domenica 18 agosto 2013

La guerra civile in Egitto rivela il flop delle “primavere” sfuggite di mano agli Usa

di Mauro La Mantia (Barbadillo)

L’Egitto brucia e tutti i media italiani iniziano a rendersi conto che il bacino del Mediterraneo è ormai una pericolosissima polveriera che può esplodere da un momento all’altro. A parte la conta dei morti in pochi sembrano rendersi conto della partita geopolitica che si sta giocando a pochi chilometri dalle nostre coste. Forse dovremmo interessarci di più di quanto avviene nell’ormai ex Mare Nostrum piuttosto che dividerci tra berlusconiani e antiberlusconiani.

Nel 2011 le Primavere Arabe (ormai tutti concordi nel declinare al plurale questo fenomeno) non esplodono improvvisamente. Soltanto gli ingenui o finti tonti potevano credere ad un “movimento spontaneo” che dalla Tunisia ha coinvolto progressivamente un numero impressionante di popolazioni di due continenti. Il giornalista Alfredo Macchi nel suo “Rivoluzioni Spa. Chi c’è dietro la Primavera Araba” spiega in maniera rigorosa il ruolo giocato dall’Amministrazione statunitense nella costruzione di una vasta rete di movimenti che ha innescato le rivolte. Attraverso il National Endowment for Democracy (NED), una società privata creata negli anni ’80 da Ronald Reagan per la “diffusione della democrazia” nel mondo, gli Usa hanno sostenuto e finanziato una grande quantità di associazioni, movimenti e fondazioni operanti nei paesi arabi del Mediterraneo. Tra i più attivi vanno segnalati Freedom House (all’avanguardia nell’utilizzo dei social media), l’Open Society Foundation dello speculatore finanziario George Soros ed il Movimento 6 Aprile assoluto protagonista della rivolta in Egitto contro Mubarak.

L’influenza degli Usa nelle Primavere Arabe, quasi alla luce del sole, è stata confermata da un’inchiesta del New York Times dell’aprile del 2011. Non secondario è stato il ruolo del Qatar che attraverso la propaganda di Al Jazeera (determinante nella diffusione delle rivolte) ha tentato di destabilizzare la regione contesa da anni con l’Arabia Saudita. Proprio il Qatar è tra i maggiori sostenitori dei Fratelli Musulmani oggi al centro dello scontro in atto in Egitto.

Perché gli Usa avrebbero favorito la caduta di regimi “amici”? La risposta va ricercata nel cambio di strategia della politica estera americana nel perseguimento, da parte delle Amministrazioni Bush e Obama, del medesimo obiettivo:esportare la democrazia (americana) nel mondo per favorire lo sviluppo del libero mercato nei paesi islamici. Dopo il fallimento della dottrina Bush e delle disastrose guerre in Afganistan e Iraq (l’esportazione manu militari) Obama ha portato avanti il concetto di Soft Power che consiste nel sostenere e finanziare i gruppi d’opposizione dei governi nemici (tipo Libia e Siria), i governi amici (Tunisia ed Egitto) ma anche i movimenti interni dissidenti. Sembra una contraddizione ma non lo è. Gli analisti della Rand Corporation, un centro studi di Santa Monica che collabora con il Pentagono, sostengono in un dossier del 2007 (attenzione alle date, quattro anni prima dell’inizio delle rivolte) che la crisi interna sociale ed economica dei paesi islamici, del Medio Oriente e del Nord Africa, avrebbe prima o poi modificato gli assetti politici e istituzionali.

Davanti ad una possibile caduta dei regimi “amici”, scrive la Rand Corporation, meglio che essa avvenga per mano di oppositori “amici” (quindi sostenuti dagli Usa) piuttosto che ad opera di formazioni estremiste islamiche incontrollabili. Nel rapporto degli studiosi di Santa Monica non mancavano le controindicazioni: 1) queste società sono pervase da una grande ostilità verso gli Stati Uniti; 2) la loro struttura complessa, spesso non compresa pienamente dagli occidentali, rischia di rendere queste rivolte totalmente ingestibili e dagli esiti nefasti per gli interessi geopolitici degli Stati Uniti.

Quanto sta avvenendo in Egitto fa parte degli effetti collaterali delle Primavere Arabe. Gli Usa hanno perso il controllo delle rivolte scientificamente sobillate nel 2011. E non vale solo per l’Egitto. Anche la Libia rischia di cadere in una guerra civile tra bande islamiste per il controllo dei pozzi petroliferi. Nella Tunisia del dopo Ben Ali la tensione è altissima dopo l’uccisione di alcuni membri dell’opposizione. In Siria gli Usa stanno accusando la più pesante sconfitta: nonostante il massiccio armamento delle milizie islamiche (anche straniere) l’esercito regolare di Assad procede nelle riconquista delle roccaforti dei terroristi.

L’Amministrazione Obama sembra impotente davanti gli sviluppi delle Primavere Arabe. In gioco c’è il controllodel Middle East and North Africa (MEDA) dove si trovano il 60% delle riserve mondiali di petrolio e circa la metà di quelle di gas naturale. Una zona che gli Sati Uniti si contendono con la Russia e la Cina. Quest’ultima soprattutto, prima delle rivolte del 2011, era riuscita a conquistare importanti fette del mercato africano e mediorientale. Gli Stati Uniti contavano nella caduta dei vecchi regimi, sostanzialmente ancora legati a concezioni stataliste e nazionaliste dell’economia, per assicurarsi il dominio di un grande mercato a favore delle imprese americane, minacciato dai fermenti islamici antiamericani.

Davanti a questi epocali stravolgimenti geopolitici l’Europa targata Merkel, Hollande e Letta abdica a qualsiasi ruolo di protagonismo nello scenario mediterraneo. Quel mare non è più nostro.