Ecco la prima chiacchierata sui “Miti fondanti”. Quando pubblicammo su Area questa rubrica, alcuni anni fa, decisi di cominciare il ciclo d’incontri con Giano Accame, uno dei motori più brillanti della nostra rivista, il più anziano e, al tempo stesso, il più giovane di tutti noi. Ed è a lui – morto un anno e mezzo fa -, amico carissimo e maestro indimenticabile, che voglio dedicare la ripubblicazione di queste pagine.
Il primo incontro è con Giano Accame,
giornalista e saggista di lungo corso, autore del recente Una storia
della repubblica. Accame fa risalire la prima pietruzza del suo
personale mosaico «all’annuncio dell’Impero, nel maggio del ’36, quando
frequentavo le scuole elementari. Un paio d’anni dopo quelle atmosfere
vennero esaltate dai film “africani”…».
Ricordi i titoli?
Luciano Serra pilota, di Alessandrini,
con Amedeo Nazzari, poi Sentinelle di bronzo, mi sembra di Romolo
Marcellini, sui dubat, le nostre truppe coloniali; li ricordo perché
sono legati appunto all’idea dell’Impero, dell’espansione italiana che
tanto mi avevano colpito da bambino… erano gli anni in cui, vicino al
Colosseo, insieme alle carte geografiche dell’espansione romana, se ne
aggiungeva una con la nuova espansione italiana… c’era l’illusione del
nuovo impero di Roma… l’idea di grandezza, insomma. E naturalmente il
fascino dell’Africa. Ho il ricordo delle camicie nere a La Spezia: noi
balilla assistemmo al loro ritorno. Portavano i caschi coloniali, un
accessorio buffo che in tutti i viaggi che poi ho fatto da giornalista
inviato (anni ’60-’70), in Angola, Mozambico, Nigeria, non ho mai più
visto… I legionari portavano dall’Africa chi una lancia, chi uno scudo,
chi addirittura una scimmietta sulla spalla… sembrava di veder vivere i
romanzi di Salgari, no? L’avventura si fondeva alla storia.
E li leggevi, in quel periodo?
I libri di Salgari? Sì, certo, ma soprattutto Luigi Motta, che mi piaceva di più… allora era conosciuto forse più di lui.
Ma parlavano dell’Oriente o proprio dell’Africa?
Boh, adesso non ricordo
esattamente… Avventure esotiche, comunque, e poi nella fantasia dei
ragazzi si faceva un tutt’uno: Mompracem chissà dov’era… per noi poteva
essere anche dalle parti di Mogadiscio! Un’altra “impressione” forte
della mia infanzia fu il Museo navale, all’Arsenale di La Spezia. Anche
perché ero figlio di un ufficiale di Marina, nipote di un ammiraglio…
ero destinato a seguirne la strada, pur senza una particolare vocazione,
come era successo sempre in famiglia: il Museo Navale era il luogo dei
miei sogni per l’avvenire, insomma.
Poi la guerra, che sfiorasti soltanto, arruolandoti un giorno prima della fine, nella Rsi.
E vennero I proscritti, di Ernst von Salomon, avrò avuto diciotto, diciannove anni, più o meno nel ’46.
E dov’è che vendevano un libro del genere, in quel periodo?
Lo trovai su una bancarella, credo fosse
la vecchia edizione Einaudi, quella con la copertina di Guttuso. Con
sottile e perfida intelligenza, Einaudi decise di pubblicare proprio nel
’43 libri idealmente molto schierati, ma che già suggerivano l’idea
della sconfitta: non per niente, uno fu L’Alfiere, di Carlo Alianello,
nel quale un soldato borbonico vede morire il Regno delle Due Sicilie,
l’altro, quello di von Salomon, raccontava le vicende dei “corpi
franchi”, i tedeschi che in qualche modo si ribellavano alla sconfitta
della Prima guerra mondiale. Per me era rappresentativo dei sentimenti
di rivolta di quelli della mia generazione, gente come Fabio De Felice,
Fausto Gianfranceschi, Enzo Erra… che si ribellavano alla sconfitta con
la politica attiva.
E il Movimento sociale italiano venne fondato il 26 dicembre ’46…
Infatti, ma io cominciavo a far politica
qualche mese prima, con il Fronte degli italiani, che era nato intorno a
Rivolta ideale, il settimanale di Tonelli. Quando poi venne fondato
l’Msi, gli iscritti del Fronte furono automaticamente accorpati nel
nuovo movimento.
Il partito curava la formazione?
Ci pensò Carlo Costamagna, il grande
giurista fascista (aveva scritto la Carta del Lavoro) poi tra i
fondatori del Msi. Proprio lui, credo nel ’48, mi passò Rivolta contro
il mondo moderno, nell’edizione Bocca.
Ed ecco Evola…
Rivolta mi “curò” dalla delusione e
dall’irritazione che avevo provato alla prima lettura di Gentile, Genesi
e struttura della società… mi ero incagliato nel primo paragrafo,
intitolato “Disciplina”: quel linguaggio, quel gergo dell’idealismo, mi
sembrava troppo complicato. Con Evola ho trovato una lettura più
semplice.
Sembra una battuta!
È che forse ero più predisposto a
ricevere il messaggio tradizionale di Evola che non quello filosofico di
Gentile. Insomma quei due libri, I proscritti e Rivolta contro il mondo
moderno furono fondamentali per i miei anni giovanili. Certo, poi
naturalmente c’erano i testi più facili di Evola, quasi dei manuali di
reclutamento per la corrente dei “Figli del sole”: Orientamenti e Gli
uomini e le rovine, letture da cui poi mi sono anche un po’ allontanato,
ma sono quelle che hanno avuto l’effetto più formativo.
Non hai più parlato di film.
E be’, parlando di eventi formativi, quanto a film mi fermo a quelli che ho ricordato prima.
Anche semplicemente “importanti”… indimenticabili, ecco.
Allora Casablanca, con Bogart.
Perché Casablanca?
E chi lo sa! Forse perché mi piaceva la Bergman. So di certo, però, che mi colpivano molto i film sulla vittoria degli altri.
Dove ti colpivano?
Mi si torcevano le budella dall’invidia…
sentivo che questa era la grande cosa che nella vita mi era mancata: la
vittoria dell’Italia in guerra, insomma. Ero abituato, fin da bambino, a
considerare l’Italia vittoriosa… ero cresciuto avendo alle spalle la
Grande guerra, le celebrazioni della vittoria, e poi la conquista
dell’Impero, la Guerra di Spagna… Sì, questa cosa mi è mancata tutta la
vita.
Adesso ti faccio una domanda
retorica, visto che già conosco la risposta: c’è stato un libro che ha
evidenziato questi tuoi sentimenti?
La pelle di Malaparte, che ho letto come
un doloroso racconto “fascista” su che schifo era stata la liberazione,
con gli americani che sfruttavano in maniera vergognosa la fame degli
italiani. Malaparte, che aveva seguito le truppe Alleate come ufficiale
di collegamento, ne poté parlare con una libertà assoluta. E nel buio
terribile del dolore e dell’umiliazione dell’Italia liberata, si
illumina di orgoglio soltanto nelle pagine che parlano dei “franchi
tiratori” fiorentini fucilati dai partigiani.
«Li ammazzano perché gridano viva il duce»… «No, gridano viva il duce perché li ammazzano».
Sì, Malaparte, che già si diceva
antifascista e che di lì a poco avrebbe preso la tessera del Pci, non
riusciva a nascondere lo schifo per l’arroganza e l’inciviltà degli
americani e l’ammirazione per quei ragazzini di Firenze che non volevano
starci, a perdere la dignità. Lo lessi prima che uscisse in Italia:
veniva pubblicato a puntate, su un giornale francese che mi portava mio
padre… lui era ingegnere navale, e non potendo lavorare in Italia,
perché personaggio non gradito, era costretto a lavorare in Africa,
prima in Cirenaica e poi in Algeria, dove comprava questa rivista, di
cui non ricordo il nome.
E Rivolta contro il mondo
moderno si inserisce idealmente qua. Ma poi, come dicevi prima, ti sei
un po’ allontanato da Evola: per approdare dove?
A Il borghese, di Werner Sombart… ad interessi di carattere economico e sociale.
Siamo negli anni…
Direi il ’60 o ’61. Il
borghese, dicevo, poi Il tramonto dell’Occidente, di Spengler: la
rivolta all’economicismo, il rifiuto dell’economia come destino, quando
quel destino si rivelava incombente. È stato un po’ come liberarsi dallo
snobismo evoliano, che ha portato tutta una generazione a non occuparsi
di economia… come si diceva nei Promessi sposi, «scostati, vile
meccanico», no? Accanto ai nuovi interessi, però, continuavano ad
affascinarmi gli scrittori in qualche modo legati al fascismo… Amavo
soprattutto i francesi, La Rochelle e Brasillach, avevo una grande
passione per loro.
Come arrivarono nelle tue mani?
Tutto cominciò dalla lettura di Romanticismo fascista, di Paul Serrand, che poi sono andato a conoscere in Francia.
E cosa ti smuovevano libri come L’uomo a cavallo o Sette colori?
La concezione eroica dell’esistenza, la gioia fascista del cameratismo e dell’attesa del combattimento.
Ancora non ti ho sentito parlare di Ezra Pound.
Ma è perché l’ho davvero scoperto molto
tardi. Avevo comprato nel ’57, ’58 i Canti pisani… erano appena usciti…
trovandoli difficili e astrusi: la prima reazione è stata quella di
rigetto. Insomma, gli davo ragione quando diceva che «la Bellezza è
difficile».
E il recupero?
Nei primi anni Ottanta, quando facevo il
giornalista economico al Fiorino, e Antonio Pantano (forse il maggior
collezionista del grande poeta americano), nel primo decennale della
morte mi commissionò un saggio su Pound economista, da inserire in un
libro collettaneo. Mi sono dovuto impegnare a leggerlo a fondo, e da
allora ho capito che avevo sbagliato per pigrizia, nel rifiutarlo al
primo impatto.
Tanto da pubblicare, dopo una
decina d’anni, un libro con lo stesso titolo, e un paio d’anni fa,
sempre in tema di analisi poundiana, Il potere del denaro svuota le
democrazie.
Sì, per Settimo Sigillo, con cui ho pubblicato buona parte delle mie cose.
Quindi Pound, nella maturità.
Diciamo pure nell’ultimo tratto…