sabato 31 agosto 2013

23 marzo 1919: la “congiura dei santi pazzi”...


di Giacinto Reale (ereticamente.net)

La nascita del fascismo data al 23 marzo 1919, giorno in cui l’assemblea di un centinaio di lettori del Popolo d’Italia, riunita nei locali concessi (come da prassi normale) dal Circolo degli interessi industriali e commerciali, in piazza San Sepolcro, a Milano, in una “congiura di santi pazzi” delibera la costituzione dei Fasci di combattimento. In effetti, ciò che sicuramente accomuna tutti i presenti, aldilà delle diversità di orientamento e provenienza che esistono fra loro, ciò che crea per tutti un minimo comune denominatore, è soprattutto l’adesione alle tesi ed alla campagna politica del quotidiano mussoliniano.

Il ruolo del Popolo d’Italia in questi mesi è rilevantissimo e molteplice: indica una linea politica, suggerisce obiettivi da raggiungere, coordina sforzi organizzativi, fa da portavoce propagatore di istanze diverse e non sempre coerenti fra di loro. Funge anche da “centro di assistenza” per smobilitati e reduci che in continuazione, e non sempre con discrezione, vengono a battere cassa al “loro” giornale che “deve” aiutarli; dieci lire di sussidio non si negano a nessuno, anche se Arnaldo Mussolini, che è l’amministratore del giornale, borbotta per le conseguenze disastrose di quella prodigalità indiscriminata sulle già lacunose risorse economiche di cui dispone.

E’ proprio il Popolo d’Italia che il 2 marzo ha dato l’annuncio della prossima riunione: “I corrispondenti, collaboratori, lettori, seguaci del Popolo d’Italia, combattenti, ex combattenti, cittadini e rappresentanti dei Fasci della “Nuova Italia” e del resto della Nazione, sono invitati ad intervenire all’adunanza privata, che sarà tenuta a Milano il prossimo 23 marzo. Gli amici che interverranno personalmente o in rappresentanza di gruppi sono pregati di avvertire senza indugio. Si terrà conto anche delle adesioni mandate per lettera. L’adunata sarà importantissima.” La riunione è preceduta dalla costituzione, il 21 del Fascio milanese, e, in pratica, si inserisce tra le molte iniziative che agitano l’ambiente interventista ed antisocialista del capoluogo lombardo e ne fanno un punto di riferimento obbligato per tutta l’Italia.

Mussolini, per esempio, il 20 marzo è stato chiamato a Dalmine, tra gli operai che hanno occupato con il tricolore lo stabilimento Franchi e Gregorini e si sono impegnati nell’originalissimo “sciopero produttivo”, proseguendo, cioè nel lavoro: viene accolto da un operaio che indossa ancora “la completa tenuta da soldato, salvo le stellette”, e loda l’iniziativa con accenti inequivocabili: “Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la Nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici.…Voi insegnate a certi industriali, a quelli specialmente che ignorano tutto ciò che in questi ultimi quattro anni è avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio industriale esoso e vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua industria, da cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la miseria per gli altri creatori della ricchezza… Per i vostri diritti, che sono equi e sacrosanti, sono con voi. Distinguerò sempre la massa che lavora dal Partito che si arroga, non si sa perché, il diritto di volerla rappresentare.”

In previsione della riunione, il Popolo d’Italia pubblica, spesso però con i tagli imposti dall’occhiuta censura governativa, messaggi di simpatizzanti che, impossibilitati ad intervenire di persona, inviano telegrammi di solidarietà, personali ed a nome di varie associazioni, in genere però di scarsa consistenza numerica. Alcune adesioni sono “politiche”, provengono cioè da elementi già interessati da precedenti esperienze di politica attiva, ma molte sono quelle di uomini e gruppi fino allora estranei alla politica vera e propria, come alcuni Ufficiali e soldati del 14^ Reggimento fanteria, che scrivono da Foggia: “Impossibilitati presenziare all’adunata, mandiamo la nostra adesione. Abbiamo fatto l’Italia, ne vogliamo ora le redini.” Simile il contributo di tale Leone Lombardi, di Montevarchi: “…Sono un umile fante volontario di guerra. Ho creduto sempre e credo anche adesso che i grigioverde debbano imporsi ai rossi e ai neri. Siamo la parte migliore del Paese perché abbiamo adempiuto a doveri grandissimi; così ci si devono riconoscere diritti corrispondenti. Spero che l’adunata del 23 alla quale aderisco sia la prima squilla in tal senso.”

Il giornale mussoliniano, dal canto suo, alimenta con indubbia efficacia l’aspettativa per l’avvenimento: parla di nascita dell’ “antipartito” che si contrapporrà contemporaneamente a due pericoli “quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra”, chiama a raccolta tutti i protagonisti delle battaglie interventiste, per la formazione di un blocco unico che si contrapponga al nemico interno ed eviti il sabotaggio della pace, che può venire da due parti, dall’imbecillità governativa come dall’incoscienza tesserata.

Contro tutto questo nascono i Fasci di combattimento, nella sintesi mussoliniana: “Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti ed illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo di ambiente nelle quali siamo costretti a vivere ed agire.” Alla fine, le adesioni saranno 430: 400 quelle individuali e 30 le collettive; in effetti, la domenica mattina, nei locali al primo piano del numero 9 di piazza San Sepolcro, i presenti sono circa un centinaio. E diciamo circa, perchè sul numero esatto le informazioni sono assai discordi: l’elenco fornito dal Chiurco è di 112 nominativi; ma, contro la sua completezza sta, per esempio, la testimonianza di Ernesto Daquanno che pure è presente (e ci sarà fino a Dongo) e non sarà incluso nell’elenco: “Mentre gli oratori parlano, il Tenente degli Arditi Renato Barabandi ha circolato tra gli intervenuti raccogliendone nomi e attributi….Mi chiede cosa rappresento “Non rappresento nessuno” – dico – “Allora non ti ci metto” – fa lui – “E tu non mi ci mettere” – replico alzando le spalle – Così il mio nome non passa nel resoconto pubblicato all’indomani sul Popolo d’Italia ….Ma io c’ero, ah se c’ero” Cesare Rossi conferma il dato dell’approssimatività, e si attribuisce la responsabilità dell’arbitraria inclusione nell’elenco del Senatore Luigi Mangiagalli, illustre ostetrico di provenienza democratico-radicale; in effetti, costui, che non si sognerà mai di smentire la sua partecipazione, è assente, e solo la somiglianza con uno sconosciuto affacciatosi per caso alla sala durante la riunione ne farà un “sansepolcrista”.

Si deve pensare, quindi, che l’elenco dei presenti, da passare al giornale il giorno dopo, sia stato compilato in maniera un po’ superficiale, come spesso accade in queste occasioni; da una scorsa a tali nomi si nota subito come manchino nell’elenco la gran parte di quelli che poi saranno, nel periodo successivo, i maggiori esponenti del movimento e vi siano, viceversa, alcuni che nel quadriennio successivo si staccheranno dal fascismo per dissapori ideologici, motivi personali o per varie altre cause di incompatibilità. Molti infine sono e saranno degli sconosciuti che, nei mesi a venire, passato l’entusiasmo del primissimo dopoguerra, si defileranno, sottratti all’impegno politico dai mille problemi della sopravvivenza quotidiana.

Se si guarda alla composizione sociale ed alla provenienza ideologica dei sansepolcristi, ritroviamo le categorie e i gruppi già visti: futuristi, Arditi, sindacalisti rivoluzionari, interventisti, trinceristi e combattenti. Della riunione sappiamo quasi tutto, dal resoconto che ne fa il giorno dopo il Popolo d’Italia e dal racconto che ne faranno, negli anni successivi, i maggiori protagonisti.

Tutto si svolge tranquillamente, nonostante alcune larvate minacce socialiste, che giustificano la presenza di alcuni gruppi di Arditi, guidati da Edmondo Mazzuccato, di guardia sullo scalone ed ai lati dell’ingresso del palazzo: sono gli stessi Arditi che qualche settimana prima, nel dare notizia alla stampa della costituzione della Sezione milanese della loro Associazione hanno fatto seguire al nome il proprio indirizzo di casa (spesso situata in quartieri popolari “a rischio”), in segno di sfida agli avversari. Presiede Ferruccio Vecchi (che alla riunione dedicherà anche la scultura sopra riprodotta), a riprova della preminenza “morale”, se non numerica degli Arditi, e vi sono vari interventi: Marinetti, Vecchi, Carli, Michele Bianchi e molti altri; l’intervento più importante, come ovvio, è quello di Mussolini, che propone una dichiarazione in tre punti, approvata dall’assemblea.

Al primo punto c’è il saluto ai caduti, ai combattenti, ai mutilati e la riaffermazione della disponibilità a sostenere le rivendicazioni dei reduci; al secondo è inserita un’allocuzione contro ogni imperialismo, per la Società delle Nazioni e per le rivendicazioni italiane su Fiume e la Dalmazia; al terzo punto si impegna il neonato movimento a sabotare le candidature neutraliste in tutti i Partiti alle elezioni. Dopo un aggiornamento dei lavori per il pranzo, la riunione continua al pomeriggio, a ranghi più ristretti; se la sono squagliata “gli uomini d’ordine, i borghesi, i posapiano, i galantuomini per definizione e i patriottardi per partito preso”. Mussolini interviene di nuovo e ribadisce i concetti già espressi a Dalmine, per il sindacalismo nazionale e contro l’ingerenza dello Stato in economia; poi si spinge più oltre, e si pronuncia per l’abolizione del Senato, per il suffragio universale esteso anche alle donne e, soprattutto, per la scelta repubblicana e democratica: “Dalle nuove elezioni uscirà un’Assemblea nazionale alla quale noi chiederemo che decida sulla forma di governo dello Stato italiano. Essa dirà: repubblica o monarchia, e noi che siamo stati sempre tendenzialmente repubblicani, diciamo fin da questo momento: repubblica !....Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell’intelligenza.”

Il generale consenso dell’assemblea, trascinata anche dalle grandi capacità oratorie del direttore del Popolo d’Italia, accompagna queste parole e sancisce la fine della riunione, al termine della quale viene anche nominato un Comitato centrale, di cui però si ignora la composizione esatta, anche se certamente ne dovevano fare parte Mussolini, Vecchi, Marinetti, e Bianchi. L’impegno più importante è, come logico, quello per lo sviluppo del movimento ed il proselitismo: il Popolo d’Italia scrive il giorno 24, nel dare il resoconto della riunione: “Ogni amico e lettore nostro deve farsi iniziatore del Fascio. Non importa di essere in molti. Oserei dire che è preferibile, se non necessario, essere in pochi. Cinque, dieci individui bastano per costituire un Fascio: ora che la strada è segnata, si tratta di camminare audacemente innanzi. Fra due mesi, un migliaio di Fasci saranno sorti in tutta Italia.”

E, in effetti, vengono ben presto costituiti i primi Fasci: Torino, Verona, Bergamo, Treviso, Padova, l’appello mussoliniano trova adesioni e simpatie; proprio sul tema dell’organizzazione dei Fasci tornerà, perciò, il giornale qualche giorno dopo: “Non c’è bisogno di ripetere che la loro vita interna è assolutamente autonoma. Statuti, regolamenti, etc…Tutto ciò è roba di Partiti. Ogni Fascio munirà i suoi soci di una tessera per il riconoscimento personale e farà un regolamento con un solo articolo: il socio che manca tre volte consecutive all’adunata è automaticamente dimesso.”

Come si vede, il fascismo tende da subito differenziarsi dalle organizzazioni esistenti: ha intuito, forse più che consapevolmente individuato, nella mastodonticità del Partito socialista uno dei motivi della sua burocratizzazione e della sua stessa impotenza; tende, di conseguenza, a darsi un’organizzazione forse un pò elitaria, ma solida, di gente seriamente e costantemente impegnata, pena il dimissionamento automatico. Quella di preferire la qualità alla quantità è una scelta programmatica, ma è spesso anche un’opzione necessaria; ancora nel gennaio del ’20, a Pasella che gli rinnova le consuete raccomandazioni, lo studente pisano Paolo Isola, iniziatore del Fascio nella sua città, risponde con un po’ di malinconia: “date le condizioni di ambiente, sarà purtroppo necessario curare più la qualità della quantità”.

Per ora, comunque, le cose procedono bene: Fasci destinati a diventare molto importanti nascono a Bologna, Napoli, Brescia, Cremona e Firenze; ciò, nonostante che la riunione del 23 marzo sia stata praticamente ignorata da tutta la stampa liberale e democratica; gli unici ad accorgersi di quella che forse voleva essere una “dichiarazione di guerra” al vecchio mondo, sono i nazionalisti dell’ Idea Nazionale, diretta da Luigi Federzoni. Il 25 su questo giornale viene infatti pubblicato un articolo di Orazio Pedrazzi riferito alla riunione; il tono generale è comunque di critica per le caratteristiche “di sinistra” del nuovo movimento, che non possono essere evidentemente condivise dai conservatori nazionalisti.

Si può quindi dire che la riunione di piazza San Sepolcro si colloca tra due avvenimenti di ben maggiore rilevanza, sia per le immediate conseguenze politiche e organizzative che determinano, sia per la risonanza che hanno sulla stampa e nel Paese. Del primo di tali avvenimenti, la contestazione a Bissolati, si è già detto, il secondo è la distruzione dell’Avanti, il giornale “sovversivissimo”, il 15 aprile a Milano.

venerdì 30 agosto 2013

Politica. L’abolizione dell’Imu e l’istituzione della Taser: metamorfosi dello Stato esattore


di Giacomo Petrella (Barbadillo)

Dall’ultimo Consiglio dei Ministri escono buone notizie per il governo, per i partiti che lo compongono e per i media mainstream; non per il contribuente italiano. La fine dell’IMU, definitivamente abolita, è infatti un bel colpo propagandistico in vista della campagna elettorale europea o nazionale che i partiti del governissimo dovranno sostenere da qui alla prossima primavera, ma agli occhi dei più attenti si rivela quale ennesima prova di una classe dirigente miope e gabelliera.

La tassa di servizio che andrà ad integrare dal 2014 la già non modesta tassa sui rifiuti, che pare avrà l’acronimo di Taser, rappresenta infatti il classico colpo di mano dell’esattore senza prospettive: la nuova tassa spalmerà la vecchia ICI-IMU sull’unico mercato abbordabile dalle giovani generazioni, precarie e sottosalariate: appunto quello degli affitti.

Questo è il tipico comportamento dello Stato-esattore, il cui unico fine si riduce alla tassazione dei vari segmenti di mercato di volta in volta naturalmente più accessibili. Così se Pd e Pdl si garantiscono un buon numero di genitori e nonni pronti a tornare alle urne, questi ultimi saranno costretti a girare il risparmio dell’Imu nei conti ipertassati di figli e nipoti.

giovedì 29 agosto 2013

Alla politica serve l'anima. O fallirà

di Marcello Veneziani


La visione spirituale della vita è stata a lungo alla base di idee e azione. Oggi ce ne siamo dimenticati

Se uno dice oggi spiritualismo politico, la gente non capisce, qualcuno si mette a ridere. Spiritualismo è diventata già da sé una parola incomprensibile, tra lo spiritico e il conventuale. A parte il riferimento alla spiritualità in ambito religioso o new age, l'unica accezione corrente e comprensibile a tutti resta un genere musicale che evoca lo schiavismo, lo spiritual. Per il resto, sostituito il cristiano Spirito Santo con l'hegeliano Spirito del Tempo, si è via via capovolto in tempo senza spirito. Al più lo spirito è materia per la psicanalisi. Parole che indicavano contenuti, visioni, stati d'animo diventano vuote, insignificanti, perfino grottesche, come se un'ottusità di ritorno avesse chiuso spazi di pensiero, porte d'anima e campi di valori. Ma spirituale diventa ancor più inverosimile e alieno se correlato alla politica. Che vuol dire spiritualismo politico? Vuol dire farsi guidare nelle scelte e nei comportamenti da una visione spirituale della vita. E opporsi a una concezione materialistica, utilitaristica, opportunistica della politica. In pratica a un arco pressoché onnicomprensivo della politica contemporanea, dalla sinistra di derivazione radicale e marxista allo scientismo e al liberismo, dal razzismo - che è materialismo biologico, anzi zoologico - al dominio planetario della tecnica e della finanza.

Ho ripensato allo spiritualismo politico leggendo un libro di Primo Siena, Incontri nella terra di mezzo. Profili del pensiero differente (Solfanelli, pagg. 215, euro 15). Siena è stato un intellettuale militante nella destra spiritualista del dopoguerra, dopo una giovanile esperienza nella Repubblica sociale. Lasciò l'Italia per andare a insegnare all'estero e da alcuni decenni vive in Sudamerica, a Santiago del Cile. La sua lunga lontananza dall'Italia ha salvaguardato (o ibernato, secondo i punti di vista) la sua concezione etica e spirituale fermandola agli anni della sua giovinezza. In questo libro, come in altri da lui scritti, Siena compone un breve atlante dello spiritualismo politico passando per Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Julius Evola, Marino Gentile, Guido Manacorda, Attilio Mordini, Silvano Panunzio, Michele Federico Sciacca, Ferdinando Tirinnanzi, Emilio Bodrero, Vintila Horia, Russel Kirk, Romano Guardini, Charles Maurras, Carlo Alberto Disandro. Oltre questi autori, a cui dedica ampi profili, Siena richiama tra le sue pagine altri pensatori e scrittori come Armando Carlini, Padre Agostino Gemelli, Padre Raimondo Spiazzi, Carmelo Ottaviano, Domenico Giuliotti, Augusto del Noce, Umberto Padovani, Massimo Scaligero, Camillo Pellizzi, Vittorio Vettori, Antonino Pagliaro, Adolfo Oxilia e altri. E cita nell'ambito dello spiritualismo politico alcuni sodali di gioventù, da Giano Accame a Mario Marcolla, da Fausto Gianfranceschi a Roberto Melchionda, da Enzo Erra a Piero Buscaroli, da Pino Rauti a Franco Petronio, da Fausto Belfiori a Silvio Vitale, da Gino Agnese a Piero Vassallo, e altri ancora.

Il tratto comune di questo panorama in apparenza eterogeneo è appunto il primato della visione spirituale, non solo d'ispirazione cattolica. I riferimenti storici e ideali della visione politica di Siena, che negli anni cinquanta fondò e diresse la rivista Cantiere e poi curò con Gaetano Rasi la rivista Carattere, sono situati tra Josè Antonio Primo de Rivera e Corneliu Zelea Codreanu. Capi perdenti di uno spiritualismo eroico, morti sul campo per le loro idee. Non mancano i riferimenti politici al Msi, ma dei suoi leader politici Siena ne accenna solo di sfuggita, riservando solo a Nino Tripodi e Beppe Niccolai giudizi positivi. Questa corrente di pensiero, che solo in parte può definirsi come «cultura di destra», in realtà attraversa l'esperienza politica della destra neofascista ma non vi si identifica. E gli autori prima richiamati non possono certo ridursi a quel contesto politico o partitico. Ora, la corrente militante dello spiritualismo politico finisce, come è inevitabile, con la fine della loro esperienza storica. Ma le opere disseminate lungo il Novecento da autori e pensatori spiritualisti sono state rimosse e cancellate, come se non fossero mai esistite. Eppure costituiscono un tratto saliente della cultura italiana del secolo scorso. Lo spiritualismo, anzi, ha permeato il pensiero italiano assai più che il materialismo storico e il radicalismo, ma anche più dell'utilitarismo e del pragmatismo, del liberalismo e degli altri filoni di pensiero scientifici e strutturalisti, analitici ed esistenzialisti. E non solo: per un secolo almeno la scuola pubblica e l'università sono state permeate dall'umanesimo spiritualista. Missione dei docenti era educare i ragazzi a una concezione spiritualista ben riassunta nel dantesco «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Non mancava l'abuso retorico e «nozionista» dello spiritualismo in versione scolastica che lo riduceva a manierismo e astrazione.

Siena definisce il filone spiritualista come pensiero differente o pensiero forte, in opposizione al predominante pensiero debole, conformista e nichilista. Lo spiritualismo politico è per lui permeato da un realismo metafisico e cristiano. La domanda che resta dopo la lettura del libro di Siena è se questo così ampio spiritualismo sia solo un reperto del passato, una traccia storica, affettiva e culturale di un pensiero ormai tramontato, legato ad un tempo ormai improponibile ed esaurito nella gran fiammata del novecento. O se invece non sia da consegnare a una passione antiquaria e nostalgica, ma possa essere ripensato oggi e riproposto domani, con nuovi percorsi e nuove linee di pensiero, nuovi autori e nuovi linguaggi. E la domanda si complica se si vuol dare una connotazione o una ricaduta politica a questa linea di pensiero che appare così inagibile prima che inattuale. Il dubbio finale è se si possa parlare oggi di spiritualismo, di visione spirituale della vita. Io credo di sì nonostante tutto, e il naufragio dei pensieri «corretti» e dei canoni ideologici che lo affossarono ne è ulteriore conferma. Anzi, si può arrivare a dire che una visione della vita o ha una sua matrice spirituale o visione non è. Ma l'impresa va tentata; nella peggiore delle ipotesi gioverà almeno allo spirito di chi la tenta, nella migliore lascerà qualche traccia in altre anime e produrrà qualche effetto nel pensiero e nella vita di una civiltà. E, comunque, se l'impresa è ardua e temeraria, è una ragione in più per tentarla. Il risveglio dello spirito nell'epoca degli automi.

mercoledì 28 agosto 2013

Francia, le nozze gay non “tirano” più. Era solo propaganda elettorale?



Cinquecentonovantasei: è il numero delle coppie gay che hanno deciso di sposarsi in Francia dopo la legge che ha lacerato il Paese e la classe politica per mesi. E’ l’1% del totale dei matrimoni celebrati e il 5% dei Pacs che furono pronunciati nei primi 30 giorni dall’approvazione della legge sulle unioni civili nel 1999. Un mezzo flop.

Quanto basta per far entrare la Francia nel consesso delle nazioni – una quindicina – che hanno aperto ai matrimoni fra persone dello stesso sesso. Di certo, la spettacolarizzazione dei primi giorni è lontana, adesso i gay di Francia si sposano in assoluta normalità e pretendono la discrezione e la privacy che sono diritto di tutte le coppie. Sono le 50 maggiori città francesi, quelle che ospitano il 10% della popolazione – a essere state teatro dei matrimoni gay di questi primi tre mesi dopo l’approvazione della legge, in maggio.

Le prime nozze gay, trasmesse in diretta tv e meta di migliaia di inviati arrivati da tutto il mondo, furono celebrate a fine maggio a Montpellier, nel sud, ma a fare la parte del leone è stata ovviamente Parigi, con 241 matrimoni. Seguono Nizza con 37 – dove il sindaco di destra Christian Estrosi non si rallegra per il secondo posto ma fa buon viso a cattivo gioco – Tolosa (28) e Lione (23). Quando furono approvati i Pacs, 14 anni fa, ci fu nel primo mese un’esplosione di oltre 1.000 celebrazioni per quelle che furono definite “unioni gay” anche se potevano ovviamente riguardare anche eterosessuali. Alla fine dell’anno se ne contarono quasi 10.000. In Spagna, nel primo anno di legge furono 4.500 i matrimoni fra omosessuali.

In Francia, invece, nel paese dove più aspra è stata la battaglia per l’approvazione della legge, non si prevede afflusso di richieste neppure per il rientro dalle vacanze. Notizie non confermate parlano di un migliaio di domande di nozze gay presentate in vari municipi francesi e in attesa del vaglio delle autorità. Potrebbero essere celebrate entro la fine dell’anno. Secondo alcune associazioni, molti omosessuali aspettano l’anno prossimo per fare il grande passo del matrimonio, temendo ancora di poter subire la mediatizzazione delle prime nozze gay.

Magari semplicemente a causa di un sindaco che rifiuta di celebrare il matrimonio, come avvenuto ancora la settimana scorsa nel sud del Paese dove una coppia di donne si è vista chiudere in faccia la porta del municipio. Motivo: “obiezione di coscienza” da parte del sindaco, una donna della Ligue du Sud, ex Fronte nazionale.

martedì 27 agosto 2013

Damasco: «Accuse insensate, se gli Usa invadono la Siria sarà un nuovo Vietnam»



di Antonio Panullo


I leader dei Paesi occidentali non si avventureranno in una lunga operazione militare in Siria perché tutti «capiscono che gli sviluppi nel Paese non sono una rivoluzione popolare o una domanda di riforme. Questo è terrorismo»: lo sostiene il presidente siriano Assad in una intervista al quotidiano russoIzvestia. Assad ha definito «insensate» le accuse occidentali su un attacco chimico effettuato dal suo regime e ha avvertito gli Stati Uniti che i loro progetti di un intervento militare in Siria sarebbero destinati al fallimento. 

Se gli Usa decidono di «attaccare la Siria o intromettersi ulteriormente nel Paese – sostiene Assad – falliranno come in tutte le precedenti guerre che hanno scatenato, dal Vietnam ad oggi. L’America ha preso parte a molte guerre ma non ha mai raggiunto i suoi obiettivi politici per i quali aveva scatenato quelle guerre», prosegue il leader siriano. «Ha fallito nel convincere il suo popolo multietnico della giustezza di quelle guerre, come pure ha fallito nell’instillare la sua ideologia negli altri Paesi», aggiunge. Assad rileva inoltre che in Siria la situazione è diversa da quella di Egitto e Siria, dove «lo stesso scenario delle rivoluzioni arabe ha cessato di essere convincente. 

Essi possono cominciare qualsiasi guerra, ma non sanno quanto durerà e quanto si estenderà», conclude rivolgendosi di nuovo agli Usa. Il presidente siriano ha dichiarato che «sin dall’inizio della crisi, Usa, Francia e Gran Bretagna hanno tentato di fare un’invasione militare ma sfortunatamente per loro le cose hanno preso una piega diversa. Hanno tentato – dice – di convincere Russia e Cina a cambiare le loro posizioni al consiglio di sicurezza Onu ma non ci sono riusciti. Hanno fallito nel convincere i loro popoli e il mondo intero che la loro politica in Medio oriente è intelligente e utile».

Il regime siriano ha accusato bande terroriste di aver aperto il fuoco contro il convoglio di auto degli ispettori Onu diretti a sud di Damasco per indagare sull’uso di armi chimiche contro civili il 21 agosto scorso. Lo riferisce la tv di Stato siriana. In precedenza attivisti avevano riferito che a sparare erano stati i lealisti. I cecchini che hanno aperto il fuoco contro il convoglio di auto degli ispettori Onu incaricati di indagare sul presunto uso di armi chimiche in Siria non sono stati identificati. 

Lo ha detto un portavoce dell’Onu. «Il primo veicolo del team di indagini sulle armi chimiche è stato colpito deliberatamente varie volte da cecchini non identificati nell’area della zona cuscinetto. L’auto – ha aggiunto – non è più utilizzabile. Infine, In una telefonata di Sergej Lavrov al suo omologo Usa John Kerry, il capo della diplomazia russa ha sottolineato che le «dichiarazioni ufficiali fatte negli ultimi giorni da Washington sul fatto che le truppe americane sono pronte ad intervenire nel conflitto siriano sono viste con profonda preoccupazione da Mosca. 

Si ha l’impressione che certi circoli, inclusi quelli sempre più attivi nei loro appelli per un intervento militare scavalcando l’Onu, stiano francamente tentando di spazzar via gli sforzi comuni russo-americani degli ultimi mesi per convocare una conferenza internazionale per una risoluzione pacifica della crisi», si legge in un comunicato del ministero degli Esteri russo. Domenica il presidente Valdimir Putin ha ricordato agli Usa l’Iraq, quando una guerra fu scatenata sostenendo che Baghdad aveva armi chimiche, che invece non aveva.

lunedì 26 agosto 2013

Ungheria: il nazionalismo come antidoto...



di Andrea Perrone - Il Ribelle

Patria, difesa della cultura nazionale e della tradizione magiara dall’unilateralismo di stampo americano e dall’usura internazionale. Sono in sintesi i pilastri sui quali si fonda l’intervento tenuto il 26 luglio scorso in Romania dal premier ungherese Viktor Orban al cospetto dei suoi connazionali, nel corso della 24esima Balvanyos Hungarian Summer University a Baile Tusnad (Tusnádfürdő). 

Dinanzi a un folto gruppo di giovani connazionali il capo del governo magiaro non ha temuto di esaltare i valori supremi della nazione contro quelli del danaro e del mondo unipolare che punta a distruggere le differenze di natura culturale, etnica, politica e linguistica.

Lo stesso premier ha ricordato che questo dominio unipolare era rappresentato fino alla Prima guerra mondiale dalla Gran Bretagna per poi incardinarsi, dopo l’epilogo di quel conflitto, sugli Stati Uniti.
Un dominio raggiunto attraverso un passaggio di consegne che ha portato gli Usa a trasformarsi, con il loro ingresso in guerra contro la Germania guglielmina, il 6 aprile 1917, da debitore dell’Europa a creditore della stessa. Una strategia ben precisa, quella di Washington, nel decidere per l’intervento bellico nonostante la gran parte dell’opinione pubblica fosse assolutamente contraria. 

Fu il presidente americano dell’epoca, Thomas Woodrow Wilson, coadiuvato da banchieri e società connesse come la J.P. Morgan & Co. a favorire l’entrata in campo statunitense a fianco degli Alleati per combattere l’Intesa, e soprattutto quella Germania imperiale di Guglielmo II che insidiava l’egemonia inglese e americana sul mare e sul suolo del Vecchio Continente. Gli attacchi tedeschi contro gli Usa ebbero il loro primo episodio di grandissima risonanza con l’affondamento, il 7 maggio 1915, della nave passeggeri Lusitania, di produzione statunitense, che nascondeva nella stiva armi e munizioni inviate in gran segreto al Regno Unito, come era già avvenuto in precedenza con altre imbarcazioni e scafi provenienti dagli Usa. Per tutta risposta Berlino diede ordine ai suoi U-boot per tutto il conflitto di eliminare qualsiasi nave che raggiungesse la Manica in direzione della Gran Bretagna proveniente dal mondo americano. 

Negli anni Trenta la Commissione statunitense guidata dal senatore repubblicano del Nord Dakota, Gerald Nye, venne incaricata di ricostruire gli avvenimenti che portarono all’entrata in guerra degli Usa, ed evidenziò il ruolo dei fabbricanti di esplosivi e dei banchieri che erano esposti nei confronti della Gran Bretagna per 2,5 miliardi di dollari.

Ma torniamo alla realtà contemporanea, riprendendo a narrare l’interessante e coraggioso discorso del premier magiaro diretto a condannare lo sfruttamento dei popoli e la distruzione della loro sovranità nazionale, economica e alimentare. L’attuale unipolarismo di marca statunitense – ha proseguito infatti il primo ministro di Budapest – mira a stravolgere ogni aspetto dell’umana realtà favorendo la diffusione di Organismi geneticamente modificati (Ogm) attraverso le multinazionali come la Monsanto. Per questo la battaglia del governo ungherese contro gli Ogm e il divieto assoluto che vengano importati è una lotta legittima contro i danni provocati alla salute dei compatrioti da parte di tecnocrati e multinazionali d’Oltreoceano senza scrupoli. 

Ma Orban non si è fermato qui e nel suo intervento ha condannato il piano del mondo unipolare tutto proteso a distruggere non solo le nazioni e le rispettive Costituzioni, ma il principio stesso che anima la famiglia, che rappresenta nel contesto nazionale la componente essenziale e imprescindibile senza la quale non potrebbe esistere l’idea stessa di patria, la continuità della stirpe e quindi la tradizione magiara. Il progetto di sudditanza delle nazioni viene imposto dall’unipolarismo di stampo americano, dai Signori del danaro, dalle lobby della finanza internazionale, dai tecnocrati e da tutti quei poteri forti nemici della sovranità nazionale, avvalendosi di strategie e tecnologie che mirano a modificare radicalmente le leggi della natura e della stessa società in nome di un presunto “progresso” che rappresenta invece un’involuzione completa dell’essere umano e della realtà fenomenica, di cui la natura è una componente imprescindibile. 

L’azione dell’usura internazionale allo stesso tempo si estrinseca creando ulteriori debiti attraverso prestiti particolarmente onerosi, che finiscono per convogliare le nazioni in un circolo vizioso da cui non escono se non con un’economia devastata dalla recessione e da una povertà endemica diffusa in quasi tutte le classi sociali. 

Parlando delle comunità ungheresi, il primo ministro ha detto che «allo stato attuale delle cose» la coesione tra loro «non può essere promossa su base territoriale, ma attraverso i legami di cittadinanza». In sostanza, attraverso il principio della nazione e di una comunità di destino di cui tutti gli appartenenti a una tradizione nazionale si sentono parte. Ma Orban ha avuto il coraggio di condannare anche gli attacchi dei banksters nazionali ed internazionali: dalla Banca centrale magiara – in passato diretta da un avversario dello stesso premier – e dalle banche straniere coadiuvate dai tecnocrati europei e dagli addetti del Fondo monetario internazionale, insieme ai colossi delle telecomunicazioni, che sperano di sottomettere l’Ungheria ai voleri delle lobby economico-finanziarie per lucrare su giovani e famiglie, portando il Paese al crack. Il primo ministro ha voluto ricordare di aver incaricato il ministro dell'Economia nazionale di ripagare il prestito negoziato dall’Ungheria nel 2008 con il Fmi, la potentissima istituzione mondialista con sede a Washington, entro la metà di agosto. In più, ha sottolineato che i fondi necessari sono disponibili poiché i magiari hanno lavorato duramente per accumulare quel danaro nel corso degli ultimi tre anni. 

Per quanto riguarda il blocco dei Ventotto, Orban ha puntato il dito contro le istituzioni guidate dagli eurocrati, per come rispondono alle sfide che riguardano la comunità degli Stati europei, esprimendo la convinzione che le risposte a questi problemi debbano essere concepite prima di tutto e assolutamente nel proprio ambito nazionale, per poi tradursi in accordi a livello generale. 

Un modo cortese e indiretto per esprimere la sua contrarietà a qualsiasi soluzione all’interno dell’Ue imposta dai tecnocrati europei, priva di una visione che sia rispettosa delle tradizioni dei singoli Stati membri e delle Costituzioni come quella magiara, più volte attaccata dai Soloni europei per la sua impostazione legata alla difesa del principio della nazione e della famiglia. Una visione in netto contrasto con le scelte dei tecnocrati Ue che si stanno adoperando per creare un Superstato europeo, totalmente prono agli interessi dei Signori del danaro e dell’unilateralismo dei gendarmi d’Oltreoceano.

domenica 25 agosto 2013

La Scienza ci farà sapere la data della nostra fine. E moriremo d'angoscia


di Massimo Fini

Dai e ridai ci sono finalmente arrivati. L'ambizione della scienza moderna e della medicina tecnologica è di farci sapere, con largo anticipo, la data della nostra morte. Adesso, a quanto pare, ci siamo. Gli autorevoli scienziati dell'Università di Lancaster hanno messo a punto uno studio sulle cellule endoteliali, "il serbatoio di tutte le potenziali cellule staminali" come scrive Edoardo Boncinelli sul Corriere della Sera. Da questo esame si può misurare, con buona approssimazione, la loro durata e quindi la durata della nostra vita. Per ora la cosa riguarda il ristretto cerchio degli adepti che ci stanno lavorando, ma nel giro di due o tre anni, assicurano gli scienziati di Lancaster, il metodo sarà perfezionato, riproducibile su larga scala e a dispozione di tutti.

Ma che bella festa. Noi uomini, fra gli animali del Creato, siamo i soli ad avere lucida consapevolezza della nostra fine, ma Madre Natura, pietosamente, ha fatto in modo che non si sappia quando arriverà. In 'De senectute' Cicerone dice, una volta tanto giustamente, che "non c'è uomo, per quanto vecchio e malandato che non pensi di poter vivere almeno ancora un anno". Toglierci queste illusioni è devastante (la pena di morte, sia detto per incidens, è inaccettabile non perché si uccide un uomo - durante le guerre, le insurrezioni, le rivoluzioni se ne fanno fuori a decine, a centinaia di migliaia, a volte a milioni - ma perché è una tortura dato che il condannato è l'unico a sapere l'ora precisa della sua morte). Se si dicesse a un ragazzo di trent'anni che morirà ad ottanta, costui vivrebbe cinquant'anni di angoscia, un'angoscia crescente e insopportabile man mano che si avvicina la data fatidica.

Una volta a 'Sottovoce' Gigi Marzullo mi chiese: "Se sapesse di avere ancora poche ore di vita come le impiegherebbe?" "Mi sparerei" risposi. E al cosiddetto 'Questionario di Proust' che viene sottoposto a intellettuali, a scrittori, ad artisti, a personaggi di vario genere, alla domanda "Di che morte preferirebbe morire?" risposi: "Violenta". Perché la morte violenta è affidata al Caso, sfugge alle certezze di quella biologica e frega i sinistri vaticinii degli scienziati della morte. Ha detto l'entusiasta Boncinelli a Fahrenheit, la bella trasmissione di Radio 3: "Sapere la data della nostra morte ci consentirebbe di assaporare ogni giorno che manca a quel fatidico appuntamento". Se fossimo tantino saggi noi dovremmo vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo, ma senza sapere che lo è. Dice Friedrich Nietzsche: "Amleto, chi lo capisce? Non è il dubbio ma la certezza che uccide".

I Greci, che avevano una concezione tragica dell'esistenza, pensavano che al Fato non si può sfuggire. Molti loro Miti sono centrati su questa fatalità (da Fato, appunto). Ma non si sono mai sognati di credere che fosse individuabile l'ora in cui la mannaia sarebbe caduta. I Latini, che erano un po' più solari, lasciano ampi margini di incertezza ai vaticinii dei loro àuguri. "Ibis redibis non morieris in bello" profetizza la Sibilla Cumana ad un soldato che le era andato a chiedere se sarebbe tornato vivo dalla guerra. Tutto dipende da dove si mette la virgola, se dopo 'redibis' o prima. In un caso la frase suona: "Andrai ritornerai, non morirai in guerra". Nell'altro: "Andrai, non ritornerai ('redibis non') morirai in guerra".

La scienza moderna invece rifiuta le incertezze, il dubbio, il Caso. I profeti di sventura di oggi, gli scienziati, non si limitano a dirci che moriremo - questo lo sappiamo tutti, anche troppo bene, non abbiamo bisogno di loro - ma pretendono anche di fissare il quando. A costoro auguro di sperimentare innanzitutto su di sé il loro metodo demenziale. E di morire, di paura, molto prima della data, scientificamente accertata, dei propri mostruosi vaticini.

sabato 24 agosto 2013

Ettore Muti: 24/08/1943 - 24/08/2013





Ci sono uomini che vivono la loro vita, seppur breve, a pieno senza risparmiarsi, senza indugi o tentennamenti.

Ettore Muti incarnava l’autentico spirito italiano; pragmatico, genuino, spavaldo, irriverente, lontano dall’ ozio e dalla vita borghese. Le sue medaglie sono frutto delle sue azioni in tutti i teatri di guerra: a 15 anni ardito, poi a Fiume, l’Etiopia, la Spagna e infine la Seconda Guerra Mondiale. Era circondato da un’aurea di ammirazione e di rispetto,anche da parte degli avversari politici e militari, che vedevano in lui un uomo puro. L’irriverenza lo portò a prendersi gioco di D’Annunzio impedendogli il passaggio perché privo di documento d’identità durante un’ispezione in una polveriera,dove Muti faceva la guardia. Il Vate stesso lo ribattezzò “Gim dagli occhi verdi”, per la sua somiglianza con il protagonista di un fumetto dell’epoca, stringendo così un rapporto intenso con quel ragazzone romagnolo. La velocità, il rischio e il volo erano la sua vita ed anche quando fu chiamato a fare il politico detestava la politica “politicata”; ad essa preferiva la compagnia della morte mentre superava le linee nemiche in nord Africa. Adolf Galland, asso della Luftwaffe, si rammaricava di essere alleato di Muti perché avrebbe voluto volentieri confrontarsi in cielo con lui.

La sua morte fu frutto di viltà, della stessa viltà che stava per prendere il sopravvento in tutta Italia.

 

L’indistinzione


di Alain de Benoist

La storia degli ultimi due millenni trascorsi è quella di una lenta crescita dell’indistinzione, che inizia con il monoteismo. L’affermazione di un Dio unico implica, infatti, quella dell’unità della famiglia umana, non più al livello della specie biologica, ma dal punto di vista spirituale. Dire che c’è un unico Dio significa affermare, al contempo, che tutti gli uomini formano un’unica famiglia, e squalificare tutti gli altri dèi, il che equivale a instaurare un nuovo regime di verità dove l’alterità diventa fonte di menzogna o d’errore. «Uno fu la specificità della cultura giudaico-cristiana e poi di quella moderna», scrive Michel Maffesoli. L’Uno esclude l’Altro, che minaccia la sua esclusività. L’Altro può dunque a buon diritto essere soppresso. Nel corso della storia occidentale, il fantasma dell’Uno non ha smesso di funzionare come principio direttivo. Fattore di intolleranza, di esclusione e di separazione, poi di atomizzazione, ha nutrito tutte le inquisizioni, giustificato tutti i tentativi di sopprimere l’alterità.

Lo stesso cristianesimo trascende le differenze culturali o etniche, che non nega, ma considera inessenziali. Agli occhi di Dio, non c’è «né Giudeo né Greco», né uomo né donna (Gal. 3, 28). Dio «creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra» (At 17, 26). Nello stesso momento in cui la separazione del potere spirituale e del potere temporale introduce una divisione fatale in seno alla sovranità, la nuova religione separa la città di Dio e la città degli uomini, l’uomo generico e il cittadino, la religione universale e le credenze locali e promuove l’umanità a spese del patriottismo. «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 19): prima direttiva senza frontiere.

L’idea secondo cui ciò che distingue gli individui e i popoli è secondario, accidentale, contingente, e in definitiva trascurabile e dannoso, ha continuato a svilupparsi. Trasposta nella sfera profana in epoca moderna, assumerà la forma di un’affermazione dell’appartenenza immediata (e non mediata) dell’uomo all’umanità: siamo uomini prima di appartenere a un certo popolo o a una certa cultura – mentre è vero il contrario: siamo uomini nella misura in cui apparteniamo a un certo popolo o a una certa cultura; è attraverso la nostra singolarità che possiamo accedere all’universale.

L’ideologia del progresso afferma che tutti i popoli sono sollecitati a pervenire allo stesso tipo di società, passando attraverso gli stessi stadi. Essi progrediranno in maniera unitaria, come diceva già sant’Agostino («La ragione umana conduce all’unità»). I Lumi, parallelamente, proclamano l’inanità di ogni eredità, che assimilano a un guazzabuglio di usanze superstiziose. Lo stesso passato è presentato come una costrizione da cui bisogna emanciparsi per essere «liberi». Le sole scelte ammesse sono quelle che si effettuano a valle di se stessi («è la mia scelta»), le scelte condizionate da ciò che è a monte essendo squalificate come illusorie. Di qui derivano l’ideale di una «autonomia» concepita sul modello dell’indipendenza, la messa in discussione degli statuti e di ogni forma di autorità, avvertita ormai come umiliante privazione di una libertà incondizionata. È il mito moderno della creazione di sé attraverso sé e a partire da niente, che implica al contempo il rifiuto della «natura» e di ogni dato ereditato. Questa libertà concepita come inizio assoluto, senza essere condizionata da niente, trasferisce all’uomo una prerogativa un tempo attribuita a Dio.

La tendenza all’indistinzione si fonda ancora sulla riduzione dell’uguaglianza alla Medesimezza: si sarebbe davvero uguali solo essendo identici; si avrebbe lo stesso valore solo assumendo gli stessi ruoli, mentre il riconoscimento delle differenze, anche di quelle più evidenti, perpetuerebbe la disuguaglianza e l’oppressione. Questa aspirazione alla medesimezza (Auguste Comte parlava molto giustamente di reductio ad unum), alimentata altresì dal desiderio mimetico, è una caratteristica essenziale delle società moderne. Si ritiene che l’uomo sia ovunque lo stesso, dato che ciò che vale per gli uni (per noi) vale ugualmente per gli altri (il resto dell’umanità), sul piano politico, economico o sociale. Tocqueville aveva delineato bene questo desiderio moderno di una somiglianza che non è la somiglianza empirica, né quella similitudine che è alla radice della sociabilità, ma una somiglianza fondata sull’idea di una uguale dignità degli esseri, di una dignità ugualmente ripartita in ciascuno alla maniera di un attributo della natura umana, ossia anteriormente a ogni vita politica o sociale.

Il livellamento delle condizioni, grande tema della modernità, può essere compreso, in definitiva, solo se si tiene conto della mutazione economica che ha fatto dello scambio commerciale il legame umano fondamentale. Gli «esseri simili» di cui parla Tocqueville non hanno un altro modo di legarsi all’altro che il lavoro e lo scambio. Il denaro si svela come equivalente generale e l’utilità diventa il corollario dell’uguaglianza. La condizione di salariato non omogeneizza l’ammontare dei salari, ma omogeneizza la condizione umana fondando il regno dell’Homo œconomicus, unilateralmente orientato verso la felicità materiale immediata. «L’uguaglianza delle condizioni è l’equivalenza dei simili nelle società a dominante economica e commerciale, società nelle quali le uniche differenze legittime sono quelle che rinviano alla misura della loro utilità» (Christian Laval).

Universalismo e individualismo vanno di pari passo. L’indistinzione si generalizza nell’epoca postmoderna, in cui l’individualismo narcisistico e la metafisica della soggettività sono i tratti essenziali dell’ideologia dominante. Tutto diventa fluttuante, effimero, transitorio e «liquido». La perdita dei riferimenti genera l’anomia sociale, l’indeterminazione generalizzata dei concetti («anything goes»), la volontà di trasformare qualunque desiderio individuale in legge generale su un piano di «parità» con qualunque altro. Fatta di individui fondamentalmente non situati, di atomi individuali venuti da ovunque e da nessuna parte, la società diventa una struttura subcaotica, un caravanserraglio che ha perduto ogni senso del comune. Più gli uomini si separano, più si diffonde il conformismo di massa. Gli individui diventano schiavi senza padroni, sradicati e deculturati, interscambiabili e vulnerabili, prede designate della duplice influenza del mercato e dello Stato in seno a una società tanto più tollerante in generale, quanto più è intollerante in particolare.

Ogni appartenenza o singolarità collettiva è rappresentata come reclusione carceraria, finzione ingannevole o «costruzione» illusoria e ogni preoccupazione di preservarle come rientrante nell’ambito del «fanatismo» o del «fondamentalismo». «Per dare libertà di scelta, bisogna essere capaci di strappare l’alunno a tutti i determinismi, familiare, etnico, sociale, intellettuale», dichiara Vincent Peillon, nuovo ministro dell’istruzione. Al tempo stesso, il concetto passe-partout di «discriminazione» invade la logica giuridica e penale. Prendendo di mira, in linea di massima, i trattamenti ingiustamente applicati a questo o quell’individuo (o categorie di individui), esso giunge a stigmatizzare ogni forma di distinzione tra gli esseri. Tocqueville, ancora lui, osservava che «in tempi di uguaglianza, niente fa ribellare di più lo spirito umano dell’idea di essere sottomesso a delle forme». Le forme sono avvertite come limitazioni, costrizioni. L’arte contemporanea ha già abolito le categorie estetiche. L’ultima «decostruzione» è la decostruzione del sesso, cui procede l’ideologia del genere. Regno dell’in-forme.

Indistinzione per negazione delle frontiere, indistinzione per negazione dei limiti: si tratta sempre di affrancarsi da una misura. L’Uno va di pari passo con la dismisura (hybris), così come la logica della sovraccumulazione del Capitale dipende essa stessa da una illimitatezza che è la sua ragion d’essere. Il cosmopolitismo ha da sempre aspirato alla scomparsa delle frontiere. Oggi assume la forma del nomadismo. L’ideologia, tipica della sinistra, che predica l’abolizione delle frontiere confluisce con il liberoscambismo di destra per interpretare la globalizzazione come ibridazione generalizzata. È, insieme, l’ideologia dei finanzieri, dei passatori clandestini e delle mafie. «Senza frontiere» e «senza documenti», ossia senza appartenenza né identità. Tuttavia, le frontiere non sono barriere, ma chiuse. Nell’epoca della mondializzazione, sono destinate in primo luogo a regolare gli scambi e a proteggere i più minacciati (Régis Debray: «Il debole ha per sé solo la sua casa»). Per questo l’Internazionale del Capitale – l’unica che funzioni – ne esige l’abolizione.

Sussiste allora solo ciò che Freud chiamava il «narcisismo delle piccole differenze», quelle differenze inessenziali concernenti il sistema degli oggetti (si sceglie tra Shell e Total, Windows o Apple, Renault o Peugeot, Coca o Pepsi). Diversità finta, fondata sul differenziale di potere d’acquisto. La «diversità», così definita per antifrasi, non è, in realtà, che un altro nome della mescolanza indistinta. L’ideologia del meticciato, oggi onnipresente, deve essere compresa come qualcosa che va molto al di là del mescolarsi dei corpi e delle culture. Bisogna parlare di “melangismo”, di promozione dell’indistinzione generale come imperativo morale, progetto normativo e scopo da raggiungere. Anche se «meticciato» e «diversità» sono perfettamente contraddittori, il «meticciato» diventa un metodo di salvezza, imparentato con la fusione redentrice verso l’indifferenziato.

Apologia del nomadismo a tutto campo, della deterritorializzazione delle problematiche, sogno di una «governance mondiale», di una sistematica soppressione delle radici, incoraggiamento a tutte le ibridazioni – il fantasma dell’Uno è sfociato alla fine nel “melangismo” obbligatorio e generalizzato. «L’ibridazione mondializzata», scrive Pierre-André Taguieff, «è il rullo compressore che produce l’omogeneizzazione e il livellamento delle culture, l’abolizione finale della diversità culturale». Mischiare tutti con tutti e tutto con tutto, questa è oggi la forma terminale dell’indistinzione.

venerdì 23 agosto 2013

Oggi le comiche: il Pd protesta con gli Usa perchè dal “Monopoli” è stata abolita la casella della prigione



Redazione Secolo d'Italia

Berlusconi? L’Imu? Il futuro del Paese? La crisi? No, il Pd è tutto preso dalle problematiche legate al nuovo “Monopoli” (sì, proprio quello, il gioco degli affari…) e scende in campo per cambiarne le regole, con tanto di richiamo alla diplomazia. La mente fertile dei Democratici ha partorito una lettera all’ambasciatore degli Stati Uniti, pubblicata dal Corriere della Sera, per denunciare una nuova versione Monopoli, in cui i pacchetti azionari prendono il posto dei beni immobili. A scriverla sono sette deputati del Pd, secondo cui la nuova edizione del popolare gioco da tavolo ”inneggia alla finanza irresponsabile”. «In questi giorni, e contraddicendo la chiave etica del presidente Obama, l’azienda statunitense Hasbro starebbe per lanciare la nuova versione dello storico gioco da tavolo “Monopoly”. Stavolta però le tradizionali proprietà immobiliari sono sostituite da pacchetti azionari di grandi multinazionali. Si passa dall’acquisto di immobili alla speculazione in Borsa e inoltre, novità decisamente preoccupante, sarebbe stata abolita la casella della “prigione”», si legge nella missiva firmata da Michele Anzaldi, Marina Berlinghieri, Matteo Biffoni, Luigi Bobba, Lorenza Bonaccorsi, Federico Gelli ed Ernesto Magorno. «Mentre la Casa Bianca pone l’accento contro le frodi dei titoli e gli abusi degli strumenti finanziari, il “Monopoly”, gioco che da generazioni alfabetizza i giovani sui meccanismi del libero mercato, torna ad esaltare la turbo economia che ha aperto la crisi finanziaria 2008, con il messaggio diseducativo che, in caso di violazione delle regole, non si viene puniti». I deputati Pd chiedono quindi all’ambasciatore di “valutare eventuali provvedimenti delle autorità competenti o comunque una posizione critica sul nuovo Monopoly, gioco distribuito in tutto il mondo e quindi anche in Italia”.

giovedì 22 agosto 2013

Andare oltre ogni forma di confine

di Mario M. Merlino

Sotto quel fanale, accanto al portone della caserma, Lili Marleen divenne il simbolo del soldato in guerra, del soldato che marcia nel fango, che vive e che muore, portandosi a fior di labbra nel portafoglio sul cuore nella mente una ragazza da amare. Nonostante che Joseph Goebbels non ne amasse il testo, ritenendolo troppo sentimentale e poco aggressivo tanto da tentare di impedirne l’ascolto. Senza prevedere che il caso, come sempre, ci mette del suo. Belgrado viene occupata dai tedeschi ai primi di aprile del 1941; la stazione radio trasmette ventiquattro ore su ventiquattro i comunicati alle truppe che dilagano nei Balcani, scendono in Grecia, si affacciano sul mare Egeo; bande e marce militari e canzoni a riempire gli spazi vuoti. Fra i dischi ecco che spunta Lili Marleen, ripetuta dieci cento volte, per poi amplificarsi sulla bocca di mille e mille fanti e carristi e aviatori e marinai, uniti nella buona e cattiva sorte, e tutti a sognare una donna di nome Marleen...

(L’amico Piergiorgio di Cagliari, accanito raccoglitore di testi e musiche tanto da essere, io credo, in testa ad ogni classifica, potrebbe raccontarci di più e di tutto su questa canzone, tratta da una poesia di Hans Leip, poco prima che partisse per il fronte russo durante la Prima Guerra Mondiale, musicata soltanto nel 1938 e interpretata dalla cantante Lale Andersen. Io cercavo solo un inizio e avevo bisogno di un richiamo all’alone giallastro e sporco di un lampione qualsiasi. Pur tornandomi a mente l’esile figura di Donatella, all’inizio degli anni ’80, e la sua voce che la sapeva rendere così bene e coinvolgente).

Piazza dei Cinquecento (il riferimento è ai caduti di Dogali di cui un brutto monumento fa fede, anche se ormai è occultato da edicole di libri vecchi cespugli e frequentato di notte da sbandati e omosessuali), inizio anni ’60, tardo pomeriggio invernale. Sono una trentina, i soliti con qualche recluta a imparare il gusto di menar le mani, che, se poi non gli regge la pompa, lo si abbandona al suo destino e che necessita altra compagnia lo capisce da sé...

Ognuno ha il suo modo di esprimere il senso dell’attesa, un ridere troppo forte, una sigaretta dietro l’altra, uno strascicare i piedi come per saggiare la consistenza dell’asfalto e le mani che vanno sotto la giacca, il giubbotto, l’impermeabile dove ci si è attrezzati chi con la spranga, chi con il tirapugni, chi con il corto tubo di piombo. Mario ha il suo fidato e complice martello con il manico disegnato di falce e martello, trofeo di guerra nella zona di Cinecittà dove un ‘compagno’, affabile e cortese, gli avrebbe voluto aprire la testa come un uovo sodo. Le cose erano andate diversamente ed ora egli se ne può far vanto…

Già, il fanale… Dalla tasca della giacca ha tirato fuori La Nausea del filosofo Jean Paul Sartre, autore e libro poco adatti alla circostanza, ma segno inequivocabile, pur se ancora inconsapevole, del gusto dell’eresia della sfida di andare oltre ogni forma di confine… Un libro, gli ha detto un amico del padre, che o si legge tutto d’un fiato o lo si chiude alle prime pagine per non aprirlo più.

‘Cosa stai leggendo?’

Marco l’interrompe, un ragazzone biondo robusto alla sua prima azione, e la tentazione è quella di rispondergli in malo modo, ma, anche qui pur in maniera confusa, egli avverte che sarà un insegnante. Colui che lascia un ‘segno’, come il vasaio che plasma le forme senza forzare la materia prima (immagine questa tratta da qualche testo buddhista). E il domandare non può restare inevaso…

‘Chi? Il filosofo frocio e comunista?’.

Gli mostra la citazione di Cèline, sotto il titolo: ‘E’ un giovane senza importanza collettiva, è soltanto un individuo’. Forse vorrà dire qualcosa. Era prigioniero dei tedeschi ed è stato Drieu la Rochelle, tramite l’amico Otto Abetz, influente responsabile della cultura germanica in Francia, a farlo liberare tanto che ha potuto rappresentare i suoi drammi nella Parigi occupata. Certo, quando Drieu si suicida, scrive un infame necrologio per compiacere i comunisti e si rifiuta di firmare la grazia per Brasillach. Non gli si può perdonare, ma certe atmosfere…

‘E allora perché lo leggi?’, l’incalza Marco.

Non c’è risposta oppure è troppo complicata anche per lui… ‘Cosa sono le mie mani? L’incommensurabile distanza fra me e le cose’. Egli sta lì, sotto quel lampione, con quel libro, così intrigante, in cui il protagonista ha rotto ogni legame con il mondo, ha abbassato la saracinesca e spento la radio perché ormai le parole gli sono divenute false ed ostili. Egli sta lì, sotto il lampione, con un martello sotto la giacca, l’adrenalina che sale, entrato a gamba tesa fra ‘i duri e puri’… Bah, Lucio Battisti avrebbe cantato: ‘Tu, chiamale se vuoi emozioni’. O forse sono soltanto contraddizioni o, infine, perché non sappiamo distinguere l’essere e il nulla di cui siamo impastati. Inquieti irriverenti ignari disattenti…

mercoledì 21 agosto 2013

Nell’America di Obama nascono i condomini con ingressi separati per ricchi e poveri


Redazione Secolo d'Italia

“Upstairs, Downstairs”, come nell’Inghilterra classista descritta nella popolare serie tv britannica, in un condominio di lusso a Manhattan. Il costruttore di un palazzo residenziale di 33 piani nell’Upper West Side ha infatti annunciato che gli inquilini avranno due ingressi separati: da un lato i ricchi che abiteranno i 219 appartamenti in vendita, a partire da un milione di dollari, con vista sul fiume Hudson. Dall’altro i “poveri”, ai quali saranno assegnati i 55 alloggi ad affitto bloccato grazie ai quali l’immobiliarista spera di ottenere sgravi fiscali per alcuni milioni di dollari. Non era mai successo, neppure in in una metropoli dove le differenze di ceto tra gli abitanti sono stridenti come New York. L’annuncio della Extell, la società che sta costruendo a 40 Riverside Boulevard, che i cinque piani sul retro del complesso riservati a inquilini meno abbienti avranno ingressi, ascensori e manutenzione separate ha scatenato polemiche e paragoni con le differenze sociali nella Gran Bretagna all’inizio del ventesimo secolo. «Avete presente Su e Giù per le Scale o Downton Abbey? Dove i servi entrano e escono da portoni separati e chinano la testa quando vedono un aristocratico?», è sceso all’attacco il West Side Rag, un blog di quartiere, evocando due popolari programmi importati dalle tv di oltre-atlantico: «Ebbene, stiamo per vedere qualcosa di simile qui, nell’Upper West Side». Una portavoce del Dipartimento alla Casa di New York ha confermato che la richiesta di esenzioni fiscali di Extell, presentata in nome dell’integrazione sociale cittadina, è arrivata all’esame delle autorità competenti, mentre una parlamentare locale, Linda Rosenthal, ha accusato la società immobiliare di “classismo”, ancor più fuori luogo perché l’Upper West Side storicamente è sempre stato un “bastione progressista”. Un anacronismo dunque? C’è chi sostiene che i portoni separati per ricchi e poveri siano in realtà una presa d’atto del gap sociale che si è allargato negli ultimi anni a New York. Un recentissimo studio della New York University (Nyu) ha rivelato che il reddito medio annuo di un newyorchese è diminuito del 6,8% a 50.433 dollari all’anno nel periodo tra il 2007 e il 2011, mentre gli affitti sono aumentati dell’8,6%. Per un newyorchese è normale spendere metà del proprio salario sulla casa: lo fa uno su due. «E visto che un terzo degli abitanti di New York abita in case di affitto, è preoccupante vedere che gli aumenti del canone rendono sempre più difficile per molti inquilini vivere in città», ha commentato Ingrid Gould Ellen, co-direttore del Furman Institute che ha collaborato con lo studio della Nyu.

martedì 20 agosto 2013

La “bufala” del bacio? Gaffe della campagna contro la Russia sovranista...



di Mauro La Mantia (Barbadillo)

Ieri in molti media occidentali, ed italiani in particolare, la notizia del presunto bacio lesbo tra due atlete, ai Mondiali di atletica a Mosca, in segno di protesta contro la legge anti-propaganda gay in Russia ha trovato quasi lo stesso spazio della guerra civile egiziana. Giornali, Tv e siti hanno applaudito al “gesto ribelle” delle due atlete russe contro una legge giudicata simbolo della discriminazione.

Puntuale, però, è arrivata la smentita di Tatyana Firova e Kseniya Ryzhova: “Storie gonfiate dai media occidentali, era solo un’espressione di gioia”. Attorno ai Mondiali di atletica, insomma, si è creato un clamore mediatico che sta oscurando l’elemento sportivo per attaccare, criticare frontalmente il Governo russo. Tutti si aspettano l’azione eclatante degli atleti, in particolare dei russi, contro la famigerata legge “omofoba”. Ma sono arrivate due docce fredde, questa del falso bacio saffico e le dichiarazioni politicamente scorrette della campionessa russa del salto con l’asta Elena Isinbayeva in difesa della legge (poi costretta a ritrattare goffamente per l’aggressione mediatica planetaria subita). 

Quella del bacio lesbo anti-Putin è una bufala causata innanzitutto dall’ignoranza. Nell’era dell’informazione 2.0 i giornalisti subiscono la viralità delle notizie senza neanche verificarne l’attendibilità. Tutto quello che passa dalle agenzie, o peggio da twitter e dai blog diventa “notizia”. Sarebbe bastata un po’ di cultura generale per sapere che nella tradizione russa il bacio tra persone dello stesso sesso non è considerato un atto omosessuale. I saccenti giornalisti liberal forse non hanno mai visto la famosa scena del bacio tra Brezhnev a Honecker, divenuta icona della guerra fredda.

Ignoranza ma anche malafede di chi vuole attaccare la sovranità della Russia. Nello scenario internazionale ormai da anni la Russia non rinuncia al ruolo di protagonismo e di interlocuzione diretta, politica ed economica, con gli Stati vicini tra cui quelli europei. Una strategia ostacolata in tutti i modi dagli Stati Uniti i quali hanno sostenuto, attraverso strategie d’avanguardia, le varie rivoluzioni “colorate” nei Paesi dell’ex URSS (Georgia, Ucraina e Kirghizistan) per sganciarli dalla galassia russa. Tra i teorici delle nuove tecniche non convenzionali per l’abbattimento di regimi ostili figurano Gene Sharp e Peter Ackerman. Alla base delle loro idee troviamo la costruzione di movimenti non violenti di opposizione interna rafforzati dalla disinformazione globale, e della guerra d’opinione, attraverso la nuova comunicazione in rete 2.0 (blog, social network e citizen-journalism). I due analisti privilegiano l’uso strumentale delle battaglie per i diritti civili per creare mobilitazione anti-governative. Non è un caso che la Russia sia da qualche anno al centro di analoghe proteste portate avanti da movimenti di natura transazionale.

Quello che sta avvenendo in Russia è stato già sperimentato, con diversi risultati, nei Paesi limitrofi ed in quelli arabi (vedi “primavere arabe”). Una strategia che però non sembra attecchire nella terra degli Zar dove tra la popolazione, ed il caso delle atlete è emblematico, forte è il senso dell’orgoglio nazionale connesso alla difesa della propria sovranità.

lunedì 19 agosto 2013

In Germania arriva il terzo sesso...


da Rai News 24

Uomo e donna. Presto, in Germania, concetti superati: la definizione del sesso sarà facoltativa e nell'atto di nascita, ove fosse 'indeterminato', se ne potrà omettere la precisazione e lasciar vuota la casella. Accanto ai classici 'm' o 'f' potrà eventualmente figurare una 'x' per indicare il genere 'intersessuale'.

Lo prevede una legge varata dal governo tedesco a maggio, che entrerà in vigore il primo novembre e che fa della Germania il primo paese europeo a decidere un tale cambio paradigmatico. Finora l'Australia era il solo paese al mondo ad avere introdotto una normativa del genere.

La legge è passata in sordina e a richiamarvi l'attenzione è stata la Suddeutsche Zeitung (SZ) in un articolo venerdì, ripreso ora dal settimanale Focus, che ne sottolinea la portata storica per la società. E' una ''rivoluzione giuridica'', finora la legge parlava ''solo di uomini e donne, e basta'': ora, scrive, ''c'e' anche un 'sesso indeterminato', la cosa potrebbe creare dei problemi in alcune situazioni''.

A richiamare l'attenzione del quotidiano è stato un articolo pubblicato della Rivista per il diritto di Famiglia (FamRZ) che parla della nuova legge e della nuova figura del ''sesso indeterminato''. L'individuo 'intersessuale', classificato così alla nascita, potrà successivamente decidere se registrarsi come 'm' o 'f', oppure anche rimanere tutta la vita senza una specificazione del sesso.

I giuristi parlano di una nuova figura, ''uno status specifico'': non dicono ''terzo genere'' ma di fatto, scrive il quotidiano liberal di Monaco, ''di questo si tratta''. Fin qui tutto bene ma i problemi cominciano con i documenti: passaporti, carte di identità, visti, ecc. che non prevedono altri codici oltre a 'f' e 'm'. La FamRZ propone di introdurre per i documenti personali la 'x', da affiancare al sesso maschile e al femminile, per indicare il genere 'intersessuale'.

Con la nuova legge il legislatore tedesco ha reagito a una sentenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto come espressione dei diritti della personalità la distinzione fra il sesso ''percepito e vissuto''. Il nuovo diritto, precisa la SZ, riguarda la ''intersessualità'', diversa dalla "transessualità". I transessuali sono persone con un sesso definito, maschi o femmine, che si sentono però appartenere all'altro sesso e come tali voglio essere riconosciute.

Gli intersessuali sono invece persone che non hanno precise connotazioni fisiche sessuali e sono comunemente definiti 'ermafroditi'. Citando l'esperto Wolf Sieberichs, la SZ scrive che con la nuova legge potrebbero pero' insorgere problemi di vario genere: ad esempio per le unioni dello stesso sesso, previste appunto solo per persone dello stesso sesso: che significa questo?, si domanda.

Che le persone con sesso indeterminato potranno stringere un'unione solo con persone di genere altrettanto indeterminato? Tutti aspetti questi che toccherà al Parlamento o alla Corte costituzionale chiarire: è necessaria una ''ampia riforma'', ha annunciato al giornale il ministro della Giustizia, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, del partito liberale (Fdp). Ma non finisce qui: la rivoluzione giuridica porterebbe con sè anche un rivoluzionamento semantico del linguaggio.

''La dualità linguistica della nostra società è finita'', d'ora innanzi si può rinunciare - propone Siebrichs - ai titoli di genere: in una lettera o un certificato non bisogna per forza indicare prima del nome 'Signore' o 'Signora', se ne potrebbe benissimo fare a meno se l'interessato è d'accordo.

domenica 18 agosto 2013

SEMPRE PRONTI A DILANIARE IL MONDO DEGLI UGUALI!


Tra il grigio delle pecore si celano i lupi,vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos'è la libertà. E non soltanto questi lupi sono forti in sè stessi,c'è anche il rischio che,un brutto giorno,essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in un branco.
E' questo l'incubo dei potenti. 

La guerra civile in Egitto rivela il flop delle “primavere” sfuggite di mano agli Usa

di Mauro La Mantia (Barbadillo)

L’Egitto brucia e tutti i media italiani iniziano a rendersi conto che il bacino del Mediterraneo è ormai una pericolosissima polveriera che può esplodere da un momento all’altro. A parte la conta dei morti in pochi sembrano rendersi conto della partita geopolitica che si sta giocando a pochi chilometri dalle nostre coste. Forse dovremmo interessarci di più di quanto avviene nell’ormai ex Mare Nostrum piuttosto che dividerci tra berlusconiani e antiberlusconiani.

Nel 2011 le Primavere Arabe (ormai tutti concordi nel declinare al plurale questo fenomeno) non esplodono improvvisamente. Soltanto gli ingenui o finti tonti potevano credere ad un “movimento spontaneo” che dalla Tunisia ha coinvolto progressivamente un numero impressionante di popolazioni di due continenti. Il giornalista Alfredo Macchi nel suo “Rivoluzioni Spa. Chi c’è dietro la Primavera Araba” spiega in maniera rigorosa il ruolo giocato dall’Amministrazione statunitense nella costruzione di una vasta rete di movimenti che ha innescato le rivolte. Attraverso il National Endowment for Democracy (NED), una società privata creata negli anni ’80 da Ronald Reagan per la “diffusione della democrazia” nel mondo, gli Usa hanno sostenuto e finanziato una grande quantità di associazioni, movimenti e fondazioni operanti nei paesi arabi del Mediterraneo. Tra i più attivi vanno segnalati Freedom House (all’avanguardia nell’utilizzo dei social media), l’Open Society Foundation dello speculatore finanziario George Soros ed il Movimento 6 Aprile assoluto protagonista della rivolta in Egitto contro Mubarak.

L’influenza degli Usa nelle Primavere Arabe, quasi alla luce del sole, è stata confermata da un’inchiesta del New York Times dell’aprile del 2011. Non secondario è stato il ruolo del Qatar che attraverso la propaganda di Al Jazeera (determinante nella diffusione delle rivolte) ha tentato di destabilizzare la regione contesa da anni con l’Arabia Saudita. Proprio il Qatar è tra i maggiori sostenitori dei Fratelli Musulmani oggi al centro dello scontro in atto in Egitto.

Perché gli Usa avrebbero favorito la caduta di regimi “amici”? La risposta va ricercata nel cambio di strategia della politica estera americana nel perseguimento, da parte delle Amministrazioni Bush e Obama, del medesimo obiettivo:esportare la democrazia (americana) nel mondo per favorire lo sviluppo del libero mercato nei paesi islamici. Dopo il fallimento della dottrina Bush e delle disastrose guerre in Afganistan e Iraq (l’esportazione manu militari) Obama ha portato avanti il concetto di Soft Power che consiste nel sostenere e finanziare i gruppi d’opposizione dei governi nemici (tipo Libia e Siria), i governi amici (Tunisia ed Egitto) ma anche i movimenti interni dissidenti. Sembra una contraddizione ma non lo è. Gli analisti della Rand Corporation, un centro studi di Santa Monica che collabora con il Pentagono, sostengono in un dossier del 2007 (attenzione alle date, quattro anni prima dell’inizio delle rivolte) che la crisi interna sociale ed economica dei paesi islamici, del Medio Oriente e del Nord Africa, avrebbe prima o poi modificato gli assetti politici e istituzionali.

Davanti ad una possibile caduta dei regimi “amici”, scrive la Rand Corporation, meglio che essa avvenga per mano di oppositori “amici” (quindi sostenuti dagli Usa) piuttosto che ad opera di formazioni estremiste islamiche incontrollabili. Nel rapporto degli studiosi di Santa Monica non mancavano le controindicazioni: 1) queste società sono pervase da una grande ostilità verso gli Stati Uniti; 2) la loro struttura complessa, spesso non compresa pienamente dagli occidentali, rischia di rendere queste rivolte totalmente ingestibili e dagli esiti nefasti per gli interessi geopolitici degli Stati Uniti.

Quanto sta avvenendo in Egitto fa parte degli effetti collaterali delle Primavere Arabe. Gli Usa hanno perso il controllo delle rivolte scientificamente sobillate nel 2011. E non vale solo per l’Egitto. Anche la Libia rischia di cadere in una guerra civile tra bande islamiste per il controllo dei pozzi petroliferi. Nella Tunisia del dopo Ben Ali la tensione è altissima dopo l’uccisione di alcuni membri dell’opposizione. In Siria gli Usa stanno accusando la più pesante sconfitta: nonostante il massiccio armamento delle milizie islamiche (anche straniere) l’esercito regolare di Assad procede nelle riconquista delle roccaforti dei terroristi.

L’Amministrazione Obama sembra impotente davanti gli sviluppi delle Primavere Arabe. In gioco c’è il controllodel Middle East and North Africa (MEDA) dove si trovano il 60% delle riserve mondiali di petrolio e circa la metà di quelle di gas naturale. Una zona che gli Sati Uniti si contendono con la Russia e la Cina. Quest’ultima soprattutto, prima delle rivolte del 2011, era riuscita a conquistare importanti fette del mercato africano e mediorientale. Gli Stati Uniti contavano nella caduta dei vecchi regimi, sostanzialmente ancora legati a concezioni stataliste e nazionaliste dell’economia, per assicurarsi il dominio di un grande mercato a favore delle imprese americane, minacciato dai fermenti islamici antiamericani.

Davanti a questi epocali stravolgimenti geopolitici l’Europa targata Merkel, Hollande e Letta abdica a qualsiasi ruolo di protagonismo nello scenario mediterraneo. Quel mare non è più nostro.