sabato 17 agosto 2013

Nel segno di Prezzolini, l’Italia che detestiamo

di Mario Bozzi Sentieri (destra.it)

E’ ancora così “buona” la cosiddetta “società civile” a cui qualcuno vuole appellarsi per ricostruire ruoli e strategie politiche?
A leggere di certi clamorosi esempi di corruzione verrebbe di dire il contrario. Cogliendo fior da fiore nelle “ultime di cronaca”, si può notare un giudice fallimentare arrestato a Roma per truffa e corruzione, insieme ad altri quattordici professionisti, tra avvocati, consulenti e curatori, per un giro di false liquidazioni di circa quattro milioni di euro. Sempre a Roma viene arrestato il prefetto Francesco La Motta e l’ex banchiere Klaus George Beherend per dieci milioni rubati dalle casse del Viminale attraverso il Fec (fondo per gli edifici di culto attraverso il quale il ministero dell’Interno gestisce un enorme patrimonio artistico). A Napoli maxi truffa:indagato un ex dipendente del Monte dei Paschi di Siena, con la complicità di quattro colleghi, che ha sottratto alla banca più di ventitre milioni, assieme ad altre sette persone, tra cui alcuni titolari di agenzie di scommesse.

Mentre la politica arranca, a destra e a sinistra, in cerca di capire quale sarà il proprio destino, fenomeni di corruzione colpiscono il settore bancario, i vertici di alcune, grandi imprese industriali, bei nomi del gotha produttivo e poi, via via, livelli sempre più ampi e profondi della “società civile”. Oggi la “logica della mazzetta” dilaga negli studi professionali, nelle ditte di costruzione, tra i piccoli e grandi appalti pubblici, colpisce la sanità, si insinua (a colpi di false pensioni d’invalidità) negli strati popolari.

Rispetto al passato protagonisti non sono i partiti, ma i singoli individui, i funzionari pubblici da una parte e i rappresentanti della sempre più cosiddetta “società civile” dall’altra. La “mazzetta” non serve ad alimentare – come un tempo – i costosi apparati partitocratici, ma garantisce vite dorate ai corrotti ed ai corruttori, uniti dalla comune appartenenza al “partito dei furbi”.

Giuseppe Prezzolini, che dei nostri mali nazionali se ne intendeva, non a caso, già novant’ anni fa (nel suo Codice della vita italiana) distingueva i cittadini italiani in due categorie: i fessi ed i furbi. Scrive Prezzolini: “Non c’ è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia; non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente sulla magistratura, nella pubblica istruzione, eccetera; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, eccetera, questi è un fesso”.

Facile – a questo punto – individuare chi siano i “furbi”: quelli che evidentemente si comportano all’opposto, arrivando – nota sempre Prezzolini – a fare la figura di mandare avanti il Paese, pur non facendo nulla, spendendo e godendosela: del resto il furbo si interessa al problema della distribuzione della ricchezza, mentre il fesso a quello della produzione.

La politica in tutto questo c’entra, ovviamente, senza tuttavia esaurire il quadro delle responsabilità. La questione è più sottile. Richiama il nostro essere italiani. Fa emergere il non sciolto rapporto tra cittadini e Stato, rapporto storicamente mal sopportato e segnato da una dilagante sfiducia. Si coniuga con una sorta di relativismo straccione, in cui l’etica è a misura degli interessi individuali. Ha della politica una visione “bassa”, tutta giocata sugli egoismi personali, di classe, di casta, visione trasversalmente incarnata da sinistra a destra, passando per il centro. Si accontenta di una visione formalistica della democrazia, dietro cui nascondere le sue debolezze strutturali.

Quando si parla di nuova stagione della corruzione, anche di questo bisogna parlare e tenere conto, sgombrando finalmente il campo dalle facili denunce ad effetto. Qualche ragione ci sarà pure se venti anni da Tangentopoli sono passati invano. Di questo, anche di questo vorremmo si interrogasse la politica, il mondo dell’informazione, la cosiddetta “società civile”. Per poi attivare – se si è ancora in tempo - le doverose contromisure.