di Fabrizio Fiorini (Rinascita)
Sarà che per il vecchio Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro tira aria di dismissione, sarà che i numeri sono quelli che sono e concedono poco spazio a giochetti e a “contabilità creativa”, ma al dimenticato Organo costituzionale occorre riconoscere quantomeno il pregio della chiarezza e della sintesi.
E’ di oggi la diffusione dei dati del “Rapporto sul mercato del lavoro 2013 – 2014”, presentato presso il “Parlamentino” di via Lubin non già da (e alla presenza di) pericolosi eversivi, ma dalle più alte cariche istituzionali e sindacali.
Questi, in sintesi, i dati emersi dallo studio, emanati proprio mentre la politichetta nazionale si baloccava con “job acts” e “riformine”:
1) il costo del lavoro, il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo”, si mantiene stabile su livelli allarmanti, ed eventuali provvedimenti tampone e di breve durata risulterebbero in ogni caso inefficaci per la ripresa dell’occupazione;
2) se il centro-nord non ride, il nostro mezzogiorno si dispera: la caduta del Pil, al confronto, nelle regioni meridionali è doppia; i settori manifatturiero ed edile in particolare si trovano ai minimi termini e difficilmente la loro situazione potrà migliorare nel prossimo e meno prossimo futuro;
3) lo stato di deflazione è palesemente conclamato: a fronte di una riduzione dei prezzi, molto marcata in alcuni settori economici, non si configura alcun incremento della domanda;
4) il potere d’acquisto dei cittadini e delle famiglie italiane, a causa di un vero e proprio arretramento della massa salariale e della disgregazione delle garanzie occupazionali, e tracollato: circa il 7% in meno in poco più di tre anni;
5) per la prima volta un Ente dello Stato mette in evidenza l’oggettiva impossibilità (logica, prima ancora che “econometrica”) che la situazione - innanzitutto quella occupazionale - possa essere sanata, anche nel lungo periodo: si tratta, sottolineano dal Cnel, di milioni di posti di lavoro perduti, di centinaia di migliaia di imprese chiuse, di un Paese in ginocchio;
6) la recessione sta conducendo a veri e propri mutamenti dei comportamenti di massa; il concetto di “povertà” è sempre più percepito dalle famiglie italiane e, fenomeno inedito, l’indigenza (reale o statistica che sia) non è più un fenomeno legato allo status di disoccupazione, ma riguarda anche gli occupati. Col solito eufemismo anglofono, la chiamano “inwork poverty”.
Quest’ultima affermazione, che riporta alla memoria gli ammonimenti poundiani, esprime la reale natura del problema. Che non è la povertà, la mancanza di mezzi, di infrastrutture, di intelligenze, di risorse. E’ l’impossibilità di accedere al mezzo per scambiarli, la moneta, anche ricorrendo all’onesto lavoro. Quella moneta di cui non possiamo disporre da uomini liberi e da popolo libero, che ci è stata usurpata dagli strozzini di Bruxelles.
Un’ultima cosa dice il rapporto del Cnel: i primi progressi, la ripresa, ci sarà; ma non ora, nel 2015. Insomma, tutto è perduto, fuorché il senso dell’umorismo.