lunedì 29 settembre 2014

La caduta dei migliori...



di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

Sin dal tempo delle prime polis greche, l'aristocrazia ed i suoi valori positivi hanno guidato gli affari della cosa pubblica, facendo rispettare la dike (giustizia) e punendo l'hybris (la tracotanza), esercitando così una pressione al tempo morale e al tempo estetizzante sugli altri ceti, che continuamente dovevano rapportarsi e confrontarsi con questi "migliori".


“Noi fummo i gattopardi i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra” (Il Gattopardo, 1963)
La rovina antropologica dovuta ad un certo tipo di sviluppo, oltre ad essere una realtà cittadina e metropolitana, è divenuta prerogativa delle coscienza provinciali. Questo processo etico, ha un suo corrispettivo estetico, un declino, figlio del Novecento, che Pasolini imputava alla Dc. Così come in città si è assistito ad un degrado urbanistico, il paesaggio provinciale è stato deturpato dalla costruzione, negli anni del dopoguerra, di sobborghi in cemento armato che cingono i centri storici sino a soffocarli. L’ammasso seriale e il risparmio sui materiali come costanti dell’architettura moderna hanno creato un’alterazione delle vedute che si stagliano sui fianchi delle colline, mentre sulle alture si slanciano timidi i campanili medievali che raccontano di storie antiche. A questo conflitto tra sacro e profano si aggiunge un attrito intergenerazionale tra vecchi contadini, bottegai, negozianti, parroci e braccianti, e una gioventù americanizzata, più newyorkese che non rurale, vestita di felpe, tute, jeans griffati, con chewingum, peircing, cuffie, cellulari, capigliature identiche a quelle di vip e calciatori, distaccata dalla realtà in cui vive e immersa nel sogno che la tv regala e che la vita ostinatamente toglie. A questi giovani hanno preso tutto o quasi.
La cultura ufficiale ha creato il disprezzo per sé stessi e le proprie radici, ha chiamato tutti al cambiamento, ha derubato le ultime generazioni di quell’armonia che legava in nome della sacralità il contadino alla terra, e che donava a quest’ultimo un naturale istinto mimetico, la simmetria perfetta con il luogo in cui la vita è scandita in base al sole, ai cicli lunari, alle stagioni. Si è tolta loro anche la gestualità, divenuta meccanica, seriale, goffa, mentre il paesano sembra una statua scolpita irrevocabilmente per essere parte essenziale di quell’universo. Eppure questi giovani pur avendo l’immaginario costellato di miti cosmopoliti, metropolitani, surreali, mantengono ancora vivi valori che in città, in cui la corsa al sogno è tremendamente più violenta, sono andati sicuramente perduti prima, tra cui la generosità, l’ospitalità, la pazienza, il sacrificio e in certi casi la devozione. Ma venendo forse il loro mondo sempre più deturpato da quel fenomeno urbanistico che citavamo prima, si è anche incentivata questa fuga immaginaria che si scontra con la realtà sino a creare forme disarmoniche, stonate.
Alle origini di questo fenomeno si situa la recente estinzione, o la caduta, degli aristoi, dei migliori. Se la fine dell’egemonia politica ed economica della nobiltà terriera feudale avviene in Francia con la caduta dell’Ancien Régime durante la rivoluzione francese, e giunge sino a noi un secolo dopo, finalmente l’aristocrazia nel contesto contadino, divenuta piccola nobiltà, ha esercitato, ancora fino alla prima metà dello scorso secolo, un’influenza notevole nelle provincie, partecipando alla vita quotidiana locale. Sin dal tempo delle prime polis greche, l’aristocrazia ed i suoi valori positivi hanno guidato gli affari della cosa pubblica, facendo rispettare la dike (giustizia) e punendo l’hybris (la tracotanza). Così la nobiltà tellurica, ben radicata nel contesto provinciale, ne era parte integrata, come patrona, da un lato, servendo da modello, esempio e simbolo, e serva, dall’altro, obbligata a garantire l’ordine sociale e i valori della comunità.
Il possidente terriero era uomo attivo, partecipe da vicino alle attività agricole e alle festività religiose – spettava a lui, ad esempio, la piantagione degli alberi o la celebrazione delle commemorazioni; era cultore del bello, difensore di un’etica civile, rappresentante di valori positivi, quali la magnanimità, la generosità, il coraggio, esercitando così una pressione al tempo morale e al tempo estetizzante sugli altri ceti, che continuamente dovevano rapportarsi e confrontarsi con questi “migliori”. Da questo confronto si impedivano le derive di cui siamo oggi spettatori, per la crescita intrinseca ad un rapporto di reciprocità verticalizzato. Pensiamo appunto a Don Fabrizio del Gattopardo, o alla nobiltà descritta ne Il rosso e il nero di Stendhal. Con la recente sostituzione del mercante, del palazzinaro e del costruttore all’agathos, il rapporto diviene inevitabilmente orizzontale, immobile, e con la perdita di slancio, con l’appiattimento dell’etica alla “ragione economica”, si sono distrutti i canoni estetici e morali, si è cambiata in definitiva l’antropologia delle nuove generazioni, sempre meno rispettose delle proprie origini, sempre più estranee a sé stesse.

giovedì 25 settembre 2014

La parola alle Banche: "bolle e bombe nucleari monetarie"...



di Valerio Lo Monaco (Il Ribelle.com)

A quanto pare anche due soggetti di un certo calibro hanno gettato la maschera. Nei giorni addietro, in rapida sequenza tanto da far sembrare il tutto quasi una messa in scena (a favore di cosa lo vedremo), Deutsche Bank e Mediobanca, rispettivamente, hanno pubblicato i risultati di ampi studi fatti dai loro sedicenti macro-esperti e offerto delle dichiarazioni per sentenziare una cosa di non poco conto: solo una bolla ci può salvare. E non solo.

Per la precisione, la prima Banca ha condotto uno studio sui rendimenti di alcune diverse classi di attivi sui mercati finanziari, e ha concluso che solo negli ultimi venti anni i mercati hanno soprattutto, o meglio innanzi tutto, creato e mantenuto in vita bolle economiche con un solo e unico scopo: ne avevano bisogno.
Letteralmente, Deutsche Bank rileva che “negli ultimi due decenni, l’economia mondiale ha navigato di bolla in bolla con eccessi che non hanno mai avuto la possibilità di attenuarsi. Risposte politiche aggressive hanno incoraggiato a produrre nuove bolle. E questo ha contribuito a fare del moderno sistema finanziario un tema di preoccupazione permanente.” 
Come dire: le bolle sono le condizioni necessarie - sottolineiamo il termine “necessarie” - per mantenere il sistema attuale di gestione della crisi. Come scrive giustamente Stefano Bassi sul suo sito e al quale fa eco un articolo pubblicato su Zero Hedge: “il problema è che questa bolla non può andare da nessuna parte, perché è nelle mani di governi e banche centrali, con regolatori che si assicurano che altri grandi acquirenti rimangano recettivi.
Secondo lo studio, malgrado la bolla perduri per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario, lo scenario più ottimista sarebbe lo scoppio lento, attraverso rendimenti reali negativi per i portatori di obbligazioni. Lo scenario più pessimista sarebbe una futura ristrutturazione. 
Siccome i tassi di interesse tendono ad abbassarsi in gran parte del mondo, in parte per una debole crescita, e che l’indebitamento pubblico tende a svilupparsi, è poco probabile che i portatori di obbligazioni sovrane realizzino un profitto sul medio o lungo termine, a causa della possibilità dell’inflazione o di una ristrutturazione”. 
Ma “quello che nessuno dice, è che solo l’1% beneficia della bolla” – a scriverlo è il portale d’informazione Zero Hedge. “La ricchezza e i redditi di tutti gli altri otterranno progressivamente minori benefici”.
Per quanto riguarda invece Mediobanca, bastino le parole di Antonio Guglielmi su, questa volta, la situazione italiana: «È una catastrofe per le finanze del paese. Stiamo per arrivare a una ratio del debito del 145%». E ancora, in modo ancora più chiaro: «Chi conosce il numero massimo che il mercato tollererà? Il numero è già preoccupante, e il tempo ci dirà se questo gioco di POKER di Draghi si rileverà un successo. Ci vorrebbe una bomba nucleare monetaria per cambiare la situazione. Se Draghi alla fine non farà nessun intervento di rilievo – e c’è molto scetticismo sui piani della Bce – l’Italia è morta».
Beninteso, il fatto che oggi siano Deutsche Bank e Mediobanca, seppure con toni differenti, a sostenere una cosa del genere, è solo uno dei tanti casi dove alla fine, da qualche maglia aperta o non controllata a dovere di una “istituzione” di questo tipo arrivano conferme su ciò che in altri luoghi si teorizzava e cercava di spiegare da anni.
Quello che invece può non essere immediato a prima vista, e che rappresenta il dato più importante da cogliere, è il ragionamento che ne discende, e ne consegue, se si porta il discorso fino in fondo. Del resto, non si può che portare fino in fondo un ragionamento anche solo partendo dai termini stessi usati da questi due colossi: il primo parla di “bolle necessarie”, il secondo della necessità di una “bomba nucelare economica”. Termini non proprio sobri e cauti, a quanto pare.
E dunque, tanto per iniziare, avevano (e hanno) ragione quei pochi che sostengono una cosa del genere da anni, se non decenni. E avevano (e hanno) torto tutti gli altri. Ma proprio tutti. Che a questo punto dovrebbero essere ridotti almeno al silenzio.
In secondo luogo, cosa ancora più importante, se è vero - come è vero - quello che oggi anche Deutsche Bank e Mediobanca affermano, ciò significa che tutto quanto fatto da allora a oggi dai vari governi, tutte le procedure, le sedicenti “riforme”, i sacrifici imposti e la macelleria sociale in ogni ordine e grado in ogni Paese, è servita unicamente a sostenere una truffa finanziaria. Il punto è che non siamo “noi” a dirlo, ma “loro”.
Dal che, una volta scoperto l’inganno e confessato dai soggetti stessi che a vario titolo hanno partecipato al crimine, dovrebbero scaturire alcune riflessioni. E soprattutto azioniper, nell’ordine: fermare immediatamente quanto si sta facendo; processare i colpevoli e condannarli; sequestrare i beni che hanno rastrellato e ridistribuirli a tutti quanti a vario titolo siano stati depredati. Cioè il restante 99%.
Una sacrosanta e giusta conclusione. E una utopia politica, naturalmente, se pensiamo che a tali atti dovrebbe portarci una classe dirigente, quella attuale almeno, che è al servizio delle Banche stesse e di altri attori della speculazione (lobby & finanza, per intenderci). Ma sopra ogni altra cosa si dovrebbe dichiarare, in modo unilaterale e irrevocabile, l’immediata sospensione di qualsiasi pagamento a qualsivoglia organizzazione o istituzione che a vario titolo può far destare anche solo il sospetto di appartenere a quella “banda degli onesti”.
Ad esempio: il nostro debito pubblico è inesigibile, perché a esigerlo sono dei truffatori. E dunque non lo si paga più. Punto. E così via dicendo.
Sono solo in apparenza “parole forti”, le nostre, e vani tentativi di sollecitare rivolte che ovviamente non si vedono all’orizzonte. Ma soprattutto, malgrado l’apparenza di una forma e di una sostanza, quelle che abbiamo usato, da tribuno della plebe (oggi si direbbe da populista) si tratta invece della cosa più evidente e logica - e minima - che si dovrebbe fare.
La prova del nove di quanto sosteniamo è semplicissima, un gioco da ragazzi. Se appare tanto strano (o stralunato) il principio di rifiutarsi di partecipare e anzi dichiarare guerra a questi truffatori mondiali, è certo che dovrebbe apparire molto più strano e “al di fuori della realtà” continuare a fare la parte dei derubati per tutta la vita. O no?
Come dire: il re è nudo, ha per giunta confessato i suoi crimini, ma noi ci ostiniamo a non volerlo tirare giù dal trono. La bolla e la truffa sono qui davanti a noi, ci rastrellano l’anima ogni secondo che passa, ma noi rimaniamo a guardarle, e a subirle, senza muovere un solo dito.

martedì 23 settembre 2014

Cultura. Dalì e la politica: la contraddizione di un anarchico conservatore



di Giovanni Balducci (Barbadillo)

Come quasi ogni aspetto della sua vita, anche la posizione politica di Salvador Dalí risulta assai controversa. In gioventù fu sia anarchico che comunista. Ma nei suoi scritti ci sono numerosi aneddoti che palesano come avesse assunto posizioni politiche così radicali più per smania di stupire che per reale convinzione. Allo scoppio della guerra civile spagnola, infatti, fuggì i combattimenti, rifiutando di schierarsi con alcuno degli schieramenti.

Divenuto più maturo, le sue posizioni politiche cambiarono;al suo ritorno in Catalogna alla fine della seconda guerra mondiale, si avvicinò al regime di Francisco Franco, congratulandosi persino col Caudillo per le sue azioni tese a “ripulire la Spagna dalle forze distruttive”, ossia comunisti, socialisti e anarchici. Infatti, riavvicinatosi alla fede cattolica, con tale frase faceva riferimento proprio a coloro che durante la guerra civile spagnola avevano sterminato circa 7.000 preti e suore. In seguito Dalí incontrò personalmente il dittatore, realizzando peraltro il ritratto della nipotina.

Tuttavia, fu anche autore di gesti di aperta disobbedienza nei confronti del regime: come continuare a lodare Federico Garcìa Lorca anche durante gli anni in cui in Spagna le opere del poeta erano messe al bando; o stringere amicizia con il regista di conclamata fede comunista Luis Buñuel, con il quale realizzerà nel 1929 il primo film surrealista, Un chien andalou, e nello stesso anno entrare a far parte del gruppo surrealista del trotskista Andrè Breton, da cui però verrà presto escluso nel 1934 a causa delle sue simpatie per i regimi di destra.

“Picasso è un genio. Come me. Picasso è un comunista. Io no”, affermerà, specificando poi: “Io non sono né stalinista, né hitleriano…sono Dalinista!”. Infatti, in alcune sue esternazioni dirà di essere disinteressato alla politica, trovandola aneddotica e miserabile, ma dichiarando anche di subire fortemente il fascino dei potenti. Nel suo libro del 1970 Dalí by Dalí, si definirà “anarchico-monarchico”. Non farà neppure mistero della sua passione “futurista” per la guerra: «Tutto il mondo è pacifista – scriverà – tutto il mondo, che siano sovietici o americani. Ma che gran decadenza! Così come reputo che in una monarchia l’anarchico che vuole assassinare il Re sia estremamente rispettabile, poiché garantisce con il suo atto il massimo di diversità che deve esservi in una società perfetta, che è quella della monarchia assoluta, è mostruoso che un essere umano immagini un’Umanità senza guerra».


Eppure, a dispetto di queste esternazioni che sembrano riecheggiare una niezscheana estetica della violenza da “bestia bionda”, Dalì definirà i suoi baffi «antinietzschiani» e «rivolti verso il cielo». I suoi baffi, che tanto ricordavano quelli di un altro grande eccentrico e controverso reazionario, lo scrittore francese Jules Amédée Barbey d’Aurevilly, cui il grande di Figueres si ispirerà nella scrittura del suo unico romanzo, Volti nascosti.

Nel saggio dall’eloquente titolo Manifesto mistico, del 1951, quasi fosse un Donoso Cortés o un Gòmez Davila, così Dalì avrà ad esprimere la sua weltanschauung antimoderna: «La decadenza della pittura moderna deriva dallo scetticismo e dalla mancanza di fede, conseguenze del materialismo. Grazie alla rinascita del misticismo spagnolo, io, Dalí, mostrando la spiritualità di tutte le sostanze, dimostrerò con la mia opera l’unità dell’universo».

domenica 21 settembre 2014

Né con i tagliagole né con gli Stati Uniti



di Massimo Fini


Nei 'Frammenti alle istituzioni repubblicane' Saint-Just, uno dei leader della Rivoluzione francese da cui è nato il nostro mondo, afferma: «La virtù è una sola e quindi deve essere ammesso solo il partito che in essa si riconosce, mentre tutti gli altri, che le sono contrari, vanno soppressi». La pretesa di possedere una verità assoluta che esclude tutte le altre non appartiene solo alle religioni monoteiste, nelle loro varie declinazioni di cui l'Isis è l'ultima espressione, ma anche alla cultura laica. Oggi la proposizione di Saint-Just può essere tradotta così: «La virtù è solo democratica, tutti i popoli che in essa non si riconoscono vi vanno ricondotti, con le buone o con le cattive». E' la storia dell'Occidente degli ultimi quindici anni, dall'aggressione alla Serbia in poi. In Iraq sono quindi a confronto due totalitarismi, uguali e contrari, quello dell'Isis che vuole convertire tutti, con la violenza, alla propria fede, e quello occidentale che fa lo stesso. Con la differenza che il primo è consapevole di essere tale, il secondo no, crede di essere liberale.

Lasciamo pur perdere la filastrocca delle guerre d'aggressione perpetrate dagli americani negli ultimi anni, ma se da più di un ventennio si inserisce l'Iran khomeinista, cioè un Paese strutturato, di grande cultura, colpevole di aver cacciato a pedate lo Scià, un dittatore feroce, per quanto patinato, nell' 'Asse del Male', è evidente che si pongono le premesse per la nascita di fenomeni incontrollabili come l'Isis. Anche se adesso uno dei tanti paradossi della Storia vuole che proprio ai pasdaran iraniani ci aggrappiamo perchè sono i soli che hanno le palle per affrontare i guerriglieri islamici sul campo.

Gli americani hanno sempre bisogno di 'punire' qualcuno, si tratti di Iran, di Milosevic, di Talebani, di Saddam, di Gheddafi. Sta nella loro cultura protestante. Un tempo, non tanto lontano, i bambini e le bambine riottosi venivano fustigati davanti a tutta la famiglia, a culo nudo per umiliarli (nelle scuole inglesi è esistita per tutto l'Ottocento e oltre, la pratica del 'flogging': frustare lo studente o la studentessa indisciplinati davanti a tutta la classe, con le vesti rialzate o i calzoni abbassati -Abu Ghraib si spiega anche così). Sono sempre lì a segnare 'linee rosse' invalicabili, 'diritti umani' inviolabili in nome di una morale (Saint-Just avrebbe detto una 'virtù') superiore, la loro. Io non riconosco agli americani alcuna superiorità morale. Hanno cominciato con un genocidio infame e vile (winchester contro frecce), usando anche le 'armi chimiche' del tempo (whisky) per distruggere un popolo spirituale come i pellerossa (e adesso si scandalizzano per gli iazidi). Durante la seconda guerra mondiale bombardarono Dresda, Lipsia, Berlino uccidendo volutamente milioni di civili col preciso scopo, dichiarato dai loro comandi politici e militari, di «fiaccare il morale del popolo tedesco». Sono gli unici ad aver usato l'Atomica, e Nagasaki venne tre giorni dopo Hiroshima quando si conoscevano i suoi spaventosi effetti. Sono l'unico Paese occidentale ad aver praticato la schiavitù in epoca moderna, scomparsa in Europa dalla fine dell'Impero romano. Hanno avuto l'apartheid fino al 1960, salvo scagliarsi subito dopo contro quella sudafricana che qualche ragione in più ce l'aveva.

Io non sto con l'Isis. Ma l'ipocrisia americana mi fa più ribrezzo dei tagliatori di teste islamici.

venerdì 19 settembre 2014

Il trasformismo del consumo dopo Pasolini



di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)


E’ negli articoli usciti tra il 1973 e il 1975 sul Corriere della Sera che Pier Paolo Pasolini, nelle vesti di giornalista corsaro, passa al vaglio la rivoluzione antropologica italiana, e lo fa magistralmente, senza l’iperbolico uso di una terminologia sociologica, senza derive accademiche né l’impiego pleonastico – tremendamente attuale - di aggettivi riempitivi, ma con sguardo lucido, incollato, quotidianamente, alla realtà delle cose e al mito e alla simbologia che perennemente le investe, ci da il quadro forse più umanamente veritiero di quegli anni, lasciandoci tutti gli strumenti per interpretare a nostra volta la realtà. Scriveva Pasolini:

“La Famiglia è tornata ad essere una realtà più solida, più stabile, più accanitamente privilegiata di prima. [...] Perché? Perché la civiltà dei consumi ha bisogno della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è diventato la nuova religione. La nozione di « singolo » è per sua natura contraddittoria e inconciliabile con le esigenze del consumo. Bisogna distruggere il singolo. Esso deve essere sostituito (com’è noto) con l’uomo-massa”

Da questa considerazione, sicuramente plausibile a suo tempo, possiamo muoverci per costatarne il radicale stravolgimento. Quello che Pasolini chiamava Potere, quel “tutto transnazionale” che smania di attuare fino in fondo lo Sviluppo: produrre e consumare, sembra aver cambiato radicalmente strategia. Prendere le mosse dalla riflessione pasoliniana, ovvero dalla necessità, da parte di questo Tutto, di massimizzare perennemente la sua base di consumo, deve portarci a ribaltare le polarità, asserendo che proprio oggi la famiglia è divenuta un ostacolo all’amplificazione di questa piattaforma estesa a tutte le forme di esistenza, e proprio l’individualismo, paradossalmente, in un contesto che rimane “di massa”, vi è divenuto funzionale.

Di fatto all’interno del contesto famigliare, il consumo è limitato alle necessità estrinseche della famiglia medio-borghese, a quel consumo strumentale alla salvaguardia, al comfort e allo svago (frigorifero, ferro da stiro, lavatrice, televisione), che si argina perché è con-diviso, e perciò stesso non può invadere l’immaginario del singolo, non può soggiogare il sogno individuale né appagare il proprio narcisismo divenendo simbolo di riconoscimento distintivo dell’uno. Necessariamente, quindi, quando scriveva Pasolini, i figli litigavano per l’uso del telefono fisso, e la televisione era una sola (e si guardava in comunione), mentre oggi il cellulare è divenuto attributo delle singole personalità pur rimanendo simbolo collettivo e immancabile. Le televisioni si sono moltiplicate sino ad irrompere in ogni stanza, grazie proprio all’autonomia che si è concessa in luogo di consumo agli individui, slegati sia dalla famiglia che dalla comunità, con cui non si spartisce spiritualmente e materialmente alcunché. Si condivide non l’oggetto ma l’immaginario collettivo della possessione dell’oggetto.

Invero la nozione di “singolo” non è più inconciliabile, come sosteneva Pasolini, con le esigenze del consumo, perché la potenza pubblicitaria e mediatica del Tutto è tanto onnipervasiva da contenere l’indipendenza individuale (la “libertà” di scelta) nello spazio massificato (l’idea collettiva di possesso di determinati oggetti di consumo). E’ tra questi due elementi che emerge la contraddizione, avvalorata costantemente dallo stesso oggetto (ora tecnologico) del consumo, da un lato appannaggio dell’uno, dall’altro genericità universale. Il cellulare è sempre più personalizzabile, tramite colori, salvaschermo, codici, suonerie e varie, è sempre più individuale, quanto connesso, e quindi standardizzato, ad un format unanimemente leggibile e perciò monetizzabile. Non è con-diviso, ma piuttosto la necessità collettiva di possedere il cellulare è suddivisa per ogni soggetto, nello spazio massificato. A questo punto la famiglia, come comunità primaria, può a ragione essere liquidata, se l’immaginario collettivo è stato scandito da una modalità di consumo che crea mediaticamente e risponde a bisogni formattati per i singoli. Questo non spiega, nella sua totalità, un calo della celebrazione dei matrimoni dell’1,2% annuo a partire dal 1972, né un aumento, negli ultimi sedici anni, del 65% del tasso di separazioni, ma rimane esplicativo nel chiarire un’antropologia essenzialmente nuova dell’uomo sradicato, incapace di operare quell’atto con-diviso che mantiene vivo un legame interpersonale. Egli consuma singolarmente l’oggetto universale, e partecipa al simbolo collettivo del suo possesso. In proposito il termine I-phone è significativo, mettendo in risalto le due polairtà della contraddizione, da un lato l’Uno, l’Io, dall’altro l’Oggetto Universale “telefono”. Il singolo crea la sua personalità nello spazio massificato sino a creare quel paradosso che Pasolini riteneva impossibile: l’uno-massa, aumentando esponenzialmente quella base di consumatori che la famiglia, seppure borghese, arginava. Questa famiglia borghese minima, come sostituto metropolitano della famiglia allargata rurale, fu il ponte di transizione verso l’attuazione definitiva dell’ultimo trasformismo della civiltà dei consumi, finalmente totalizzante.

martedì 16 settembre 2014

Follie italiane/ Quel saluto fuorilegge….


di Maurizio Gussoni (Destra.it)


Non avremmo mai detto che la campagna a favore del saluto romano scoppiasse proprio a 70 anni di distanza dalla fine del fascismo. O, se preferite, ad oltre 2.000 anni dalla fine dell’Impero Romano che, il saluto a mano tesa, lo inventò. Tantomeno era immaginabile che la campagna a favore venisse proprio dalla magistratura italiana.
Ci spieghiamo meglio: dopo decenni e decenni, durante i quali i giovani della destra nelle celebrazioni importanti come congressi, funerali, eccetera, hanno sempre salutato la propria idea politica e, purtroppo, i propri morti in quel modo. Tutto d’un colpo questo saluto è diventato un problema nazionale. È pur vero che la legge lo vieta, ma si tratta di leggi che derivano dalle disposizioni transitorie della Costituzione. Disposizione un po’ ridicole già allora, addirittura grottesche a distanza di 14 lustri, durante i quali hanno continuato – e continuano – a chiamarsi… transitorie.
Insomma, un altro bello scampolo dell’ottusa burocrazia italica, ma anche tanta, tanta paura da parte di chi, democratico a 24 karati, non è ancora convinto di essere quello che è. E vive nel terrore del proprio passato. Forse perché, in altissima percentuale, anche i suoi nonni o i suoi genitori, nel Ventennio hanno passato i sabati a sbracciarsi con quel saluto.
I ragazzi del saluto romano, legge o no, nel farlo hanno sempre anche messo un pezzo di cuore. E oggi, con la campagna giudiziaria in essere, vengono ripagati addirittura con pene da arresto. Pene confermate – nientepopodimeno – dalla paludata e austera Cassazione.
Ottenendo il risultato di far diffondere, specie su Internet, un autentico ciclone di voglia di trasgressione. Infatti, dappertutto, si vedono immagini e disegni di mani alzate, giusto per far vedere a tutti quanto poco il popolo della destra se ne frega di quelle decisioni fuori dal tempo.
I giudici, ma ancor più i politici che legiferano a vanvera, avrebbero dovuto capire per tempo che sentenze del genere alzano solo il livello di attenzione, oltre a far danni ai pochi ragazzi finiti nel tritacarne giudiziario. Avrebbero dovuto capire che se in settant’anni un’idea non è finita nell’oblio, non è certo nelle loro possibilità farla sparire, per via giudiziaria, dalle menti e dai cuori.
E se i politici fossero meno vili, avrebbero cancellato queste ridicole leggi. Portando avanti le proprie battaglie politiche in termini culturali.
Capendo così che un fenomeno storico-culturale di questa portata non si può cancellare vietando di alzare un braccio. Infatti, anche un cercopiteco può capire che una restaurazione del fascismo-regime non è all’ordine di questo secolo. Ma, anche a braccia conserte, la mente ed il cuore fanno la loro parte. In barba – ed alla faccia – di sentenze e leggi.
Però, ancora una volta, abbiamo peccato di ingenuità. Non ci siamo resi conto della differenza qualitativa che separa i nostri avversari politici di ieri da quelli di oggi.
L’altro ieri esistevano i Togliatti i quali, per quanto sanguinari, facevano le amnistie per salvare la vita ai fascisti e pacificare un popolo che, a onta di quanto scrivevano i falsari della storia, in buona parte non era affatto antifascista. Ieri, invece, fu la volta dei democristiani che lavarono con altre amnistie le fedine penali dei sessantottini di ambo le parti per evitare che una generazione intera fosse compromessa.
Oggi il destino ci ha assegnato questi. Quelli che abbiamo, insomma. Quelli capaci di ideare amnistie utili ai loro compari faccendieri e collettori di tangenti.
Che avesse ragione Aristotele? Con: “ogni popolo ha il governanti che si merita”.


(nella foto, l’imperatore Marco Aurelio saluta romanamente l’Urbe. Un fuorilegge?)

lunedì 15 settembre 2014

Lavoro. Quando il sindacato italiano uscirà dal letargo?



di ​​​​​​Mario Bozzi Sentieri (Barbadillo)

Dopo essere stato, per anni, ai vertici della popolarità e del gradimento dell’opinione pubblica, il sindacalismo italiano sembra essere finito in una sorta di limbo. Molto, in questa direzione, ha fatto Matteo Renzi, che, nei primi mesi del suo governo, ha rottamato la concertazione tra sindacati, imprenditori e governo, su cui, per decenni, si era fondata la politica delle relazioni sociali nel nostro Paese; ha avviato le procedure per la cancellazione del CNEL, l’unico, organico tentativo, costituzionalmente garantito, per dare un ruolo istituzionale alle categorie produttive; ha dimezzato i permessi ed i distacchi sindacali nelle pubbliche amministrazioni.

Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se questi interventi fossero stati attuati da un governo di segno opposto. Scioperi generali … accuse di autoritarismo … manifestazioni di piazza … Niente di tutto questo, malgrado l’ attuale Presidente del Consiglio non abbia ricevuto alcun mandato popolare (e quindi programmatico) attraverso regolari elezioni e sia espressione di una maggioranza disorganica, frutto di una scissione politica (quella dell’Ncd).

Per carità, Renzi ha dimostrato di sapere fare bene il suo mestiere di rottamatore. Il problema sono i sindacati che hanno appena balbettato. Hanno ovviamente protestato, a parole. Ma niente di più. Dimostrando, in questo modo, di essere realmente quel grumo di conservatorismo sociale da più parti denunciato, espressione burocratica più che forza organizzata, capace di rappresentare realmente gli interessi dei lavoratori e, più in generale, quelli nazionali.

In un momento come l’attuale, a meno che non si voglia ipotizzare l’azzeramento delle forme di rappresentanza sociale, con gravissimi rischi per la tenuta degli assetti economici e politici del Sistema Paese, ai sindacati va chiesto di fare la loro parte.

In che direzione ? Intanto in direzione di un’essenziale ricostruzione del rapporto fiduciariocon i lavoratori, attraverso l’adozione di modelli partecipativi e di verifica del consenso più trasparenti, quali referendum interni ai luoghi di lavoro, forme di cogestione, organismi bilaterali, finalizzati alla costruzione di sistemi premiali. E’ questione di metodo e di merito. E qui pensiamo ad un mondo sindacale più “aperto”, capace di chiedere, per primo, rigore e quindi rispettoso e garante del patto tra produttori (lavoratori e datori di lavoro, privato e pubblico). Più attento nei confronti di chi lavora e, nel contempo, meno accondiscendente verso chi furbescamente o grazie a certe inefficienze di sistema, non fa il proprio dovere. Pensiamo ad un sindacato che sappia farsi carico delle inefficienze, presenti sui luoghi di lavoro, che le denunci e che si impegni per superarle, piuttosto che mascherarle dietro il paravento lacero di un’impropria “giustizia sociale”, che cozza con la realtà di milioni di disoccupati. Insomma un mondo sindacale che esca finalmente dal letargo, in cui si è rincantucciato per difendere le proprie rendite di posizione e dimostri di essere in grado di affrontare non solo la crisi economica, quanto soprattutto la propria crisi. Pena un inarrestabile tramonto.

venerdì 12 settembre 2014

Cocaina e puttane. E il Pil torna a crescere



di Valerio Lo Monaco (Il Ribelle.com)

Dunque brindiamo, diversi problemi sembrano andare verso soluzione. Uno su tutti, il rapporto debito/Pil e tutto quello che ne consegue, come per esempio la possibilità di non sforare troppo dal tetto del 3% e pertanto di poter spendere qualcosa di più per rilanciare l’economia…

L’Italia riparte? Si inverte la tendenza ormai in atto da quasi un decennio? Niente affatto. A far tutto ci pensa l’Europa, con una norma tipicamente europea.

Da l’altro ieri tutti gli istituti di statistica europei si adeguano ai nuovi dettami di Bruxelles e inseriscono nel paniere di calcolo, e dunque anche nel computo finale ai fini della rilevazione del Pil nazionale, anche la quota relativa alla economia sommersa e illegale come, per esempio - e a vedere i numeri soprattutto - quella relativa al consumo di droga e alla prostituzione.

L’illegalità entra insomma nel computo del Pil, secondo le linee guida imposte da Eurostat. 

L’Istat, per quanto attiene all’Italia, dà dunque una nuova stima dell’economia sommersa, pari a circa 187 miliardi, ovvero l’11,5% del Pil 2011. Si tratta delle somme connesse a lavoro irregolare e sottodichiarazione. A ciò si può aggiungere l’illegalità (droga, prostituzione e contrabbando), per un combinato, relativo all’economia non osservata, di oltre 200 miliardi (ben il 12,4% del Pil). 

La revisione dei principi metodologici di rilevazione, inserendo questi nuovi prodotti & servizi, ha quindi come effetto immediato quello di migliorare i conti italiani, andando a includere per il parametro Pil anche questi settori sino a ora del tutto non considerati. 

La ricchezza del Paese (che questo pretende di misurare il Pil) è dunque maggiore, proprio in virtù di queste new entry all’interno del calcolo. Il tutto prende l’inizio dalla rilevazione del 2011, come detto, data scelta per iniziare a conteggiare con il nuovo paniere, e di quell’anno abbiamo già i dati e i conti finali precisi: in quanto all’Italia, con il nuovo metodo di calcolo, nel 2011 abbiamo avuto un Pil maggiore di ben 59 miliardi, portando il deficit molto al di sotto rispetto a quanto conteggiato allora e attestandoci al 3,5% in luogo del 3,7% calcolato a suo tempo. 

Tra poco usciranno i dati relativi anche al 2012 e al 2013. Ma soprattutto, e questo è il motivo per il quale Padoan e Renzi stanno tenendo le dita incrociate in trepidante attesa, quelli relativi al 2014. 

Come dire: sperando che gli italiani ci abbiano dato dentro, tra droga e prostituzione, nei primi mesi dell’anno in corso, il Governo aspetta la rilevazione con il nuovo metodo per il primo trimestre. Viste le proiezioni pubblicate sino a ora, francamente, è impossibile non comprenderli. Un miglioramento del Pil e del relativo rapporto col debito sarebbe una manna dal cielo per Renzi e i suoi, tanto che essi stanno aspettando proprio il nuovo dato, previsto entro fine mese, prima di tornare a Bruxelles per presentare il patto di stabilità e i conti italiani onde poter spuntare condizioni migliori per allentare la presa sulla spesa.

La norma ha in fondo una sua coerenza, bisogna pur ammetterlo: è lo stesso meccanismo di calcolo del Pil che impone di ragionare sulla cosa con onestà intellettuale. Alla crescita del Prodotto Interno Lordo concorre tutto ciò che passa per il denaro. I beni e i servizi. La merce e l’acquisto delle prestazioni professionali. Anche la benzina che usiamo per inquinare l’aria (che più ricchi certamente non ci fa) oppure i fisioterapisti che intervengono nella riabilitazione dopo qualche postumo subito da persone coinvolte in incidenti fanno aumentare il Pil, ci rendono insomma “più ricchi”. Non si capisce perché al calcolo dovrebbero essere estranee alcune aree particolarmente fiorenti del commercio, come appunto quelle della economia sommersa, della droga e della prostituzione. E dunque - Europa Docet & Diktat - dal 2011 vengono messe nel paniere.

Ma il paradosso non risiede tanto in questo, pertanto, quanto nel fatto che tali somme, per loro natura non tracciabili come invece avviene per tutto il resto, vengano arbitrariamente elaborate fino a farne stime e valori tanto precisi da farli entrare nel computo finale.

Solo in merito alle nuove tipologie di prodotto e merce inserite, per il nostro Paese sono stati conteggiati - con “precisione” - 10,5 miliardi di euro per la commercializzazione della droga, 3,5 miliardi dalla prostituzione e 0,3 dal contrabbando di sigarette, oltre a 1,2 miliardi dall’indotto. 

Gli italiani, a quanto pare, si fanno più di droga piuttosto che farsi una prostituta. Contenti loro, contento l’Istat, il Pil, il rapporto col debito, l’Europa e Matteo Renzi. Evviva evviva, insomma.

Eppure, ribadiamo, la cosa non deve sconcertare in sé: sappiamo tutti benissimo che droga, prostituzione e sommerso rappresentano una grossa fetta dell’economia del Paese. Gli aspetti curiosi, per andarci delicati dopo tanto turpiloquio, sono invece altri due.

Il primo: che si riesca a dare una dimensione precisa, dal punto di vista monetario, di questa “ricchezza”, tanto dal considerare tot miliardi di qua e tot miliardi di là per arrivare al computo finale in un dato così importante e indicativo, dunque che non dovrebbe essere suscettibile di manipolazioni di sorta, come appunto quello del Pil e del rapporto col debito relativo. Il secondo: che l’Europa, tanto attenta agli zero virgola di crescita o crescita negativa per intimare ai Paesi di fare questa o quella variazione nei conti pubblici, in questa fase di crisi non trovi nulla di meglio che tirare fuori dal cappello a cilindro la possibilità (anzi l’imposizione) di inserire nel computo qualcosa che è possibile solo stimare.

Ma come, prima si parla di correttezza dei conti e dei bilanci, del fare per bene i compiti a casa per rientrare nei parametri, e poi nei parametri stessi si permette - anzi si impone - ai Paesi di conteggiare dei valori che sono possibili da stimare solo a livello approssimativo?

Si tratta dell’ennesimo trucco per la manipolazione di una realtà che sfugge dalle mani stesse degli eurocrati. Droga e prostituzione, del resto, sono da sempre vie di fuga dalla realtà, oasi chimiche cui si ricorre lasciando che il mondo - almeno nell’arco di tempo consentito dagli effetti di tali operazioni - vada da solo per la propria strada, senza di noi.

Tra poco di questa norma non si parlerà più - non che se ne stia parlando a dovere in questi giorni, del resto - il tutto rientrerà nelle serie storiche, e con un colpo di penna e il cambio di un paio di procedure ci ritroveremo tutti più ricchi, d’un colpo. E nei talk show si inizierà a parlare di “dati in miglioramento” e “ripresa ormai alle porte”.

giovedì 11 settembre 2014

La bontà di Fiorella Mannoia e di altri vip: per dare l’acqua al Kenya si fanno…un selfie



di Guglielmo Federici (Secolo d'Italia)

Il virus del selfie che alimenta l’egocentrismo potrebbe pure essere il frutto di un culto esasperato della propria personalità e ognuno la soddisfa come può, con gli strumenti che ha. Ma l’ossessione dell’autoscatto compulsivo legato alla beneficenza o a un impegno sociale sfiora la patologia mentale e il ridicolo. Che qualcuno la fermi. Amref, l’organizzazione sanitaria non profit del continente africano, lancia la campagna Portatori di Acqua in Kenya e sollecita dunque il mondo dello spettacolo ad aderire all’ iniziativa. Una buona campagna,anche se non nuovissima, se non fosse che l’idiozia coniugata al narcisismo formano una miscela esplosiva e allora per aderire non basta più dare la propria disponibilità, il proprio nome, no, ci vuole un selfie, bellezza! Ecco allora una congrega di cantanti e artisti che si inchina al trend del momento: Fiorella Mannoia, Pif, Giobbe Covatta, Enzo Iacchetti, Eleonora Daniele, Salvatore Marino, Frankie Hi nrg, Marlene Kuntz, The Bastards Sons of Dioniso, No Braino, Saba Anglana, Nahtalie, Julian Mente corrono ad aderire attraverso il dannatissimo autoscatto. Un esercito. Che un autoscatto da vip assurga a termometro del successo di un’iniziativa di rilevanza sociale – comunque la si voglia giudicare – dà la misura dell’“insostenibile leggerezza” dei nostri tempi. Come rendere un obiettivo serio banalmente trendy, da terzomondismo di maniera. Come rendere un’iniziativa una mera opportunità per autopromuoversi. Se un progetto è serio, non avrebbe bisogno di “mezzucci” per porsi all’attenzione. Portare 100 pozzi in uno dei Paesi che le Nazioni Unite classificano affetto da carenza idrica cronica: 10 o 15 litri al giorno devono bastare a un keniano per dissetarsi, lavarsi, irrigare il proprio campo. Il confronto con il consumo pro capite europeo non regge: 200-300 litri. Nel mondo quasi 800 milioni di persone non hanno accesso all’acqua pulita e oltre metà di esse si trovano proprio nell’Africa sub-sahariana. Una persona su 3 vive senza servizi igienici adeguati. L’azione di Amref si concentra sui distretti di Makueni, Kitui e nella Regione Costiera, in particolare nelle zone di Magarini e Malindi. Tutto questo non può diventare una fiera della vanità. O no?

mercoledì 10 settembre 2014

L’epidemia d’Ebola e il business farmaceutico


di Roberta Mura (Rinascita)

L’emergenza d’Ebola rimane alta in Africa Occidentale. I mass media, ogni giorno, parlano di casi di contagio in Europa, in Canada e negli Stati Uniti, scatenando una psicosi generale. Casi ancora tutti da accertare. Basta una piccola febbre o un mal di pancia per lanciare l’allarme.
L’Ebola, i cui sintomi ricordano i film dell’orrore, fa paura. In Africa e fuori dai suoi confini. Il virus uccide in maniera rapida, molto di più rispetto all’HIV. Oltre 1427 persone sono morte. Il totale dei casi è di 2615.
Dati che hanno indotto l’Organizzazione della sanità mondiale (OMS) a concedere l’autorizzazione per gli esperimenti in Africa in quanto l’epidemia in corso è “un’ emergenza di salute pubblica di livello internazionale”. Pertanto, tutto è lecito, nonostante i tempi siano prematuri.
In un'intervista ripresa dal sito di informazione Cameroonvoice.com, il dottor Garth Nicolson, uno dei maggiori esperti in malattie emergenti, sostiene che la minaccia di Ebola è stata “gonfiata” a causa della “natura spettacolare” dei sintomi. Secondo Nicolson questi sintomi drammatici, che appaiono molto rapidamente, rende l’Ebola relativamente facile da contenere: “Se hai una malattia feroce e altamente fatale, come l’Ebola, si attira un sacco di attenzione. È dunque possibile isolare immediatamente i pazienti, e quindi contenere l'intero processo”. Un po’ come è successo in Guinea, dove la situazione è sotto controllo.
Secondo la ricercatrice Anne Sullivan, l'epidemia potrebbe essere usata per "creare un livello di allerta molto alto, in modo tale da obbligare le persone a vaccinarsi”.
Lo abbiamo visto più volte negli ultimi anni, come per l’influenza suina. Dopo un allarme generale, si è scoperto che il vaccino era più nocivo che altro.
Ora, per l’Ebola c’è il siero sperimentale “ZMapp”. Lo chiamano il “siero magico”, in seguito ai “miglioramenti” del medico missionario statunitense, Kent Brantly, contagiato dal virus in Liberia.
Nulla si sa di questo siero. Non si conoscono i possibili effetti negativi. E finora è stato sperimentato solo sulle scimmie. Tuttavia tutti lo vogliono. I Paesi africani per primi. Soprattutto, Liberia e Sierra Leone, dove la situazione rimane grave a causa dell’inadeguatezza dei governi che non si sono mossi per tempo, nonostante il virus avesse già fatto stragi in Guinea. La carenza di medici, attrezzature e medicine ha fatto tutto il resto.
Dopo il “successo” dello Zmapp , realizzato dalla Mapp Biopharmaceutical Inc. di San Diego, in collaborazione con l’azienda canadese Defyrus, anche le altre grandi multinazionali del settore si sono messe all’opera. Il colosso britannico Gsk e quello statunitense National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid) hanno annunciato di aver sviluppato un vaccino contro l’Ebola che verrà sperimentato sull’uomo entro l’anno. Al momento, secondo l’Ansa, ci sarebbero almeno tre farmaci e un vaccino contro il bacillo, sviluppati con contributi del dipartimento della difesa Usa, che hanno dato buoni risultati sugli animali e potrebbero entrare velocemente nella fase clinica dei test.
Nella prassi comune, ogni farmaco dovrebbe infatti superare varie fasi di studio e di sperimentazione per poter poi entrare nel mercato ed essere venduto e somministrato ai malati. A volte ci vogliono addirittura 15 anni.
Come denuncia Leleva.org, negli ultimi anni, però, le multinazionali del farmaco riescono ad eludere il problema di fasi controllo troppo rigide ricorrendo al reclutamento di cavie umane volontarie in Africa e nei Paesi in via di sviluppo, al fine di sperimentare farmaci i cui test non sono ancora stati approvati negli Usa o in Gran Bretagna, ovvero i Paesi in cui si concentrano i due terzi dei profitti farmaceutici mondiali.
Negli Stati Uniti una prova clinica su un paziente costa una media di 10.000 dollari. In Africa è gratis. Oltre ad un risparmio economico, i test di sperimentazione su cavie umane africane permette di risparmiare anche sui tempi, perché le case farmaceutiche sottostanno in questo caso alle legislazioni locali solitamente meno restrittive. Questo permette di arrivare prima sui mercati e di brevettare prima. Per un giorno di ritardo nel lancio di un farmaco, un’azienda farmaceutica perde oltre un miliardo e mezzo di euro.
Come afferma Leleva.org, “il valore vero della sperimentazione quindi non è nel conseguire il miglior prezzo a cui poi vendere un prodotto o la sua migliore efficacia (come poteva essere decenni fa, in cui forse il business aveva ancora un’anima umanistica), ma è l’arrivare primi per brevettare prima”.
Pertanto, alla Mapp Biopharmaceutical Inc, che ha realizzato per primo il virus, entreranno nelle tasche parecchi soldi.
Il clima di allarmismo, suscitato dai media internazionali, ha inoltre creato la condizione ideale in cui i governi africani si sentano in dovere di fare di tutto per arrestare l’epidemia, mancando di lucidità.
Il rischio è che gli africani vengano usati come cavie umane. Non sarebbe la prima volta. Circa il 35 % delle donne africane sono sterili in seguito alla somministrazione di vaccini. Il lancio di medicinali in via di sperimentazione possono avere conseguenze drammatiche. Per fare un esempio: tra il 1967 e il 1978, nello Stato della Georgia, negli Stati Uniti, Washington autorizzò la sperimentazione del Depo-Provera, che ha diverse controindicazioni, tra cui l’osteoporosi e a lungo andare la sterilità, su più di 13mila donne povere, la metà delle quali erano nere. La maggior parte di loro, che non erano a conoscenza della sperimentazione, si sono ammalate. Molte altre sono morte. Medicinali contraccettivi come il Depo-Provera sono stati utilizzati spesso da Washington per ridurre il tasso di natalità dei poveri. Nel 1960, gli Usa erano preoccupati per l’aumento della popolazione del Puerto Rico. Nel 1965 si è riscontrato che il 34% delle donne portoricane tra i 20 e il 49 anni erano state sterilizzate.
Oggi, in Africa, “le case farmaceutiche hanno l’opportunità di sperimentare sull’uomo con l’approvazione dell’opinione pubblica” fa notare un giovane sierraleonese che ha chiesto l’anonimato: “I medici che hanno lanciato l’allarme e che operano nei confini in Guinea o Sierra Leone sono nordamericani. C’è chi pensa che l’epidemia potrebbe essere stata diffusa. Guarda caso gli Stati Uniti o meglio una casa farmaceutica americana ha trovato il vaccino nel momento propizio. Strana coincidenza. Questo è un affare d’oro”.
L’epidemia d’Ebola rischia di diventare un nuovo business farmaceutico. Un déjà vu con l’emergenza dell’HIV, in cui si è speculato facendo soldi facili.
Erano gli anni Ottanta e l’Aids si diffuse in tutto il mondo. Una malattia terribile, incurabile e mortale. Le case farmaceutiche si misero subito a lavoro e poco dopo, nel 1987, uscirono alcuni farmaci “magici”, tra questi: AZT, DDI, 3TC, inibitori della proteasi. Tutti nati negli Stati Uniti.
Alcuni anni dopo la loro uscita nel mercato, un gruppo di autorevoli ricercatori denunciò che l'approvazione di questi farmaci era passato attraverso test incompleti e pressioni di ogni tipo. Il tutto per nascondere al pubblico che gli effetti a lungo termine degli inibitori della proteasi erano sconosciuti e che l'AZT era inefficace e, addirittura, che accelerava la morte di migliaia di ammalati.
La multinazionale Wellcome, divenuta poi Glaxo Wellcome, era a conoscenza degli effetti dannosi, ma se ne infischiò.
Oggi, si rischia di commettere lo stesso errore.
Ancora adesso dell’Ebola si sa ben poco. La prima scoperta del virus risale al 1976, in Congo. L’Ebola è infatti un fiume congolese. Secondo gli studiosi, il virus “abiterebbe” da moltissimo tempo all'interno delle volpi volanti, grossi chirotteri che mangiano frutta e abitano le foreste tropicali. Per trasmetterlo all'uomo il virus potrebbe essere passato dalle volpi volanti alle scimmie o altri animali della foresta, che vengono regolarmente mangiati dalle etnie locali.
Come spiega al telefono Saverio Bellizzi, l’epidemiologo di Msf, tornato da un mese in Italia dopo due missioni in Guinea, “si trasmette tramite il contatto con i fluidi delle persone infette. Il contatto non è via aerea ma via contatto diretto tramite sangue o fluidi idrologici. Il virus è estremamente nocivo all'interno dell'organismo ma è anche molto labile nel senso che basta semplicemente lavarsi le mani con il sapone e si inattiva il virus immediatamente. Per essere veramente contagiati bisogna avere il contatto diretto: toccare una persona che abbia un'alta carica di virus e avere dei sintomi evidenti. Una persona che non ha sintomi non è contagiosa anche se il virus è al suo interno”.
In Guinea, spiega, Bellizzi, in mancanza di vaccini e terapie specifiche, sono state usate “terapie di supporto, quindi idratazione, nutrizione e terapie antibiotiche o antimalariche nel momento in cui il paziente sia affetto da patologie associate. Il tutto perché mira a rinforzare il corpo per combattere meglio il virus”, il cui tasso di mortalità varia dal 25% al 90%. Misure che hanno portato a buoni risultati.
La situazione non è facile. Non solo per la carenza di medici o di attrezzature. “C'è difficoltà principalmente per due motivi: una è l'estrema mobilità delle persone che si muovono da villaggio a villaggio in maniera continua e veloce, quindi una volta contagiati si muovono e possono sviluppare nuovi focolai in nuove zone; e poi le resistenze culturali. Ci sono difficoltà a sensibilizzare e rendere consapevoli le persone del luogo dell'esistenza della malattia”, spiega l’epidemiologo. Quello che si può fare è “sconfiggere l'Ebola solo con una grande campagna di sensibilizzazione, villaggio per villaggio”.
In Africa, la scaramanzia è forte. Ci sono tanti piccoli villaggi, popolati da etnie diverse che nutrono una profonda sfiducia nei confronti della medicina occidentale. Nascondono i malati per evitare che vengano portati nei centri di assistenza. Sono spaventate dalla morte dei loro cari, consumati da violenti dolori muscolari, mal di testa, vomito, diarrea ed emorragie.
La chiamano la malattia del “diavolo”. Tradotto: la malattia dei bianchi. Si pensa che la febbre sia un complotto o un’invenzione degli occidentali, che tanto male hanno fatto all’Africa, prima con la tratta degli schiavi, poi con la colonizzazione e ora con il saccheggio del sottosuolo.

lunedì 8 settembre 2014

Il figlio in provetta come una borsetta



di Marcello Veneziani

Nella giostra dei poteri volanti, tra i seggiolini che orbitano all'impazzata, le Regioni hanno acchiappato il trofeo dell'eterologa. Tocca a loro, chissà perché, occuparsi di Regioni Intime, e dunque stabilire come avverrà la fecondazione artificiale, come si useranno i gameti dei donatori. Non tornerò sul tema anche se continuo a contestarne il principio ispiratore che - per dirlo in sintesi - abolisce il padre e lo sostituisce col padrone, perché i genitori non si limiteranno a volere un figlio ma dopo aver sostituito Madre Natura, decideranno alcune fattezze del nascituro, programmandolo secondo i loro tratti esteriori.

Non mi pare fuori luogo l'obiezione che la Chiesa rivolge alla legge, di creare pericolosi precedenti per una selezione genetica. Non siamo al razzismo ma alla sua anticamera. La cosa che trovo più assurda, e per certi versi raccapricciante, è la decisione assunta dalle Regioni secondo cui i figli dell'eterologa devono avere però il colore della pelle, degli occhi e dei capelli dei loro genitori. Lo trovo veramente grottesco. Non conta il legame biologico e spirituale con i genitori, non conta che il figlio erediti i suoi caratteri, in compenso c'è questa concessione apparente, esteriore, epidermica: avrà lo stesso colore della pelle. Che superficialità, è come coordinare la cintura con la borsa, mi raccomando che sia della stessa pelle. L'anima non conta, la pelle sì. E no, a questo punto, prendete quello che vi viene, nero, giallo o mixato. Magari poi lo coordinate coi vostri vestiti...

sabato 6 settembre 2014

Usurai & politica/ La BCE regala soldi alle banche. Ora il governo controlli


di Massimo Corsaro (Destra.it)

Dunque, con la decisione assunta ieri da Mario Draghi per conto della BCE, da oggi le banche europee potranno acquistare il denaro (che costituisce la materia prima della loro attività) al prezzo dello 0,05%.
Si prevede che le banche italiane faranno ricorso a questa favorevole provvista nella misura di 70 miliardi per il residuo 2014 e di 200 miliardi per il 2015. Obiettivo esplicito del Presidente della BCE è fare in modo che gli istituti di credito utilizzino i fondi per finanziare le imprese e le famiglie.
E qui si pongono due interrogativi fondamentali:
1) Già lo scorso anno la BCE mise a disposizione delle banche risorse a tasso agevolato con lo stesso scopo. Gli Istituti italiani ne fruirono per 100 miliardi di euro, ma nessun flusso di denaro venne indirizzato verso imprese e famiglie, giacché le nostre banche utilizzarono IMPROPRIAMENTE quei fondi per coprire i propri debiti. Proprio rispondendo ad una mia interrogazione parlamentare, il Ministro dell’Economia ammise in Aula alla Camera che quei fondi servirono alle banche per “consolidare la propria patrimonializzazione”. Allora, il Governo ci dovrebbe chiaramente e senza indugio spiegare quali sistemi di controllo e quali sanzioni intende mettere immediatamente in campo, per evitare che anche questa volta le banche utilizzino i soldi “regalati” dalla BCE per fare investimenti in proprio, magari comprando titoli di Stato che danno un rendimento elevato e speculando quindi ai danni di tutti i cittadini (che con le loro tasse pagano gli interessi sul debito pubblico) senza mettere in circolo il danaro a supporto dell’economia nazionale.
2) Si è detto che i soldi sono la “materia prima” delle banche. Ora, proprio oggi il Corriere della Sera – che a causa della propria governance non è certo il più terzo e distaccato giudice del sistema bancario – riconosce che il credito al consumo erogato dai nostri Istituti alle le famiglie ha un prezzo di oltre il 9%, mentre il finanziamento alle piccole medie imprese supera il 13%. Significa, nel primo caso, un ricarico lordo di 180 volte e nel secondo di 260 volte il prezzo di acquisto della materia prima. Un po’ – per capirci – come se noi pagassimo una tazzina di caffè al bar (il cui costo medio di produzione è 25 centesimi) da 45 a 65 euro o un chilo di pane dal fornaio (costo 1,5€) tra 270 e 390 euro.
Riporto ora la definizione del termine “usura” come indicata nel dizionario internazionale del terzo millennio, ovvero wikipedia: “L’usura (parola latina per interesse) è la pratica consistente nel fornire prestiti a tassi di interesse considerati illegali, socialmente riprovevoli e tali da rendere il loro rimborso molto difficile o impossibile, spingendo perciò il debitore ad accettare condizioni poste dal creditore a proprio vantaggio, come la vendita a un prezzo particolarmente vantaggioso per il compratore di un bene di proprietà del debitore, oppure spingendo il creditore a compiere atti illeciti ai danni del debitore per indurlo a pagare”.
Che tradotto significa che le banche prestano ad imprese e famiglie – come si è visto – il loro bene primario (peraltro acquisito a condizioni di favore da una Istituzione che distribuisce soldi di risparmiatori e correntisti) ad un tasso così sproporzionato da renderne difficile la restituzione, talché il debitore finisce nel medio lungo termine per fallire, consegnando alla banca finanziatrice i propri beni (l’azienda o la casa).
Siccome qui parliamo di strumenti necessari ed indispensabili per salvare la nostra economia e – quindi – la Nazione, è forse il caso di tutelarci con iniziative forti. Perché chi dovesse speculare anche in questa occasione si macchierebbe di Alto Tradimento. Se fossimo una comunità seria, dato che la battaglia che si sta consumando sulla finanza equivale ad un conflitto dell’età moderna, si dovrebbero applicare i codici militari per il tempo di guerra, i responsabili dovrebbero essere sottoposti alla corte marziale e, da lì, condotti con ignominia al patibolo.
Ma, si sa, siamo un paesuncolo di mollaccioni, cuori teneri privi di spina dorsale ma tanto, tanto caritatevoli e solidali. Quindi mi accontenterei di una sanzione meno “definitiva”.
Allora la seconda domanda che si impone, e che giro al Putto fiorentino è la seguente: se per davvero vuoi provare ad essere quel grande innovatore che a parole ci hai descritto sino alla noia, sei disposto a porre un limite di ricarico superato il quale il banchiere viene incolpato di reato di usura e senza indugio associato alle patrie galere? Vogliamo riconoscere loro la possibilità di aumentare di 100 volte il margine lordo (quindi con un ricarico del DIECIMILAPERCENTO, che porta ad un tasso soglia del 5%)? Altrimenti Matteo, come ti ho già detto una volta in Aula, sei solo chiacchiere e distintivo, come diceva Robert De Niro ne Gli Intoccabili. Niente di diverso rispetto ai tanti lacchè del potere che ti hanno preceduto.

venerdì 5 settembre 2014

Quanto è dolce naufragare nel nichilismo da discoteca



di Marcello Veneziani

Se la canzone incontra la filosofia, si spara un colpo alla tempia? Che rapporto c'è tra pensiero e discoteca, tra nichilismo e musica leggera? Si può poggiare la gravitas del filosofo sulla leggerezza fatua di una canzonetta? È uno dei quesiti impropri e all'apparenza assurdi su cui si esercita la pop-filosofia, che ibrida il pensiero con la vita quotidiana.
Ne abbiamo parlato al Castello della Rancia, tra canzoni e filmati, nelle sedute pensierose e spensierate di «Popsophia» che si è conclusa ieri a Tolentino.

L'accostamento così stridente fra nichilismo e canzonette sembra a prima vista cercare un effetto comico, paradossale, quasi umoristico. Ma se è vero che il nichilismo s'è fatto universale, di massa, permea la vita quotidiana, i consumi, i linguaggi, le vacanze, contagia i media, un nesso ci dev'essere. Qualche anno fa il filosofo nichilista Manlio Sgalambro, amico e paroliere di Franco Battiato, scrisse un libretto dedicato alla Teoria della canzone in cui sostenne che la canzone non è la pappa del cuore, tutta romanticherie, ma riflette il tema del secolo, la morte dello spirito. La canzone sostituisce l'attimo con l'eterno e la discoteca è una palestra di nirvana in versione attuale-occidentale. Diamine, che parolone, direte voi. Tutti abbiamo presente la fatuità delle canzonette, le rime di cuore e amore, il recinto privato dei sentimenti, il trionfo dei languori, la storia ridotta a vita intima. Ma Sgalambro insiste e dice che i corpi sputano l'anima sotto le note, e un buon cantante è un misto di uomo e di animale. La canzone promuove una forma d'involuzionismo, di regressione animalesca. Ma Sgalambro non lo dice per denigrare la musica leggera, anzi se ne compiace.

Nel viaggio tra nichilismo e canzonette, tra musiche, filmati e recitazioni, a «Popsophia» sono partiti da un cantante che tutto sembra ispirare meno che il nichilismo. Dico Domenico Modugno. Hanno riproposto due sue canzoni, L'uomo in frac e Meraviglioso . Noi non ci facciamo caso, tanto sono gradevoli e orecchiabili, ma narrano ambedue di suicidio. La prima è intrisa di un nichilismo magico e onirico, con un personaggio fuori dal tempo che si dissolve nelle acque, in una forma di trasognata eutanasia. Tutti amiamo quella canzone ma non facciamo caso alla tragedia che descrive. Meraviglioso è invece la risposta al suicidio. È una canzone del '68, presentata a Sanremo dove fu bocciata, e voleva essere una risposta al suicidio di Luigi Tenco a Sanremo nell'anno precedente. Riscopre l'incanto e la bellezza della vita, parole di Riccardo Pazzaglia, il filosofo arboriano del brodo primordiale (Arbore è stato il caposcuola di una corrente filosofica meridionale, tra Pazzaglia e De Crescenzo, Catalano e Frassica). Ma anche questa canzone un po' ruffiana, gioiosa e un po' retorica, risponde in realtà alla tentazione nichilista di togliersi la vita.

È la scoperta del mondo e della luce per fugare i cani neri del nichilismo che riduce la vita a un niente versato nel vuoto. Il superficiale mondo delle canzonette, in pieno boom economico e poi in pieno impegno ideologico, svela il sottofondo tragico e disperato di una società opulenta e baldanzosa, presa dal fervore della vita lieve, dall' exploit dei consumi, dalla voglia di vivere e di divertirsi. Più tragicamente compiuto sarà Luigi Tenco; nelle sue canzoni la malinconia della vita oscilla tra la noia e il dolore, il perdersi nel tempo e il vuotarsi dei motivi per vivere. Poi, l'epilogo tragico del suicidio infonde a Tenco l'aura nichilista e il sigillo tragico della disperazione. È il lato d'ombra della musica leggera che talvolta si affaccia, per restare ai cantautori italiani, in Bruno Lauzi, Gino Paoli, Paolo Conte, Rino Gaetano, Zucchero e perfino Jovanotti.

Il manifesto musicale del nichilismo resta però Dio è morto di Francesco Guccini, anche se si conclude con un barlume di resurrezione. L'epica nichilista è invece esaltata in Vasco Rossi, con la sua vita spericolata e piena di guai, il caso e il caos in cui annega l'esistenza, il suo vivere per niente, e l'istigazione a perdersi nel fiume della trasgressione. Qui il nichilismo assume quasi tratti nietzscheani, non solo perché ricordano il «vivi pericolosamente». La musica leggera sembra avverare la profezia di Nietzsche: verrà un giorno una musica dionisiaca. Quando scrissi di questo sfondo nichilistico in Vasco, lui mi rispose piccato, da un verso rigettando il nichilismo che aveva quasi confuso con una sostanza stupefacente e dall'altro inventandosi un improbabile autoritratto di uomo dedito alla famiglia e ai figli, con un quadro fiscale, sanitario e giudiziario irreprensibile. Ma perché vergognarsi dei messaggi veicolati nelle sue canzoni e dei modelli di vita indossati fin dentro l'anima? La parabola di Vasco, da pioniere della trasgressione a canone di vita esagerata, mostra che può sorgere anche il conformismo della trasgressione, lo stereotipo del nichilista. Con lui e non solo con lui, la musica leggera si vota a Dioniso, sposa il delirio e la trasgressione, la notte e la perdita dell'identità, vive l'ebbrezza e si lascia possedere da un vitalismo assoluto. Il nichilismo del rock incita a ridisegnare l'universo delle certezze antiche, venerando déi estemporanei, patrie provvisorie e famiglie generazionali. Vivere a orecchio, sostituire il pensiero con l'emozione e la vibrazione, percorrendo il cammino inverso dell'illuminismo kantiano: non elevare l'uomo da mezzo a fine, ma il contrario, rinunciare all'universo teleologico-razionale e vivere di energie e impulsi, fino a farsi strumento. L'uomo si fa chitarra, batteria, suono e percussione, veicolo musicale.

Più facile sarebbe ravvisare il nichilismo nella musica rock americana e nelle sue varianti hard o heavy e trovare riscontro in certe vite e certe morti precoci o suicide, all'insegna di droga, sesso e rock and roll. Ma qui parliamo di musica italiana e in larga parte di melodia. Non è esercizio inutile o eccessivo ravvisare dietro la vena sentimentale e intima, dietro l'amoreggiare della musica leggera, l'unghia dell'ospite inquietante. Per accorgersi che proprio là, nel cuore dell'evasione, serpeggia quella perdita di senso e di scopo, quel rifugio nelle pulsioni e nelle emozioni. La canzone trasborda il nichilismo nella vita quotidiana delle masse, il nichilismo esonda dai libri e dai filosofi per raggiungere ragazzi e discoteche. Così le canzonette, magari senza volerlo, diventano la scuola elementare del nichilismo, di cui forniscono i primi rudimenti. Perché la musica rispecchia il suo tempo e propaga le sue ossessioni. E il naufragar m'è dolce in queste note...

giovedì 4 settembre 2014

I numeri di Gaza



I numeri dell'attacco israeliano su Gaza, un massacro costato la vita a migliaia di civili e portato avanti in barba alle convenzioni internazionali e alle più elementari norme di civiltà. Uno sterminio di fronte al quale non si può e non si deve tacere. 
Lunga vita alla Palestina: libera, indipendente e sovrana.


martedì 2 settembre 2014

Vittorio Vik Arrigoni, colui che riuscì a restare umano nell’ecatombe palestinese



di Francesco Boezi (L'Intellettuale Dissidente)

Per rendere onore alla memoria di Vittorio Arrigoni è importante sottolineare che si tratta principalmente della storia di un uomo. Sarebbe abbastanza inutile elencare le sue esperienze di cooperazione umanitaria, le vicende che lo hanno posto al centro della cronaca giornalistica dei primi anni duemila si trovano ovunque, quello che è più complesso da analizzare è il ruolo forte che riuscì a costruirsi nel panorama della verità raccontata con crudo realismo sulle vicende della striscia di Gaza e quanto queste abbiano tormentato la sua esistenza di reporter, di scrittore e di uomo già prima del rapimento e dell’omicidio di cui fu vittima. Le fonti saranno fondamentali per una comprensione piena e vera di quanto “Vik” come si firmava e come voleva essere chiamato, abbia seminato e raccolto prima di tutto umanamente e poi anche storicamente con il semplice utilizzo del suo coraggio e della forza della verità. Sul suo blog http://guerrillaradio.iobloggo.com/ si legge nell’intestazione: “Guerriglia alla prigionia dell’Informazione. Contro la corruzione dell’industria mediatica, il bigottismo dei ceti medi, l’imperdonabile assopimento della coscienza civile. La brama di Verità prima di ogni anelito, l’abrasiva denuncia, verso la dissoluzione di ogni soluzione precostituita, L’infanticidio di ogni certezza indotta. La polvere nera della coercizione entro le narici di una crisi di rigetto. L’abbuffata di un pasto nudo, crudo amaro quanto basta per non poter esser digerito.” Un nitido anticonformismo volto a scardinare la prassi comunicativa dei mezzi di comunicazione tradizionali, afferenti al pensiero unico e vittime della logica per cui l’equilibrio delle parti la fa sempre da padrone rispetto la volontà di sapere la verità. Se si dovesse scegliere un personaggio della storia delle letteratura per accostarlo ad Arrigoni, questi potrebbe essere Don Chisciotte. Con la stessa lucida follia la sua vita è stata un eterno scagliarsi addosso ai mulini a vento del conformismo, dell’asservimento e del pensiero totalizzante di chi raccontava una storia non vera, facendolo dal fronte,sul posto, accostandosi quotidianamente alla tragedia e alla morte, così vicino da essere risucchiato egli stesso. Come Don Chisciotte, Arrigoni operò il tentativo folle di rendere la realtà quanto più possibile simile ai suoi sogni più profondi, al suo desiderio di giustizia e alla sua conclamata umanità. Scrive Ramzy Baroud (www.ramzybaroud.net) giornalista internazionale e direttore di PalestineChronicle.com: “Scrivendo sul Guardian UK da Roma, il 15 aprile, John Hooper asseriva: “La vita di Arrigoni era tutt’altro che sicura. Nel settembre 2008 fu ferito (dalle truppe israeliane) mentre accompagnava pescatori palestinesi in mare. Due anni fa ricevette minacce di morte tramite un sito web di estrema destra americano, che forniva agli aspiranti assassini una sua foto e alcuni dettagli fisici, come un tatuaggio sulla spalla”. (Il sito è http://stoptheism.com/). E ancora: “Oltre al dolore, l’omicidio ha portato la disperazione a Gaza”, si legge in un editoriale del giornale inglese The Independent del 16 aprile. “Non solo Arrigoni era molto conosciuto e amato, ma non è sfuggito a nessuno che il suo sequestro è stato il primo dopo quello del giornalista della BBC Alan Johnson nel 2007.” Una vita spesa per la difesa e la promozione dei diritti umani ma una vita donata, nel vero senso della parola, alla causa della Palestina. Una persona evidentemente convinta che le opere avessero un valore maggiore rispetto ad altri atti caritatevoli ma meno incisivi sul piano della realtà. Documenti, filmati, articoli, blog, qualunque strumento potesse essere utile alla promozione dei suoi ideali, Arrigoni lo utilizzava e non sono in pochi, tra tutti Amos Oz, ad aver avvertito “Vik” della possibilità concreta che la sua attività stesse risultando scomoda a molti. La polemica con Saviano, poi, balzò alle cronache anche per la verve con la quale Arrigoni criticò un personaggio apparentemente intoccabile, un dibattito lungo sull’operazione “piombo fuso” che permise ad Arrigoni di farci conoscere molto meglio tanti lati di una storia che sino ad allora appariva torbida, raccontata in modo interessato o più semplicemente mal raccontata. Scrive Arrigoni: “Ci sono terribili catastrofi naturali inevitabili a questo mondo, come i terremoti e gli uragani. A Gaza è in corso una catastrofe umanitaria innaturale perpetrata da Israele ai danni di un popolo che vorrebbe ridotto alla più completa miseria e sottomissione. Una popolazione disperata che non trova più il latte e il pane per nutrire i suoi figli. Che non piange neanche più i suoi lutti perchè anche agli occhi è stata imposta una dieta ferrea. Il mondo intero non può ignorare questa tragedia e, se lo fa, non includeteci in questo mondo”. La sua capacità narrativa è cruda, tragicamente diretta ad infondere nel lettore tutte le sensazioni che possono essere provate ad aver scelto di essere partecipi di una enorme sofferenza umana: “Avete presente Gaza? Ogni casa è arroccata sull’altra, ciascun edificio è posato sull’altro. Gaza è il posto al mondo a più alta densità abitativa, per cui se bombardi a diecimila metri di altezza è inevitabile che tu faccia una strage di civili. Ne sei cosciente e colpevole, non si tratta di errore, di danni collaterali. Così bombardando la caserma di polizia di Al Abbas, in pieno centro, è rimasta coinvolta nelle esplosioni anche la scuola elementare lì a fianco. Era la fine delle lezioni e i bambini erano già in strada, decine di grembiulini azzurri svolazzanti si sono macchiati di sangue. Durante l’attacco alla scuola di polizia Dair Al Balah, si sono registrati morti e feriti nel suq vicino, il mercato centrale di Gaza. Abbiamo visto corpi di animali e di uomini mescolare il loro sangue in rivoli che scorrevano lungo l’asfalto. Una Guernica fuoriuscita dalla tela per trasfigurarsi nella realtà.” L’attualità della questione dei diritti umani a Gaza è stata violentemente rimessa al centro del dibattito internazionale in questi mesi ed è soprattutto per questo che le figure come quella di Vittorio Arrigoni non devono essere buttate nel dimenticatoio ma raccontate con costanza in modo da porre l’accento su quanti come lui possano servire da esempio ai tanti che si occupano attivamente o passivamente della difesa delle popolazioni inerme di Gaza. “Vik”, per essere chiari, si è schierato apertamente, durante la propria permanenza in Palestina, sia contro la politica di Hamas sia contro la politica di al-Fath in Cisgiordania, dimostrando la assoluta veridicità del suo impegno a favore dei diritti umani e smentendo quanti sostennero che si trattasse più semplicemente di un antisionista militante. Un uomo che ha vacillato come è naturale che sia, dinanzi allo sgomento che può provarsi quando gli attori internazionali che dovrebbero recitare delle parti, ne recitano altre, come egli stesso scriveva, facendo trasparire anche un velo di tristezza: “Vi confesso che il mio «restiamo umani» ha vacillato spesso in questi ultimi giorni, ma resiste. Resiste come l’orgoglio, l’attaccamento alla terra natia intesa come identità e diritto all’autodeterminazione della popolazione di Gaza, dai professori di Gaza alla gente incontrata per strada, medici e infermieri, reporter, pescatori, agricoltori, uomini, donne adolescenti, quelli che hanno perso tutto e quelli che non avevano più nulla da perdere, fino all’ultimo fiato in gola mi esprimono l’inshallah di una vittoria vicina, il sincero convincimento che le loro radici raggiungono profondità tali da non poter essere recise da alcun bulldozer nemico.” Il premio Nobel per la Pace è stato consegnato a tanti, tantissimi protagonisti della nostra storia contemporanea di cui si potrebbe discutere per giorni. Due su tutti, Barack Obama e l’Europa. Senza scendere troppo nei dettagli che sposterebbero troppo il focus della questione, verrebbe da suggerire come siano i personaggi come Arrigoni che nella realtà dei fatti abbiano cercato, fino alla morte, di raccontare le condizioni umane delle popolazioni inerme e spingere con tutte le forze gli enti sovranazionali a far sì che le condizioni per una reale pace duratura venissero messi in essere. Verrebbe da chiedersi, inoltre, se non è anche questo un caso in cui “le piccole mani muovono le ruote del mondo”, smascherando la nudità e la complicità delle mani dei giganti. Vittorio Arrigoni è morto, ucciso da un gruppo terrorista dichiaratosi vicino all’area jihadista salafita. In molti hanno fatto dell’ironia sul fatto che egli sia stato ucciso dalle popolazioni che stava cercando di difendere, altri dubitano persino che la mano dell’assassino di Arrigoni sia quella che si è dichiarata tale. Ma queste sono paradossalmente piccolezze rispetto all’opera di sensibilizzazione che il nostro ha fatto, soprattutto in Italia, rendendoci tutti un po’più consapevoli e responsabili, testimoniando con l’esempio che è veramente possibile sconvolgere l’opinione pubblica con il semplice utilizzo di una videocamera, di una fotocamera e di un mezzo per scrivere. Restare umani in un panorama mondiale che va in tutta altra direzione è un appello più forte di quanto debolmente potrebbe apparire, significa anzitutto mettersi in gioco per l’umanità, sentendo nel profondo la domanda di riconoscimento dei drammi altrui, significa cancellare se stesso e mettersi a disposizione della storia, donandosi completamente ad una causa. Significa a volte perdere la vita. Restare umani non è come sembrerebbe una espressione esasperatamente buonista, significa fare un bagno nella tragedia e cercare di restare in piedi. Non è facile essere umani, Vittorio Arrigoni ci è riuscito.