. Quando lo scrittore venne catturato dai partigiani e consegnato alle autorità statunitensi aveva già scritto una parte più che considerevole del suo poema. Ed è in esso che, attraverso lo studio delle dottrine di Confucio, o l’analisi del pensiero Thomas Jefferson e John Adams, tentava di individuare, attraverso i trascorsi storici, quali sentieri conducessero a un ipotetico Paradiso – vale a dire a una più nuova, migliore, civiltà. Con l’incarcerazione la storia precipitò addosso al poeta, facendo piazza pulita di ogni illusione.
Pound chiese più volte, prima e dopo che la macchina giudiziaria si mettesse in moto contro di lui, di poter dialogare con i rappresentanti delle alte sfere del potere (sia americano che italiano – il poeta risiedeva in Italia dal 1925) per esporre le sue riflessioni in ambito economico. Celebre rimane il buffo resoconto del suo unico incontro, nel 1933, con Mussolini che dichiarò che i Cantos erano, a suo avviso, un’opera “divertente” (molto probabilmente perché non sapeva cosa dire). Pound, ingenuamente, prese questa affermazione come un grande complimento.
L’enigma del denaro, la sua origine e il suo sviluppo, sono una tematica dominante in tutta l’opera del poeta. Questa affascinante ossessione può essere vista da molteplici angolazioni. Innanzitutto il padre dello scrittore, Homer Loomis Pound (da notare il nome emblematico: Omero – il primo canto dei Cantos è una versione dell’XI° libro dell’Odissea), era assistente alla Zecca di Filadelfia. Pound racconterà come da bambino osservasse con occhi stupiti lo spettacolo dei lingotti d’oro stipati nelle casseforti, e dei dollari ammucchiati e spalati nella penombra dei corridoi della fonderia da uomini a torso nudo.
La moneta e il linguaggio sono due entità simili. Ambedue circolano in mezzo agli uomini, passano di mano in mano e di bocca in bocca. Ma soprattutto, sia l’una che l’altro, sono gli ambasciatori della propria ombra (o delle proprie ombre): la banconota è un documento che attesta (o dovrebbe attestare) l’esistenza di una materia prima corrispondente, così come la parola è un segno, un simbolo, portatore di significanti. Pound, seppure in maniera schematica, attraverso il suo studio si accorge che questo rapporto è falsato, ambiguo, asimmetrico: «L’errore è stato […] il fare della moneta un Dio. Questo fu dovuto […] all’aver fatto della nostra moneta una rappresentanza falsa, dandole poteri che non doveva possedere.». Ecco che vediamo allora sorgere minacciosa, dalle profondità della storia, la parola che tanto ricorre lungo tutto il poema: usura. Come già altri hanno detto però, questo termine non va preso pedissequamente alla lettera. L’usura afferma Pound, lo riporta sempre Piero Sanavio in Ezra Pound – Bellum Perenne (Raffaelli Editore, Rimini, 2002), «è un meccanismo». Questa definizione, anche alla luce degli eventi che scuotono la nostra epoca (quella del consumo senza limite), sembra volerci indicare che il mondo, oggi come allora, sia strutturalmente governato da dinamiche economiche distruttive e di prevaricazione dell’altro. Questo è l’ingranaggio che per Pound porta il nome di usura.
Il poeta si è spento il 1° novembre a Venezia, all’età di 87 anni. Sono passati 40 anni e ancora la sua opera non cessa di interrogarci. Sì. Perché i versi che leggiamo sulla respingente pagina dei Cantos non sono certo una lettura accomodante. È come se tra quelle righe sia scritto: “Lettore, ho attraversato queste epoche, questi strati di macerie, al mio passaggio sono emersi sulla superficie dei resti, tracce e indizi di un enigma mutevole. Ora sta a te mettere insieme i pezzi del mosaico distrutto”. Per via delle sue vicissitudini, la figura di Pound, non ha mai smesso di scatenare polemiche. Il suo nome è, purtroppo, tutt’oggi vittima di bieche strumentalizzazioni ideologiche. Forse, per comprendere pienamente questo particolarissimo autore, è tempo di tornare con occhi nuovi alle pagine che ci ha lasciato, liberandolo così dalla gabbia in cui, per molto tempo, è stato confinato.

domenica 28 ottobre 2012

Civiltà pubblicitaria

di Andrea Marcon 


Qualche mese fa un giovane motociclista è disgraziatamente morto in unincidente stradale vicino a casa mia. Da quel giorno il tratto di strada in questione è addobbato con striscioni di parenti e amici del defunto che lo ricordano, che celebrano il suo compleanno o gli mandano altri messaggi.

Sempre più spesso si incontrano per le strade cartelli o lenzuoli che celebrano un matrimonio con frasi di auguri più o meno spiritose rivolte ai nubendi. Dopo lo scorso week è stata inflitta la gogna mediatica ai tifosi del Verona rei di aver intonato allo stadio cori di insulti nei confronti di un defunto calciatore del Livorno. Mi fermo qui, ma gli esempi potrebbero essere numerosissimi e tutti figli della stessa logica: lo slogan pubblicitario quale (unica) forma di espressione di sentimenti e comunicazioni che dovrebbero essere invece rivolti su un piano strettamente personale. L'uomo moderno, figlio della società del consumismo e appunto della pubblicità, dell'apparenza, dell'immagine, consacrati dalla televisione, non è quasi più in grado di scrivere una lettera privata o comunicare con la persona che gli sta a fianco. O forse potrebbe anche farlo ma ritiene che il valore del proprio messaggio sia accresciuto e assuma valore solo nel momento in cui lo espone al pubblico, nella forma più vicina a quella indotta dal modello televisivo. Senza rendersi conto che in questo modo cambia radicalmente non solo la forma della comunicazione stessa ma anche il suo significato. Da un lato, infatti, si deve cercare di congeniare uno slogan che faccia presa sul passante distratto, sull'automobilista, su chi insomma incrocia per caso lo striscione o il cartello in questione. Troppe parole, troppi approfondimenti non sarebbero neppure presi in considerazione. Va da sé quindi che sentimenti che dovrebbero essere profondi e sui quali si potrebbero scrivere dei trattati o quantomeno delle lettere dense di significato diventano delle superficiali frasi ad effetto.Ma questo meccanismo mostra anche come sia la funzione della comunicazione ad essere modificata alla radice: nel momento in cui mi rivolgo ad una massa indistinta e non ad uno specifico soggetto quello che mi interessa non è la persona che riceve, ma l'appagamento del mio ego. Non ti trasmetto e condivido privatamente il dolore per la morte di tuo figlio o il matrimonio di tuo fratello, non sei tu la persona alla quale mi sto rivolgendo. Il messaggio diventa una sorta di esibizione pubblica del mio privato. Ecco allora che la sua funzione, al di là delle apparenze, è soltanto un esibizionismo ai limiti della pornografia. Forse così qualcuno si sente più buono, come coloro che lasciano fiori e bigliettini sul luogo di un delitto mediatizzato rivolto ad una vittima che hanno conosciuto solo grazie alla TV.

Non più vera comunicazione, ma soltanto l'ennesima forma masturbatoria dell'individuo, monade alienata ed isolata dai suoi simili, che questa società ha saputo creare. Il contraltare è rappresentato, come nell'esempio dei tifosi veronesi, dalla demonizzazione di chi usa lo stesso strumento “pubblicitario” per esprimere sentimenti di natura opposta come lo scherno, l'odio, il disprezzo. I perbenisti da salotto televisivo, gli intellettuali del circo mediatico ma anche il lobotomizzato uomo comune crede di indignarsi per il contenuto del messaggio laddove invece non tollera semplicemente che esso sia reso pubblico. Se lo avesse sentito in una discussione al bar invece che attraverso il tubo catodico, non ci avrebbe fatto minimamente caso. Quello che avrebbe stigmatizzato come un commento da beceri imbecilli diventa un reato da punire con la massima severità, indignandosi per il quale torna ancora a sentirsi buono ed allineato alla massa. Non si rende conto che quei tifosi sono sì dei mostri, ma della sua stessa specie: uomini che stanno perdendo la loro anima, la capacità di scambiare sensazioni con i propri simili, di avere relazioni profonde con sé stessi e con gli altri. Mostri che hanno bisogno di apparire per sentirsi vivi. 

venerdì 26 ottobre 2012

Choosy a chi? "Non siamo schizzinosi, pretendiamo ciò che ci spetta"

di Giulia Rosoni

26 anni, laureata con passione e fatica, 600 euro al mese, un tirocinio non pagato. La storia di Giulia in una lettera arrivata in redazione, un destino comune. La condizione di tantissimi giovani (e meno giovani) italiani che, dopo essere stati definiti "sfigati", "bamboccioni", "neet", vengono ora chiamati "choosy", schizzinosi, dalla ministra Elsa Fornero.



Vengo ora da un colloquio serale; un colloquio di lavoro per diventare animatrice per bambini. È un gruppo magnifico, vorrei farlo vedere alla nostra amata ministra. Ragazze di 20-22 anni, hanno tirato su un'associazione dal niente, e ne hanno fatto una professione; sono appassionate e intraprendenti.

È il loro sogno, e lo hanno realizzato da sole, con fatica e tenacia. È il loro sogno, non il mio. Io sono in una fascia di mezzo: troppo giovane per avere esperienza, troppo adulta per iniziative. Ma forse questa seconda cosa è solo un alibi. Non lo so.

Una cosa la so di per certo però: ho 26 anni, una laurea ottenuta con entusiasmo, fatica e passione. Vivo sola, perché a 26 anni non voglio più dipendere dai miei genitori. Genitori meravigliosi, volenterosi, grandi lavoratori, impegnati e energici, ridotti all'osso da un paese che se poco offre a me, quasi nulla ormai offre a loro. Ma mi appoggiano e mi aiutano e mi sostengono. 

26 anni, una laurea, un lavoro nel sociale che mi porta a contatto con persone che si definiscono (e cito) 'ingombranti ma invisibili'. Persone disabili. 400 euro al mese: cifra che non basta neanche per l'affitto. 260 euro: quello che riesco a racimolare con un lavoro da babysitter che occupa 10 ore della mia giornata. Un tirocinio obbligatorio, gratuito, perché sia mai che il lavoro di 5 anni di studio debba essere ricompensato.

600 euro dunque. Così campo io; così campiamo in moltissimi, troppi.

Mi sono infuriata: siamo definiti mammoni, bamboccioni, pigri, sfigati e ora choosy, schizzinosi. Schizzinosi? Quanti di noi sono laureati (ma anche no) e passano le mattinate a mandare curricula per fare il lavapiatti? Quanti sono in mobilità, cassa integrazione, disoccupati, o a casa di mamma e papà a 30 anni perché con 600 euro al mese una casa non la paghi? 
26 anni, laureata con passione e fatica, 600 euro al mese, un tirocinio non pagato. La storia di Giulia, un destino comune 
Stamattina mi sono svegliata come sempre alle 6. Mi sveglio 2 ore prima di dover uscire per lavoro, per guardare annunci su internet e mandare il mio curriculum in giro. Stamattina l'ho mandato a 1 azienda, 2 ristoranti, 4 mamme in cerca di babysitter. 

Alle 8 sono andata dai 'miei' disabili; alle 14 ero a casa per un boccone, alle 15 in macchina per prendere la piccola che tengo il pomeriggio, alle 19 ho finito, alle 20 ero a fare un colloquio. Non è stata una giornata particolarmente piena, lo devo ammettere.

Ma un senso di disagio era già presente in me dalle 6, ho scritto su Facebook e riporto: 

“Analisi e autocritica: come mai non siamo tutti a Roma con le mani piene di sonori schiaffi da distribuire? Cosa ci devono dire per farci incazzare una volta per tutte? Sono arrabbiata, sfinita, distrutta. Sono preoccupata. Choosy? Non sono choosy, sono esaurita...”.

Io oggi non dovevo essere in associazione, non dovevo prendere la piccola, non dovevo andare al colloquio: dovevo essere in strada ad urlare un furore che mi sta facendo tremare. Darei l'anima per fare la lavapiatti, la porta pizze, la donna delle pulizie, e vedere il volto di mio padre sereno, perché sua figlia può pagare le bollette.

Darei la vita per poter portare avanti il tirocinio (non pagato) che mi serve per fare ciò per cui, cara ministra, ho studiato e sudato. Non è essere schizzinosi, è chiedere ciò che ci spetta. E a 26 anni mi spetta ragionare per passione e voglia e grinta, non per quanti soldi servono per tirare a campare. E mi servono istituzioni che mi aiutino in questo, non che mi maltrattino e offendano qualunque sia la scelta di vita che faccio. Scelta, mi viene quasi da ridere: noi non abbiamo una scelta. Non possiamo neanche volendo, cara ministra, essere choosy.
"Darei la vita per poter portare avanti il tirocinio (non pagato) che mi serve per fare ciò per cui, cara ministra, ho studiato e sudato"

Sarei voluta scendere in piazza, urlando, portando con me altre 1000, 2000, 100000 ragazzi e ragazze come me. Vogliamo lavorare, vivere e sognare, non più sopravvivere. Perché invece sono a casa, stremata e distrutta? Perché i miei amici non sono in piazza con me? Cosa devono farci o dirci ancora? 

"Perché sono stato tutto il giorno a lavoro", mi ha detto il mio migliore amico (che per lavoro, sia chiaro, intende tirocinio non pagato). "Perché in piazza ci va chi ha tempo tesoro, e io e te tempo non ne abbiamo". Porca puttana. Non ne abbiamo. E non ne abbiamo perché dobbiamo sopravvivere. No, è un alibi forse. La verità è che io e con me tutti i giovani che state martoriando, cara ministra, mi sento schiacciata. Pietrificata.

Voglio urlare, ma non ho più voce. Voglio correre, ma non ho più forze. Siamo talmente esausti da non riuscire più ad arrabbiarci. E anche con queste parole, non riesco a far uscire neanche la metà della rabbia che ho in corpo. Sto tremando.

Domani nuova sveglia alle 6. Si ricomincia. Ho scritto la parola choosy sul muro... perché questa volta non voglio che la passino liscia, perché questa volta non voglio che la rabbia si affievolisca, e che la vita mi inghiotta come sempre. Voglio arrabbiarmi come oggi. 

Svegliamoci! Urliamo, corriamo! Chi ci aiuta c'è, cominciamo a pretendere ciò che ci spetta. Vivere.

giovedì 25 ottobre 2012

Elezioni americane: la solita pagliacciata


di Enrico Galoppini

I sudditi italiani e, immagino, tutti gli altri europei più o meno “americanizzandi” (cioè sulla via dell’americanizzazione totale), si stanno sorbendo la minestra riscaldata della “sfida” tra Obama e Romney, propinata da “corrispondenti” infoiati oltre il limite del ridicolo e della decenza ad un pubblico di babbei che, in questo modo, viene illuso di assistere al massimo esercizio di quel feticcio dei moderni chiamato “democrazia”.

La scena più pietosa è sicuramente quella dei “faccia a faccia” tra i due candidati-fotocopia, enfatizzati come “sfide all’O.K. Corral” da cui dovrebbe uscire chissà quale miracolo. Con una morbosa e stucchevole tendenza a cogliere il particolare, ci si affanna ad evidenziare la “gaffe”,la “frase infelice”, la “battuta”, la “stoccata”, il “fendente”. E, in un delirio da feticisti, il colore della cravatta, il capello bianco, il polsino fuori posto ecc. E tralasciamo la scena della “moglie in lacrime”, che è quanto di più falso possa essere imbastito, tanto si tratta di personaggi senza scrupoli, anche tra le mura domestiche.

Insomma, è evidente che a fronte di questo autentico spettacolo (senza virgolette), con un pubblico in sala che non si sa quanto è pagato per non mettersi ad urlare dalla disperazione (o addirittura mettersi a sparare, visto che in America non è difficile procurarsi un’arma), chi conserva ancora un barlume del significato di che cos’è la politica non può che provare un inesprimibile disgusto.

Eppure, sembra che, come per un sortilegio, in “democrazia” (qui il virgolettato esprime l’idea che vi sia una incoerenza di fondo nei suoi stessi fautori: la realizzazione pratica non corrisponde a nulla di quanto viene predicato) tutto diventi posticcio, senza sapore e inautentico.


Ci provano anche qua, da qualche anno, ad imporre questo baraccone tutto apparenza, al quale si arriva dopo la trafila estenuante e completamente inutile, nonché ininfluente sui concreti destini della nostra patria, delle cosiddette “primarie”, la passerella degli illustri sconosciuti e delle nullità umane, col contorno di giornalisti e “questuanti” a conferire importanza all’evento. “Primarie” che non appassionano nessuno, tranne i finti tonti che accorrono alla greppia di questi partiti per assicurarsi qualche tornaconto, così come si va da un capo-camorra a chiedere un favore, una raccomandazione, un posto di lavoro eccetera.

Le persone serie dovrebbero stare alla larga da questi insulti alla dignità umana.

Ed è quello che effettivamente sono riusciti a provocare, poiché la percentuale dell’astensionismo è in costante aumento ovunque vi sia la“democrazia”.

Da una parte si sarebbe indotti ad esultare, perché il primo passo per togliersi dai piedi un sistema marcio fradicio è quello di non legittimarlo in alcun modo. Ma questi farabutti, esperti nell’arte della recitazione (la“democrazia” è tutta una recita), hanno blindato il loro giocattolo con una serie di accorgimenti, anche di tipo “legale” (qui il virgolettato forse nemmeno basta, tanto l’idea di “legalità” è svuotata di senso).

E non mi riferisco certo ai palloncini, ai festoni, al pubblico in visibilio che ricorda più quello del carnevale di Viareggio piuttosto che uomini consapevoli dell’importanza dell’arte della polis, ma tutti quegli schifosi marchingegni e sotterfugi che vanno dalla “legge elettorale” (che addirittura loro chiamano “porcellum”!) agli “election day” (ci mancava pure questa…), dall’impossibilità de facto per un movimento alternativo a tutti gli altri di accedere al pubblico dei “media”, all’extrema ratio costituita da leggi ad hoc che vietano espressamente, pena la galera, di affrontare politicamente determinati argomenti: ovvero tutti quelli che hanno un interesse davvero generale.

Di che cosa trattano infatti i “duellanti” in queste “tenzoni dialettiche”? Di tutto e di più, ma mai di argomenti pesanti, quali la proprietà e l’emissione della moneta, la vera “qualità della vita”, il vivere insieme all’insegna della concordia, la presenza – nelle colonie del “faro della democrazia” – di una rete tentacolare e soffocante di basi militari straniere eccetera eccetera… Cincischiano con questioni di una futilità disarmante o, se s’addentrano in qualche tema di maggior consistenza lo trattano intenzionalmente in maniera fuorviante, settoriale, limitata e comunque atta a non far capire al “popolo bue” che uno di questi due bei signori impomatati e stirati di tutto punto sarà né più né meno quello che lo manderà alla prossima tornata dell’ordinario macello fatto di moneta-debito, vita da schifo, discordia permanente e sottomissione ad ogni tipo di “lobby”… Con la ciliegina sulla torta, da parte degli “emuli europoidi” di cotanta mistificazione, dell’assoluta omertà per quanto riguarda la condizione servile, di schiavi felici di esserlo, imposta alle nostre nazioni da settant’anni a questa parte.

Cosicché, di fronte a questa come ad altre situazioni-limite che pongono alla coscienza – ad una coscienza non ancora compromessa - seri interrogativi, gli uomini sono chiamati a disporsi o di qua o di là.

Chi ancora crede a questa barzelletta non ha dunque che l’imbarazzo della scelta su come interessarsene, poiché, praticamente, sulle centinaia di canali e le decine di giornali-pappagallo non si parla d’altro, mentre chi la considera insultante e ripugnante non sa che pesci prendere, perché se l’astensionismo è uno degli esiti voluti da Lorsignori (in America la maggior parte della gente non va a votare, poiché si sente comunque non rappresentata, e non perché ha un’aprioristica fiducia nella“rappresentanza per delega”), ritrovarsi sul desco zuppa o pan bagnato, per giunta stantio, è pur sempre una brodaglia immangiabile ed inaccettabile per chi, piuttosto, auspica di potersi abbeverare finalmente alle sorgenti della libertà, dell’indipendenza, dell’autodeterminazione e della sovranità politica, economica, culturale e militare per il nostro così come per tutti i popoli-nazione del mondo.

Liberi di poter scegliere, o meglio riconoscere, chi è più degno di reggere le sorti della comunità, e liberi perciò da tutte queste pagliacciate il cui risultato, coerentemente, non può che essere l’imposizione di una classe politica di buffoni e teatranti il cui degno proscenio è il circo o qualche cabaret d’infima categoria.


P.S.: naturalmente, i pagliacci veri, quelli che fanno ridere i bambini, riscuotono la mia stima incondizionata!

mercoledì 24 ottobre 2012

La scatola dell'idiozia

di Steve Watson

TV turns you into a zombie

Mentre da un lato queste parole suonano come la solita metafora utilizzata per evidenziare quanta immondizia ci viene oggi propinata attraverso la televisione, sono anche una terribile affermazione che descrive in modo letterale la nostra realtà.

Solo in quest’ultimo mese due studi separati hanno rivelato che un eccessivo uso della televisione, anche se lasciata in sottofondo, può avere effetti deleteri sullo sviluppo cerebrale nei bambini, al punto che, quando crescono, mostrano difficoltà nelle relazioni sociali.

Se a questo aggiungiamo l’impatto ampiamente documentato che la TV ha su ognuno di noi, il potere che ha di alterare letteralmente la nostra coscienza e deprimere il pensiero critico, si può comprendere perché già da tempo è stata definita la “scatola dell’idiozia”.

Come ha riportato in quest’ultimo mese la Reuters, ricercatori dell’Università della North Carolina Wilmington (UNCW), hanno scoperto che i rumori di sottofondo emessi dalla televisione distraggono e confondono a tal punto i bambini da pregiudicare, nel lungo termine, la loro capacità di interagire con altri esseri umani, rallentarne il pensiero cognitivo e lo sviluppo del linguaggio.

Lo studio, pubblicato nella rivista Pediatrics, ha rivelato che i bambini statunitensi sono attualmente esposti a una media di cinque ore di televisione al giorno. Matthew Lapierre, che ha coordinato lo studio, ha spiegato che quei bambini che sono più esposti alla televisione passano meno tempo a interagire con i genitori e i coetanei.

Lapierre ha anche osservato che sono i bambini più piccoli quelli maggiormente esposti alla televisione di sottofondo.

“Questo è un chiaro avvertimento per i genitori: quando non stanno guardando la televisione, la devono spegnere.” Ha detto il Dr. Victor Strasburger, un pediatra dell’ Università del New Mexico di Albuquerque che in precedenza aveva studiato l’esposizione dei bambini ai mezzi di comunicazione. E ha aggiunto “E’ anche un consiglio ai genitori di evitare totalmente la televisione per i bambini sotto i due anni.” 

“Avere voci indistinte di sottofondo genera confusione nei bambini in fase di comprensione ed elaborazione del linguaggio” ha sottolineato Strasburger, e ha aggiunto agli intervistatori che quando i genitori gli portano i loro bambini, riesce facilmente a individuare quali sono più esposti alla televisione e quali meno.

“I bambini ai quali viene spesso letto, chiacchierano in modo disinvolto, mentre quelli che stanno davanti alla televisione per lungo tempo, sono più silenziosi”. Ha detto. “Questo significa che viene messo in pericolo lo sviluppo del loro linguaggio – possono recuperare, sì, ma è comunque un problema.”

In un altro studio, alcuni medici del Royal College of Paediatrics and Child Health (College Reale di Pediatria e di salute infantile) di Londra, hanno scoperto che i bambini che nascono oggi, all’età di sette anni avranno visto un intero anno di televisione. Lo studio ha anche rivelato che in media i bambini oggi passano più tempo davanti alla televisione di quanto ne passino a scuola.

Il Dr Aric Sigman ha pubblicato lo studio negli Archives Of Disease In Childhood (Archivi di malattie infantili), una rivista medica associata al gruppo del British Medical Journal.

Sigman ha evidenziato che una tale esposizione elevate alla televisione può provocare delle lacune nei rapporti sociali, problemi di deficit d’attenzione e provocare gravi danni psicologici. Sigman ha aggiunto che la sovraesposizione a nuove tecnologie come la televisione in 3D e la console di gioco possono causare nei bambini gravi difetti nello sviluppo della percezione della profondità spaziale.

Lo studio consiglia di evitare che bambini sotto i tre anni guardino la televisione tutti insieme, e aggiunge che il tempo dedicato alla televisione è bene che sia limitato a un massimo di due ore al giorno.

“Avendo appurato che i problemi arrivano quando si supera il limite massimo delle due ore di schermo al giorno, e benché i nostri bambini siano attualmente esposti in media tre volte questo tetto, una decisa iniziativa mirata a ridurre il tempo giornaliero dedicato alla televisione porterà certamente dei miglioramenti nella salute e nello sviluppo infantile”. Ha detto Sigman.

In un rapporto pubblicato un anno fa, l’American Academy of Pediatrics ha evidenziato che numerosi studi precedenti sono arrivati alle stesse conclusioni; ovvero che esiste un collegamento diretto tra l’aumento dei tempi televisivi e i ritardi cognitivi dei bambini. 

Nel 2010, un altro studio pubblicato in Pediatrics, riportò che dall’analisi di più di 1,000 bambini di età compresa tra I 10 e gli 11 anni, si scoprì che quelli che passavano almeno due ore al giorno davanti alla TV avevano il 60% in più di probabilità di sviluppare problemi psicologici di quegli altri bambini che ne passavano meno o per niente.

Lo studio rivelò anche che quei bambini impegnati in attività fisiche, e che comunque guardavano molta televisione, avevano il 50% di probabilità in più di soffrire di problemi d’iperattività, difficoltà a relazionarsi con i coetanei e gli amici, cattivo carattere e comportamenti antisociali.

Altri studi pubblicati in Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine (Archivi di Medicina Pediatrica e Adolescenziale), mostrarono che i bambini maggiormente esposti allo schermo televisivo hanno più probabilità di sviluppare comportamenti aggressivi e avere uno scarso rendimento scolastico. Inoltre, i dati mostravano che i bambini che guardano più televisione tendono a mangiare più cibi non sani e a diventare vittime di atti di bullismo da parte dei compagni di scuola – conseguenze che causano dei “corto-circuiti” a livello cerebrale.

Altri studi recenti hanno rivelato che molti programmi televisivi creati apposta per i bambini possono addirittura avere effetti dannosi sul loro sviluppo, perché contengono immagini e animazioni troppo veloci, sovraccaricando quindi il cervello e provocando una ridotta capacità di attenzione.

A causa di questi effetti della televisione e dei videogiochi, la mente dei bambini è obnubilata prima ancora di potersi sviluppare. Quando diventeranno adulti, agiranno sulla base di scelte e comportamenti presi per lo più a livello inconscio. In pratica, degli zombie; umani che agiscono secondo un processo mentale impulsivo e reattivo, penalizzando la logica e il pensiero critico.

E non sono solo i bambini a essere esposti al rischio di creare un esercito di morti viventi. E’ noto che le fluttuazioni luminose dello schermo televisivo inducono onde cerebrali Alpha, cullando il cervello in uno stato di subconscio simile al sonno, causando una sorta d’ipnosi che rende più suscettibili alle suggestioni.

Questo è noto fin dagli anni ’60 e fu dimostrato chiaramente in un esperimento del 1969 da Herbert Krugman. La ricerca intrapresa da Krugman nel quadro di un più ampio progetto relativo alla pubblicità, rivelò che l’emisfero cerebrale sinistro, che elabora le informazioni in maniera logica e analitica, viene completamente disattivato quando un individuo guarda la televisione.

La luce radiante e le oscillazioni luminose degli schermi televisivi riducono l’attività cerebrale a uno stato “Theta”(onde Theta). Si riduce il pensiero critico, lasciando attive le parti del cervello che conservano i ricordi, le sensazioni e le emozioni.

Tutto ciò che arriva dalla TV in qualche maniera “bypassa” la mente logica e va a inserirsi direttamente nel subconscio. In altre parole, la TV fa presa più sulle emozioni che sulla logica. Numerosi studi hanno anche mostrato che le oscillazioni luminose nei videogiochi causano stati di alterazione della coscienza. In alcuni casi l’attività cerebrale si riduce al di sotto della frequenza Delta. Altri studi hanno anche evidenziato un collegamento tra l’eccessiva esposizione alla televisione e la malattia di Alzheimer. Lo stato semi-conscio indotto dalla TV pare che influenzi direttamente i meccanismi della memoria, del linguaggio e delle percezioni.

Krugman ha anche scoperto che leggere e ascoltare aumentano la cognizione e costruiscono nuovi percorsi neuronali, poiché quando si ascolta si è costretti a pensare in modo critico e a visualizzare il “teatro della mente”.

Inoltre, il passaggio dal cervello sinistro al destro indotto dalla visione degli schermi televisivi, causa un rilascio degli oppiacei naturali del corpo, simile al rilascio delle endorfine durante l’attività fisica. Questo provoca nello spettatore un effetto di piacere. Di conseguenza, quando si spegne lo schermo si scatenano dei sintomi di dipendenza. E come in ogni situazione di astinenza da oppiacei, tali sintomi comprendono ansia, frustrazione e depressione.

Degli esperimenti eseguiti negli anni ’70 dimostrarono che le persone che tenevano la televisione spenta per lunghi periodi, dopo visioni prolungate, tendevano a soffrire di depressione; alcuni si sentivano come se avessero “perso un amico”.

Una combinazione di quattro studi, pubblicati nel Journal of Experimental Social Psychology (Rivista di psicologia sociale sperimentale), concludevano che la televisione può indurre un senso di dipendenza in spettatori con poca autostima e con scarse relazioni sociali. Riferendosi all’ipotesi di surrogato sociale, degli psicologi dell’Università di Buffalo e Miami, Ohio, dimostrarono che per riempire il vuoto emotivo della privazione sociale, alcune persone instauravano dei rapporti con i personaggi dei programmi televisivi.
La TV è davvero l’oppio dei popoli.

Ovviamente quello di cui parlo qui è solo un flash. Oggi siamo bombardati da ogni parte da distrazioni, sostanze e condizioni create per trasformare il modo in cui interpretiamo la nostra realtà. Siamo condizionati fin dalla nascita ad agire sempre più senza coscienza, proprio la cosa che ci distingue da ogni altro organismo vivente dell’universo conosciuto.

Siamo letteralmente programmati a uno stato di sonno vigile, un’esistenza da zombie. Abbiamo il dovere di agire in modo cosciente e educare gli altri allo stesso modo, se vogliamo spezzare questa dannosa “programmazione” e preservare l’umanità.

Steve Watson, da Londra, scrittore e redattore per Alex Jones in Infowars.com e Prisonplanet.com. Ha un Master in Relazioni Internazionali conseguito alla Scuola Superiore di Politica all’Università di Nottingham in Gran Bretagna.

martedì 23 ottobre 2012

La verità è che il denaro non vale niente

di Massimo Fini

Come hanno reagito le leadership occidentali alla crisi iniziata col tracollo dei ‘subprime’ americani del 2008, poi estesasi rapidamente in mezzo mondo e che peraltro bolliva rumorosamente in pentola da molto tempo (collasso del Messico, 1996, delle ‘piccole tigri’, 1997, default dell’Argentina, 1999)? Immettendo nel sistema altro denaro attraverso una serie di triangolazioni fra Fed, Fmi, banche, Bot, che altro non sono che una partita di giro.

Tradizionalmente le funzioni del denaro sono quattro: 1) Misura del valore; 2) Intermediario nello scambio; 3) Mezzo di pagamento; 4) Deposito di ricchezza. Niente da dire sulle prime tre. Ma togliamoci dalla testa che il denaro sia ricchezza o che la rappresenti. Da questo punto di vista il denaro non è nulla, un puro nulla. Se ne accorsero gli spagnoli agli albori del XVII secolo quando, dopo aver rapinato agli indios d’America tutto quanto potevano d’oro e d’argento (la moneta dei tempi in Europa), si trovarono più poveri di prima. Nel suo Memorial del 1600 Gonzales de Collerigo scrive con icastica lucidità: “Se la Spagna è povera è perché è ricca”. E Pedro de Valencia nel 1608 “Il male è venuto dall’abbondanza di oro, argento e moneta, che è stato sempre il veleno distruttore delle città e delle repubbliche. Si pensa che il denaro è quello che assicura la sussistenza e non è così. Le terre lavorate di generazione in generazione, le greggi, la pesca, ecco quel che garantisce la sussistenza. Ciascuno dovrebbe coltivare la sua porzione di terra e quelli che vivono oggi della rendita e del denaro sono gente inutile e oziosa che mangia quello che gli altri seminano”.

Si dirà che sono balbettii di economisti alle prime armi, ancora culturalmente ed emotivamente legati al mondo medioevale in cui il denaro, oltre ad avere scarsa circolazione, fu sempre tenuto in gran sospetto. Ma Sismondi, che è attivo due secoli dopo, quando l’economia classica, con Smith, con Ricardo, con Malthus, con Say, ha già fatto irruzione nella Storia e si è imposta come scienza, scrive: “ Aumentando il numerario di un paese senza aumentarne il capitale, senza aumentarne il reddito, senza aumentarne il consumo, non lo si arricchisce, non se ne stimola il lavoro”. E per capitale Sismondi intende terra, bestiame, strumenti, lavoro, abitazioni, cioè beni materiali.

Nel 1929 gli americani che avevano investito nella Borsa di New York si credevano ricchissimi ma bastò che qualcuno non credesse più nel valore di quelle azioni (che, in quanto credito, sono denaro a tutti gli effetti), trascinando a valanga gli altri, perché quella ricchezza si rivelasse per ciò che era: carta straccia. Il valore di una mucca invece, per quanto possa variare, non può essere ridotto a zero, ci ricaverò sempre del latte o, alla mala parata, ne farò bistecche.

Dell’inconsistenza del denaro si era già reso conto Aristotele che nella Politica scrive: “La moneta… è una semplice convenzione legale senza alcun fondamento in natura, perché cambiato l’accordo fra quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per nessuna delle necessità della vita e un uomo ricco di denaro può mancare del cibo necessario. Strana davvero sarebbe una ricchezza che pur se posseduta in abbondanza lascia morire di fame, come il mito tramanda di quel famoso Mida”.

lunedì 22 ottobre 2012

I fantasmi della guerra sporca che non trovano pace


di Mario Bernardi Guardi (Secolo d'Italia)

C’è una canzone di Gabriella Ferri in cui le immagini private, gli affetti, i ricordi personali sembrano dilatarsi a comune condizione umana. Man mano che carezze e graffi di questa indimenticabile voce ti si attaccano al cuore e alle viscere, senti che l’intensa elegia- intitolata, significativamente, “Sempre”- racconta la storia del mondo e che tu ci sei dentro.
Ricordate? «Ognuno ha tanta storia, tante facce nella memoria,/ tanto di tutto tanto di niente,/ le parole di tanta gente,/ tanto buio tanto colore,/ tanta noia tanto amore,/ tante sciocchezze tante passioni, /tanto silenzio tante canzoni…». Gabriella canta, struggente, viva e vera. Riascoltatela. O ascoltatela per la prima volta. Poi, per capire a fondo che cosa ha voluto “trasmettere” l’autore della canzone, Mario Castellacci, fatevelo raccontare da lui, toscano della Versilia “profonda”, “ragazzo di Salò”, autore dello scorretto, strafottente, fascio-inno “Le donne non ci vogliono più bene”. E di un libro di ricordi, “La memoria bruciata” (Mondadori, 1998) dove l’ex repubblichino (negli anni Sessanta tra i fondatori del cabaret “Il Bagaglino” insieme a Luciano Cirri, Pier Francesco Pingitore e un variegato manipolo di giornalisti e gente di spettacolo non conformista) raccoglie volti ed eventi della sua “storia”. “Tanta storia”.
“Ognuno ha tanta storia”è anche il titolo di un libro di Carlo Mazzantini (Marsilio, 2000), romano, ma di origine toscana, anche lui combattente “dalla parte sbagliata”, nonché commosso e complice evocatore di memorie (“A cercar la bella morte”, Mondadori, 1986; “I Balilla andarono a Salò”, Marsilio, 1995).
Ecco, leggendo “La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti” di Giampaolo Pansa (Rizzoli, pp. 446, euro 19,50), ci sono venuti in mente- anzi, balzati negli occhi e nel cuore- i “cari fantasmi” di Gabriella, Mario e Carlo. Perché? Ecco le “emozionanti” ragioni. La prima. Anche Pansa – che negli anni della guerra era un bambino, dunque non poteva fare una scelta, ma vedeva, ascoltava, “sentiva”, e ritrova ancora oggi nei sogni i suoni e le immagini dei devastanti bombardamenti alleati, cui sono dedicate alcune tra le pagine più intense del libro – ha dentro di sé “tanta storia”. Con la dimensione privata dei ricordi, che diventa esemplarmente pubblica, nazionale, italiana, intrecciandosi con le cronache della guerra e della guerra civile che lo scrittore monferrino ha ormai eletto a materia privilegiata delle sue opere. Poi, perché lo scrittore sa bene che la Storia – sì, incoroniamola con la sua bella maiuscola – contiene tutte le storie, quelle grandi e quelle piccole. La storia della “gente”. Dunque, gli odi e gli amori, le passioni e le paure, le viltà e gli eroismi, il sesso e il sangue, i tradimenti e le vendette, che, in questo libro, di capitolo in capitolo, trovano ampio spazio nell’”apprendistato alla vita” di Enrico: un adolescente che, tra il ’40 e il ’45, viene educato, “in diretta”, alla storia e alla vita, dal farmacista Evasio. Che è lo zio che tutti vorrebbero avere perché non è pedante né pesante, e lo aiuta davvero a crescere, facendogli capire la complessità di quello che succede, mostrandogli il fatale intreccio di bene e male nelle umane vicende e seguendo con simpatia- da sperimentato e impenitente “tombeur de femmes”- l’eccitata-impacciata scoperta della “femmina” da parte del ragazzo, fino alla appagante conclusione.
“Ognuno ha tanta storia”, Pansa ha “tanta storia”, dicevamo. E “deve” raccontarla. Giornalista e polemista “militante” (ma senza schiavitù ideologiche), è un testimone che ha raccolto testimonianze. Antifascista - sulla base di fondate “certezze”, ma senza livori e sempre aperto al dibattito - non ha avuto alcun timore reverenziale - resistenziale nel mettere insieme, libro dopo libro, una storia dell’Italia negli anni della guerra civile, per nulla rispettosa della “vulgata”.
Certo, la coraggiosa irriverenza di Pansa nel raccontare che cosa è successo davvero tra il ’43 e il ’45, nello svelare le contraddizioni della Resistenza, nell’ammettere che il fascismo repubblicano non era privo di consenso popolare, nel dire e ribadire che quello che volevano i partigiani comunisti non erano la libertà e la democrazia ma la dittatura rossa, nell’esplorare la costellazione degli orrori prima e dopo la Liberazione: be’, questo impegno morale, intellettuale e professionale, ha precedenti - e Pansa lo ha sempre ricordato - di tutto rispetto: dai libri sulla guerra civile di Giorgio Pisanò a un vasto numero di opere, più o meno note, che evocano e ricostruiscono i “seicento giorni”, insomma le idee, le immagini e gli eventi “della parte sbagliata”. Ma lo fanno, per l’appunto, “dalla parte sbagliata” , con un’eco circoscritta ai “nostalgici” e ai lettori “di destra”.
Pansa ci ha provato, “dalla parte giusta”, forte dunque del suo “pedigree” antifascista, con una serie di “best seller” revisionisti. che hanno mandato in bestia “i gendarmi della memoria” resistenzialmente corretta.
Ma il diritto/ dovere di chi “ha” tanta storia - ed altrettanta ne scopre, attivando un circuito virtuoso di testimonianze: le centinaia di persone che hanno scritto a Pansa in questi anni per aggiungere ulteriori tasselli alle sue documentate ricognizioni - è di raccontare. La storia patria: piccola e grande. La storia della povera patria lacerata e che ancora non trova pace. Tutta la verità, nient’altro che la verità. Che è come dire tutta e nient’altro che l’umanità.

domenica 21 ottobre 2012

FESTA E CONCERTO A CASAGGì!


Sabato 27 ottobre la destra giovanile si ritrova e dà vita a un momento di festa e di musica. SUONI E SOGNI è un evento aperto a tutti, organizzato da Casaggì Firenze per festeggiare il primo anno di permanenza nella sede di via Frusa. Dalle 20 sarà possibile cenare e fare l'aperitivo con piatti caldi, ottime bevute e fiumi di birra. Dalle 21 si suona il rock identitario con gli AURORA e i DECIMA BALDER.
Un evento da non perdere.

SABATO 27 OTTOBRE 2012
DALLE 20 APERICENA E FESTA DELLA BIRRA
DALLE 21 CONCERTO CON AURORA E DECIMA BALDER
A CASAGGì FIRENZE, IN VIA FRUSA 37 - ZONA STADIO

La vera uguaglianza non è il 4 "garantito" del liceo Berchet


di Massimo Fini

Innocente Pessina, preside del liceo classico Berchet, storico istituto milanese, ha proposto di non dare voti inferiori al 4. «Perché i 2 e i 3 sono troppo umilianti e creano frustrazione nei ragazzi. Io credo nell’educare senza punire». Ho fatto il Berchet, in anni ormai lontani, e in greco non ho preso mai più di 3, molto spesso uno e una volta anche un apparentemente sadico uno meno. Non mi sono mai sentito umiliato o frustrato per questi voti. Sapevo benissimo che li meritavo. Non studiavo. L’errore era avvenuto proprio in fase di educazione scolastica, nel giudizio di terza media che recitava: «Ragazzo che potrebbe fare, ma distratto da un’incoercibile passione per i giochi». Non bisognerebbe mai dire queste cose ai ragazzini. Io mi cullavo nel giudizio parzialmente positivo ("ragazzo che potrebbe fare") e col cavolo che mi mettevo alla prova, a studiare, col rischio di dimostrare, a me e agli altri, che non ero un mezzo genio un po’ indolente ma semplicemente uno zuccone. La sveglia suonò a 17 anni, quando morì mio padre e intuii, più che capire, che non potevo continuare a fare il cazzaro. All’università mi laureai a pieni voti. La scuola non deve solo insegnare italiano, latino, greco, matematica, scienze, inglese e tutto il resto ma deve preparare alla vita, che non è una via lastricata ma una serie di prove, con successi e, più spesso, insuccessi, che dipendo- no in larga misura da noi. Certo, esiste anche il Caso. "Penso ai giovani Mozart uccisi" scriveva Saint Exeupery riferendosi ai talenti finiti sotto una carrozza e che non hanno potuto esprimersi. Ma in linea di massima noi siamo ciò che abbiamo voluto essere. E il meccanismo dei premi e delle punizioni è essenziale per farci capire per tempo chi siamo. Non ho avuto mai simpatia per i giovani aspiranti artisti che odiano il mondo perché si sentono incompresi. Sono alluvionato da dattiloscritti o pdf di ragazzi che scrivono romanzi sulla loro vita e sono frustrati perché nessuno li pubblica. Io li prendo a frustate cercando di far capir loro che non è sufficiente aggirarsi attorno al proprio ombelico per credersi Proust, che c’è bisogno di una mediazione artistica, di uno sforzo. È, un modo, nel mio piccolo, per educarli. Alcuni hanno anche qualche talento. Ma il talento, da solo, non basta. Mi ha detto una volta Rudy Nurejef che ne aveva da vendere: «Il talento conta per il dieci per cento, il resto è costanza, fatica, lavoro».
La proposta del preside del Berchet è un’espressione dello «ZeitGeist», dello «spirito del tempo», che ha sancito il diritto a diritti impossibili: alla felicità, alla salute, all’uguaglianza. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto che chiamiamo felicità, non il suo diritto. Esiste quando c’è, la salute, non un suo diritto. E lo stesso vale per le capacità o il talento.
Per tornare in ambito scolastico in Germania i voti molto severi nei licei servono a scoraggiare i ragazzi dall’intraprendere o dal continuare studi per i quali non si dimostrano portati e a indirizzarli a istituti tecnici di alto livello (le "Realschule" di un tempo) i quali sforneranno idraulici, falegnami, panettieri, estetisti, artigiani che mentre frequentano queste scuole non si sentono affatto frustrati né umiliati perché i loro studi, a differenza che in Italia, hanno pari dignità sociale con quelli dei licei. Ed è questa la vera uguaglianza. Non il 4 garantito che ricorda molto da vicino il 30 garantito dello sciagurato Sessantotto.

sabato 20 ottobre 2012

Non in Iran però

di Pietrangelo Buttafuoco

L’Unione Europea censura le tivù satellitari iraniane e perciò, martedì scorso, alle 18,30 ora italiana, ci siamo dovuti attrezzare con internet e gioire delle gesta di Ando, ovvero Andranik Teymourian, di etnia armena, numero 14 della nazionale di calcio persiana. Ha condotto la partita contro la Corea del Sud con grande baldanza e quando è uscito, al secondo tempo, s’è fatto il segno della Croce salutando il pubblico dello stadio Azadi (“liberà”) di Teheran. E’, infatti, cristiano e le telecamere della televisione di stato della Repubblica islamica hanno indugiato su di lui e sui meritati applausi dell’intero stadio ricordando anche il suo passato ruolo di capitano della squadra. Lui è il Del Piero degli iraniani, applaudito anche dai tifosi delle squadre rivali, ed è amato nella sua nazione anche in ragione del suo patriottismo. In un’intervista concessa al canale Ap-Worldstream ha ricordato un caso inaudito di discriminazione religiosa: quando gli venne impedito di andare a messa. Non in Iran però. E non per mano dei pasdaran. Ma in Germania, messo in stato di fermo dalla polizia.

Ps. Martedì ha vinto l’Iran per uno a zero. E poi dice che uno si butta col Grande Gioco.

venerdì 19 ottobre 2012

Governo Monti: arriva la tassa sul sangue degli eroi

di Miro Renzaglia


E alla fine il vampiro Mario Monti c’è arrivato: tasseranno anche il sangue. Ma non di tutti, beninteso: “solo” di quelli che lo hanno versato per la patria. Nella bozza del disegno di legge per la stabilità economica del 2013, in queste ore in discussione in Parlamento, è prevista infatti l’abrogazione delle norme che esentavano dal prelievo fiscale gli aventi diritto al trattamento pensionistico di guerra (ed equiparati).

Se tutte le tasse sono odiose, questa è proprio infame. Quando si arriva a colpire il risarcimento che lo stato riconosce a chi lo ha servito fino a pagarne anche le estreme conseguenze, vuol dire che si è perso il senso del vincolo di solidarietà fra istituzioni e cittadino. Tanto più che da questa vera e propria rapina entreranno all’erario pochi spiccioli. Pochi spiccioli per le casse, ma un salasso pesante per le vittime e/o per i loro familiari.

Oltre al danno annunciato, poi, c’è anche la beffa. Il livello reddituale complessivo sopra il quale scatterà il prelievo – 15.000 euro annui lordi – sa quasi di presa in giro perché, in realtà, saranno ben pochi a poter godere dell’esenzione.

Una scelleratezza che, non bastasse la bestemmia etica, annulla decine di sentenze della Corte Costituzionale che ha sempre ribadito il carattere risarcitorio e non reddituale delle pensioni di guerra e, dunque, la loro non assoggettabilità ad Irpef.

Solo uno stato di barbarie può stravolgere principi di diritto che sono assolutamente acquisiti. Solo chi è insensibile al significato anche simbolico di un risarcimento che la nazione deve a chi le ha donato il sangue poteva giungere a tanto. Ma forse è proprio a questo stato infimo che il governo dei banchieri ci voleva ridurre e infine ci ridurrà.

giovedì 18 ottobre 2012

Serge Latouche riscopre il valore della "frontiera" al tempo del capitalismo apolide

di Leonardo Petrocelli


Chi sconfinava nell’illimitatezza, scriveva Alain Caillé riprendendo un caposaldo del pensiero greco, “doveva essere ostracizzato, escluso dalla città, perché per la città niente è più pericoloso dello scatenamento della hybris”. Ove hybris è parola che indica la smodatezza, la dismisura, l’insaziabile desiderio di essere sempre più di ciò che si è. Quella che nel mondo antico si prefigurava come una anomalia, seppur frequente, punita dagli dei, nella modernità assume i tratti della regola, dell’imperativo categorico da non disattendere mai. Da qui, l’inevitabile rimozione del suo opposto che si potrebbe compendiare in una sola parola, limite, la stessa che dà il titolo all’ultima fatica dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, padre nobile della “decrescita felice”.

“Limite” (Bollati Boringhieri, pp. 113, euro 9) è un agile pamphlet nel quale vengono sciorinati tutti gli ambiti dell’esistenza bisognosi di un confine da ri-tracciare. “In origine – scrive Latouche – il progetto della decrescita si proponeva, più modestamente, di far fronte alla sola dismisura economica, ma oggi si vede progressivamente che questa è il veicolo di tutte le altre”. E, dunque, nel testo, le riflessioni dedicate ai limiti geografici, politici, culturali, economici, morali, conoscitivi, superano largamente quelle legate ai canonici nodi ambientali e finanziari. 

L’operazione è senza dubbio rischiosa perché sfida le istanze del politicamente corretto: non è più un mistero per nessuno che al banchetto della cultura universale (“che non esiste”, sottolinea) si siano seduti contemporaneamente il capitalismo globale e quei salotti del pensiero “senza frontiere” che, muovendo da “un simpatico umanesimo”, ha attivamente contribuito alla costruzione di “un processo di avanzata decomposizione”.

Rifiutando di comprendere che la frontiere non sbarrano ma “filtrano”, rendono possibile l’incontro e lo scambio proprio perché entrambi gli interlocutori portano in dote una specificità e una diversità da porre sul tavolo del dialogo. Il pensiero unico occidentale, in tutte sue facce (quella del liberismo ma anche quella dei diritti), approccia invece l’alterità al solo scopo di soffocarla, soprapponendo le proprie categorie fino a distruggere le precedenti. Un’operazione valoriale che atomizza le coscienze e dissolve le identità sociali finendo per concedere sempre maggiori territori di conquista a quella che Latouche chiama “l’oligarchia plutocratica mondiale”, governo unico di potentati non eletti che riduce gli stati a “prefetti di provincia, onnipotenti nell’applicazione di regolamenti oppressivi ma soggetti ad ordini dall’alto”.

All’individuo solo e inerme, ormai totalmente privo di ogni riferimento, non rimane che affidarsi al potere salvifico della scienza e della tecnologia, le quali, al pari della finanza, rifiutano ogni tipo di regolamentazione e limitazione. La premessa è nella volontà di radere al suolo il già decrepito (per colpa nostra) giardino dell’Eden, “per ricreare il mondo meglio di quanto hanno fatto Dio e la natura”. Naturalmente, la visione di tale capolavoro è di continuo rimandata a data a destinarsi perché, nel frattempo, “il risultato più visibile e tangibile è la trasformazione del mondo reale, quello in cui siamo condannati a vivere, in immondezzaio e discarica”. È, questo, il mero prezzo del progresso o, piuttosto, l’inevitabile punizione per la nostra hybris?

mercoledì 17 ottobre 2012

La crisi delle democrazie ridotte a sistema di potentati ed interessi

di Massimo Fini


Tutte le leadership democratiche dell’Occidente sono, chi più chi meno, in crisi. In genere la si addebita alla attuale mediocrità delle classi dirigenti (di cui l’Italia, da sempre Paese pilota, nel bene e nel male, offre aspetti grotteschi e peraltro istruttivi). Nessuno osa dire che in crisi è la Democrazia in quanto tale, come sistema di potere, al di là dei suoi interpreti. 

Dopo la caduta del mondo feudale la dottrina liberal-democratica nasce dalla testa di alcuni pensatori (Stuart Mill, John Locke, Alexis De Tocqueville) che volevano valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell’individuo singolo, finalmente liberato dalle rigide divisioni di casta (nobili, ecclesiastici, Terzo Stato). Nei fatti, storicamente, la democrazia ha realizzato l’opposto, si è rivelata un sistema di oligarchie, politiche ed economiche, di aristocrazie mascherate, di lobbies che schiacciano l’individuo che non si piega a questi umilianti infeudamenti. 

Questo vulnus, ineliminabile e definitivo, della democrazia era stato già ben individuato dalla cosiddetta "scuola elitista" italiana dei primi del Novecento (bollata, chissà perché "di destra": Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Roberto Michels erano puramente e semplicemente degli studiosi che, come tali, osservavano i fenomeni sociali per quello che sono). Scrive Gaetano Mosca ne "La classe politica": "Cento che agiscano sempre di concerto e d’intesa gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro". 

E con questo si dice addio non solo al mito anglosassone dell’"one man, one vote", ma anche al principio della meritocrazia su cui prevale la fidelizzazione feudale. Si creano così leadership di mediocri che, per non esserne scavalcati, si circonderanno di soggetti ancor più modesti che, diventati a loro volta classe dirigente, seguiranno la stessa condotta, in un processo che non sembra trovare il suo fondo. Non è un caso che le democrazie abbiano dato il meglio di sè quando si sono trasformate, più o meno velatamente, in autocrazie (il Roosvelt del "New Deal", grande ammiratore di Mussolini, Churchill ed Eisenhower nella seconda guerra mondiale). Così come non è un caso che le democrazie non siano in grado di combattere la mafia. 

Essendo un coacervo di mafie devono venire a patti con quelle, diciamo così, ufficiali (solo il fascismo, che non era una democrazia, combattè seriamente la mafia siciliana, perchè un potere forte non ne sopporta altri sul proprio territorio). Peraltro quella della democrazia è una questione di secondo grado. La democrazia è un sistema di regole e di procedure, non un valore in sè. È un sacco vuoto che va riempito di contenuti. In due secoli e mezzo il sacco si è riempito solo di valori quantitativi e materialistici e la democrazia è diventata semplicemente l’involucro legittimante di un modello di sviluppo economico "paranoico" perchè si basa sulle crescite infinite che esistono in matematica, non in natura. 

Dopo una vertiginosa cavalcata, che proprio nella sua velocità aveva il principio della sua fine, questo modello è arrivato inevitabilmente al proprio limite perchè non può più crescere. Io lo vedo come una potentissima automobile che è arrivata davanti a un muro invalicabile. Ma il guidatore, invece di prendere atto della realtà, si ostina a dare di gas. Prima o poi il motore fonde. 

Fuor di metafora crollerà, e di colpo, il mondo del denaro, della finanza, dell’industria, della produzione e del consumo portandosi via anche quel fragile velo che lo ricopre chiamato democrazia. Ad onta di tutte le infantili illusioni (Fukuyama) nemmeno la democrazia, come tutte le costruzioni umane, è destinata a durare in eterno. Già ora a fronte di sistemi di potere che durarono millenni, dà segni di cedimento, dopo soli due secoli di vita.