martedì 23 settembre 2014

Cultura. Dalì e la politica: la contraddizione di un anarchico conservatore



di Giovanni Balducci (Barbadillo)

Come quasi ogni aspetto della sua vita, anche la posizione politica di Salvador Dalí risulta assai controversa. In gioventù fu sia anarchico che comunista. Ma nei suoi scritti ci sono numerosi aneddoti che palesano come avesse assunto posizioni politiche così radicali più per smania di stupire che per reale convinzione. Allo scoppio della guerra civile spagnola, infatti, fuggì i combattimenti, rifiutando di schierarsi con alcuno degli schieramenti.

Divenuto più maturo, le sue posizioni politiche cambiarono;al suo ritorno in Catalogna alla fine della seconda guerra mondiale, si avvicinò al regime di Francisco Franco, congratulandosi persino col Caudillo per le sue azioni tese a “ripulire la Spagna dalle forze distruttive”, ossia comunisti, socialisti e anarchici. Infatti, riavvicinatosi alla fede cattolica, con tale frase faceva riferimento proprio a coloro che durante la guerra civile spagnola avevano sterminato circa 7.000 preti e suore. In seguito Dalí incontrò personalmente il dittatore, realizzando peraltro il ritratto della nipotina.

Tuttavia, fu anche autore di gesti di aperta disobbedienza nei confronti del regime: come continuare a lodare Federico Garcìa Lorca anche durante gli anni in cui in Spagna le opere del poeta erano messe al bando; o stringere amicizia con il regista di conclamata fede comunista Luis Buñuel, con il quale realizzerà nel 1929 il primo film surrealista, Un chien andalou, e nello stesso anno entrare a far parte del gruppo surrealista del trotskista Andrè Breton, da cui però verrà presto escluso nel 1934 a causa delle sue simpatie per i regimi di destra.

“Picasso è un genio. Come me. Picasso è un comunista. Io no”, affermerà, specificando poi: “Io non sono né stalinista, né hitleriano…sono Dalinista!”. Infatti, in alcune sue esternazioni dirà di essere disinteressato alla politica, trovandola aneddotica e miserabile, ma dichiarando anche di subire fortemente il fascino dei potenti. Nel suo libro del 1970 Dalí by Dalí, si definirà “anarchico-monarchico”. Non farà neppure mistero della sua passione “futurista” per la guerra: «Tutto il mondo è pacifista – scriverà – tutto il mondo, che siano sovietici o americani. Ma che gran decadenza! Così come reputo che in una monarchia l’anarchico che vuole assassinare il Re sia estremamente rispettabile, poiché garantisce con il suo atto il massimo di diversità che deve esservi in una società perfetta, che è quella della monarchia assoluta, è mostruoso che un essere umano immagini un’Umanità senza guerra».


Eppure, a dispetto di queste esternazioni che sembrano riecheggiare una niezscheana estetica della violenza da “bestia bionda”, Dalì definirà i suoi baffi «antinietzschiani» e «rivolti verso il cielo». I suoi baffi, che tanto ricordavano quelli di un altro grande eccentrico e controverso reazionario, lo scrittore francese Jules Amédée Barbey d’Aurevilly, cui il grande di Figueres si ispirerà nella scrittura del suo unico romanzo, Volti nascosti.

Nel saggio dall’eloquente titolo Manifesto mistico, del 1951, quasi fosse un Donoso Cortés o un Gòmez Davila, così Dalì avrà ad esprimere la sua weltanschauung antimoderna: «La decadenza della pittura moderna deriva dallo scetticismo e dalla mancanza di fede, conseguenze del materialismo. Grazie alla rinascita del misticismo spagnolo, io, Dalí, mostrando la spiritualità di tutte le sostanze, dimostrerò con la mia opera l’unità dell’universo».