lunedì 29 settembre 2014

La caduta dei migliori...



di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

Sin dal tempo delle prime polis greche, l'aristocrazia ed i suoi valori positivi hanno guidato gli affari della cosa pubblica, facendo rispettare la dike (giustizia) e punendo l'hybris (la tracotanza), esercitando così una pressione al tempo morale e al tempo estetizzante sugli altri ceti, che continuamente dovevano rapportarsi e confrontarsi con questi "migliori".


“Noi fummo i gattopardi i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra” (Il Gattopardo, 1963)
La rovina antropologica dovuta ad un certo tipo di sviluppo, oltre ad essere una realtà cittadina e metropolitana, è divenuta prerogativa delle coscienza provinciali. Questo processo etico, ha un suo corrispettivo estetico, un declino, figlio del Novecento, che Pasolini imputava alla Dc. Così come in città si è assistito ad un degrado urbanistico, il paesaggio provinciale è stato deturpato dalla costruzione, negli anni del dopoguerra, di sobborghi in cemento armato che cingono i centri storici sino a soffocarli. L’ammasso seriale e il risparmio sui materiali come costanti dell’architettura moderna hanno creato un’alterazione delle vedute che si stagliano sui fianchi delle colline, mentre sulle alture si slanciano timidi i campanili medievali che raccontano di storie antiche. A questo conflitto tra sacro e profano si aggiunge un attrito intergenerazionale tra vecchi contadini, bottegai, negozianti, parroci e braccianti, e una gioventù americanizzata, più newyorkese che non rurale, vestita di felpe, tute, jeans griffati, con chewingum, peircing, cuffie, cellulari, capigliature identiche a quelle di vip e calciatori, distaccata dalla realtà in cui vive e immersa nel sogno che la tv regala e che la vita ostinatamente toglie. A questi giovani hanno preso tutto o quasi.
La cultura ufficiale ha creato il disprezzo per sé stessi e le proprie radici, ha chiamato tutti al cambiamento, ha derubato le ultime generazioni di quell’armonia che legava in nome della sacralità il contadino alla terra, e che donava a quest’ultimo un naturale istinto mimetico, la simmetria perfetta con il luogo in cui la vita è scandita in base al sole, ai cicli lunari, alle stagioni. Si è tolta loro anche la gestualità, divenuta meccanica, seriale, goffa, mentre il paesano sembra una statua scolpita irrevocabilmente per essere parte essenziale di quell’universo. Eppure questi giovani pur avendo l’immaginario costellato di miti cosmopoliti, metropolitani, surreali, mantengono ancora vivi valori che in città, in cui la corsa al sogno è tremendamente più violenta, sono andati sicuramente perduti prima, tra cui la generosità, l’ospitalità, la pazienza, il sacrificio e in certi casi la devozione. Ma venendo forse il loro mondo sempre più deturpato da quel fenomeno urbanistico che citavamo prima, si è anche incentivata questa fuga immaginaria che si scontra con la realtà sino a creare forme disarmoniche, stonate.
Alle origini di questo fenomeno si situa la recente estinzione, o la caduta, degli aristoi, dei migliori. Se la fine dell’egemonia politica ed economica della nobiltà terriera feudale avviene in Francia con la caduta dell’Ancien Régime durante la rivoluzione francese, e giunge sino a noi un secolo dopo, finalmente l’aristocrazia nel contesto contadino, divenuta piccola nobiltà, ha esercitato, ancora fino alla prima metà dello scorso secolo, un’influenza notevole nelle provincie, partecipando alla vita quotidiana locale. Sin dal tempo delle prime polis greche, l’aristocrazia ed i suoi valori positivi hanno guidato gli affari della cosa pubblica, facendo rispettare la dike (giustizia) e punendo l’hybris (la tracotanza). Così la nobiltà tellurica, ben radicata nel contesto provinciale, ne era parte integrata, come patrona, da un lato, servendo da modello, esempio e simbolo, e serva, dall’altro, obbligata a garantire l’ordine sociale e i valori della comunità.
Il possidente terriero era uomo attivo, partecipe da vicino alle attività agricole e alle festività religiose – spettava a lui, ad esempio, la piantagione degli alberi o la celebrazione delle commemorazioni; era cultore del bello, difensore di un’etica civile, rappresentante di valori positivi, quali la magnanimità, la generosità, il coraggio, esercitando così una pressione al tempo morale e al tempo estetizzante sugli altri ceti, che continuamente dovevano rapportarsi e confrontarsi con questi “migliori”. Da questo confronto si impedivano le derive di cui siamo oggi spettatori, per la crescita intrinseca ad un rapporto di reciprocità verticalizzato. Pensiamo appunto a Don Fabrizio del Gattopardo, o alla nobiltà descritta ne Il rosso e il nero di Stendhal. Con la recente sostituzione del mercante, del palazzinaro e del costruttore all’agathos, il rapporto diviene inevitabilmente orizzontale, immobile, e con la perdita di slancio, con l’appiattimento dell’etica alla “ragione economica”, si sono distrutti i canoni estetici e morali, si è cambiata in definitiva l’antropologia delle nuove generazioni, sempre meno rispettose delle proprie origini, sempre più estranee a sé stesse.