venerdì 31 maggio 2013

Fiume, avanguardia della Rivoluzione!

di Mario M. Merlino

Sono stato più volte ad Ancona – mi era facile trascorrendo diversi mesi sulla costa romagnola – e sempre, percorrendo la storica via Pizzecolli, mi sono recato fino alla scalinata su cui si erge, nell’omonima piazza, la chiesa di San Francesco delle Scale. Con la sua facciata e il portale in stile gotico di pietra bianca dell’Istria, opera dell’architetto Orsini di Sebenico nella metà del XV secolo. Sotto il dominio napoleonico fu adattata a scopi militari, successivamente a Pinacoteca. Nel 1944 fu colpita durante uno dei bombardamenti alleati subendo notevoli danni. Solo nei primi anni ’50 fu nuovamente consacrata alle sue originarie funzioni religiose. Non, però, di storia dell’arte e di monumenti religiosi è il mio intento. Ho sempre avuto a noia visitare i musei soffermarmi estasiato davanti ad opere incorniciate e appese alle pareti volgermi con mal celati gridolini di libidine estetica e, ancora, girovagare per centri storici ammirare soppesare uscire con luoghi comuni accompagnati da punti esclamativi e tono della voce declamatorio e gesti studiati della mano…

Esuli, i fiumani, vi hanno eretto un altare con la dura pietra del Carso – la medesima che si mostra a monito sul marciapiede, zona Laurentina, Roma, dove venne edificato il quartiere per i giuliani gli istriani i dalmati in fuga e che porta il loro nome – e vi hanno esposto un’anfora con l’acqua della loro città e un cofanetto di terra del cimitero e quel tricolore che, ultimo, sventolò sull’Olocausta. Una testimonianza che è eredità di spirito e di sangue, proprio in quella città che li aveva accolti, al loro arrivo in porto, lanciando pietre ed invettive su indicazione del partito comunista. Aveva declamato Gabriele D’Annunzio: ‘Si spiritus pro nobis, qui contra nos?’. Nell’età del nichilismo Nietzsche ci ha educato a pensare alla morte di Dio e allo Spirito ritiratosi. Lo sappiamo bene noi, folli e disperati, costretti a danzare ormai al ritmo ossessivo d’una nota sola. Eppure vogliamo restare fedeli all’onda eterna della poesia che andò ad infrangersi sulle rive del Carnaro. Ecco perché, sì questa è la ragione, fin da giovane inquieto ed irriverente ho avvertito una sorta di dovere a visitare quella chiesa. Non da turista non da credente non da sopravvissuto…

Con lodevole iniziativa Maurizio Murelli ha pubblicato (‘In 500 esemplari nel 150esimo anniversario della nascita di Gabriele D’Annunzio e a 75 anni dalla morte dello stesso’ come si legge in nota), per i tipi dell’Aga Editrice, tre volumi che sono la ristampa di due opere di Mario Carli, Con D’Annunzio a Fiume e Trillirì, e di Tom Antongini Gli allegri filibustieri di D’Annunzio. Con caratteri che rimandano alla stagione delle dispense universitarie quando poco si studiava e ci si bastonava sulle scalinate delle facoltà. Allegramente e con atteggiamenti pirateschi, mi verrebbe da dire, in omaggio alla scelta di riannodare i fili della memoria sull’impresa fiumana iniziatasi alle ore 13,30 dell’undici settembre 1919. In divisa da ufficiale dei lanceri di Novara il Vate, pur febbricitante, lascia Venezia e raggiunge la punta di San Giuliano a Mestre, ove l’attende il suo autista con l’automobile rossa e scoperta.

Ho i tre libri in pila a lato del computer. Del saggio di Mario Carli sono alle ultime pagine. Mario Carli, ufficiale degli arditi nella Grande Guerra, disertore per raggiungere D’Annunzio a Fiume, di cui diverrà fra i più intimi collaboratori. Viene inviato a Milano, per volontà del poeta, a costituire la redazione de La Testadi Ferro, il giornale della causa fiumana e forse strumento ulteriore per predisporre un piano di ampliamento della rivoluzione su tutto il territorio nazionale. Arrestato con degli anarchici sotto l’accusa di progettare atti di sabotaggio mentre si sta consumando la tragedia di Fiume, il Natale di sangue del 1920. Tra Lenin e l‘emergere del fascismo, intransigente (forse sotto la spinta di Sorel) e sempre là dove vi sono avanguardie le più radicali che chiedono di andare oltre. Il romanzo Trillirì è un regalo di Rodolfo per il mio prossimo compleanno. Del terzo so soltanto che narra, in presa diretta e partecipe, la vicenda degli Uscocchi che, riprendendo la tradizione della pirateria in Adriatico al tempo della Serenissima, rifornivano la città colpita dall’embargo.

Poesia rivoluzione azioni esemplari ed eclatanti la Carta del Carnaro le donne sesso nudismo yoga e cocaina la musica Alla festa della rivoluzione, come si intitola il bel libro di Claudia Salaris. Tutto questo, certamente, e di una modernità gioiosa libertaria irriverente le immagini che ci giungono e ci fanno amare quella esperienza. Fiume fu, però, anche laboratorio per una concezione ardita e anticipatrice delle dottrine sul concetto di proprietà sulla dignità del lavoro sulla giustizia sociale che, percorrendo il lungo e a volte tortuoso cammino del fascismo, arriveranno ai 18 Punti di Verona. E anche in ciò sta l’amore che sentiamo per quella città, italianissima sempre alla nostra mente e nel nostro cuore, e la sua sfortunata avventura.

giovedì 30 maggio 2013

Il politologo Rosanvallon: superare l’egualitarismo per una nuova forma di “comunità”...



di Annalisa Terranova

Dopo avere tratteggiato i caratteri essenziali della “democrazia di sorveglianza” come risposta alla sfiducia crescente nella politica da parte dei cittadini, il politologo francese Pierre Rosanvallon in un nuovo testo da pochi giorni in libreria (La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, pp. 372, euro 25) esamina le possibili reazioni dell’Occidente democratico dinanzi all’aumento delle disuguaglianze. Un dato, quest’ultimo, confermato dalle statistiche che mostrano come, in vari paesi europei tra cui anche l’Italia, la ricchezza si concentra nelle mani di un settore sempre più esiguo della popolazione mentre si allarga il perimetro dei ceti disagiati. 

Questa situazione, secondo Rosanvallon, non ha effetti solo sulla percezione dell’ingiustizia sociale ma anche sulla politica in generale perché produce un senso collettivo di impotenza. “Di qui – scrive – il sentimento, che mina il tempo presente, di trovarsi davanti a situazioni che deploriamo ma rispetto alle quali restiamo infine passivi, senza riuscire nemmeno a comprendere tale paralisi. Sentimento torbido, che nutre la ricerca di capri espiatori e il rifugio in pensieri magici…”. Il politologo francese indica proprio in questo fattore la causa principale della destabilizzazione dei partiti di sinistra, che avevano fatto dell’idea di uguaglianza la loro bandiera.

Ma le pagine più interessanti del saggio di Rosanvallon sono quelle in cui propone una nuova idea di uguaglianza, fondata sulla reciprocità, e capace di produrre equilibrio nelle relazioni sociali. Non più ricchi contro poveri e viceversa, ma impegno condiviso per la crescita della società stessa. 

Questa “uguaglianza d’interazione” non mira a una semplice uguaglianza economico-aritmetica (cioè all’astratto egualitarismo) ma a un’uguale distribuzione dei diritti e dei doveri. Ne consegue un’avversione per tutto ciò che è favoritismo, per i comportamenti che tendono ad approfittare del sistema, per le norme che avvantaggiano solo poche persone. “I diritti – spiega – non sono più considerati solo come norme astratte che s’impongono a tutti” ma fanno “riferimento all’aspettativa di una reciprocità” perché non è l’uguaglianza dinanzi alla legge a costituire lo “spazio civico” ma l’uguaglianza reale nell’uso delle regole. In una simile prospettiva vanno intesi anche i doveri: non più “vincoli e limiti imposti dal potere pubblico alla libertà individuale” ma ingiunzioni che “costruiscono” il sociale.

Quando questa regola della reciprocità entra in crisi le società cadono in una rete di paradossi corrosivi e aumenta il disagio delle classi medie e delle classi povere che non si esprime solo banalmente come ostilità verso la ricchezza ma come assimilazione della politica al parassitismo tout court. Riflessioni utilissime anche per analizzare la condizione italiana e per mettere a fuoco alcuni obiettivi essenziali tra cui quello di sostituire alla retorica dei diritti lo sforzo collettivo di costruzione di una “civitas” come spazio dell’uguaglianza “plurale”, uno spazio dove la reciprocità dell’impegno fa sì che non ci siano né insopportabili privilegi né l’annullamento delle diversità nell’uguaglianza “dell’indistinzione”.

mercoledì 29 maggio 2013

Ogni cosa ha un limite. Impossibile perseguire lo sviluppo perpetuo.



di Massimo Fini

In concomitanza col Festival dell'Economia di Trento si svolge a Rovereto un Alterfestival, un controfestival, organizzato da alcune associazioni, per lo più di giovani, cui partecipano alcuni intellettuali, diciamo cosi', 'eterodossi' e al quale sono stato invitato.

Cerchero' qui di anticipare, in estrema sintesi, ciò che dirò stasera. Il modello di sviluppo che ormai solo per convenzione chiamiamo occidentale perchè è nato in Inghilterra con la Rivoluzione industriale a metà del XVIII secolo, ma ha coinvolto da tempo la Russia e più recentemente la Cina, l'India e altri Paesi cosidetti 'emergenti', si basa sull'impossibile: le crescite esponenziali che esistono in matematica ma non in natura. Ogni cosa umana ha un limite. Noi, dal punto di vista economico, ma non solo, lo stiamo raggiungendo. Siamo come una potentissima macchina che, partita appunto a metà del Settecento, ha percorso a velocità sempre crescente due secoli e mezzo, e ora si trova di fronte a un muro. Andare ancora avanti non è più possibile. Ma non si rassegna e continua a dare di gas finchè, prima o poi, fonderà. Fuor di metafora: non si puo' più crescere. Ma le leads mondiali, di destra e di sinistra, per ignoranza o malafede, continuano a parlare di crescita illudendo le loro popolazioni. Certo, per un po' potranno ancora continuare in questo gioco illusionistico immettendo nel sistema enormi quantità di liquido che, proprio per la sua entità, non corrisponde a nulla se non a una scommessa su un futuro cosi' sideralmente lontano da essere inesistente, drogando ulteriormente il cavallo già dopato sperando che faccia ancora qualche passo avanti fino al fatale e inevitabile collasso per overdose. Il che significherebbe il crollo, sanguinoso, del nostro mondo.

Si puo' evitare questa apocalisse? Si', se gli uomini fossero delle creature intelligenti. Si tratterebbe di avere il coraggio di fare qualche passo indietro, di ritornare, in modo graduale, ragionato e limitato, a forme di autoproduzione e autoconsumo, che passano per un recupero della terra (la Madre Terra che ci dà il cibo, l'unica cosa veramente indispensabile insieme a una abitazione e, ma non sempre, al vestire) e per il ridimensionamento dell'apparato industriale, finanziario e ora anche di quel mondo virtuale che ci sta inghiottendo tutti (se c'è una rapina un po' movimentata, come quella avvenuta nei giorni scorsi a Milano nella centralissima via Spiga, chi vi ha assistito dice «sembrava di essere in un film», non è più la fiction che imita la realtà, ma la realtà che imita la fiction).

Abbiamo puntato tutto sull'Economia, emarginando tutte le altre e complesse esigenze dell'essere umano, e l'economia, questa economia, sta clamorosamente fallendo. Abbiamo puntato tutto sulla sua sorella gemella, la Tecnologia, senza capire che la tecnologia, come mi disse Paolo Rossi, filosofo della Scienza, «se risolve un problema ne apre dieci altri ancora più complessi». Ed economia e tecnologia ci hanno svuotato di alcuni elementi e valori essenziali dell'umano: dignità, onestà, onore, lealtà, fraternità, coraggio, istinti e, insomma, la vitalità. Nella rapina di Milano, mentre i passanti si accucciavano come cani sotto le auto, terrorizzati, l'unico a reagire, rischiando la pelle, è stato il proprietario del negozio. Ma era armeno. Siamo diventati, ad imitazione degli americani, una società svirilizzata, femminea senza essere femminile. Dirò la verità fino in fondo: quando leggo di qualche delitto passionale (di un uomo o di una donna) mi riconforto. Perchè vuol dire che in giro c'è ancora della vita. E non solo economia, tecnologia e la morte dell'anima.

martedì 28 maggio 2013

L’Ilva e il destino dell’Italia in un mondo industriale globalizzato...



di Leonardo Petrocelli (barbadillo.it)


Ultimamente, le dichiarazioni sul caso Ilva si assomigliano un po’ tutte.Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: “Sulla base di quello che succederà si giocherà il futuro del manifatturiero pesante che connota l’Italia come paese industrializzato avanzato”. Claudio Gemme, presidente dell’ANIE: “La ricchezza e il benessere italiani si sono sempre basati sul manifatturiero. Tutti si impegnino per salvarlo”. Guglielmo Epifani, neosegretario del Pd: “Non c’è motivo per cui il nostro paese, che è ancora il secondo esportatore di manifatturiero, non debba difendere la sua siderurgia”.
In realtà, un motivo c’è e non è nemmeno così misterioso: la globalizzazione ha in serbo per l’Italia un destino diverso. Lo spiegarono benissimo Giuliano Amato e Carlo De Benedetti in un lungo scritto a quattro mani, comparso su “Repubblica” nel settembre del 2004, chiarendo quale sia la più grande possibilità strategica per l’Italia: “È la forza delle sue produzioni e dei suoi servizi di alta qualità, il suo estro per l´estetica e il design, la sua capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale non solo turistico del suo territorio, la sua cultura millenaria, il suo ambiente, la sua arte. In questo senso le grandi trasformazioni del mondo possono diventare una enorme chance per il nostro Paese”.

Proviamo a tradurre. Il mercato internazionale impone ai suoi attori di impegnarsi nei settori dove essi possiedono un “vantaggio competitivo”, cioè dove realizzano qualcosa che può essere prodotta solo lì o lì meglio che altrove. La logica del “tutti fanno tutto” è bandita. Ognuno fa il suo e, per il resto, si commercia in modo da integrare domanda e offerta, nella certezza che l’infinita intelligenza del mercato aggiusterà tutto: flussi, quantità, prezzi. Dunque, l’Italia farebbe bene a dismettere quel che resta del suo settore manifatturiero, eccellente ma costoso, e lasciare che esso emigri verso altri paesi dove si può fare lo stesso pagando gli operai un pugno di riso e dove nessuno protesta per la diossina e le morti di cancro (l’intelligenza del mercato…). Poco male, perché tanto noi abbiamo il “sole, mare e la buona cucina”, il rosso della Ferrari e di Valentino, il design e le gallerie. E se i francesi ci restituissero la Gioconda saremmo a posto per sempre. La Regione Puglia si è già portata avanti col lavoro, regalandoci uno videospot del tarantino con panorami caraibici e l’Ilva allegramente rimossa dalla cartolina. Ilva? Ma quale Ilva? Qui c’è il paradiso, venghino siori, venghino.

Invece l’Ilva c’è ancora insieme a quel poco che resta delle Pmi e delle grandi imprese nazionali come la Finmeccanica, sopravvissute alla svendita privatizzatrice di Prodi&c e assediate dalla magistratura. Si dovrebbe ripartire da qui, ma il piano della globalizzazione – che non è per nulla una entità astratta ma un fenomeno “agito” e pianificato – è quello di un paese “leggero”, tutto basato sull’estetica e i servizi, e completamente dipendente dall’estero per ogni altra necessità. Un paese eternamente con il cappello in mano, terrorizzato da crisi economiche e diplomatiche, svuotato di ogni capacità autarchica di resistenza. Perché senza capi firmati si può vivere, senza acciaio o prodotti alimentari (compriamoli dall’estero, costano meno!), nella modernità, si muore. O, meglio, si diventa dipendenti da tutto e da tutti, in primis dalla globalizzazione, che si è costretti a difendere perché altrimenti siamo spacciati: chi ci venderà ciò che prima ci facevamo da soli e, ora, fanno gli altri per noi?

Ed è ridicolo sentire parlare ora di nazionalizzazione, pianificazione, divieto di vendita dell’Ilva alla Cina da coloro che, fino a ieri, incensavano l’intelligenza del mercato globale e le virtù del nuovo corso. Questo è il mondo che avete voluto. Siatene fieri se ci riuscite.

lunedì 27 maggio 2013

La rivolta anti-nozze gay di Parigi fa sul serio.



di Romana Fabiani

È duro il bilancio del day after la massiccia manifestazione parigina contro le nozze e le adozioni gay. Quasi 300 persone sono state fermate per gli scontri con la polizia a margine de le Manif pour tous, 231 sono a rischio di arresto. 

È la prima notizia de Le Figaro corredata di video degli scontri che hanno prodotto 36 feriti, tra cui 34 poliziotti. La violenza di alcune frange che hanno rovinato la marcia di un milione di francesi è esplosa in tarda serata davanti alla spianata de Les Invalides. Il ministro dell’Interno, Manuel Valls, ha condannato gli incidenti provocati – ha detto – «da estremisti di destra». 

Al grido di “Hollande, dimissioni”, “esplode tutto, esplode tutto”, “dittatura socialista”, non hanno seguito gli ordini di sciogliere la manifestazione: i poliziotti hanno risposto con fumogeni e lancio di lacrimogeni e un fotografo è stato leggermente ferito. Un grande striscione con scritto “Hollande, démission” ha fatto mostra di sé per alcune ore davanti alla sede del Partito socialista. Su Twitter, Damien Rieu, portavoce del movimento Generazione identitaria, ha postato molte foto della terrazza socialista “occupata”. Per quest’ultimo appuntamento, dopo la lunga crociata contro la legge firmata dal presidente socialista, erano in tantissimi, più vicini al milione dichiarato dagli organizzatori che ai 150.000 stimati dalla polizia. 

Tre i cortei partiti da punti diversi di Parigi, che si sono ritrovati al centro della città, più alcune centinaia di Civitas, l’organizzazione dei cattolici più integralisti che sfilava da sola. La stampa ormai parla del più grande movimento sociale che la Francia abbia conosciuto dal ’68. Ma Hollande non sembra preoccuparsi troppo e, a detta anche dei suoi sostenitori, non sta gestendo la rivolta montante con sufficiente attenzione. Le proteste (che provengono non solo dai settori più conservatori dell’opinione pubblica) hanno rallentato l’iter legislativo ma non impedito l’approvazione di uno dei provvedimenti più contestati degli ultimi 30 anni. Ora la Francia è il nono paese in Europa ad adottare la legalizzare del matrimonio omosessuale. Le prime nozze gay, destinate a suscitare un vespaio di polemiche, sarà celebrato il prossimo 29 maggio a Montpellier, nel sud della Francia. 

Più delicata la questione dell’adozione. La legge lascia in sospeso questioni fondamentali in materia di diritti della famiglia: non garantisce, in automatico, diritti di co-genitorialità per le coppie omosessuali unite civilmente, né consente l’accesso alla procreazione medicalmente assistita o la fecondazione in vitro per le coppie lesbiche.

domenica 26 maggio 2013

Medicina, che follia "anticipare" le malattie

di Massimo Fini


Com'è noto l'attrice Angelina Jolie si è fatta asportare entrambi i seni perchè facendo certi test genetici ha scoperto di avere un gene, il Brca-1, con una variante che, secondo i medici, le dà l'87% di probabilità di sviluppare in futuro (l'attrice ha ora 37 anni) un cancro alla mammella. Con l'operazione le probabilità si sarebbero ridotte al 5%. Ma per essere completamente al sicuro Angelina dovrebbe farsi togliere anche le ovaie. Più in là è andato un manager londinese di 53 anni che si è fatto asportare la prostata, sanissima (e tutti sanno quale importanza abbia questo organo per l'erezione maschile e una normale funzione sessuale) perchè, avendo anch'egli il Brca-1 modificato avrebbe qualche possibilità di andare incontro a un cancro.

Siamo alla follia della medicina preventiva, al trionfo del terrorismo diagnostico. Non esiste più l'uomo sano, sostituito da quello 'a rischio'. Siamo tutti 'a rischio'. Del resto è ovvio: è vivere che ci fa morire. Qualsiasi età si abbia bisogna palpeggiarsi, auscultarsi, fare una mezza dozzina di controlli clinici all'anno. Non si puo' più fumare, non si puo' più bere, non si può più ingrassare. Dobbiamo vivere ibernati, vecchi fin da giovani. Per prevenire la morte, comunque inevitabile, ci impediamo di vivere. E adesso, con l'ultimo grido della medicina preventiva, i test genetici, dobbiamo anche mutilarci in nome di un pericolo puramente ipotetico. Se andiamo avanti di questo passo dovremmo castrarci per evitare un eventuale tumore ai testicoli.

Questi test genetici, la cui attendibilità oltretutto è assai dubbia come ammette il professor Bonanni, oncologo, dovrebbero essere vietati. Per legge. Perchè se uno scopre di avere il gene Brca-1 o Brca-2 modificati, le alternative sono due: o ignora il test ma vivrà per decenni col terrore di una malattia che magari non si presenterà mai (i modi del morire sono infiniti) oppure accetterà amputazioni invalidanti e degradanti.

Alle spalle di tutto cio' sta il demone moderno del controllo. Abbiamo dimenticato nella nostra ubris demenziale, che esiste il Caso (che i Greci chiamavano Fato) che è, per definizione imprevedibile. Valga, per tutti, la storia raccontata dal medico francese Norbert Bensaïd nel bel libro 'Le illusioni della medicina'. Dunque M.L era un quarantenne, grassottello, a suo agio nel proprio corpo, contento di vivere e ghiottone. I medici gli avevano riscontrato un modesto ma tenace, tasso di colesterolo. Ma M.L non se ne preoccupava. Poi un bel giorno aveva letto su Le Monde (siano stramaledetti i giornali) una tabella in base alla quale poteva e doveva calcolare i rischi di infarto cui era esposto. Allora corse, preoccupatissimo, da Bensaïd il quale cercò di rassicurarlo e di convincerlo che i 'fattori di rischio' che gli erano stati segnalati non erano altro che 'i fattori di rischio' e che non era predestinato ad essere vittima di una patologia vascolare. Ma non ci fu niente da fare, M.L voleva essere curato come si deve. Bensaïd gli prescrisse quindi i farmaci e le precauzioni del caso, dieta, niente fumo, eccetera che M.L segui' scrupolosamente. Dopo un po' di tempo Bensaïd noto' che l'uomo non era più lo stesso: era diventato triste, amaro, aggressivo. Per farvela breve M.L mori' tre anni dopo per un melanoma fulminante. Nota Bensaïd: «Io non potevo saperlo, ma gli avevo avvelenato, inutilmente, gli ultimi anni della sua vita. Lo avevo reso infelice per impedirgli di essere malato. Anzi per prevenire, nella migliore delle ipotesi, patologie del tutto ipotetiche».

sabato 25 maggio 2013

Ribelle è chi rifiuta di strisciare


Che cos’è un ribelle? Ribelli si nasce o si diventa a seconda delle circostanze? Ci sono diversi tipi di ribelli?

Dominique Venner. Si può essere intellettualmente indipendenti, ai margini del gregge, senza per questo essere un ribelle. Paul Morand ne è un buon esempio. Da giovane, era stato uno spirito libero, niente di più, e un favorito dalla fortuna, nei due sensi del termine. I suoi romanzi semplici avevano favorito il suo successo. Niente di ribelle e nemmeno di insolente a quell’epoca. Ciò che ha fatto di lui l’indipendente rivelato dal suo Diario è stato l’aver fatto involontariamente la scelta dei futuri perdenti tra il 1940 e il 1944 e l’aver persistito poi nelle sue repulsioni, l’essersi sentito uno straniero. Un altro esempio molto differente è quello di Ernst Jünger. Benché sia autore di un Trattato del ribelle molto influenzato dalle inquietudini della guerra fredda, Jünger non fu mai un ribelle. Nazionalista all’epoca del nazionalismo, in urto con il III Reich come buona parte della buona società, legato durante la guerra ai futuri cospiratori del 20 luglio 1944, non ha mai approvato il principio dell’attentato contro Hitler. Ciò per ragioni di ordine etico. Il suo itinerario più o meno ai margini delle mode è molto esattamente quello dell’anarca, figura di cui fu l’inventore e la perfetta incarnazione dopo il 1932. L’anarca non è un ribelle. È uno spettatore appollaiato a una tale altezza che il fango non può raggiungerlo.

Al contrario di Morand o di Jünger, in seno alla generazione precedente, il poeta irlandese Padrig Pearse fu un autentico ribelle. Si può dire che lo fu per nascita. Bambino, aveva imparato le gesta dei combattenti di tutte le rivolte dell’Irlanda. Più tardi, cominciò ad associare il risveglio della lingua gaelica alla preparazione dell’insurrezione armata. Membro fondatore della prima IRA, fu il vero capo dell’insurrezione della Pasqua del 1916 a Dublino. Per questo motivo venne fucilato. Morì senza sapere che il suo sacrificio sarebbe diventato il lievito che avrebbe fatto trionfare la sua causa.

Quarto esempio ancora differente, Aleksandr Solženicyn. Fino al suo arresto, nel 1945, era stato un eccellente sovietico, che si poneva poche domande su un sistema nel quale era nato, e che compiva durante la guerra il suo dovere di ufficiale riservista dell’Armata rossa senza problemi di coscienza. Il suo arresto, la scoperta del Gulag, dell’orrore accumulato dal 1917, provocarono una totale rimessa in discussione, tanto di se stesso quanto del mondo nel quale aveva vissuto fino a quel momento alla cieca. Fu allora che divenne un ribelle, anche rispetto alle società mercantili, distruttrici di ogni tradizione e di ogni vita superiore.

Le ragioni di un Pearse non sono quelle di un Solženicyn, il quale ha avuto bisogno dello shock di un avvenimento seguito da un eroico sforzo interiore per diventare un ribelle. Ciò che hanno in comune, è di aver scoperto per vie differenti una incompatibilità assoluta tra il loro essere e il mondo nel quale dovevano vivere. Questa è la prima caratteristica che definisce il ribelle. La seconda è il rifiuto della fatalità.


Che differenza c’è tra la ribellione, la rivolta, la dissidenza e la resistenza?

D.V. La rivolta è un movimento spontaneo, provocato da una violenza ingiusta, un’ignominia, uno scandalo. Figlia dell’indignazione, è raramente durevole. La dissidenza, come l’eresia, è il fatto di separarsi da una comunità, sia essa politica, sociale, religiosa o filosofica. I suoi motivi possono essere legati al caso. Essa non implica l’inizio di una lotta. Quanto alla resistenza, al di là del senso mitico acquisito durante la guerra, significa che ci si oppone, e niente di più, a una forza o a un sistema, anche passivamente. Essere ribelli è tutt’altra cosa.

Rispetto a che cosa un «ribelle» è essenzialmente… ribelle?

D.V. È ribelle a ciò che gli sembra illegittimo, all’impostura o al sacrilegio. Il ribelle è legge per se stesso. Ciò fonda la sua specificità. La sua seconda caratteristica è la volontà di iniziare la lotta, anche senza speranza. Se combatte una potenza, è perché ne rifiuta la legittimità, ed aspira a un’altra legittimità, nella fattispecie a quella dell’anima o dello spirito.

Quali modelli di «ribelli» offrirebbe, scegliendoli nella storia e nella letteratura?

D.V. Di primo acchito, penso all’Antigone di Sofocle. Con lei, siamo nello spazio della legittimità sacra. Antigone è ribelle per fedeltà. Sfida il decreto di Creonte per rispetto della tradizione e del comandamento divino – la sepoltura dei morti – trasgredito dal re. Poco importa che Creonte abbia le sue ragioni. Il loro prezzo è un sacrilegio. Antigone crede dunque di essere legittimata nella sua ribellione. Per invocare altri esempi, ho solo l’imbarazzo della scelta. Durante la guerra di secessione americana, gli yankees designarono i loro avversari sudisti con il nome di ribelli, rebs. Era della buona propaganda, ma falsa. La Costituzione degli Stati Uniti riconosceva, infatti, agli Stati membri il diritto di secessione. E le forme costituzionali erano state rispettate dagli Stati del Sud. Il generale Robert Lee, un virginiano, futuro comandante in capo degli eserciti confederati, non si considerava un ribelle. Dopo la sua resa, nell’aprile del 1865, si sforzò di riconciliare il Sud con il Nord. In quel momento insorsero i veri ribelli, donne e uomini che, dopo la sconfitta, continuarono la lotta contro l’occupazione del Sud da parte degli eserciti nordisti e dei loro protetti. Alcuni, come Jesse James, cascarono nel banditismo. Altri trasmisero ai loro figli una tradizione che ebbe una grande posterità letteraria. Leggendo Gli invitti, il più bel romanzo di William Faulkner, si scopre, ad esempio, l’affascinante ritratto di una giovane ribelle, Drusilla, sempre certa del suo buon diritto e dell’illegittimità dei vincitori.

Come si può essere ribelli oggi?

D.V. Mi chiedo soprattutto come si possa non esserlo! Esistere, significa combattere ciò che mi nega. Essere ribelli non è collezionare libri empi, sognare fantasmagorici complotti o la resistenza partigiana nelle Cevenne. Significa essere norma per se stessi. E attenervisi, a qualunque costo. Badare a non guarire mai dalla propria giovinezza. Preferire inimicarsi il mondo intero, piuttosto che strisciare. Praticare anche, come un corsaro e senza vergogna, il diritto di preda. Saccheggiare nell’epoca tutto ciò che è possibile convertire alla propria norma, senza fermarsi alle apparenze. Nella sconfitta, non porsi mai il problema dell’inutilità di un combattimento perduto. Si pensi a Padrig Pearse.

Ho ricordato Solženicyn che incarnò la spada magica di cui parla Jünger, «la spada magica che fa impallidire la potenza dei tiranni». In questo, egli è unico e inimitabile. Eppure, era debitore a persone meno grandi di lui. E ciò incita a riflettere. In Arcipelago Gulag, ha narrato le circostanze della sua «rivelazione». Nel 1945, c’era una decina di detenuti nella stessa cella della prigione di Butyrki, a Mosca, volti smunti e corpi abbandonati. Tra i detenuti, uno solo era differente. Era una ex guardia bianca, il colonnello Constantin Iassevic. Si voleva fargli pagare il suo impegno nella guerra civile, nel 1919. E Solženicyn dice che il colonnello, senza parlare del suo passato, mostrava con tutto il suo atteggiamento che per lui la lotta non era finita. Mentre nella mente degli altri detenuti regnava il caos, egli aveva visibilmente un punto di vista chiaro e netto sul mondo che lo circondava. La nettezza della sua posizione dava al suo corpo, malgrado l’età, solidità, scioltezza, energia. Era l’unico a spruzzarsi con acqua fredda ogni mattina, mentre gli altri detenuti marcivano nella loro sporcizia e si lamentavano. Un anno dopo, trasferito di nuovo nella stessa prigione di Mosca, Solženicyn venne a sapere che l’ex colonnello bianco era stato appena giustiziato. «Dunque, era questo che vedeva attraverso i muri, con i suoi occhi rimasti giovani […] Ma l’incoercibile sensazione di essere rimasto fedele alla via che si era tracciata gli conferiva una forza poco comune». Meditando su questo episodio, mi dico che, non riuscendo ad immaginare di poter mai diventare un altro Solženicyn, ognuno di noi può quantomeno essere l’immagine del vecchio colonnello bianco.


Dominique Venner, autore di Le cœur rebelle, intervista ripresa dal numero 308 di Diorama, con traduzione di Giuseppe Giaccio.

venerdì 24 maggio 2013

Grecia: migliaia di bambini soffrono la fame


di Andrea Perrone (Rinascita)

Una crisi gravissima che colpisce senza pietà anche i più piccini. È la situazione economica senza precedenti della Grecia che oltre alla disoccupazione e all’aumento dei senza casa evidenzia un disagio diffuso anche a livello infantile a causa dell’indigenza delle famiglie sempre più povere. Povertà provocata dalle misure da vera e propria macelleria sociale imposte dalla troika dell’usura per riavere indietro il prestito oneroso concesso ai governi ellenici per fare fronte alla crisi del debito. Soltanto nel 2011 erano 597.000 i bambini che vivevano in condizioni di estrema esclusione sociale, ovvero il 30,4% del totale, con un incremento del 9,1% rispetto al 2010. Ad evidenziare il dato è stato il Comitato nazionale greco per l’Unicef, che ha presentato il suo nuovo rapporto “La condizione dei bambini in Grecia 2013” realizzato in collaborazione con l’Università di Atene. Nello stesso anno, la percentuale di bambini che vivevano in condizioni di notevole disagio, ovvero in famiglie colpite da estrema indigenza, da grave deprivazione materiale e da scarsità di lavoro (leggi: disoccupazione oppure impiego sottopagato), nel 2011, era pari al 3,5%, in sintesi 69.000 bambini, drammaticamente in aumento rispetto ai 12.000 nel 2010. La percentuale di bimbi che vivono in famiglie dove nessuno ha un lavoro era pari al 9,2% nel 2011 ed è aumentato di 2,9 punti percentuali tra il 2010 e il 2011, a dimostrazione che la crisi e le misure draconiane dei vari governi hanno gettato letteralmente sul lastrico un numero enorme di famiglie elleniche e dei loro componenti. In Grecia, secondo gli ultimi dati del 2011, la povertà infantile ha avuto un aumento di 0,7 punti, pari al 23,7%. E così il numero di bambini indigenti è salito a 465.000 unità. Da quanto riportato nel documento il 16,4% di tutti i piccini vive in famiglie con “grave deprivazione materiale”, che corrisponde a ben 322.000 bambini: numero aumentato di 89.000 unità, con un incremento in percentuale del 38,2% tra il 2010 e il 2011. Aumento che per la fascia di età compresa tra i 6 e gli 11 anni raggiunge addirittura il 46,7%. Non è tutto. Infatti il 50,8% delle famiglie con figli si dichiara impossibilitata a permettersi una settimana di vacanza a causa delle difficoltà economica che attraversa ormai da anni. Allo stesso tempo il 37,2% è obbligato a lottare per pagare le bollette, le rate delle carte di credito e i prestiti, mentre il 34,5% si dichiara incapace a poter coprire le spese non programmate. La percentuale di famiglie con bambini al di sotto della soglia di povertà che dichiarano la propria impossibilità ad includere nel menu di ogni giorno carne, pesce, pollo o verdure è passata dal 21,6% del 2010 al 44,3% nel 2011: più del doppio nel giro di appena 12 mesi. Ancora più gravi le situazioni domestiche di alcuni nuclei familiari con figli a carico che affermano di non poter permettersi di soddisfare le necessità di avere il riscaldamento nelle loro abitazione poiché sono aumentati dal 14,8% del 2010 al 19,3% nel 2011 e le famiglie povere con figli a carico dal 37,1% al 39,7% negli stessi anni. Ma il bollettino di guerra non finisce qui. Da quanto emerso dal documento ben il 25,4% delle famiglie con bimbi sono esposte a problemi ambientali – dall’inquinamento alla contaminazione – nella propria zona di residenza. Dati, percentuali, numeri assolutamente allarmanti che esprimono il disagio sociale che attraversa ormai da alcuni anni la Grecia sottoposta alle vessazioni dei governi per volere della Commissione Ue, della Bce e del Fondo monetario, la troika che semina povertà e indigenza nei Paesi dell’Eurozona che hanno chiesto un prestito ad usura ai Signori del danaro, finendo nel vortice debitorio da cui è impossibile uscire.

giovedì 23 maggio 2013

Femen a Notre-Dame contro il suicidio di Venner. Il 29 il primo matrimonio gay a Montpellier...



di Renato Berio (Secolo d'Italia)

Il giorno dopo il suicidio eclatante di Dominique Venner la cattedrale di Notre Dame è stata oggetto di un’altra azione dimostrativa, questa volta senza epilogo drammatico ma dai toni decisamente dissacranti, da parte di un’attivista del gruppo Femen che è entrata nella chiesa, ha tirato fuori una pistola giocattolo e si è fatta fotografare simulando di suicidarsi con un colpo in bocca. Sul seno nudo la giovane aveva la scritta in inglese: “May fascism rest in hell”, “che il fascismo riposi all’inferno”. 

L’azione è durata appena qualche minuto, alcuni degli stranieri presenti in Notre Dame hanno urlato all’attivista di Femen di vergognarsi. Un’azione di esibizionismo estremista che ha voluto in qualche modo “pareggiare il conto” con il gesto dimostrativo di Venner, la cui lettera-testamento al di là del comportamento dei media sta facendo discutere. “Sono sano e amo la vita – ha scritto Venner – ma ritengo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci sopraffà… Mi do la morte per risvegliare le coscienze addormentate… Insorgo contro i veleni dell’anima… Mentre tanti uomini si fanno schiavi della loro vita, il mio gesto incarna un’etica della volontà”. 

Non l’estrema scelta di un anziano depresso, dunque, ma un consapevole atto di ribellione. Un atto, dice Venner, “fondativo”, o meglio rifondativo di valori ormai troppo “liquidi”. Parole, al di là di come la si pensi, che restituiscono da un lato la statura di uno scrittore i cui saggi ricevevano premi dall’Accademia di Francia (come quello sulla guerra civile russa) e dall’altro il livello macchiettistico delle dimostrazioni delle Femen. Queste ultime, del resto, sono solo pose utili a far scattare qualche foto. Differente è approfondire con onestà intellettuale il messaggio che Venner ha lanciato alle coscienze. La stampa però, almeno quella italiana, non ci si prova neppure relegando il gesto di Venner dentro il rassicurante recinto dell’azione di protesta di un uomo di estrema destra. Un’azione che non merita commenti ma solo condanne. 

E La Stampa oggi sceglie di far commentare il suicidio di Notre Dame dal primo uomo che sposerà un altro uomo nella storia della Francia. Si chiama Vincent e dice di provare compassione per Dominique Venner: “Era evidentemente molto infelice”. Il 29 si sposerà nel salone delle feste del Comune di Montpellier. Grande cerimonia, decine di giornalisti. La cronaca dell’evento oscurerà la storia del vecchio scrittore europeista che si dà la morte e renderà opache le ultime parole di Venner, che restano comunque un disperato e chiaro atto di testimonianza per i valori di una tradizione ideale sempre più flebile: “Insorgo contro gli invasivi desideri individuali che distruggono i nostri ancoraggi identitari e in particolare la famiglia, nucleo intimo della nostra civiltà millenaria…”.

IN RICORDO DI GIOVANNI FALCONE!


Oggi come ieri,contro ogni mafia!

mercoledì 22 maggio 2013

Dominique Venner: suicida contro una civiltà in declino...



Oggi è un bel giorno, a prescindere da tutto e da tutti. Un fratello ritorna nella ciurma e il suo tempo non sarà più scandito dall'ora d'aria e dal passo pesante della guardia. Poterlo riabbracciare è un'emozione che testimonia la forza di quel legame di sangue che tiene unita una Comunità nel profondo. E poi, si sa, certa gente resta libera anche dentro una gabbia. Bentornato Pippo. Venner, 78 anni, ex membro dell’Oas, si è sparato davanti all’altare di Notre Dame, in un gesto teatrale e simbolico che certamente scuoterà le coscienze. Di seguito riportiamo la sua lettera, scritta prima di togliersi la vita…

L'ultima lettera di Dominique Venner

Sono sano di spirito e di corpo e sono innamorato di mia moglie e dei miei figli. Amo la vita e non attendo nulla oltre di essa, se non il perpetrarsi della mia razza e del mio spirito. Cionondimeno, al crepuscolo di questa vita, di fronte agli immensi pericoli per la mia patria francese ed europea, sento il dovere di agire finché ne ho la forza; ritengo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci sopraffà.


Offro quel che rimane della mia vita con un intento di protesta e di fondazione. Scelgo un luogo altamente simbolico, la cattedrale di Notre Dame de Paris che rispetto ed ammiro, che fu edificata dal genio dei miei antenati su dei luoghi di culto più antichi che richiamano le nostre origini immemoriali.


Mentre tanti uomini si fanno schiavi della loro vita, il mio gesto incarna un'etica della volontà. Mi do la morte per risvegliare le coscienze addormentate. Insorgo contro la fatalità. Insorgo contro i veleni dell'anima e contro gli invasivi desideri individuali che distruggono i nostri ancoraggi identitari e in particolare la famiglia, nucleo intimo della nostra civiltà millenaria. Così come difendo l'identità di tutti i popoli presso di loro, mi ribello al contempo contro il crimine che mira al rimpiazzo delle nostre popolazioni.

Essendo impossibile liberare il discorso dominante dalle sue ambiguità tossiche, spetta agli Europei trarre le conseguenze. Non possedendo noi una religione identitaria alla quale ancorarci, abbiamo in condivisione, fin da Omero, una nostra propria memoria, deposito di tutti i valori sui quali rifondare la nostra futura rinascita in rottura con la metafisica dell'illimitato, sorgente nefasta di tutte le derive moderne.

Domando anticipatamente perdono a tutti coloro che la mia morte farà soffrire, innanzitutto a mia moglie, ai miei figli e ai miei nipoti, così come ai miei amici fedeli. Ma, una volta svanito lo choc del dolore, non dubito che gli uni e gli altri comprenderanno il senso del mio gesto e che trascenderanno la loro pena nella fierezza.
Spero che si organizzino per durare. Troveranno nei miei scritti recenti la prefigurazione e la spiegazione del mio gesto.

Dominique Venner

lunedì 20 maggio 2013

UNIFI: DOMANI E MERCOLEDì AL VOTO. SOSTIENI CASAGGì!





PERCHE’ VOTARCI…

Casaggì rappresenta, a Firenze e nell’ateneo fiorentino, l’anima della destra movimentista e identitaria. La nostra presenza nelle facoltà dell’Ateneo, come nelle scuole e nei quartieri della città, è la garanzia della continuità ideale e militante di un progetto rivoluzionario e non conforme che si propone di affermare i principi dell’identità nazionale, della giustizia sociale e della partecipazione popolare attraverso la mobilitazione, la cultura, l’attivismo politico e il radicamento diffuso. Casaggì, a differenza di tanti, fa politica dal basso ogni giorno e ad ogni costo, con coraggio e passione, nel solco tradizionale di una destra sociale, radicale e nazional-popolare. Votarci significa fare un gesto preciso: schierarsi al fianco di chi ha scelto la lotta come pratica quotidiana. Ogni voto, in tal senso, è una picconata. Una picconata al sistema imperante, dentro e fuori le Università. Una picconata all’apatia, alla logica del profitto, ad un modello accademico e sociale in totale declino. Un voto ai nostri candidati è un voto dato per ottenere strutture più efficienti, qualità dell’insegnamento, spazi studenteschi da vivere in senso comunitario, diritti da difendere a spada tratta, lotta alla faziosità. E’ un voto controcorrente, ma non è un voto sprecato; è un voto non conforme, ma utile e mirato. E’ un voto dato a chi ti rappresenta davvero, facendosi carico non solo dei tuoi diritti, ma anche di una visione del mondo forte e coerente. E’ un voto che non vogliamo “comprare”, perché è un voto vero. 

COME VOTARCI…

Si vota il 21 e 22 maggio in tutto l’Ateneo. I nostri candidati sono presenti, all’interno della lista unitaria “Studenti di CentroDestra”, per i Consigli delle Scuole e per i Consigli dei Corsi di Laurea. Si vota anche per il CNSU, organo nazionale di rappresentanza studentesca. Per i Consigli delle Scuole è necessario barrare il nome della lista (Studenti di Centro Destra) e il nome del candidato. La preferenza è sempre unica. Per i Corsi di Laurea, invece, deve essere scritto il nome del candidato. La schede per i Consigli delle Scuole è di colore azzurro, mentre quella per i Corsi di Laurea è di colore grigio scuro.

CHI VOTARE…

AL CNSU: 

BARRA IL SIMBOLO DI AZIONE UNIVERSITARIA E SPL E SCRIVI RUCCI
Il CNSU si vota in ogni facoltà.

ECONOMIA

ALLA SCUOLA DI ECONOMIA E MANAGEMENT: 
BARRA LA LISTA "STUDENTI DI CENTRO DESTRA" E SCRIVI ALESSIO 

AL CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA E COMMERCIO:
VOTA LISTA 2 E SCRIVI ALESSIO 

AL CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA AZIENDALE:
VOTA LISTA 2 E SCRIVI REBECCA

GIURISPRUDENZA

ALLA SCUOLA DI GIURISPRUDENZA: 
BARRA LA LISTA "STUDENTI DI CENTRO DESTRA" E SCRIVI ANDREA POGGIANTI

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA: 
VOTA LISTA 1 E SCRIVI OLIMPIA 

SCIENZE POLITICHE

AL CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE:
LISTA 3 E SCRIVI CARLOTTA BURACCHI

INGEGNERIA

ALLA SCUOLA DI INGEGNERIA: 
BARRA LA LISTA "STUDENTI DI CENTRO DESTRA" E SCRIVI ANDREA MELICIANI

CORSO DI LAUREA INGEGNERIA MECCANICA:
VOTA LISTA 3 E SCRIVI ANDREA MELICIANI

AGRARIA

ALLA SCUOLA DI AGRARIA: 
BARRA LA LISTA "STUDENTI DI CENTRO DESTRA" E SCRIVI NICCOLO DEGL'INNOCENTI

domenica 19 maggio 2013

EROICA: SUCCESSO DI MUSICA E PRESENZE CON SKOLL A CASAGGì FIRENZE!



Era un concerto molto atteso quello di ieri sera. Skoll è uno degli artisti più interessanti del panorama identitario, uno di quelli che riescono a coniugare la buona musica con la capacità di lanciare dei messaggi precisi. "Eroica" è il suo ultimo album, un lavoro che consigliamo a chiunque abbia voglia di fare un viaggio nelle storie più belle d'Italia: dal pugno sul mondo di Primo Carnera alla scalata del K2, dall'ultima carica di cavalleria sul fronte dell'Est al volo dannunziano, da Marinetti a Borsellino, dalle magnifica gesta dei nostri soldati nella Grande Guerra alla splendida cornice del Monte Grappa.

Un viaggio di identità, di storia e di cultura che Skoll ha accompagnato per tutto il concerto con la proiezione di filmati e immagini a tema, alternando i brani ad una breve descrizione degli stessi, per poi passare ai pezzi più "vecchi" e più "noti". Una grande serata, che Casaggì ha vissuto e accolto con un pienone di presenze e un'atmosfera da brivido, come sempre quando Skoll viene a farci visita. Momenti di forte intensità, conditi anche dalla determinazione di una Comunità umana e politica che ogni giorno si trova ad affrontare con dignità e determinazione le mille sfaccettature di un tempo buio e grigio, ma non per questo rinuncia ad andare avanti con fermezza e con coraggio.

Con la schiena sempre dritta.
Grandezza, esempio e slancio.

sabato 18 maggio 2013

Aumentano i detenuti e crollano i finanziamenti al Dap


di Matteo Mascia (Rinascita)

Il Governo di Enrico Letta continua a temporeggiare su tantissime problematiche. La giustizia potrebbe restare immune da qualsiasi processo di riforma, stretta tra le pressioni del Popolo della libertà e l’approccio acritico di larga parte del Partito democratico. La dialettica finirà per incancrenirsi sulle intercettazioni e sulla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura inquirente. Solo pochi volenterosi si concentreranno sui problemi delle carceri, sull’incredibile consistenza dell’arretrato civile e penale o sulla gestione dei pazienti che si apprestano ad essere rilasciati dagli ospedali psichiatrici giudiziari.
Un film già visto nel corso di tutta la cosiddetta “seconda repubblica”. Alle parole hanno fatto seguito pochissimi fatti, gli sforzi del singolo sono stati messi su un binario morto dalle Commissioni prima e dell’Aula poi. Sovraffollamento, diminuzione degli spazi a disposizione dei detenuti, drastica riduzione delle risorse. Sono gli annosi problemi che continuano ad affliggere il sistema penitenziario nazionale; dinamiche che sono state illustrate durante un convegno organizzato, ieri, a Firenze. Secondo la ricerca presentata in occasione dell’appuntamento toscano, la popolazione detenuta in Italia ha raggiunto cifre senza precedenti, ben superiori alle oltre 61mila presenze del luglio 2006, data dell’ultimo provvedimento di indulto. Al 31/03/2013 la popolazione detenuta è pari a 65.831 unità, 4.800 in più del giugno 2006. Alla dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento carcerario, 13 gennaio 2010, nelle carceri italiane c’erano 64.791 persone, a fronte di una capienza di 44.073, con un tasso di affollamento del 147 per cento (147 detenuti ogni 100 posti).
Dal 31 dicembre 2009 al 31 marzo 2013 la capienza del sistema penitenziario nazionale è passata da 44.073 a 47.045 posti, registrando così un aumento ufficiale di 3.000 posti, pari ad una crescita di oltre il 6 per cento. In realtà, però, la crescita delle capienze dipende da un diverso calcolo degli spazi disponibili piuttosto che dalla effettiva disponibilità di nuovi spazi i quali invece sembrano essere sempre meno, un artifizio contabile-amministrativo utile solo a rappresentare una situazione diversa rispetto a quella vissuta da ristretti ed agenti di Polizia penitenziaria. La riduzione delle risorse viene sottolineata da alcuni dati recentemente diffusi dall’Associazione Antigone, una delle più attive sul fronte della difesa dei diritti dei cittadini sottoposti all’esecuzione penale. Nel 2007, con una presenza media giornaliera di 44.587 detenuti, il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ammontava a quasi 3 milioni e 100mila euro. Nel 2011, a fronte di una presenza media giornaliera di 67.174 detenuti, il bilancio è sceso a poco più di 2 milioni e 760mila euro, con un taglio del 10,6 per cento. I costi del personale sono calati solo del 5,3 per cento, quelli per gli investimenti (edilizia penitenziaria, acquisizione di mezzi di trasporto, di beni, macchine ed attrezzature) del 38,6 per cento e quelli per il mantenimento, l’assistenza, la rieducazione ed il trasporto detenuti, addirittura del 63,6 per cento. La sofferenza maggiore è per il mantenimento di attività trattamentali adeguate, come ad esempio l’accesso al lavoro, previsto per i detenuti con condanna definitiva come vero e proprio diritto.
Nel primo semestre 2012 a lavorare sono stati 13.278 detenuti, meno di un quinto del totale dei reclusi e comunque una cifra assai inferiore rispetto al numero dei condannati (che al 30 giugno erano 38.771). È la percentuale più bassa dal 1991, conseguenza dei drastici tagli del budget previsto nel bilancio del Dap per le retribuzioni dei detenuti che negli ultimi anni si è ridotto del 71 per cento: dagli 11 milioni di euro del 2010 si è passati ai circa 3 del 2013. Tendenze utili a mortificare – come se ci fosse il bisogno – lo scopo rieducativo della detenzione o delle misure alternative alla permanenza in cella.
In questo modo, i penitenziari continueranno a sfornare ex detenuti con percentuali di recidiva elevatissime. Il ministro Anna Maria Cancellieri dovrà dimostrare di avere la volontà per imporre un cambio di rotta radicale. I partiti dovranno cercare di apportare il proprio contributo senza scadere nella bassa propaganda elettorale. L’attuale situazione non è funzionale alle esigenze dei cittadini. Solo chi è in malafede può affermare il contrario.

giovedì 16 maggio 2013

Firenze, in cinquanta con caschi e catene aggrediscono un banchetto di Casaggì...











di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

Nuove violenze alle università scatenate dall’ultrasinistra dei collettivi. La mattina del 15 maggio gli studenti Casaggì, l’attivissimo centro sociale fiorentino di destra, era al Polo Universitario di Novoli per svolgere la propria regolare campagna di propaganda in vista delle elezioni universitarie del prossimo 21 e 22 maggio. 

I militanti di Casaggì, sette, avevano allestito un banchetto, nel quale era presente il materiale elettorale e le indicazioni di voto. Attorno a mezzogiorno, circa una cinquantina di militanti dei centri sociali antagonisti si sono radunati davanti al banchetto, distribuendo volantini, gridando slogan e minacciando di passare alle vie di fatto se gli esponenti di Casaggì non avessero immediatamente lasciato l’Università che, a loro dire, non dovrebbe permettere ad un movimento di destra di esprimere liberamente le proprie idee e candidarsi agli organi di rappresentanza studentesca. Pur inferiori di numero, gli studenti di Casaggì hanno scelto di rimanere al banchetto, perché convinti del diritto di esprimere le loro preferenze. 

Verso le 12,30 – mentre gli studenti di destra iniziavano a smontare il banchetto per recarsi a pranzo nella mensa antistante – il gruppo dell’estrema sinistra ha deciso di passare alle vie di fatto tirando fuori caschi, catene, tirapugni e brandendo le cinture per colpire, esattamente come facevano i collettivi democratici negli anni di piombo. Ne è nato uno scontro fisico durato qualche minuto e avvenuto sotto gli occhi di centinaia di studenti che stavano recandosi a pranzo. 

Nello scontro un militante di Casaggì ha riportato una ferita al volto. Il centro sociale ha immediatamente diramato un comunicato in cui scrive che «ciò che è accaduto è inaccettabile da ogni punto di vista, perché chi ha aggredito era armato ed è uscito da aule universitarie che sono concesse dal rettore e dai vertici dell’Università a personaggi che non le hanno restituite agli studenti, ma che le utilizzano per promuovere odio sociale e politico». «Abbiamo il diritto – proseguono gli studenti di destra – di fare propaganda e di vivere l’Università, da studenti e da candidati alle elezioni, come tutti gli altri. Non è accettabile che all’Università entrino persone esterne, magari armate, per creare il caos e cercare di cacciare chi fa politica in altri schieramenti». 

Infine, conclude Casaggì, «non sono accettabili le dichiarazioni di alcuni organi di stampa, che senza aver verificato la notizia, hanno parlato di rissa e di scontri, come se si fossero dati appuntamento due gruppi contrapposti e non si fosse trattato di una vile aggressione premeditata e vergognosa». Casaggì conclude il comunicato annunciando che «non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia e continuerà, adesso e nei prossimi mesi, a svolgere nelle facoltà la propria attività politica e cerchiamo di farlo con la dignità e il coraggio di sempre. Dignità e coraggio: qualcosa che manca ai paladini dell’antifascismo».

mercoledì 15 maggio 2013

UNIFI: SCONTRI A NOVOLI. SETTE MILITANTI DI CASAGGì AGGREDITI DA CINQUANTA AUTONOMI CON CASCHI E CATENE...





CASAGGì: SCONTRI AL POLO DI NOVOLI PER ELEZIONI UNIVERSITARIE.
CINQUANTA MILITANTI DELLA SINISTRA ANTAGONISTA ARMATI DI CASCHI E CATENE AGGREDISCONO SETTE MILITANTI DI CASAGGì. FAR-WEST DI MEZZOGIORNO TRA CENTINAIA DI STUDENTI. GLI AGGRESSORI, QUASI TUTTI ARMATI, HANNO AULE CONCESSE DAL RETTORE E HANNO CONVOCATO SERVIZI D’ORDINE ESTERNI ALL’UNIVERSITA’. UN FERITO ACCERTATO TRA I NOSTRI ATTIVISTI E LA CERTEZZACHE CONTINUEREMO A DIFENDERE LE NOSTRE IDEE E I NOSTRI DIRITTI A QUALSIASI COSTO.  

Questa mattina Casaggì era al Polo Universitario di Novoli per svolgere la propria regolare campagna di propaganda in vista delle elezioni universitarie del prossimo 21 e 22 maggio. I nostri militanti, sette, avevano allestito un banchetto, nel quale era presente il materiale elettorale e le indicazioni di voto. Attorno a mezzogiorno una cinquantina di militanti dei centri sociali antagonisti, chiamati dagli attivisti del Collettivo Politico di Scienze Politiche, si sono radunati davanti al nostro banchetto, distribuendo volantini, gridando slogan in stile anni di piombo e minacciandoci di passare alle vie di fatto se non avessimo immediatamente lasciato l’Univesità che, a loro dire, non dovrebbe permettere ad un movimento di destra di esprimere liberamente le proprie idee e candidarsi agli organi di rappresentanza studentesca.

Reputando la nostra permanenza di quella struttura un diritto e non avendo mai ceduto alle minacce altrui, abbiamo scelto di rimanere al nostro posto e continuare, seppur affrontati da un gruppo dieci volte più numeroso di noi, la nostra azione politica. Alle 12,30 – mentre i nostri attivisti iniziavano a smontare il banchetto per recarsi a pranzo nella mensa antistante – il gruppo di attivisti dell’estrema sinistra ha deciso di passare alle vie di fatto tirando fuori caschi, catene, tirapugni e brandendo le cinture per colpire. Ne è nato uno scontro fisico durato qualche minuto e avvenuto sotto gli occhi di centinaia di studenti che, come noi, stavano recandosi a pranzo. Nello scontro uno dei nostri militanti ha riportato una ferita al volto.

Ciò che è accaduto è inaccettabile da ogni punto di vista.
E’ inaccettabile perché chi ha aggredito era armato ed è uscito da aule universitarie che sono concesse dal rettore e dai vertici dell’Università a personaggi che non le hanno restituite agli studenti, ma che le utilizzano per promuovere odio sociale e politico. Non è accettabile perché abbiamo il diritto di fare propaganda e di vivere l’Università, da studenti e da candidati alle elezioni, come tutti gli altri. Non è accettabile che all’Università entrino persone esterne, magari armate, per creare il caos e cercare di cacciare chi fa politica in altri schieramenti. Non è accettabile perché chi aggredisce in cinquanta contro sette e con armi di ogni tipo in mano non è un militante, ma un vigliacco coperto dal numero e dall’impunità. E non sono accettabili le dichiarazioni di alcuni organi di stampa, che senza aver verificato la notizia parlano di rissa e di scontri, come se si fossero dati appuntamento due gruppi contrapposti e non si fosse trattato di una vile aggressione premeditata e vergognosa.

Casaggì non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia e continuerà, adesso e nei prossimi mesi, a svolgere nelle facoltà la propria attività politica. Ai vili, quelli che ci aggrediscono in cinquanta contro sette, siamo stati costretti ad abituarci. Il nostro non è un passatempo, ma una scelta di vita che contempla qualsiasi genere di rischio, al quale sappiamo di andare incontro e cerchiamo di farlo con la dignità e il coraggio di sempre. Dignità e coraggio: qualcosa che manca ai paladini dell’antifascismo. 

Settant’anni fa il bombardamento di Civitavecchia. La città fu rasa al suolo dagli alleati



di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

Quello di settant’anni fa, il 14 maggio 1943, non fu l’unico bombardamento alleato su Civitavecchia, a 80 chilometri da Roma, ma fu certamente il più devstante, perché praticamente rase al suolo l’intera città, che era un porto strategicamente importante. Era un venerdì, e l’estate era iniziata anzitempo. A quell’ora, le 15,15, l’ora del riposo pomeridiano, tutto era tranquillo e nulla faceva presagire una tragedia di quelle proporzioni. Improvvisamente, come provenienti dalla vicina Santa Marinella, otto chilometri in direzione Roma, fecero la loro comparsa volando bassi sul mare decine e decine (erano 48) di micidiali bombardieri B-17 americani, le temute “fortezze volanti” che, in otto ondate successive, devastarono la cittadina costiera. Le fortezze americane provenivano in realtà dalla Tunisia, sotto il comando della Naaf, Northwes African Air Forces, che contemporaneamente bombardò anche Olbia, Sassari, Alghero, Porto Torres ed Abbasanta, quest’ultima nell’interno sardo. In questo modo le comunicazioni con l’isola erano completamente interrotte, con i porti colpiti, ma per maggior sicurezza anche le navi vennero affondate alla fonda. Gli alleati colpirono la costa nord di Roma per preparare un eventuale sbarco, visto che ancora non era stato deciso dove sarebbe dovuto avvenire. Sin dalla mattina a Civitavecchia erano arrivate truppe italiane che avrebbero dovuto imbarcarsi per la Sardegna, dove si temeva uno sbarco alleato. Gli autocarri e i mezzi militari – ma non solo – che stavano transitando sul lungomare vennero mitragliati dai caccia che scortavano i B-17, e subito dopo vennero lanciate centinaia di bombe ad alto potenziale esplosivo.

Testimoni hanno raccontato che dai monti sopra Civitavecchia si vedevano soltanto bagliori fortissimi, subito seguiti da boati terribili. Dopo alcuni minuti immense colonne di fumo si levarono dalla città devastata. In tutto l’incursione durò una ventina di minuti e a quanto pare la contraerea non sparò neanche un colpo. Moltissimi rimasero per sempre sotto le macerie, nei rifugi e nelle navi affondate, per cui il numero esatto dei morti non è stato mai accertato. Si dice che siano stati circa 500, ma si tratta solo di civitavecchiesi di cui si poté constatare la scomparsa. Ma in quel momento nel porto laziale c’erano militari, persone venute da fuori, chi si imbarcava, che era arrivato, chi era là per chissà quale motivo. Civitavecchia subì in tutto 86 bombardamenti, ma nessuno come quello del 14 maggio. Poiché si temevano altre incursioni, 20mila dei 23mila abitanti della città fuggirono sulle vicine montagne, nei centri di Allumiere, Tolfa, Canale Monterano o anche nel Viterbese che era collegato con la ferrovia. Alcune fonti parlano di oltre mille morti, poiché gli americani non bombardarono solo il porto, come avrebbe dovuto essere e gli obiettivi militari, ma bombardarono anche il centro cittadino, gli obiettivi civili, e non certo per errore, perché chiunque osservi una cartina della città vedrà che il porto è un obiettivo aereo facile da centrare.

Era la strategia del terrore attuata dagli alleati che poi venne utilizzata in tutta Italia, come è noto e come confermano i bombardamenti di qualche settimana dopo su Roma. Nel mesi successivo ci furono altre decine di bombardamenti su una Civitavecchia pressoché deserta e con un porto del tutto inutilizzabile. La città fu distrutta all’80 per cento, e prima della successiva ritirata i tedeschi ne minarono altre parti, come alcune banchine del porto e Forte Michelangelo. Quando la gente iniziò a ritornare, visse nelle caserme rimaste in piedi, senz’acqua e senza cibo, in condizioni igieniche tali che epidemie di tifo e scabbia colpirono migliaia di persone. A un certo momento, dopo lo sbarco di Anzio, il porto tornò a vivere, perché la Quinta Armata decise di rifornirsi a Civitavecchia, cosa che migliorò sensibilmente le condizioni della popolazione, grazie soprattutto alle derrate alimentari in scatola degli americani. La situazione tornò alla normalità dopo cinque anni, il comune ritornò a Civitavecchia da Santa Marinella dove si era trasferito, e gli stanziamenti del Genio civile aiutarono la ricostruzione. L’8 marzo del 1999 Civitavecchia ha ricevuto la Medaglia d’oro al Valor civile, per i sacrifici delle sue popolazioni e per i danni alla città. Numerose iniziative sono state intraprese dall’amministrazione per commemorare i caduti di quei giorni e ricordare le sofferenze della popolazione.

martedì 14 maggio 2013

Lo “ius soli” tra diritti di cittadinanza (già esistenti) e paradossi...



di Domenico Di Tullio (barbadillo.it)

Occupa grande spazio e genera solita polemica insensata la proposta politica di concedere cittadinanza ai figli di stranieri, nati nel territorio della Repubblica delle Arance e dei Limoni. Ai sensi della legge 91 del 1992, già i nati da cittadini apolidi (ovvero soggetti privi di qualunque cittadinanza, come alcuni tra i rifugiati politici e per motivi umanitari) sono di diritto cittadini italiani, quando nascono nei nostri confini, così come i figli di un solo genitore italiano.Esiste, ancora, il caso nel quale i genitori siano ignoti o il figlio non segua la cittadinanza dei genitori, secondo la legge dello stato di questi ultimi. Se il tuo stato non ti fila, ti prendiamo noi a scatola chiusa, senza nemmeno farti pagare il ticket. Dopo saranno cavoli tuoi, ma intanto goditela. Ancora altra ipotesi, ma certamente più ridotta, quelle di acquisizione della cittadinanza a richiesta, per essere nati in territori già italiani o appartenenti al disciolto Impero austro-ungarico. Se sei un italiano giuliano o dalmata, fratello di storia e lingua e sangue profondo, abbiamo sì cercato di seppellire il ricordo del tuo abbandono di stato per un cinquantennio, ma se vuoi tornare a pagare le tasse in Italia, accomodati.L’ipotesi generalizzata, tuttavia, è quella che riguarda tutti i bambini nati in Italia da genitori stranieri e qui residenti ininterrottamente per 18 anni, che abbiamo optato per la cittadinanza italiana entro i 19. Esiste, ancora, la naturalizzazione degli immigrati regolari, che abbiamo trascorso almeno 10 anni nel territorio della Repubblica, in assenza di precedenti penali e con adeguate risorse economiche.Per una volta, si riconosce il masochismo caparbio e splendido di chi, rinunciando a sovvenzioni caritatevoli, aiuti umanitari, agevolazioni domestiche, benefici di politiche sociali socialmente disutili, cambi di sesso a carico del SSNN, autoesenzione fiscale e previdenziale, pensioni facili, salvezza da multe, interessi e penali, diritti di notifica e altre vessazioni equitaliote, gaudente immunità processuale e sostanziale, abbandoni il bengodi dell’essere straniero in Italia, non avendone per niente approfittato. E poi scelga volontariamente di essere ita-lia-no e portare la croce che ci accomuna: caricarsi di doveri civici borbonici e imposizioni fiscali sabaude, ipotesi di reato creative e relative gogne mediatiche, divieti di sosta casuali, varchi incontrollati, autovelox doviziosi e parchi etilometri, accollandosi pregresse responsabilità di debiti pubblici con vertigine e milioni di gaudenti statali, scontando perfino le vigliaccate di qualche isolato pusillanime, lievitate a onte nazionali.
Benvenuto, nuovo Italiano, sentiamo già di volerti bene. Come se ne vuole a un parente pazzerello – anche un po’ fesso, è vero – ma affettuoso e buono. Entusiasta, soprattutto, come noi non ci sentiamo più di essere. Ridicola, oltreché assolutamente non auspicabile, una acquisizione della cittadinanza per mera nascita, che renderebbe probabile l’immediato e numeroso approdo di plotoni di gestanti, le quali, una volta partorito un nuovo piccolo italiano, vanterebbero di fatto il diritto di residenza, poi automaticamente esteso anche all’altro coniuge genitore: vuoi mica privare il minore italiano delle proverbiali cure parentali. Grazie, perciò, ministro Kyenge, ma uno ius soli in Italia già ce lo abbiamo. La ius “sola”, invece, scusi ma l’abbiamo inventato noi.

lunedì 13 maggio 2013

Esce “Fascistelli”, romanzo sulle gesta e il disincanto di un missino di provincia...

di Annalisa Terranova

Vittorio Brasile è un adolescente inquieto. Perché, per fare politica, devi avere per forza quel certo “rodimento” interiore, se no fai carriera politica, che è un’altra cosa. Vittorio Brasile è il protagonista di Fascistelli (Il Cerchio editore), in uscita proprio oggi, opera prima di Stefano Angelucci Marino, autore teatrale e direttore del Teatro del Sangro a Chieti, che ha voluto raccontare, con un taglio chiaramente autobiografico, l’esperienza di un ragazzo che bussa alle porte del Msi nel 1993 in un piccolo paese della provincia abruzzese.

Vittorio Brasile parte dallo stesso punto esistenziali di tanti: “Sentivo di essere nato in un’epoca che non era la mia”. Si sogna eroe senza macchia, si inorgoglisce di essere paladino della rivolta che spazzerà via la stagnazione democristiana, si autorappresenta come Capitan Harlock solo (o meglio con altri due camerati del liceo) contro tutti. Questo furore di sottofondo lo farà diventare invece soltanto un “fascistello”: tanta passione, tanta ingenuità e un partito ancora appeso tra nostalgie anacronistiche e voglia di sedersi nel palazzo, tra gite a Predappio e tentazione di entrare nel circuito della politica che conta. 

In quel polveroso sottoscala che è la sezione del Msi Vittorio Brasile incontra un campionario di varia umanità: il reduce, l’evoliano, i perdigiorno che s’inventano mitiche gesta con le donne e con i compagni, e l’unico consigliere missino che è anche il segretario e che lo accoglie con entusiasmo: “Ma tu vide che bella sorpresa! Lu fije de donna maria… d’altronde, da una famiglia onesta e lavoratrice, non poteva mica uscire nu ricchione, o nu comunista… che poi è uguale!“. Un mondo, appunto, che poteva cementarsi ed esaltarsi col motto “molti nemici molto onore” in anni in cui effettivamente il partito di Almirante doveva lottare per la sopravvivenza ma che, dopo la caduta del Muro, trasmetteva solo un senso rugoso di disfacimento. Vittorio Brasile però non scappa e rimane (anche qui, destino comune con tanti…) perché ci sono i libri, gli autori, le canzoni controcorrente della Compagnia dell’Anello, in pratica “i nostri sogni scassati di fascisti immaginari”. 

E però, quando il divario tra immaginazione e realtà diventa troppo forte, il filo si spezza, il finale poco consolatorio è in agguato: “Vi ho amato. Siete ancora gli ultimi, quelli isolati, senza una lira in tasca, ignoranti, casi umani, le carogne del Msi. Vi ho amato. Ho cercato di studiare, di agire, di fare e di pensare pure per voi. Ho cullato per mesi l’illusione di portare il nostro amor di patria da Civitella verso l’Europa. Ho cercato nel mio piccolo di liberarvi dai vecchi schemi. Niente, una battaglia persa“. Il merito di questo romanzo breve non sta solo nella sincerità, che si accompagna alla memoria di un passato non del tutto rinnegato, ma anche e soprattutto nel suo farsi parabola esemplare del destino di tanti Vittorio che hanno bussato alle porte delle sedi del Msi. Volevano cambiare il mondo, o almeno cambiare il partito, gli è andata bene se il mondo non ha cambiato loro.