giovedì 28 febbraio 2013

Mantakas, quel greco “fascista” che venne a morire a via Ottaviano...





di Antonio Panullo

Se fosse vissuto, oggi Mikis Mantakas sarebbe un signore alla soglia dei sessant’anni, forse in procinto di andare in pensione dopo una vita passata in qualche ospedale greco, o italiano, giacché era iscritto a medicina. Era nato ad Atene nel 1952. Ma le cose andarono in maniera molto diversa, e quel 28 febbraio del 1975 fu l’ultimo giorno della sua vita. E gli ultimi istanti della sua esistenza li trascorse sdraiato in un box privato, un garage, vegliato da Stefano Sabatini, un giovanissimo attivista della sezione Prati, che dopo che lo aveva visto cadere colpito da un proiettile, lo aveva trascinato al riparo per sottrarlo alla furia omicida che stava imperversando di fuori. E non sembri un’esagerazione, c’era davvero l’inferno in piazza Risorgimento quel giorno. 

Quella settimana si stavano tenendo al vicino tribunale di piazzale Clodio le udienze del processo Primavalle, quello in cui si giudicavano gli assassini dei fratelli Mattei, Stefano e Virgilio, bruciati vivi nella notte nella loro casa dagli attivisti di Potere Operaio Lollo, Clavo e Grillo (e forse altri). Gli estremisti di sinistra avevano deciso che i fascisti non avrebbero neanche potuto assistere al processo, e si mobilitarono in maniera massiccia, militare, per dar vita a scontri. Scontri che iniziarono il 24 febbraio mattina e andarono avanti sino a quel 28, quando missini e gruppettari si videro davanti al tribunale alle sei del mattino. La notte prima un commando di Lotta Continua aveva assaltato la “palestra” di Angelino Rossi a volto coperto e con bombe incendiarie: ma ci fu un’altra vittima in quei giorni, un commissario di polizia che fu stroncato da un infarto mentre era lì in servizio, e che nessuno ricorda mai, Pietro Scrifana. Gli estremisti di sinistra erano pesantemente armati: pistole e bombe molotov a decine. E le usarono. Un dirigente del Fronte della Gioventù fu bersagliato da colpi di pistola, ma ebbe fortuna. Dopo alcune scaramucce dentro e fuori il tribunale, nel corso delle quali fu anche identificato Alvaro Lojacono (per uno scontro con un attivista missino del Prenestino), che successivamente sparò davanti la sezione di via Ottaviano 9. 

Secondo un disegno che a posteriori appare chiaro, alcune centinaia di comunisti ingaggiarono violenti scontri con la polizia, per permettere a un centinaio di loro, armati, di dirigersi verso la sede del Msi di via Ottaviano, presidiata da una trentina di attivisti, quasi tutti molto giovani. A quanto ricordano i testimoni, quelli di Potere Operaio spararono molti colpi di pistola contro il gruppo dei missini, i quali entrarono e uscirono un paio di volte dal portone, e fu nella seconda occasione che Mantakas fu colpito alle testa. Un altro ragazzo, Fabio Rolli, fu ferito a un polmone, ma lì per lì nessuno si accorse di nulla. Ci fu poi il lancio di molotov e l’assalto vero e proprio, sempre pistole in pugno. A quel punto alcuni riuscirono a rifugiarsi dentro la sede, altri rimasero fuori. Per giunta, in quei momenti mancò (o fu staccata) la luce cosicché la porta elettrica della sezione non si poteva più aprire. Un ragazzo che era lì dentro ricorda che al buio si sentivano grida, odore di benzina, terrore di finire come i Mattei, tentativi di armarsi con gambe di sedie e effettuare una sortita. Frattanto il dramma si era compiuto. I gruppettari avevano attaccato il portone dello stabile per entrarvi, così l’esanime Mantakas, nel frattempo colpito anche da una molotov il cui fuoco fu spento con le mani dai presenti, fu trascinato nel box da Stefano e da altri ragazzi, che poi chiuse la serranda. A un certo punto gli estremisti irruppero nel cortile e spararono diversi colpi di pistola contro il box attiguo, che era quello più vicino all’entrata. 

A quel punto il fumo, il rumore, gli spari avevano attirato l’attenzione delle forze dell’ordine, che peraltro non avevano neanche ritenuto di presidiare la sezione del Msi che era un obiettivo tutto sommato da considerare. Arrivò la polizia, con gran stridore di gomme, ma era troppo tardi: un’ambulanza dei vigili del fuoco portò Mantakas all’ospedale ma poche ore dopo, durante o subito dopo l’operazione alla testa, Mikis morì. Frequentava il Fuan di via Siena da qualche mese. Aveva conosciuto i ragazzi della destra universitaria al bar Penny, lì davanti, tra cui Umberto Croppi, col quale era andato quella fatidica mattina a piazzale Clodio e col quale era amico. Poco dopo fu arrestato Fabrizio Panzieri di Potop, mentre usciva con aria indifferente da un portone poco distante. Testimonianze di giovani missini poi individuarono in Lojacono quello che aveva sparato. Mantakas si era trasferito a Roma perché all’università di Bologna era stato aggredito dagli estremisti di sinistra davanti a biologia, che lo mandarono all’ospedale per quaranta giorni. Ai funerali nella chiesa di Santa Chiara, in piazza della Minerva a Roma, c’erano migliaia di persone, e quasi tutte giovani. Persino in quell’occasione gli estremisti, usciti dalla sede del Pdup, tirarono una bomba molotov contro l’automobile guidata dall’allora segretario provinciale del FdG Buontempo, che riuscì a fuggire. Nel marzo del 1977 ci fu la condanna a nove anni e sei mesi di reclusione per concorso morale in omicidio per Panzieri. Assoluzione, invece, per insufficienza di prove, per Lojacono. 

Il processo di secondo grado, nel 1980, si concluse con la condanna a sedici anni di reclusione per entrambi. Ma un ricorso in Cassazione bloccò l’esecutività della sentenza per Lojacono che rimase in libertà per poi fuggire in Algeria, e poi in Svizzera assumendo il cognome della madre. Lojacono nel 1978 era nel commando delle Brigate Rosse che rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Nel 1983, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Tartaglione. La Svizzera non concesse mai l’estradizione e nel 1999 divenne un uomo libero. Fabrizio Panzieri, approfittando di una scarcerazione, si dette alla latitanza. Nel 1982 fu condannato a ventuno anni di reclusione. Ancora oggi risulta latitante. Forse è in Nicaragua, dove c’è anche Grillo, quello del rogo di Primavalle.

martedì 26 febbraio 2013

I sette errori capitali di Gianfranco Fini...



di Marcello de Angelis

Gianfranco Fini è entrato in Parlamento nel 1983 e ne è uscito con le elezioni di ieri. Era tra i più longevi parlamentari d’Italia, insieme a Casini, con 30 anni di servizio sulle spalle. Un politico che ha attraversato tutte le epoche della politica italiana da protagonista. Delfino designato di Almirante appena maggiorenne, sostenuto dal ministro dell’Armonia Pinuccio Tatarella come “regina d’Inghilterra” che avrebbe potuto tenere insieme una destra da sempre sconquassata dai personalismi e dalle spinte centrifughe. Nel bene e nel male ha segnato la storia della politica italiana e, ovviamente, della destra. 

Nel ’93, con la sua candidatura a sindaco di Roma, raccolse elettoralmente i frutti dell’esclusione del Msi dal sistema di Tangentopoli che era andato in pezzi e come leader dell’unico partito “dalle mani pulite” ottenne il 48 per cento dei consensi dei romani, che assegnarono alla lista del suo partito il 31 per cento. A Napoli, nella stessa tornata elettorale, il Msi ottenne il 33. Con la fondazione di An Fini istituzionalizzò la realtà di una destra non più marginalizzata e esclusa ma con la vocazione di rappresentare tutti gli italiani. Nell’immaginario di tutti, Fini divenne il politico che, per la sua età e le sue caratteristiche, avrebbe preso la guida del centrodestra dopo Berlusconi. Questo fino al 14 dicembre del 2010, quando il Fini presidente della Camera – forse convinto che il dopo-Berlsuconi fosse troppo lontano per le sue aspettative – fece un accordo con le forze dell’allora opposizione per sfiduciare il governo della sua stessa maggioranza, senza riuscirvi. 

Ora è fuori dal Parlamento e forse – è prematuro prevederlo – fuori dalla politica. Aldilà dei giudizi coloriti che oggi impazzano soprattutto sui social network, una tale uscita di scena merita una riflessione più tecnica. Fini ha commesso degli errori palesi, alcuni dei quali solo di recente ha lui stesso ammesso. È stato un errore sciogliere Alleanza nazionale per entrare nel Pdl. La scelta, peraltro condivisa da tutti i maggiorenti del Msi che lo seguirono, fu dettata da considerazioni oggettive, quali l’attrattiva sempre maggiore che esercitava Berlusconi su un elettorato di centrodestra ormai convertito al bipolarismo e sempre meno interessato alle istanze identitarie o ideologiche, con un allarmante calo di An registrato in ogni sondaggio, e la garanzia da parte di Berlusconi di una rappresentanza nel Pdl – il famoso accordo 70-30 – che blindava e tutelava tutti gli esponenti di An. Ma una volta fatto il passo Fini ha perso la possibilità di “puntare i piedi” con un partito alle spalle, per bilanciare le pretese della Lega. Le difficoltà di relazione con Berlusconi, che già erano presenti, lo hanno portato a scegliere di estromettersi dalla politica di governo chiedendo per sé una posizione esterna quale quella di Presidente della Camera. Ha sbagliato a interrompere a quel punto le comunicazioni con il leader del Governo e del partito di cui faceva parte, demandandole ad altri e lasciandosi esposto agli attacchi quotidiani di organi di stampa gestiti da chi aspirava a prendere il suo posto come “numero 2″ del Pdl e erede di Berlusconi. 

Ha ovviamente sbagliato i calcoli il 14 dicembre del 2010, ottenendo sì di azzoppare la propria stessa maggioranza, ma consegnandosi poi prigioniero nelle mani dei suoi ex avversari. Poi, contro la propria volontà e sospinto dai suoi, ha fondato un partito in cui non credeva. A quel punto avrebbe dovuto scendere dallo scranno presidenziale e mettersi tra i suoi e alla testa del partito, a fare il capo. Ma ha preferito non farlo, è restato “super partes”, ha lasciato che per il partito lavorassero persone meno autorevoli di lui e così non ha formulato una proposta alternativa e l’ha delegittimata lui stesso rifiutando di identificarsi con essa. Ottenuto poi il “passo indietro” di Berlusconi non ha fatto nulla per rilanciare una proposta di centrodestra, rifiutando, insieme a Casini, le aperture di Alfano. 

Infine, abdicando nuovamente ad un ruolo da protagonista, si è collocato nella scia di Monti, condividendone le colpe, e all’ombra di Casini, risultandone ancor più sottodimensionato. Nella percezione popolare è stato visto come uno che ha distrutto senza creare e ha tentato di fa perdere altri senza avere nulla da vincere lui stesso. Forse gli errori sono meno di sette o forse anche di più. Il risultato è – invertendo il paradigma ben noto – l’aver trasformato il suo stesso giardino in un deserto. E siccome in quel giardino c’eravamo cresciuti anche noi, è una storia ben triste.

lunedì 25 febbraio 2013

Toscana, 440mila euro per promuovere l’antifascismo. Non era meglio farci un giardinetto?


Tratto da il Secolo d'Italia

A proposito di sperperi dei fondi regionali: certo ci sono le piadine con la nutella pagate a nostre spese (Lombardia) o anche i Suv comprati causa neve (Lazio). Ma, come si disse nell’interessante dibattito che si sviluppò dopo il caso Fiorito e oggi silenziato in tempi di campagna elettorale, le Regioni hanno un’eccessiva discrezionalità nel destinare i fondi pubblici, cioè i soldi nostri. Ecco cosa è accaduto in Toscana: sono stati stanziati 442mila euro per valorizzare il patrimonio storico, politico, culturale dell’antifascismo e della Resistenza e per la promozione di una cultura di pace. Il che, al di là, delle retoriche di circostanza, non significa altro che foraggiare sul territorio piccoli apparati collaterali alla sinistra, cioè finanziare con denaro pubblico una rete culturale di amici che drenano consensi a chi governa la Regione. Dice: ma la cifra non è granchè. Vero, non è ingente. Ma è quanto basta per acquistare una casa per anziani, sistemare una scuola, ristrutturare il padiglione di un ospedale, realizzare un giardinetto. Dice: ma questi non sono valori dell’antifascismo. Già, sono cose più attuali e più importanti per il benessere della gente che vive in Toscana, il che dovrebbe essere il primo obiettivo della Regione.

In ogni caso, così saranno suddivisi i fondi stanziati: 135.000 euro andranno al Comune di Stazzema come stanziamento annuale della Regione in favore del Comune medaglia d’oro al valor militare per il sacrificio dei suoi abitanti, vittime dell’eccidio di Sant’Anna del 12 agosto 1944 e per il contributo dato alla guerra di liberazione. La delibera portata in approvazione dall’assessore regionale alla cultura, Cristina Scaletti, destina inoltre 187.000 euro all’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e 30.000 alla Federazione regionale toscana delle Associazioni antifasciste. Seguono una serie di finanziamenti per gli Istituti storici della Resistenza e dell’eta’ contemporanea. A quello di Grosseto vanno 28.000 euro. A quelli di Livorno e di Lucca 13.500, 9.000 a quello di Siena, 8.000 a Pistoia e a quello Apuano. Infine 10.000 euro sono stati destinati alla Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza Luoghi della Memoria Toscana di Figline di Prato.

domenica 24 febbraio 2013

FIRENZE: L'ANTIFASCISMO SI MOBILITA CONTRO IL CORTEO PER I MARTIRI DELLE FOIBE



La sinistra antagonista fiorentina, con tutto il mondo dell’antifascismo toscano, ha indetto una manifestazione per cercare con “ogni mezzo necessario” di impedire e di boicottare il corteo per i martiri delle foibe che come ogni anno abbiamo organizzato, assieme a tanti movimenti, per sabato 9 marzo.

Come ogni anno, a Firenze, il ricordo composto di decine di migliaia di innocenti barbaramente uccisi non sarà un momento di memoria condivisa. Una pagina triste e idiota, che certa sinistra porta avanti a spada tratta, senza un briciolo di dignità, senza il consenso della gente, senza un collegamento con la realtà e con la verità storica. Puro revisionismo, condito da un odio preoccupante, quello di chi non ha più argomenti e si ritrova a sventolare le bandiere di quella Yugoslavia titina che persino le popolazioni di quei luoghi, oggi, vedono come il fumo negli occhi.

Sabato 9 marzo saremo in piazza con più convinzione di sempre. Ci saremo, coi nostri tricolori, perché questo sonno della ragione non vinca sul ricordo dei nostri martiri. Ci saremo, perché il ricordo delle vittime è più forte dell’esaltazione dei loro carnefici. Ci saremo perché siamo italiani e siamo fieri di esserlo, come i nostri connazionali che hanno trovato la morte sul confine orientale. Ci saremo, perché non abbiamo alcuna intenzione di lasciare la piazza a chi sputa sulla nostra identità nazionale e sul sangue versato da migliaia di innocenti. Ci saremo perché Firenze non è la città di chi vuole imporre il silenzio agli altri. Ci saremo, perché non potremmo fare altrimenti.

Oltre ogni minaccia e ogni prevaricazione, per difendere il sacrosanto diritto di ricordare la nostra storia. Tutta, senza omissioni e revisionismi di comodo.


SABATO 9 MARZO
PIAZZA SAVONAROLA ORE 15
Con Giorgia Meloni e tutti i movimenti del territorio

sabato 23 febbraio 2013

Gli studi sul cervello che mirano a renderci macchine desolate

di Massimo Fini

«Sapremo tutto del nostro cervello: come funziona, come lo si ripara e come lo si puo' migliorare». Sono parole di Barack Obama a proposito di un ambizioso progetto chiamato Brain Activ Man cui stanno già lavorando aziende tecnologiche come Google, Microsoft, Qualcom e altre «hi-tech» più specificamente mediche.
A questo delirio conoscitivo ci sia concesso muovere qualche obiezione. Quando noi conosceremo con perfezione scientifica i circuiti cerebrali che provocano le nostre emozioni, la gioia, l'amore, la tenerezza, la paura, la crudeltà, l'odio, la gelosia sapremo tutto di questo cervello diviso a spicchi ma avremo perso l'uomo. Nella sua interezza, nella sua singolarità, nella sua insondabile e dolorosa poesia. Avverrà in 'corpore vili', cioè sull'essere umano, quello che lo strutturalismo ha tentato in letteratura. Lo strutturalismo ci dice, per esempio, quante volte Dante ha usato un certo termine nella Divina Commedia. Alla fine di questa dotta ricerca cosa rimane della poesia di Dante?Nulla. Cosi' sapremo tutto su come funziona il meccanismo umano, ma niente di più, anzi qualcosa di meno, sull'uomo.
Si dice che queste ricerche saranno decisive nel prevenire certe malattie neurologiche, come l'Alzhaimer, potenziando il cervello di soggetti sani inserendovi circuiti elettronici e chip al silicio. Anche qui siamo nella linea per cui non esistono più soggetti sani, siamo tutti potenzialmente dei malati e cosi' dobbiamo essere trattati, con effetti non del tutto indifferenti sulla nostra psiche e sulla nostra 'joie de vivre' («Muore mille volte chi ha paura della morte»dice il vecchio e saggio Epicuro). E' vero che l'Alzheimer è in continuo aumento, ma non si capisce bene se cio' sia dovuto all'allungamento della vita (cosa che mi pare contradditoria perchè l'Alzheimer è una demenza senile precoce), ad una maggior precisione delle diagnosi o non piuttosto al tipo di vita estremamente stressante che conduciamo. Mi ricordo che quando ero ragazzino, negli anni Cinquanta, di Alzheimer non si parlava quasi, c'era l'arteriosclerosi, il nonno che inseguiva le domestiche per appioppargli una pacca sul sedere, una cosa in fondo simpatica e innocua.
Si dice ancora che scopo di questa ricerca, in cui saranno investite centinaia di milioni di dollari, è di «individuare i meccanismi del funzionamento della mente da trasferire nei computer per sviluppare una 'intelligenza artificiale' sempre più simile a quella dell'uomo». Ma dai e ridai c'è il rischio che l' 'intelligenza artificiale' superi quella dell'uomo e lo assoggetti a sè stessa. E' l'ipotesi di Duemilauno Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (del resto è successo, in tutt'altro campo, quello economico, che il meccanismo ci sia sfuggito di mano e oggi ci domini).
Ma l'obbiettivo finale di questa ricerca sul cervello, di questo progetto, ce lo svela, senz'ombra di turbamento, Edoardo Boncinelli, in un articolo sul Corriere della Sera: «E' fare dell'uomo una supermacchina». Cioè un robot. In una sorta di sinistro comunismo tecnologico saremo tutti, disperatamente, uguali.

venerdì 22 febbraio 2013

Giulio Cesare al di là del bene e del male



Lorenzo Vitelli (L'intellettuale dissidente)

“Ben potrei essere commosso se fossi come voi. Se sapessi pregare per commuovere, le preghiere mi commuoverebbero. Ma io sono costante come la stella del Nord, che per la sua fissità ed immobilità non ha compagna nel firmamento. I cieli sono dipinti con innumerevoli scintille; tutte sono fuoco e ognuna brilla, ma non ve n’è una che tenga il suo posto. Così nel mondo: esso è ben fornito di uomini, e gli uomini sono carne e sangue e dotati di intelletto; eppure tra tutti io non conosco solo uno che, inespugnabile, stia saldo al suo luogo, non scosso da alcuni: e questi sono io” – William Shakespeare, Julius Caesar.

Apparteneva alla famiglia Iulia delle gens originarie, tra le più antiche e nobili di Roma, e si diceva discendente di Venere, dea della bellezza, e di Romolo, fondatore dell’Urbe. Prima Fanciullo dissoluto, seduttore lussurioso, dandy in quella Roma imperiale ricca e potente grazie alle conquiste orientali, poi militare, politico, oratore, condottiero, generale, combattente ardito, esteta della guerra, abile scrittore, dittatore. Ma bastano queste cariche, bastano questi ruoli per dire, davvero, chi fosse Cesare? No. Cesare era Cesare, e l’essere cesari, non basterebbe una vita per descriverlo, non basterebbe un tempo, perché Cesare si protrae, sempre, nella Storia, nell’Imperium, nel buio medioevo, nella commedia del sommo poeta, nei monarchi francesi, nei versi shakespeariani, nei diari di Napoleone, nei cardini dell’Occidente.

Cesare, l’uomo, nasceva il 100 a.C.. Nasceva un nessuno, nipote di Gaio Mario, il Mario rivale di Silla. Dopo una giovinezza dissoluta e la fuga dall’Urbe – per i dissidi con il dittatore – della sua nobiltà non se ne fece niente, e si schierò con il partito dei populares, tendenzialmente opposto agli optimates, nobili e patrizi. Divenne tribuno militare, e dopo la nomina a questore si imbarcò per la Spagna. Tra le terre infuocate della penisola iberica, Cesare non si bastava: “Non vi sembra che ci sia motivo di addolorarsi se alla mia età Alessandro regnava già su tante persone, mentre io non ho fatto ancora nulla di notevole?”. Cesare voleva, doveva diventare Cesare. L’ambizione gli impose di stringere legami con Crasso, il dives, abile politico e speculatore finanziario, che gli stanziò ingenti finanziamenti per l’elezione a pontefice massimo. Divenne console nel 59′, e relazionatosi anche con Pompeo Magno, i tre diedero vita al triumvirato. Cesare scendeva a compromessi, e dopo un anno ottenne, in veste di generale, tre provincie: la Gallia Cisalpina, quella Narbonese e l’Illiria. Esasperata e divina la fase più importante della carriera militare del neo-generale, destinata a renderlo celebre per l’eternità, cominciava a prendere vita.

Retto, clemente, pragmatico, ma anche imprudente, scellerato e ambizioso, animato dall’inestinguibile voglia di dimostrare il suo valore a tutto il popolo romano, alla classe dirigente e, sopratutto, a sé stesso, oltre a domare le provincie affidategli, Cesare espanse il dominio dell’Urbe sino alla Gallia celtica e belgica.

Dopo aver affrontato gli Elvezi e i Germani, capitanati da Ariovisto, poi i Begli e le popolazioni ribelli guidate dal principe suebo Ambiorige, dopo avere calpestato per primo, tra tutti i romani, il freddo suolo britannico ed aver massacrato a Londinium la popolazione barbara che lo aveva attaccato, dopo aver difeso il Reno con tutte le sue forze, sino a mettere a rischio la propria vita tra le prime file delle legioni romane (Plutarco nelle Vite dei Cesari scrive: “Spesse volte le sorti di battaglie ormai perdute erano capovolte grazie all’esempio che Giulio Cesare dava ai suoi.
Si racconta che una volta i nemici stavano per avere la meglio in combattimento. Nella mischia Giulio Cesare, accorgendosi che l’alfiere stava fuggendo, gli si precipitò addosso, lo afferrò per il collo e facendolo voltare indietro gli disse: “Vedi che i nemici sono da quella parte!”, dopo aver fatto chinare ai suoi piedi anche l’ultimo ribelle Gallico, Vercingetorige, Cesare si avvicinava sempre più all’essere Cesare, e si incamminò verso Roma.

Ma essere Cesari vuol dire anche essere odiati, e mentre il Senato gli metteva i bastoni tra le ruote, mentre legiferava in sua assenza contro di lui, ecco che, sulle sponde del Rubicone, si pronunciava l’Alea iact est che mosse 50.000 uomini verso Roma e uno solo verso il suo destino.
A proteggere l’Urbe il Senato aveva delegato Pompeo, l’eroe d’Oriente che aveva placato poco prima la rivolta degli schiavi guidata da Spartaco. Ma il Magno non aveva quella freddezza di spirito e la destrezza bellica che permisero a Cesare di rovinarlo a Farsalo e infine trovarlo morto in Egitto.

Se molti dicono che non basta conquistarsi il potere senza conquistarsi il popolo, Cesare aveva sedotto anche questo, come aveva fatto con la lussuriosa Cleopatra ad Alessandria. Cicerone scriveva su di lui:“Egli ebbe ingegno, equilibrio, memoria, cultura, attività, prontezza, diligenza. In guerra aveva compiuto gesta grandi, anche se fatali per lo stato. Non aveva avuto per molti anni altra ambizione che il potere, e con grandi fatiche e pericoli l’aveva realizzata. La moltitudine ignorante se l’era conquistata coi doni, le costruzioni, le elargizioni di viveri e banchetti. I suoi li aveva acquistati con premi, gli avversari con manifestazioni di clemenza, insomma aveva dato ad una città, ch’era stata libera, l’abitudine di servire, in parte per timore, in parte per rassegnazione.”

Cesare aveva dimostrato a sé stesso e a gli altri la sua grandezza militare e strategica, ma doveva ora dare sfogo all’arte governativa. L’economia politica delle grandi opere, quasi keynesiana, fu il primo passo delle lunghe riforme che cambiarono l’Urbe; passo che gli acconsentì di sfruttare le costruzioni architettoniche – come il Forum Iulium e la grande biblioteca – per offrire nuovo lavoro alla popolazione e, allo stesso tempo, per aumentare la sua popolarità tramite l’influenza propagandistica di questi edifici.

L’assetto amministrativo del Governo intanto cambiava forma, e la possibilità di accesso al Senato venne data ai populares, ai tribuni della plebe e, cosa più sconcertante e innovativa, anche ai galli; il dittatore concesse poi la cittadinanza romana a molti degli abitanti delle provincie. Luciano Canfora, storico italiano, scrive: “Con Cesare Roma diventa tutta l’Italia, compresa la Cisalpina. Roma cioè, in quanto concetto giuridico e politico, si identifica – grazie all’estensione della cittadinanza – con l’intera Italia.”

Ma Cesare, gli rinfacciavano gli ottimati, si stava dimenticando di loro e della Repubblica. Questa dimenticanza era forse dovuta all’interesse per il popolo, e le nuove riforme erano intente a colpire direttamente l’antico monopolio dei patrizi, quella sorta di oligarchia usuraia che prima imponeva la sua dittatura su tutto il territorio romano. Cesare iniziò così con una politica rigorosa, una politica di regolamentazioni sul mercato, sui tassi di interesse e sulle speculazioni edilizie: questo fu interpretato come un attacco profondo verso il Senato: la culla dei privilegi della casta dominante. Fu dato sempre maggior potere alle assemblee popolari a detrimento di questa istituzione corrotta, che si innalzò a 900 senatori, la maggior parte fedeli all’autocrate. L’idea dello Stato ebbe un profondo mutamento nello spirito romano, sino a divenire più uniforme ed omogenea, e sebbene fu meno libertaria, sicuramente sembrava più equa.

Mentre Cesare applica le sue riforme, gli ottimati anticesariani – tra cui Giunio Bruto (pompeiano graziato da Cesare dopo la sconfitta del Magno) e Cassio Longino, per citare i più celebri – tramarono alle sue spalle la congiura che alle idi di Marzo gli causò la morte.

Cesare, in quel periodo, era quasi Cesare, ad un passo dal suo essere compiuto, essere, nella sua totalità, che solo la morte, finalmente, gli avrebbe potuto concedere. Gli storici raccontano che fosse spassionato, depresso, disilluso, dagli occhi persi, spenti, scavati, dai lineamenti tesi. Diceva di aver bisogno di un’altra guerra per uscire da quella condizione abulica, diceva di voler attaccare i Parti: ma dappertutto, nell’aria, in quella Roma alle porte della primavera, si parlava di congiure e tradimenti, e dei presagi, sempre più frequenti, scatenavano sconforto tra i familiari del dittatore e nel popolo. Tutti fiutavano il pericolo, tutti, tranne Cesare.

Qualche giorno prima di entrare nel Senato semivuoto, racconta Plutarco, “un indovino aveva ammonito Giulio Cesare a guardarsi da un grande pericolo che lo aspettava alle idi di marzo. Giunte che furono le idi, mentre si recava in Senato, Cesare incontrò l’indovino e, salutandolo, gli disse scherzosamente: 
- Le idi sono giunte! – Si, sono giunte – ribatté l’indovino a bassa voce – ma non sono ancora trascorse!”. Quel 15 Marzo del 44 a.C fu fatale, e quando il dittatore si sedette sul suo scranno dorato, disincantato, abbracciava il suo destino ineluttabile. Publio Casca per primo sferzò una pugnalata, non mortale, sul collo di Cesare, che gridò “Scelleratissimo Casca, che fai?”. I congiurati – tutti senatori repubblicani graziati da Cesare, che gli giurarono fedeltà e protezione a costo della vita – gli si scagliarono contro, senza pietà. “Amo il tradimento ma non il traditore” diceva Cesare. 

Prima di accasciarsi esanime, paradossalmente sotto la statua di Pompeo, la vittima si richiamò a Bruto, intento a trafiggerlo, e pronunciò le sue ultime parole: “tu quoque, Brute, fili mi!”. Cesare era morto, era diventato Cesare.

Il cesaricidio, termine che divenne famoso nel tempo, nacque con la volontà dei congiurati di uccidere la tirannia a tutti i costi, e se non vi fossero riusciti tanto valeva togliersi la vita, come aveva fatto Catone, in Utica, non potendo sopportare le catene della dittatura.

Cesare era ritenuto l’assassino della Repubblica e della democrazia, ma oltre gli idealismi degli optimates, che celavano in sé un misto di astio generale e rancore personale, al di là di questa smania di eliminare il tiranno, non si nascondeva forse tutta l’avidità, l’odio e l’egoismo di una classe dirigente che sino a poco prima abusava del suo potere per lucrare sulle spalle dei cittadini? La Repubblica era morta da tempo, e forse non era mai nata, neanche con la morte di Tarquinio il Superbo, l’ultimo re di Roma, che Licinio Bruto aveva abilmente rovesciato. La Repubblica, se mai fosse esistita, venne suicidata, e Cesare fu l’uomo partorito da quel tempo e di cui il suo tempo aveva bisogno per rifondare una nuovo Stato: un uomo forte, ingegnoso, che seppure, possiamo pensare, non abbia dato a Roma e al popolo romano la libertà, ebbe almeno ristabilito l’ordine in quel caos repubblicano che non faceva altro che tramare complotti ed inganni per rendere il ricco ancora più ricco e il forte ancora più forte. Latifondisti agrari, speculatori edilizi, finanzieri liberali, tutti i rappresentanti del Senato erano corrotti e corruttori: Cicerone, Crasso, Pompeo, Cesare lo fu a suo tempo, per favorire la sua ascesa, e lo stesso Catone che Dante, sebbene pagano, colloca nella sua commedia alle porte del purgatorio, per l’alta moralità e incorruttibilità. Questo è ciò che ha portato Cesare alla morte, l’aver tolto alla classe dominante il Senato e il potere che da questo ne traeva.

Ma Cesare fu ben più grande, egli fu il precursore dell’Impero che guidò il mondo per più di tre secoli dopo di lui. Ottaviano Augusto invero, tramite il diritto di successione, dopo il suo conflitto con Marco Antonio, divenne tribuno della plebe, pontefice massimo e imperatore proconsolare a vita. Inutile fu dunque la combutta di Bruto che, assieme a Cassio, si suicidò una volta sconfitto nella seconda battaglia dei Filippi dal giovane erede adottivo del dittatore.

Cesare ha dato vita ad una nuova Roma, meno democratica? meno giusta? Le sue riforme agrarie e sociali furono viste dagli ottimati come un attacco frontale al potere del Senato, ma qual’era l’ottica popolare? Quando il popolo seppe dell’accaduto e vide nel testamento che il tiranno aveva donato ai cittadini dell’Urbe tutti i giardini gianicolensi andò su tutte le furie e linciò i primi congiurati che gli passarono sotto mano. La domanda a questo punto rimane aperta: egli fu un bene o un male per Roma? Ciò che possiamo affermare è che Cesare fu necessario per sanare la crisi di una Repubblica che avrebbe portato ancor prima il popolo romano alla decadenza, al costo, però, di una guerra civile.

Ma se andiamo al di là del bene e del male non possiamo che ammirare un uomo che ha scritto la sua storia e la Storia, un uomo che, con destrezza e abilità, giocò le sue carte e mosse le sue pedine da grande giocatore, con calcolo freddo e perfezionista da un lato, e con intuito e azzardo dall’altro. Egli fu e continuerà ad essere, per sempre, l’emblema della volontà e della grandezza, e per quanto le parole dei suoi contemporanei e degli storici possano macchiare di atti corrotti e gesta infami la sua vita, Cesare resta un’idea di uomo, di un uomo grande, fuori dal comune, incontenibile, insaziabile, divino.

giovedì 21 febbraio 2013

BAGNO DI FOLLA AL PUCCINI PER GIORGIA MELONI



Teatro Puccini strapieno, ieri sera, con oltre mille persone e i posti esauriti anche in galleria. Un maxischermo è stato allestito all'esterno, per permettere a tutti di seguire, anche da fuori, l'intervento di Giorgia Meloni, presentata al pubblico da Francesco Torselli, animatore storico dell'esperienza di Casaggì ed oggi consigliere comunale e candidato alla Camera dei Deputati in rappresentanza del mondo identitario nella lista di Fratelli d'Italia. 

C'eravamo, e siamo rimasti piacevolmente colpiti da alcuni passaggi del discorso di Giorgia Meloni, che ha richiamato senza mezzi termini la necessità di ripristinare sovranità popolare e monetaria, per svincolare il paese dai diktat della tecnofinanza. Tante facce nuove e tutta la vecchia guardia della destra fiorentina al completo, assieme a Casaggì e ai tantissimi giovani mobilitati per l'occasione. 

Diamo appuntamento, con Giorgia Meloni, al corteo di sabato 9 marzo in ricordo dei martiri delle foibe. Un appuntamento di carattere nazionale, che non può essere assolutamente disertato.

mercoledì 20 febbraio 2013

Karen, la guerra segreta in Birmania


















di Fabio Polese

Combattono per l'indipendenza della loro regione. I militari li hanno quasi sterminati. Un anno di violenze.

Una candela accesa dentro la piccola capanna illumina la notte piovosa. L’umidità della giungla penetra nelle ossa, mentre la temperatura scende inesorabilmente ora dopo ora. Il soldato con il viso pulito e i denti macchiati di rosso che strimpella su una chitarra, però, sembra non accorgersene.
Si chiama Say Thoo, ha 31 anni e si è arruolato sette anni fa volontariamente nell’Esercito di liberazione Karen (Knla). La sua è una storia come molte altre: viveva a Rangoon, la capitale della Birmania ma, finite le scuole, è tornato nella terra dei suoi avi per lottare per il futuro del suo popolo. Nella guerra più lunga di sempre.
KAREN IN LOTTA PER SOPRAVVIVERE. Non ne parlano i media, tacciono gli attivisti. Si combatte nella giungla della Birmania orientale, al confine con la Thailandia, tra montagne e vallate che ancora non conoscono la modernità.
È qui che vivono i Karen - 7 milioni di persone circa su 48 milioni di popolazione - che dal 1949 lottano per la propria sopravvivenza fisica e culturale.
NEL PAESE UN CENTINAIO DI ETNIE. La Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare centrale nel 1989, è infatti composta da un centinaio di etnie forzatamente inglobate durante il periodo coloniale inglese, nel XIX secolo.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, fu sancito un trattato post coloniale che avrebbe permesso al mosaico etnico birmano la costituzione di diversi Stati federali. Ma il trattato non è mai stato osservato da Rangoon. E, anzi, nel 1962 la giunta ha espressamente dichiarato l’intenzione di eliminare le «identità culturali e politiche non birmane», mettendo al bando nelle scuole l'insegnamento di lingue non nazionali. E anche quella dei Karen è sparita.
SCONTRO TRA SOLDATI E GUERRIGLIA. Da allora, il conflitto tra guerriglieri e militari si è fatto ancora più duro. Portando morte, fuga e disperazione.
«Sono sposato, ma mia moglie sta nel campo profughi thailandese di Umphiem», racconta a Lettera43.it il soldato accettando una sigaretta, senza mai smettere di sorridere. «Un giorno, quando vinceremo, potremo essere finalmente liberi di vivere insieme nel nostro Stato».

Stupro, mine e deportazione sono gli strumenti di lotta delle truppe dell’esercito. Prima dell’elezione, nel 2011, del generale Thein Sein a guida del Paese - l’uomo definito il «Gorbaciov birmano» - gli attacchi ai villaggi erano all’ordine del giorno.
«Chi rimaneva vivo, veniva preso e usato come scudo umano per i successivi attacchi o costretto ai lavori forzati», spiegano alcuni abitanti del villaggio Oo Kray Kee.
Per sfuggire alla violenza moltissimi sono scappati: almeno 500 mila sono i rifugiati interni e 130 mila persone sono finite nei campi profughi thailandesi.
DAL 1981 LA VIOLENZA SULLE DONNE. Chi è rimasto ha sofferto. Nel rapporto State of terror, realizzato dalla Karen women organisation (Kwo), vengono citate le storie di 959 donne che dal 1981 al 2006 hanno subito violenza sessuale da parte di soldati e ufficiali birmani.
Ma è solo una minima parte: secondo l’associazione Karen human right group (Khrg) sarebbero migliaia i casi sconosciuti che non si possono documentare.
IL DRAMMA DELLE MINE ANTI-UOMO. Si contano, e soprattutto si vedono, i segni delle mine antiuomo: nascosti nei sentieri della giunga migliaia di ordigni - la Birmania è uno dei Paesi più minati al mondo, secondo le Nazioni unite - hanno ucciso o mutilato almeno 3 mila persone dal 1999 a oggi.
Saw Min Naing, 30 anni appena compiuti, ha perso la vista nel settembre del 2008. Stava rientrando alla base militare dopo giorni di combattimento a fuoco con l’esercito birmano quando, vicino al villaggio di Klal Lor Sal, è scoppiata una mina. Da quel giorno non ci vede più.
Toe Doh, invece, nella sporca guerra ha perso una gamba, ma imbraccia ancora fiero il suo Ak47 per «difendere il mio popolo dagli attacchi dell’oppressore».
L'AIUTO DELLA ONLUS ITALIANA. Il ritornello è sempre lo stesso, sulla bocca della gente o nella canzone della rivoluzione che strimpella il soldato per scaldare la notte.
Risuona lungo la strada - la «strada della morte», la chiamano da queste parti - che penetra nella fitta vegetazione, tra salite e discese che costeggiano il confine tra Thailandia e Birmania, e conduce, dopo molte soste ai check point dell’esercito thailandese, all’ingresso del villaggio di Oo Kray Kee, ricostruito recentemente dalla Onlus italiana Popoli dopo che l’esercito birmano l’aveva brutalmente distrutto.
«Welcome to Kawthoolei», Benvenuti nella terra senza peccato, accoglie la scritta che campeggia all’ingresso.

La festa per il 64esimo anniversario della Rivoluzione

In questi giorni di febbraio la gente è in festa: si celebra il 64esimo anniversario della Rivoluzione Karen, l’inizio della battaglia.
I soldati in divisa luccicante e guanti bianchi, si radunano nel piazzale della base militare pronti a marciare verso il villaggio, davanti agli occhi dei Karen arrivati da altri villaggi percorrendo vie pericolosissime e accidentate o temporaneamente usciti dai campi profughi thailandesi per assistere alle celebrazioni.
LOTTA PER LO STATO INDIPENDENTE. Sul palco costruito interamente in bambù, incorniciato da un’enorme bandiera dello Stato Karen, si alternano alcuni esponenti della leadership della guerriglia.
«La libertà non è gratuita, bisogna combattere uniti per la nostra autodeterminazione», ripetono senza sosta.
Nerdah Mya, colonnello del Klna, figlio del generale Bo Mya, leggendario leader della lotta armata contro il regime birmano, spiega in cosa consiste la libertà.
«Combattiamo da più di 64 anni. Vogliamo il riconoscimento, da parte delle autorità birmane, del popolo Karen e del nostro Stato», racconta.
L'INUTILE CESSATE IL FUOCO DEL 2012. L’intesa, tuttavia, non sembra vicina. Si è parlato di uno storico «cessate il fuoco» firmato a gennaio 2012 tra l’Unione nazionale karen (Knu), espressione politica dell’etnia, e il governo centrale di Rangoon.
Ma i Karen sono scettici. «Mentre parlano di pace, riforniscono i loro avamposti e attaccano un altro gruppo etnico, i Kachin», a Nord del Paese, racconta David Thackarbaw, ex vicepresidente della Knu, ora vicepresidente dell’Unione delle nazionalità federali (Unfc).
IL DISINTERESSE INTERNAZIONALE. Il tutto nel silenzio internazionale. Dopo le elezioni del novembre del 2010 e dopo la liberazione del Premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, l’illusione di un disgelo birmano cresce, e le multinazionali fanno a gara per accaparrarsi lo sfruttamento del territorio ricco di minerali, finora esclusivamente appannaggio della Cina.
Anche la regione su cui i Karen sperano di far sorgere il proprio Stato è ricco di legname e gas. Ma per loro non è una buona notizia.
«Non vogliamo lo sfruttamento selvaggio del nostro territorio», ribadisce determinato Nerdah Mya.
Un’altra ragione per combattere.

lunedì 18 febbraio 2013

L’italiano medio che non merita il suffragio universale


Tratto da Azione Tradizionale

“Ma perché questo bastardo taccagno di Sergio Marchionne non rinuncia a 15.000 euro al mese di stipendio invece di tagliare i compensi degli operai e delocalizzare?”. Mi faceva osservare l’infervorato Piero mentre era con il capo chino sul suo smartphone. “Cioè per lui quanto saranno 15.000 euro al mese? Un cazzo - mi faceva riflettere - Nemmeno se ne accorge. E invece per quei poveracci 200 euro in meno significano la fame”.

Continuavo ad ascoltarlo senza rispondere e lui ogni tanto distoglieva lo sguardo dallo smartphone in cerca del mio, confidando in un’approvazione. E io approvavo pure, per carità, ma poi gli ho chiesto: ”Scusa ma cosa stai combinando con il cellulare?”. E lui, quasi stizzito:”No niente di che. Sto solo rispondendo a sta tipa su WhatsApp”. Poi subito dopo, sempre battagliero ha aggiunto:“Che poi a proposito: pure sti stronzi di WhatsApp che ora me lo vogliono far pagare. Ma tanto li fotto: hai letto che c’è il modo di continuare ad usarlo gratis?”. A quel punto gli chiedo:”Ma perché quanto costa?”. E lui:”79 centesimi all’anno”. E io, sarcastico:“Però…che ladri. Peggio di Marchionne”. A quel punto il buon Piero si decide a staccare definitivamente lo sguardo dallo schermo del telefonino per chiedermi, più stizzito di prima: “Che c’entra Marchionne scusa? Mi pare normale che se c’è un’alternativa gratuita io la utilizzi”. Lo guardo negli occhi, scuoto la testa e ribatto: “Appunto. E a me a sto punto pare normale che Marchionne se può delocalizzare e trovare alternative a basso costo le sfrutti”. Poi gli chiedo retorico:”La differenza dove risiede? Nel fatto che lui è un taccagno milionario e tu un taccagno pezzente? Così come per lui non sono nulla 15.000 euro al mese, per te non sono nulla 79 cent l’anno, giusto? Solo che entrambi non volete spenderli e allora pace: viva il libero mercato e l’italiano medio che nasconde la sua perpetua invidia dietro finte battaglie per l’equità sociale”.

Piero non parla più. Non sa che dire e di cosa frignare. Quasi sicuramente mi odia ma, al contempo, si è inesorabilmente reso conto di essere molto più simile di quanto pensava a chi dice di detestare. Si è reso conto di rappresentare lo stereotipo triste ed odioso di quell’italiano medio, scroccone ed avido, che lui era convinto di combattere ciarlando a caso. Il nostro paese è pieno di Piero ed ognuno autogiustifica la propria pochezza umana e culturale nei modi più disparati e talvolta fantasiosi. Diversi si sono voluti autogiustificare sostenendo, tra le varie cose, che WhatsApp “non rispetta la privacy” e poi facendo sapere a tutti che “ora usiamo Viber”.

SIAMO TUTTI SERGIO MARCHIONNE

Di conseguenza, fin quando non ci chiedono soldi e ci danno l’illusione che tutto sia gratis, per noi va benissimo e non ci facciamo domande. Poi, appena osano chiederci cifre simboliche, allora ci accorgiamo che la nostra privacy è violata o che esistono alternative gratuite e troppo più ganze. Siamo un po’ tutti dei Sergio Marchionne, solo che rosichiamo perennemente perché possiamo sognarci il suo stipendio. Siamo in piazza fin quando non ci offrono un bel posto di lavoro che ci remuneri il giusto. Siamo pronti ad infangare e delegittimare con violenza inaudita il duro lavoro altrui alla prima sbavatura per sentirci meno soli nel nostro perpetuo fallimento esistenziale. Godiamo degli insuccessi altrui perché non abbiamo nostri successi di cui andare fieri.

Non vogliamo politici ladri ma poi arraffiamo tutto ciò che possiamo e ci fingiamo ciechi per anni perché vogliamo un sussidio che non ci spetta. Parcheggiamo al posto dei diversamente abili perché “tanto ci metto un attimo” e saltiamo le file sempre perché “tanto ci metto un attimo”. Siamo i “puliti”, siamo il “popolo” che chi si candida non osa criticare per il terrore di perdere consensi. La casta? I banchieri? Vivono e prosperano grazie ai banchetti di compromessi, ipocrisia e vigliaccheria che prepariamo ogni giorno per loro. Noi siamo chi ci rappresenta e, fin quando non capiremo questo, il suffragio universale ci si ritorcerà contro ed offrirà ai vari Piero diritti che non dovrebbero avere.

domenica 17 febbraio 2013

Commemorazione per i martiri delle foibe a Sinalunga

Ieri, a Sinalunga, Casaggì Valdichiana ha ricordato i martiri delle foibe. Tanti giovani, col tricolore in mano, hanno reso omaggio a tutti quegli innocenti massacrati e dimenticati. Diamo appuntamento a tutti SABATO 9 MARZO A FIRENZE, PER IL GRANDE CORTEO DEL RICORDO.
Le istituzioni dimenticano,
Casaggì no!






sabato 16 febbraio 2013

Così a Parigi l’Anpi ha fatto “sbianchettare” Gentile: non fu “ucciso da bande partigiane” ma “da sue scelte”…












di Antonella Ambrosini

«Il filosofo dell’idealismo che fu teorico dell’atto puro, rifondatore del liceo italiano e che finì tragicamente i suoi giorni, vittima della guerra civile del 1944, assassinato a Firenze da una banda di partigiani». Passa qualche giorno e quella frase diventa: «Il filosofo che rifondò sotto il fascismo il liceo italiano e che finì tragicamente i suoi giorni, pagando le sue scelte politiche a favore della dittatura al tempo della guerra civile di liberazione nel 1944». 

Così, con pochi ritocchi di maquillages può cambiare nel giro di poco tempo la biografia on line a corredo di un grande convegno sul filosofo dell’attualismo che si è tenuto all’Università della Sorbona di Parigi il 2 febbraio scorso, promosso dall’Istituto di cultura italiana. Cambiamento non da poco, sottolineato in un articoletto, a piè di pagina, su Repubblica, che ricostruisce brevemente la vicenda in tono quasi consolatorio. Non sfugge agli studiosi e agli appassionati in genere di storia la fine di Gentile: «Fu ucciso 15 aprile 1944 per mano di un commando di partigiani comunisti. Fu una pagina nera nella storia della Resistenza, un episodio che ancora imbarazza la Sinistra. 

Fu un assassinio privo di giustificazioni militari o politiche dal momento che Gentile non ricopriva cariche pubbliche, se non culturali, e, conosciuto per mitezza e disinteresse, si era pronunciato e adoperato per la riconciliazione degli italiani». Parola non di un’ultrà del fascismo ma di uno storico di formazione liberale, Francesco Perfetti, allievo di Renzo De Felice, direttore di Nuova Storia Contemporanea, in un articolo apparso sul Tempo il 2 maggio del 2011. Come si spiega il cambio repentino di biografia sul sito dell’Istituto di Cultura italiano a Parigi? Si spiega col fatto che la guerra civile non per tutti è finita. 

Non è finita per esempio per Elio Rampino, presidente della Sezione Anpi della Repubblica Ceca a Praga, che probabilmente svela il “retroscena” del dietrofront: pochi giorni prima del convegno Rampino aveva scritto una lettera di protesta alla direttrice dell’Istituto, Marina Valensise: «Già definire “banda” le azioni dei Partigiani – si legge nella lettera riportata dall’agenzia internazionale stampa estera – che hanno contribuito, spesso con il sacrificio della propria vita, a rendere l’Italia un Paese libero, suona come un insulto alla storia repubblicana e democratica del nostro Paese». L’Anpi di Praga prosegue giudicando inopportuno organizzare un convegno su Gentile in quanto «ispiratore del Manifesto sulla razza». Rampino invitava pertanto «a prendere gli opportuni provvedimenti per dare un taglio corretto alle iniziative. Nel caso contrario -concludeva- mi riservo di presentare formale protesta al Ministero competente». Morale: il testo della presentazione è stato “corretto”. 

La direttrice, Marina Valensise raggiunta telefonicamente a Parigi, s’è trincerata dietro un “no comment”. Così, definire “bande” chi ha ucciso Gentile urta la sensibilità democratica dell’Anpi, mentre dire che Gentile «ha pagato tragicamente» (“giustamente”?!) l’adesione al fascismo, glissando su un fatto storicamente accreditato ormai dalla stragrande maggioranza degli storici, ossia l’uccisione per mano partigiana, toglie tutti dall’imbarazzo di dover indicare il colpevole, ammesso che lo si consideri tale, visto che aveva ucciso un fascista…

venerdì 15 febbraio 2013

Il popolo















di Alain de Benoist (Diorama)

La parola «popolo» può avere due significati diversi, a seconda che lo si consideri come un tutto (un territorio e l'insieme degli abitanti che lo occupano, l'insieme dei membri del corpo civico) oppure come una parte di quel tutto (le «classi popolari»). Nella lingua francese, «peuple» ha in un primo momento designato un insieme di persone legate da una comunità di origine, di habitat, di costumi e di istituzioni. È il significato che il termine riveste quando fa la sua comparsa nel IX secolo, in particolare nei Serments (giuramenti) de Strasbourg (842). Ma ben presto si è diffusa la seconda accezione: il popolo "popolare", per contrasto con le élites dominanti, è la "piccola gente", la "gente da poco", quel "popolo minuto", come si diceva nel XVIII secolo, la cui definizione non si riduce affatto a una semplice dimensione economica (contrariamente ai "diseredati" o ai "più bisognosi"). Questa ambivalenza è estremamente antica.

Risale alla Grecia arcaica, dato che il termine demos è già attestato nel sillabario miceneo (da-mo). In origine, il demos rappresenta un modo di pensare la comunità in rapporto stretto con il territorio che gli è proprio e sul quale si esercita l'autorità dei suoi dirigenti (da ciò il "deme", circoscrizione territoriale e amministrativa). Questa dimensione territoriale del demos è direttamente legata alla sua dimensione politica. Già nei testi omerici, il demos non si confonde assolutamente con l'ethnos. Si distingue altresì dal laos, che si riferisce piuttosto ad un gruppo di uomini posti sotto l'autorità di un capo. A Sparta, attraverso la nozione di demos si costituisce l'ideale del cittadino-soldato. Ad Atene, il demos si riferisce all'insieme dei cittadini, cioè alla comunità politica che forma l'elemento umano della polis. In quanto soggetto del,—/ l'azione collettiva, è esso a creare Io spazio comune sulla cui base si può svolgere un'esistenza sociale propriamente politica.

A partire dal V secolo prima della nostra era, il termine demos designa anche la democrazia, ed acquista nel contempo una risonanza peggiorativa per coloro che stigmatizzano l'esercizio del kratos da parte del demos. Ma designa altresì un "partito popolare", equivalente della plebs romana, di cui si trova traccia già nei testi di Solone.
Il principio della democrazia non è quello dell'eguaglianza naturale degli uomini fra di loro, bensì quello dell'eguaglianza politica di tutti i cittadini. La "competenza" a partecipare alla vita pubblica non ha altra fonte al di fuori del fatto dí essere cittadini. Scrive Hannah Arendt: «Noi non nasciamo eguali, diventiamo eguali in quanto membri di un gruppo, in virtù della nostra decisione di garantirci reciprocamente eguali diritti». Il popolo, in democrazia, con il suo voto non esprime opinioni che siano più vere di altre.

Fa sapere dove vanno le sue preferenze e se sostiene oppure sconfessa i suoi dirigenti. Come scrive molto giustamente Antoine Chollet, «in una democrazia, ii popolo non ha né torto né ragione, ma decide». E il fondamento stesso della legittimità democratica. È proprio per questo che la domanda «chi è cittadino?» — e chi non lo è — è l'interrogativo che fonda ogni prassi democratica. Allo stesso modo, la definizione democratica della libertà non è l'assenza di costrizione, come nella dottrina liberale o in Hobbes («the absence of external impediment», si legge nel Leviathan, 14), ma si identifica con la possibilità per ciascuno di partecipare alla definizione collettiva delle costrizioni sociali. Le libertà, sempre concrete, si applicano ad ambiti specifici e a situazioni particolari. Un popolo può anche essere considerato composto da una moltitudine di singolarità, ma ciò non gli impedisce di formare un tutto, e quel tutto ha qualità specifiche indipendenti da quelle che ritroviamo negli individui che lo compongono. E perché il popolo forma un tutto che il bene comune non si identifica con un "interesse generale" che non sia nient'altro che la somma di interessi individuali. Il bene comune è irriducibile a qualunque sorta di suddivisione. Non richiede una definizione morale, ma una definizione politica.

In ogni governo rappresentativo vi è un'evidente inflessione antidemocratica, cosa che Rousseau aveva ben visto («Nell'istante in cui il popolo si dà dei rappresentanti, non è più libero», Contratto sociale, III, 15). La partecipazione politica vi è infatti limitata esclusivamente alle consultazioni elettorali, il che significa che il demos non raggruppa più degli attori, ma solamente degli elettori. Vi si afferma implicitamente che il popolo non può prendere da sé la parola, non deve fornire direttamente il suo punto di vista sui problemi del momento o su decisioni che chiamano in causa il suo futuro, che addirittura vi sono argomenti che devono essere sottratti al suo parere, dato che le decisioni e le scelte devono essere esercitate soltanto dai rappresentanti che esso designa, vale a dire da élites che non hanno mai cessato di tradire coloro dai quali avevano ricevuto il potere, élites alla cui testa si collocano gli esperti, che confondono regolarmente i mezzi con i fini. La percezione sociale del popolo si trasforma a partire dal XVIII secolo, nel momento in cui viene inventata la "società". Da un lato, si teorizza l'«anima del popolo» ( Volksseele), dall'altro si vede nel popolo —le classi popolari — un nuovo attore sociale capace di rimettere in discussione le antiche gerarchie. Nel XIX secolo, la destra conservatrice difende prima di tutto il popolo come totalità — con un netto scivolamento dal demos all'ethnos—, nel momento stesso in cui sviluppa una mistica dell'unità nazionale che giunge fino all'"unione sacra", mentre i socialisti difendono le classi popolari. E una dissociazione profondamente artificiale, dal momento che la "gente de popolo na sempre formato un'ampia maggioranza del "popolo". Il popolo deve infatti essere difeso in tutte le sue dimensioni.

L'esempio della Comune di Parigi è, da questo punto di vista, particolarmente notevole, giacché quel movimento ha coagulato nel contempo una reazione patriottica (la paura di assistere all'ingresso delle truppe prussiane a Parigi) e una reazione proletaria (il timore di una reazione monarchica contro il risultato delle elezioni del febbraio 1871).

Nel corso di quelle giornate, che termineranno nel sangue, il popolo parigino insorto prende il potere. In poche settimane, riesce a riversare le sue parole d'ordine in programmi, ad abbozzare al di là dei provvedimenti d'urgenza un'inedita forma istituzionale. In materia di rappresentanza, la Comune elegge da sé i propri delegati e proclama la revocabilità dei mandati. Sul piano sociale, sopprime le ammende sui salari, prevede la gratuità della giustizia e l'elezione dei magistrati. Decide inoltre la separazione tra la Chiesa e lo Stato, stabilisce il principio dell'insegnamento gratuito e obbligatorio, si pronuncia perfino per il «governo del mondo delle arti da parte degli artisti». L'ispirazione generale è quella del federalismo proudhoniano. L'associazione dei lavoratori viene posta come principio basilare dell'organizzazione della produzione. I versagliesi impediranno a quel programma di realizzarsi. «Il cadavere è a terra, ma l'idea è in piedi», dirà Victor Hugo.

giovedì 14 febbraio 2013

Cento anni fa nasceva Mantelli, “papà” degli alianti italiani e asso dell’aria della Rsi


di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

Adriano Mantelli nacque cento anni fa a Parma, dove oggi c’è una via che lo ricorda vicino all’Aeroclub della città, e da questo fortemente voluta. Pino Valenti, aviatore e tra i promotori dell’intitolazione, ha dovuto superare numerosi ostacoli prima di ottenere questo giusto riconoscimento per uno dei nostri migliori piloti da caccia di tutti i tempi e “papà” del volo a vela, ossia degli alianti. Tutto perché Mantelli aderì alla Repubblica sociale, nella cui aviazione si coprì di gloria. Mantelli si arruolò giovanissimo nell’Aeronautica militare, conseguendo il brevetto su apparecchi da caccia, e distinguendosi per le sue doti di acrobata dell’aria. Il controllo che aveva sul mezzo era pressoché totale, e ricordiamoci che allora gli aerei non erano certo sofisticati come oggi. Partì volontario guerra di Spagna, col XVI Gruppo della Caccia Legionaria (Chucaracha) CR 32, dove si distinse per il suo valore. Tornato in Italia, si dedicò all’attività volovelistica sportiva ad Asiago e a Sezze Romano, dove negli ultimi anni Trenta stabilì i primi record nazionali di durata e di distanza per alianti monoposto e biposto, vincendo tutte le gare nazionali nonché i Littoriali del Volo a Vela. Fu pilota sperimentatore e collaudatore presso il Centro sperimentale di Guidonia. Lavorò alla progettazione, costruzione e sperimentazione di velivoli e motoalianti, creando quella gli alianti con e senza motore “A.M.”, ben noti in Italia ed all’estero, precorrendo di decenni lo sviluppo degli ultraleggeri. Dopo l’8 settembre, come detto, entrò nell’Aviazione nazionale repubblicana, dove fu promotore della rinascita della specialità aliantista: costituì un Nucleo Volo Senza Motore. I mezzi furono gli Avia FL 3 quali traini, e i CVV 2 Asiago quali veleggiatori; successivamente ebbe il prototipo CVV 6 Canguro. Alla base di Cascina Costa l’attività del nucleo, più sportivo che militare, si interruppe il 23 aprile 1945, quando i partigiani circondarono il campo e chiesero la resa. Dapprima Mantelli rifiutò, ma poi il Cln, il 28, gli trasmise la richiesta del suo maggiore, Adriano Visconti, asso dell’aria con 25 vittorie. Mantelli si arrese poiché era stata promessa salva la vita a tutti, ma Visconti fu allontanato dagli altri aviatori e assassinato con una raffica di mitra e finito con un colpo alla nuca. A sparare fu un partigiano russo, guardaspalle del comandante partigiano Aldo Aniasi, “Iso”, futuro sindaco di Milano. Dopo la guerra Mantelli si trasferì in Argentina dove stabilì il primato italiano di distanza libera per alianti monoposto. Tornato in patria, nel 1951 costituì il Centro militare di Volo a Vela, con sede prima all’Aeroporto dell’Urbe, poi a Guidonia. Nel 1953 Mantelli, dopo aver utilizzato per primo le risorse volovelistiche dell’Appennino, su incarico dell’Aeronautica e dell’Aero Club d’Italia, creò il Centro Volovelistico di Rieti, dove organizzò il primo corso nazionale per istruttori di volo a vela. Nel 1954 a Vigna di Valle stabilì il primato italiano di durata per alianti monoposto con 24 ore e 15 minuti di volo, unitamente ad altri primati. Nel 1955 batté un altro record, quello di durata per alianti biposto con un volo di 28 ore. Negli anni successivi batté nuovi record e realizzò nuovi primati. Insignito di molte onorificenze italiane ed estere, ha avuto riconoscimenti quali la medaglia del Coni nel 1941, la medaglia d’oro dell’Aero Club d’Italia, una medaglia d’argento al valore aeronautico, il diploma Tissandier della FAI, e le medaglie Luis Bleriot per gli anni 1962 e 1964. È scomparso il 7 maggio 1995, con il grado di generale.

mercoledì 13 febbraio 2013

Anche il gioco è malato di solitudine

















di Massimo Fini

La passione per il gioco d'azzardo è diventata ufficialmente una malattia degna delle cure del Servizio sanitario nazionale. Adesso si chiama ludopatia. E' tipico di questo stato liberale che più liberale non si puo' bollare come aberrazioni quasi tutte le passioni umane (anche la gelosia, per esempio), salvo lucrare su alcune di esse. Non devi fumare, ma le tasse sulle sigarette impinguano le casse dello Stato. Non devi bere superalcolici, pero' non li abolisco, li tasso. Lo Stato è il tenutario di tutti i Casino' e ai vecchi giochi, il lotto, la schedina ne ha aggiunti altri, l'Enalotto, il Superenalotto mentre si inventa sempre nuove lotterie.
In Italia si è sempre giocato d'azzardo. Non c'è bisogno di leggere Chiara o Fenoglio -in provincia si gioca di più- per sapere che c'è gente che al tavolo del poker ha perso fortune, case e si è giocata pure la moglie. A Milano, ai di', nei retrobottega dei bar si giocava a poker o a ramino pokerato. Oppure lo si faceva in casa. In strada si giocava ai dadi. Mille erano le bische clandestine, spesso mascherate da austeri circoli culturali (al « Cicolo Napoli »-mi pare si chiamasse cosi' sono passati tanti anni- in Piazza Sant'Alessandro, in pieno centro, giocavano il Procuratore generale Carmelo Spagnuolo e molti direttori di giornale.
Si è sempre giocato d'azzardo. Premesso che ogni individuo adulto ha diritto di fare della propria vita cio' che vuole, anche di rovinarla ,quello che è cambiato è il modo di giocare. Il poker (quello vero con cinque carte coperte, non il Texas hold'em, importato come altre nefandezze dall'America, con cinque 'vele', una vera perversione) si gioca a quattro o a cinque, ci vuole abilità, conoscenza della tecnica di base, capacità psicologica, 'presenza al tavolo', coraggio. Anche lo chemin de fer, sia pur in modo più limitato e indiretto, è uno scontro di caratteri fra i nove giocatori che si avvicendano al tavolo e ci vuole tenuta nervosa per non perdersi nella serie dei 'suivi' ' (perchè essendo un gioco al raddoppio ci vuole niente per perdere cifre colossali). Persino alla roulette, che è azzardo puro, c'è un rapporto con le persone che stanno attorno al tavolo verde e con i croupiers.
Sono tornato qualche tempo fa al Casino' di Sanremo dove non mettevo piede da molti anni. Era diventato una distesa a perdita d'occhio di slot-machines, tipo Las Vegas, i tavoli dello chemin e della roulette erano ridotti al minimo, marginali.
Quello con le slot è un rapporto solipsistico con la macchina dove, oltretutto, non ci vuole alcuna abilità. Si infilano delle monete in una fessura : tutto qua. Che segnale danno ? Quello di un'enorme solitudine e di una crescente incapacità di intrecciare rapporti (anche grazie alla tecnologia che tende a separarci dagli altri e a estraniarci da noi stessi) che permeano l'intera società moderna. E' questa società che è profondamente malata. Ed è essa che andrebbe curata prima dei cosidetti 'ludopatici' che ne sono solamente una proiezione.

martedì 12 febbraio 2013

Come uscire dalla solitudine



















di Claudio Risè

La sofferenza più diffusa oggi? La solitudine. Un disagio che ne crea molti altri, anche gravi. Spesso comincia presto, anche prima di nascere, dalla faticosa ricerca di uno scambio armonico tra madre e figlio.

Oggi i bambini affetti da disturbi della comunicazione (dalle dislessie all’autismo), sono sempre più numerosi. Sono, o si sono sentiti, soli. Sono bimbi sensibili, e il loro disturbo è la metafora della malattia del tempo: solitudine e difficoltà a comunicare ciò che si sente.
Le cronache lo ricordano in continuazione: dalle vite difficili di molte star, a quella perdute delle cronache quotidiane di giovani o vecchi trovati abbandonati in fondo a un cortile, o in un appartamento chiuso. O il professionista famoso che si tira un colpo nel suo super studio, in pieno centro.

La solitudine è la grande sfida con la quale si deve confrontare l’uomo oggi. Da dove nasce? Il fatto è che l’uomo è un essere sociale, vive e si sviluppa comunicando con gli altri. Per comunicare, però, ha bisogno di appartenere a qualcosa in cui si possa riconoscere. Un territorio, una comunità, un gruppo. E una famiglia. Nel giro di pochi decenni molte di queste cose si sono squagliate, o quasi. I territori sono esplosi sotto sviluppi enormi, o si sono svuotati per l’abbandono dei loro tradizionali abitanti.

Questi cambiamenti hanno poi stravolto e per solito dissolto le comunità tradizionali. Anche i gruppi nei quali le persone si identificavano, a cominciare dalle classi sociali, con le loro specifiche e diverse culture, si sono liquefatti e confusi.

Qualcosa del genere sta anche accadendo nel campo della famiglia, creando confusioni, difficoltà, e spesso traumi a cominciare dal fondamentale e delicatissimo rapporto madre-figlio. Senza relazioni autentiche, senza vere identificazioni, l’uomo è solo.

E’ una situazione difficile, ma dalla quale si può uscire. E’ necessario però evitare che cada nel suo polo oscuro, e diventi isolamento.

Il bambino è solitario (oltre che, spesso, per una naturale introversione) per difendersi da stimoli, rumori provocazioni, che disturbano il suo sviluppo affettivo e cognitivo. Per un periodo preferisce rinunciare ad avere comunicazione e relazioni più intense con gli altri. Deve però trovare dei ponti che riaprano la comunicazione con l’esterno: familiari, compagni, amici.
Lo stesso deve accadere all’adulto che, per ragioni diverse, è caduto (o ha momentaneamente scelto) la solitudine. Occorre evitare che si isoli, e venga isolato, dal resto del mondo.
Non si tratta solo di un problema psicologico, o di cura. E’ un problema sociale. Le statistiche dei disturbi psichiatrici, in continua crescita, ci parlano anche di questo. Occorre trovare delle soluzioni perché la crescente solitudine delle persone non diventi isolamento. Come fare?

Qualcosa si comincia a vedere dalle modifiche del tessuto sociale delle città. I quartieri, spesso proprio quelli più in difficoltà (come Sanità o Stella a Napoli) cercano autonomamente di darsi luoghi di incontro, blog, momenti di discussione, di elaborazione culturale, di mutua assistenza. Avranno le loro fatiche e contraddizioni, ma è da lì che bisogna partire: dai nuclei elementari di convivenza.

Caseggiati, quartieri, piccole e grandi comunità. E naturalmente famiglie. Occorre ricostituire reti di comunicazioni personali, autentiche, ora annegate nella società apparentemente “liquida”, ma in realtà dura e impersonale degli ultimi decenni. Situazioni con le quali i giovani possano identificarsi non per una sera di sballo, ma per un’appartenenza reale, quotidiana. Per costruire una vita.