lunedì 29 ottobre 2012

Il Paradiso in frantumi

di Daniele Bernardi

Quando, nel 1958, il poeta americano Ezra Pound venne scarcerato dopo dodici anni di reclusione all’interno del manicomio criminale di Washington (il Saint Elizabeths Hospital), l’amico Ernest Hemingway, già insignito del Premio Nobel per la letteratura, inviò al suo antico maestro un assegno corrispondente alla somma di 1500 dollari. Il poeta, commosso dal gesto, non spese mai il denaro. Girò il biglietto e sul retro vi scrisse «Da riscuotere in Paradiso». Dopodiché fece plastificare il foglio e lo utilizzò per il resto dei suoi giorni come ferma carte (l’aneddoto è ben riferito nel bel libro di Piero Sanavio, La gabbia di Ezra Pound, Libri Scheiwiller, Milano, 1986).
All’interno dell’opera di Ezra Pound, nello sterminato libro dei Cantos, si trovano molti riferimenti e riflessioni sul Paradiso. Nei frammenti che concludono l’opera, ad esempio, è scritto: «I sogni cozzano / e si frantumano – / e che ho cercato di costruire un paradiso / terrestre». E ancora «Ho provato a scrivere il Paradiso / Non ti muovere, / Lascia parlare il vento / Così è Paradiso». Ma uno dei versi che torna, martellante, in una delle più celebri sezioni del testo (I Canti Pisani) è questo: «Le Paradis n’est pas artificiel». Il riferimento a Charles Baudelaire è evidente, ma non è tutto. I Canti Pisani, come certamente molti sanno, sono stati pensati e scritti durante il periodo di prigionia che il poeta trascorse all’interno del Disciplinary Training Center (un campo di concentramento costruito dall’esercito americano nei pressi di Pisa). I fatti sono piuttosto noti: nel 1945, accusato di alto tradimento da parte del suo paese (aveva tenuto dei discorsi per la Radio del governo italiano in cui esponeva le sue teorie economiche e affermava il suo dissenso nei confronti dell’entrata in guerra degli Stati Uniti), il poeta venne segregato in una gabbia esposta al sole durante il giorno e illuminata con dei proiettori la notte. Dopo circa trenta giorni, in preda a uno stato confusionale, ebbe un collasso e in seguito venne trasferito nell’infermeria. Qui cominciò a trascrivere i versi che, durante la brutale reclusione, si erano affollati nella sua mente come tante formiche impazzite.
Pound, con la sua opera e il suo pensiero, si prefiggeva un obbiettivo. La poesia, per questo autore assolutamente moderno, non poteva semplicemente essere la «pura registrazione del mal di pancia» (raccontava, in una celebre intervista che gli fece Donald Hall, che sulla coppa di ponce degli studenti dell’Università di Pennsylvania era scritto «qualsiasi cretino può essere spontaneo»). L’arte doveva essere la bussola, la guida, per la costruzione di una società più giusta. I letterati, custodi delle parole, modellando il linguaggio avevano il compito di mantenerlo vivo, dinamico e umano: «Quando il loro lavoro marcisce […], cioè diventa inesatto, o eccessivo, o barocco, o motoso, l’intera macchina del pensiero e l’ordine individuale e sociale vanno in fumo». Ecco quindi a cosa corrispondeva la costruzione di un Paradiso terrestre. Ed ecco perché, forse, dietro le sbarre della gabbia, il verso dagli echi baudelaireiani sbatteva nella sua mente come un uccello in cattività. Quando lo scrittore venne catturato dai partigiani e consegnato alle autorità statunitensi aveva già scritto una parte più che considerevole del suo poema. Ed è in esso che, attraverso lo studio delle dottrine di Confucio, o l’analisi del pensiero Thomas Jefferson e John Adams, tentava di individuare, attraverso i trascorsi storici, quali sentieri conducessero a un ipotetico Paradiso – vale a dire a una più nuova, migliore, civiltà. Con l’incarcerazione la storia precipitò addosso al poeta, facendo piazza pulita di ogni illusione.
Pound chiese più volte, prima e dopo che la macchina giudiziaria si mettesse in moto contro di lui, di poter dialogare con i rappresentanti delle alte sfere del potere (sia americano che italiano – il poeta risiedeva in Italia dal 1925) per esporre le sue riflessioni in ambito economico. Celebre rimane il buffo resoconto del suo unico incontro, nel 1933, con Mussolini che dichiarò che i Cantos erano, a suo avviso, un’opera “divertente” (molto probabilmente perché non sapeva cosa dire). Pound, ingenuamente, prese questa affermazione come un grande complimento.
L’enigma del denaro, la sua origine e il suo sviluppo, sono una tematica dominante in tutta l’opera del poeta. Questa affascinante ossessione può essere vista da molteplici angolazioni. Innanzitutto il padre dello scrittore, Homer Loomis Pound (da notare il nome emblematico: Omero – il primo canto dei Cantos è una versione dell’XI° libro dell’Odissea), era assistente alla Zecca di Filadelfia. Pound racconterà come da bambino osservasse con occhi stupiti lo spettacolo dei lingotti d’oro stipati nelle casseforti, e dei dollari ammucchiati e spalati nella penombra dei corridoi della fonderia da uomini a torso nudo.
La moneta e il linguaggio sono due entità simili. Ambedue circolano in mezzo agli uomini, passano di mano in mano e di bocca in bocca. Ma soprattutto, sia l’una che l’altro, sono gli ambasciatori della propria ombra (o delle proprie ombre): la banconota è un documento che attesta (o dovrebbe attestare) l’esistenza di una materia prima corrispondente, così come la parola è un segno, un simbolo, portatore di significanti. Pound, seppure in maniera schematica, attraverso il suo studio si accorge che questo rapporto è falsato, ambiguo, asimmetrico: «L’errore è stato […] il fare della moneta un Dio. Questo fu dovuto […] all’aver fatto della nostra moneta una rappresentanza falsa, dandole poteri che non doveva possedere.». Ecco che vediamo allora sorgere minacciosa, dalle profondità della storia, la parola che tanto ricorre lungo tutto il poema: usura. Come già altri hanno detto però, questo termine non va preso pedissequamente alla lettera. L’usura afferma Pound, lo riporta sempre Piero Sanavio in Ezra Pound – Bellum Perenne (Raffaelli Editore, Rimini, 2002), «è un meccanismo». Questa definizione, anche alla luce degli eventi che scuotono la nostra epoca (quella del consumo senza limite), sembra volerci indicare che il mondo, oggi come allora, sia strutturalmente governato da dinamiche economiche distruttive e di prevaricazione dell’altro. Questo è l’ingranaggio che per Pound porta il nome di usura.
Il poeta si è spento il 1° novembre a Venezia, all’età di 87 anni. Sono passati 40 anni e ancora la sua opera non cessa di interrogarci. Sì. Perché i versi che leggiamo sulla respingente pagina dei Cantos non sono certo una lettura accomodante. È come se tra quelle righe sia scritto: “Lettore, ho attraversato queste epoche, questi strati di macerie, al mio passaggio sono emersi sulla superficie dei resti, tracce e indizi di un enigma mutevole. Ora sta a te mettere insieme i pezzi del mosaico distrutto”. Per via delle sue vicissitudini, la figura di Pound, non ha mai smesso di scatenare polemiche. Il suo nome è, purtroppo, tutt’oggi vittima di bieche strumentalizzazioni ideologiche. Forse, per comprendere pienamente questo particolarissimo autore, è tempo di tornare con occhi nuovi alle pagine che ci ha lasciato, liberandolo così dalla gabbia in cui, per molto tempo, è stato confinato.