di Donato Novellini (Barbadillo.it)
Pierre Drieu la Rochelle, il dandy suicida, colui che utilizzò la coerenza politica per liberarsi del fardello esistenziale di una monade guasta, il raffinato scrittore dato in pasto a porci comizianti o ai citazionisti della Domenica (gli stessi di “bla bla bla” – Jim Morrison), pare morto da sempre e da sempre in procinto d’essere dimenticato. Troppo raffinato per essere utile a qualche causa, troppo corrotto e decadente per gli abbacinanti giochi di ruolo postmoderni, troppo puro ed ingenuamente propenso al rovinio per diventare iconografico e credibile “cattivo maestro”. Tant’è che, al di là di caricature ad uso politico e forse per troppa ondivaga eleganza – che ne inibì il riposizionamento nella contemporaneità – Drieu è gettato senza appello nel cestino dei funghi velenosi, assieme a Robert Brasillach, Alphonse de Chateaubriant, Lucien Rebatet ed altri; qui non subentrano, come nel caso di Pound, Junger o del coevo Céline, antidoti ed attenuanti a fasi alterne, qui l’oblio si fa nebbiosa coltre per tragitti inospitali: nausea borghese, oppiaceo distacco, intima femminilità prostituita specchiata in misoginia, trastulli in cono d’ombra, scivolamenti in salotti spiritati fuori moda o in giardini d’inganni. Furono, le sue, scelte coraggiose e perdenti, affrontate con egopatico misticismo ed infine acquerellate nell’epilogo spezzato dell’uomo braccato, nell’imperdonabile sparizione che renderà vana ogni togata sentenza (ma non la damnatio memoriae come vendetta e ben servito imperituro). Polvere e pose. Noia ed illusionismi definitivi, sipario sull’ultima recita calato anzitempo.
Eppure, a voler trovare qualche rimando spendibile, in grado di farsi riverbero postumo, due casi sono degni d’attenzione, entrambi legati al romanzo Fuoco fatuo. Dapprima il film omonimo Le feu follet, diretto nel 1963 da Louis Malle, capolavoro assoluto gravitante attorno all’estetica nouvelle vague. Il lungometraggio in bianco e nero, piuttosto fedele al tormentato romanzo di Drieu, riadatta il nauseante malessere del testo originale alle vicende autobiografiche del regista, nonché alla simbiosi strabiliante instauratasi fra il protagonista Alain e l’attore che ne interpretò il ruolo, ovvero Maurice Ronet. “Domani mi uccido”, “meglio così, in fondo”, “altri ne approfitteranno” o “Ah, quelli erano tempi!”. Qui c’è tutto lo sdegno, nobile e disperato, riguardo alle cassate vie di fuga possibili: il disprezzo per l’America, intesa come salvifico eldorado moderno (così come accadde in un altro capolavoro su celluloide: La ballata di Stroszek di Werner Herzog), per la nostalgia patetica sfarinata in amicizie irrecuperabili, per la repulsione riguardo ad arabeschi intellettuali da bar sport, per il florilegio velenoso delle ipocrisie, del torbido chiacchiericcio alle spalle. Così la vita s’incunea sempre più giù, nella dissoluzione autoindulgente, miniaturizzata tra donne evanescenti e pseudo-materne, droghe e alcol, nell’esistenzialismo estetizzato ed ammalorato, fino al parossismo, fino alla maniacalità folle del circolo vizioso.
Tutto un lasciar correre, tutto un declino da imbellettare come possibile, abbattendo di volta in volta l’effimero escamotage di turno, il miraggio giunto in soccorso. Louis Malle riesce nell’impresa, tutta psicologica, di restituire in immagini il perverso gioco di delusioni e svuotamenti descritto nel libro, come nell’apparentemente banale dialogo al bar: “Scusi, mi dà delle Sweet Afton? E che cosa sono? Sigarette irlandesi. Non le abbiamo. E perché? Non le chiedono da queste parti. Se uno le chiede? Uno non basta mica, la merce si sciupa, lo sa”. Già. Laddove il tabacco preferito per un fumatore, marca sconosciuta all’esercente, rappresenta l’incomprensione irreparabile con il prossimo, con la società, con l’esistenza stessa. L’atrocità di piccole trascurabili sentenze riporta così, con filtri esigui, al Diario di un delicato, ovvero al solitario disagio di un uomo “pubblico” in via di sparizione, ben delineato nell’intimo capolavoro dello scrittore francese. Il diario segreto per chi non sa tenerlo – il segreto – l’annotazione seriale dei depennamenti fatali e la sensibilità caduta come vetro fragile dal comò.
Nel 1994, in contesti alternativi assai distanti – la Bologna antagonista dei centri sociali e del Dams – vide la luce un disco anomalo e destinato a divenire caso a sé nel panorama musicale italiano. L’album s’intitolava Lungo i bordi, mentre il gruppo che ne era responsabile, tutt’ora attivo con eccellenti sviluppi artistici, si chiamava Massimo Volume. Fra le tracce in scaletta c’era Fuoco fatuo e l’incipit del pezzo, una citazione dal romanzo del 1931, non lascia adito ad omonimi equivoci. Il brano, scritto e declamato (non c’è cantato, nei Massimo Volume, e scarseggia l’intrattenimento) da Emidio Clementi, poggiava su trincee di chitarre distorte, noise caracollante, percussioni cadenzate e ripetitive. Disagio camuffato dietro le impalcature di rock decomposto, poesia scorticata aggiustata con fare manesco appresso alle violente scosse del suono, abrasivo fino alla consunzione, al limite del collasso. Tutto il disco, riascoltato oggi, è un ritratto metropolitano disilluso ed umido, trafficato e desolante, probabilmente conseguente all’implosione sociale e politica, al clima grigiastro che fece seguito al tracollo della Prima Repubblica. Le parole, al contempo stolide e suggestionanti, di Clementi, portano a passeggio il segreto malsano di Fuoco fatuo lungo tutto il supporto sonoro, sovente stilizzando con flash neorealisti il confidenziale incedere: “Sono gli adesivi sulle pareti, è il tempo che scorre lungo i bordi, siamo io e te, appoggiati su queste sedie ad aspettare. Poi ricomincia la polvere”.