sabato 30 marzo 2013

LIBERIAMO I MARO' E TORNIAMO AD ESSERE NAZIONE!



La faccenda dei due marò, dal primo giorno fino ad oggi, ha mostrato senza mezzi termini l’inadeguatezza del governo Monti, che ha calpestato la dignità nazionale del nostro paese rendendolo una caricatura della peggiore inefficienza burocratica. 
Il ritratto puntuale e svilente di un’Italietta asservita, incapace di alzare la testa, piegata agli interessi economici e inerme dinanzi al silenzio dell’Europa e della Nato. Una vicenda iniziata accettando il sequestro di due nostri soldati, accusati di un crimine - sul quale si nutrono forti dubbi – che sarebbe avvenuto in acque internazionali e proseguita con una fallimentare opera diplomatica, fatta di tentennamenti, annunci disattesi, presunte pene di morte, carcerazione, ricatti economici, pressioni, rientro a casa e successivo ritorno in India, dimissioni, incapacità di comunicazione tra i vari organi di governo. 
La nostra Italia è un’altra. E’ un paese fiero, capace di camminare a testa alta. E’ una Comunità Nazionale che non lascia indietro nessuno. E’ una Nazione in grado di assumersi delle responsabilità, di difendere una credibilità, di riconquistare una dignità perduta. La nostra Italia non abbandona i propri soldati, ma li difende. Senza paura. 

Tante Comunità, ma una sola voce: 

LIBERIAMO I NOSTRI MARO’. TORNIAMO AD ESSERE NAZIONE. 

CASAGGI’ FIRENZE, NES ITALIA, LABORATORIO ASLAN, AREZZOZERO, CASAGGI’ MILAZZO, SPAZIO HELIOS, CASAGGI’ CAGLIARI, RONIN PISA, CASAGGI’ VALLE PELIGNA, SUR LES MURS PISTOIA, CASAGGI’ SASSARI, CASAGGI’ EMPOLI, CASAGGI’ VALDICHIANA, CASAGGI’ GROSSETO, NUCLEO PRATESE, CASAGGI’ VERSILIA, LA CITTA’ NUOVA MASSA, TRISKELYS SIENA.



venerdì 29 marzo 2013

Renzi: "rottamatore" già pensionato, coi nostri soldi...


Il Comune e la Provincia di Firenze da quasi 9 anni pagano i contributi per la pensione del dirigente di azienda Matteo Renzi, in arte "rottamatore". Lo scrive Il Fatto quotidiano, che racconta come otto mesi prima di essere eletto sindaco di Firenze nel giugno 2004, Renzi venne assunto dall'azienda di famiglia, per poi mettersi in aspettativa per assolvere al suo incarico di primo cittadino.La protesta - A testimoniarlo è un documento del 22 marzo scorso, la risposta a un'interrogazione al Comune di Firenze presentata dai consiglieri Francesco Torselli (Fratelli d'Italia) e Marco Semplici(Lista Galli). "Il dottor Matteo Renzi è inquadrato come Dirigente presso l'azienda Chil srl", scrive il vicesindaco Stefania Saccardi e aggiunge "alla società presso cui risulta dipendente in aspettativa il dottor Renzi sono erogati i contributi previsti all'art. 86 comma 3 del Testo unico sugli enti locali". Legge che impone all'Ente locale di provvedere al versamento dei contributi previdenziali, per gli amministratori locali che, in quanto lavoratori dipendenti, siano stati collocati in aspettativa non retribuita per assolvere al mandato. Fonti vicine al sindaco e riportate da Il fatto spiegano che "l'assunzione non era finalizzata a lucrare i contributi. La società della famiglia Renzi in quel periodo viveva una fase di ristrutturazione. L'acquisto della qualifica di dirigente da parte di Renzi era legata alla cessione delle sue quote. Prima era socio ed era inquadrato come collaboratore. Nel periodo in cui cede le quote diviene dirigente". La notizia, che adesso fa il giro del web e dei tg nazionali, è scaturita da un'interrogazione fatta da Francesco Torselli, nostro consigliere comunale a Palazzo Vecchio. Quando la politica non è scaldare una poltrona, ma azione quotidiana.

giovedì 28 marzo 2013

Bersagli seduti...



di Mario Michele Merlino (ereticamente.net)

Nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941 il sommergibile italiano Scirè, comandato dal Tenente di Vascello MOVM Junio Valerio Borghese, si porta all’imboccatura del porto di Alessandria, alla cui fonda sono ancorate due corrazzate inglesi ed altro naviglio militare e mercantile. Tre ‘maiali’ con due piloti ciascuno superano la rete d’acciaio a protezione ed infliggono la più pesante sconfitta nel Mediterraneo alla flotta britannica. Sei piloti, sei medaglie d’oro. La settima al sommergibile. Una impresa entrata nella leggenda, invidiata, ineguagliata. Il principe Borghese la descrive in Decima Flottiglia Mas, libro entrato in adozione e di studio nelle Accademie militari di gran parte degli Stati nel mondo. Non in Italia, va da sé. Quando a Yuri Gagarin, il primo astronauta sovietico, fu chiesto quale libro italiano conoscesse, rispose senza esitazione ‘quello del Comandante Borghese’. Con imbarazzo dei cronisti accompagnatori autorità.

Libro che si conclude, dopo aver ricordato come avesse appreso casualmente, accendendo la radio ‘dalla gracchiante voce’, dell’armistizio: ‘Nessuno dei miei numerosi superiori diretti o indiretti aveva ritenuto necessario darmene, sia pure riservatamente, preventiva comunicazione. Mi sembrò strano’ (E con questa espressione il libro tutto diviene poesia, come gli riconosceva il poeta americano e fra i più grandi del Novecento Ezra Pound).

La Marina italiana, nell’anniversario di quell’impresa, sessantatre anni dopo, ne ha voluto farne perenne ricordo dando il nome di Scirè, appunto, ad un nuovo sommergibile. Madrina del varo Elisabetta, figlia di Emilio Bianchi, allora novantaduenne ed ultimo ancora in vita di quella pattuglia di ardimentosi. Per l’occasione, con una lettera alla stampa, l’Ammiraglio di Squadra Sergio Biraghi, Capo di Stato Maggiore della Marina, ha ricordato l’avvenimento. Ebbene: accanto a tutta una serie di proposizioni di dubbia interpretazione, non una volta ha citato il Comandante Borghese che di quella impresa fu animatore e guida. Timoroso, forse, di ricordare chi, dopo l’8 settembre del ’43, volle mantenere alto sul pennone della caserma di San Bartolomeo, a La Spezia, quello stesso tricolore frettolosamente ammainato dal re e il suo sodale Pietro Badoglio in fuga. Nessuna novità, si badi bene, nessuno scandalo. L’Ammiraglio Biraghi fa il suo mestiere, in un Paese dove la memoria collettiva è monca e, di conseguenza, anche le Forze Armate rappresentano questa divisione. (Non tornerò su la mia lezione alla scuola di fanteria a Cesano).

Mi piace, però, a commento, raccontare questo episodio, raccolto dalla viva voce del Comandante. Anni dopo la guerra egli e sua moglie, la principessa russa Donna Daria, durante un viaggio in Inghilterra, furono invitati nell’esclusivo Club dell’Ammiragliato inglese. Al termine della cena l’Ammiraglio Cunningham, presidente del Club e già Comandante della flotta inglese dal 1940 al 1942 nel Mediterraneo, levò il bicchiere per il tradizionale brindisi all’ospite. E aggiungendo queste testuali parole: ‘Comandante Borghese, quando sapevamo che Lei e i Suoi uomini eravate in mare, ci sentivamo dei sitting ducks’ (dei bersagli seduti che, in gergo della marina equivale ad essere sotto tiro e senza difesa alcuna).

Vorrei sottolineare che, certo, fu gesto di cortesia, ma anche – e soprattutto – un atto di sincero riconoscimento al valore e al merito verso l’avversario d’allora. E Cunningham non poteva ignorare come Borghese avesse combattuto anche dopo l’armistizio, nella RSI, in nome della fedeltà alla parola data e all’Onore, che divenne il motto della Decima, accanto all’alleato tedesco. Un atto di cortesia; un gesto di nobile cavalleria tra vecchi avversari. Di stile, appunto, di quello stile che, con la sua sciocca omissione, è mancato all’Ammiraglio Sergio Biraghi.

Episodio questo, nel suo complesso, che m’è tornato a mente ascoltando (anch’io casualmente) la radio l’altro giorno. Alla Camera parlano della vergognosa vicenda dei due marò, La Torre e Girone, il Ministro degli Esteri Terzi e quello della Difesa l’Ammiraglio Di Paola (quanti, purtroppo, ammiragli abbiamo avuto… a cominciare da quel Carlo Pellion di Persano che si dimostrò incompetente e imbelle nella battaglia di Lissa il 20 luglio del 1866, passando per Franco Maugeri che, al termine del conflitto, venne decorato di alta onorificenza USA per il contributo fornito alla causa degli alleati). Quest’ultimo, in contrasto con il dimissionario Terzi, dichiara di restare sulla nave fino all’ultimo…

Ed io penso a quegli ufficiali, questi sì eredi e testimoni d’antiche virtù marinaresche, che vollero e seppero restare sulla loro nave e con essa immergersi nelle acque mortali di una notte senza stelle. Penso, ad esempio, al comandante del sommergibile Tazzoli, Carlo Fecia di Cossato, che per fedeltà al Re aveva obbedito e portata la sua nuova unità, l’avviso-scorta Aliseo, a Malta dopo l’8 settembre. Resosi conto, però, di essere stato ‘indegnamente’ tradito e d’aver commesso ‘un gesto ignobile’, si suicidava a Napoli il 28 agosto ’44. ‘Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è più con loro che con i traditori e i ladruncoli che ci circondano’(dalla lettera indirizzata alla madre e datata il 21 agosto). Quei traditori e quei ladruncoli che abbiamo imparato a conoscere e disprezzare fuori e dentro le istituzioni…

mercoledì 27 marzo 2013

Lo scandaloso affaire dei due marò...



Intervista di Giovanna Canzano a Fernando Termentini, Generale della Riserva dell'Esercito Italiano e autore di numerosi scritti in materia.


…“Non tralascerei, inoltre, l’ipotesi che i due marò siano stati anche usati per risolvere “problemi di condominio” interni al governo e maturati nel corso di questi tredici mesi. Peraltro è impensabile che un presidente del Consiglio affermi che non era stato informato dal ministro Terzi sull’iniziativa di non far rientrare in India i due militari (Secolo IX – 22 marzo 2013, pag. 4) e il segretario De Mistura faccia dichiarazioni in contrasto con le decisioni del suo Ministro”… (Fernando Termentini)

Giovanna Canzano - Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono stati ‘riconsegnati’ all’India violando il Dettato costituzionale. Chi si ha assunto la responsabilità potrebbe aver commesso un reato?
Fernando Termentini – Credo proprio di sì in quanto il pubblicizzato impegno dell’India di non applicare la pena di morte come ripetuto varia volte dal segretario agli Esteri De Mistura e motivo premiante per far decidere il governo a farli rientrare in India credo sia ininfluente rispetto ai vincoli imposti dalla Costituzione per la non estradizione nei Paesi ove è prevista la pena di morte. Peraltro una dichiarazione del genere non cancella una legge ed in India è il codice penale a prevedere la pena di morte e un pseudo impegno dell’esecutivo non può condizionare il potere giudiziario.

L’articolo 698 del codice di procedura penale, vieta l’estradizione quando c’è il rischio, che l’estradato, può essere sposti ad un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali.
Esatto, e il disposto di legge non tutela solo i cittadini italiani ma tutti coloro che al momento della richiesta si trovano sul territorio italiano. A titolo di esempio neanche un Indiano potrebbe essere estradato in India se rischiasse di essere condannato a morte. I due Marò, invece, sono stati estradati tre volte. La prima a Koci il 18 febbraio 2012, la secondo facendoli rientrare al termine della licenza natalizia e la terza ora. Naturalmente queste mie sono affermazioni dettate dal buon senso non essendo un accademico di Diritto Penale, ma proprio per questo le ho affidate alla valutazione di esperti costituzionalisti per individuare la strada che permetta di attivare un’attenta valutazione delle specifico da parte della Magistratura. Un’iniziativa a cui credo parteciperanno moltissimi altri cittadini.

La garanzia formale che non verrà applicata la pena di morte è insufficiente alla concessione dell’estradizione, come da sentenza n. 223 del 27 giugno 1996 della Corte Costituzionale.
Esattamente, un impegno seppure ufficiale di un governo non può sostituire né tantomeno cancellare ciò che è sancito per legge dello Stato.

L’Italia non è in guerra, tantomeno non lo è con l’India, e la nota 5 al 4° comma dell’articolo 27, che compare sul sito del Quirinale, spiega e puntualizza che la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali - “Protocollo n. 6 sull’abolizione della pena di morte” (adottato a Strasburgo il 28 aprile 1983), reso esecutivo con legge 2 gennaio 1989, n. 8 (G.U. 16 gennaio 1989, n. 12, suppl. ord.), nonché legge 13 bre 1994, n. 589 su “Abolizione della pena di morte nel codice militare di guerra” (G.U. 25 bre 1994, 250) la pena di morte non è più in nessun caso ed in assoluto prevista dal nostro Ordinamento».
Infatti, e non capisco come un attento europeista come l’attuale presidente del Consiglio usi due pesi e due misure nell’applicare le prescrizioni europee. Stretto osservatore delle regole se si tratta di garantire sicurezza alla stabilità economica bancaria e per non urtare la suscettibilità di alleati come la Germania ed altri Stati membri di cui importanti figure fanno parte di “Club” come la Bieldberg o la Trilaterale. Altrettanto impegno, invece di disattendere le raccomandazioni dell’Europa in tema di pena di morte. Un Unione che peraltro oggi attraverso suoi portavoce ha ammesso di non conoscere a fondo le problematiche relative agli avvenimenti che riguardano i nostri due marò, affermazioni che, se non vado errato, sono palesemente in contrasto con quanto varie volte assicurato dal premier Monti e dal ministro Terzi sul fatto che “l’Europa seguivano giorno dopo giorno le vicende e la baronessa Asthon era in costante contatto con il nostro premier”.

Perché riconsegnare i due marò e cosa nasconde questo provvedimento?
Una domanda a cui non è semplice rispondere. Sicuramente interessi di natura economica da parte italiana ma che potevano essere gestiti con precisi ammonimenti all’India interessata a consistenti aiuti economici europei. L’Unione infatti si è impegnata ad aiutare il governo indiano per ridurre la povertà del Paese attraverso una serie di misure che riguardano la sanità, l’eguaglianza dei sessi, l’accesso all’insegnamento primario con un progetto di Cooperazione destinato a durare nel tempo ed a cui partecipa l’Italia come Stato membro. Non tralascerei, inoltre, l’ipotesi che i due Marò siano stati anche usati per risolvere “problemi di condomino” interni al governo e maturati nel corso di questi tredici mesi. Peraltro è impensabile che un presidente del Consiglio affermi che non era stato informato dal ministro Terzi sull’iniziativa di non far rientrare in India i due militari (Secolo IX – 22 marzo 2013, pag. 4) ed il segretario De Mistura faccia dichiarazioni in contrasto con le decisioni del suo ministro. Se come dirigente dello Stato non fossi stato a conoscenza di iniziative importantissime di un mio funzionario non avrei dovuto fare altro che dare le dimissioni dall’incarico.

martedì 26 marzo 2013

Ritorno al bosco

















di Angelo Maggio

“Inquietum est cor nostrum donec non requiescat in te” (il nostro cuore non ha pace, finché non riposa in te). Sant’Agostino

Ritorno al bosco… Queste tre parole racchiudono il programma e il testamento di Ernst Jünger. La metafora del bosco serve a comprendere che, come una foresta è selvaggia, intricata, segreta, piena di “sentieri interrotti” (ossia quei sentieri che solo i boscaioli esperti conoscono bene fino in fondo e che comunque sembra non portino mai da nessuna parte), allo stesso modo il nostro “cuore”, il nostro “petto”, ha di per sé una natura caotica, primordiale, selvatica che non va assolutamente repressa o soppressa, ma anzi salvaguardata ed esplorata con lo spirito di avventura e sacralità che contraddistingue il nostro rapporto con la natura. Ma ascoltiamo le parole stesse di Jünger: «il bosco è segreto. Heimlich, segreto, è una di quelle parole della lingua tedesca che racchiudono in sé anche il proprio contrario. Segreto è l’intimo, ben protetto focolare, baluardo di sicurezza. Ma nello stesso tempo è anche ciò che è clandestino, assai prossimo, in questa accezione all’Unheimliche, l’inquietante, il perturbante… » (da “Il trattato del Ribelle”).

L’atteggiamento e il contegno che deve tenere il “Ribelle” ( non si intende certo la ribellione sessantottina o quella adolescenziale alla Fabrizio Corona! ), ossia colui che decide di ritornare al bosco, può essere definito come “Realismo eroico”, nel senso che si sceglie in prima persona di affrontare la realtà , gettandosi a capofitto in questa ricerca mettendo in conto delle spiacevoli conseguenze, senza tuttavia farsi impietrire dalla paura che tutto disperde. Ecco, la realtà… In che cosa consiste in ultima istanza questa realtà? Compiendo una attenta disamina del pensiero di Dostoevskij, Nietzsche e di buona parte del pensiero filosofico, politico e letterario dell’occidente moderno, il nostro autore giunge alla conclusione che il processo che sta alla base della realtà, di tutta la realtà, sia un fenomeno di “dissolvenza verso il punto zero”, una tendenza verso il Niente vuoto, una Nullificazione. Da qui giunge l’aver con troppa fretta tacciato il pensiero jungeriano di “nichilismo”. Eppure, a differenza di molti pensatori contemporanei (per esempio Umberto Galimberti, secondo il quale il nichilismo è un “ospite inquietante” che non si può in alcun modo scacciare, ma con cui bisogna fare i conti ) il nostro autore è convinto che il mare del nulla possa effettivamente ritrarsi, lasciando sulle bianche rive tesori inaspettati. Esiste, in buona sostanza, una via d’uscita alla dissolvenza? Ci si può sottrarre all’inabissamento verso il Meridiano Zero? Certo che sì, e questa certezza è il nocciolo del Realismo eroico: « Il proprio petto. Qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso» (da”Oltre la Linea”).

Siamo di fronte a una lotta e il terreno in cui si combatte questa lotta è il “proprio petto”. Il nemico, invece, è il Niente. All’interno del proprio petto, ciascuno combatte la sua lotta contro il niente. In questo contesto di “Lotta Spirituale” è davvero significativo e voluto il richiamo al Deserto e alla Tebaide, il luogo in cui si forgiarono nei primi secoli dopo Cristo gli asceti e gli eremiti che, sull’esempio di Antonio il Grande, si ritiravano in solitudine per combattere in prima persona contro i demoni e contro le proprie inclinazioni malvagie. Il deserto, l’èremos, racchiude in sé due importanti significati: è innanzitutto luogo solitario per eccellenza ed è anche il posto più arido che si possa immaginare. Si combatte il niente affrontandolo nel suo luogo originario, nel suo elemento fondativo. D’altra parte, nel deserto anche Gesù ha dovuto affrontare la sua lotto contro il maligno, ben sapendo che era proprio e solo lì che lo avrebbe incontrato in tutta la sua “realtà” (cfr. Matteo 4, 1-11; Luca 4, 1-13; Marco 1, 12-13).

Guardare in faccia il nemico e affrontarlo, è l’inizio della più grande ascesi, di ogni ascesi! Il realismo eroico è lo spirito della lotta che si combatte nel nascosto, nel solitario, nell’arido e inesorabile deserto. Il deserto è anche la sede del pericolo estremo, ossia il pericolo di annientamento. Ora, concludiamo questa breve disamina, riecheggiando il pensiero del grande Hölderlin e riportando un sua aforisma tanto caro anche al filosofo tedesco Martin Heidegger (entrambi hanno spesso collaborato e il frutto più bello di tale confronto reciproco è il saggio Oltre linea), altro grande interlocutore di Jünger: “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. In questa frase vi sono due verbi che indicano differenti modi di essere: il pericolo c’è, semplicemente, mentre la salvezza cresce. Il pericolo si aggira come un leone in cerca di chi sbranare, è presente e s’insinua dappertutto, ciò che salva invece va fatto crescere con pazienza, con il lavoro sapiente del contadino, oppure con la tenacia e lo spirito di avventura di chi si addentra in un bosco per farvi legna o un’escursione.

domenica 24 marzo 2013

sabato 23 marzo 2013

L' arco e la freccia

di Mario M. Merlino 
(da ereticamente.net)


Devo premettere come questo mio intervento nasca da un aforisma di Nietzsche – forse a me ignoto o abbandonato dalla memoria - , che l’amico Giacinto R. ha messo su FB e dandomi così il destro a fare quattro chiacchiere a distanza con i lettori di Ereticamente. E, come ormai sanno e sopportano (mi auguro), prenderò da lontano l’argomento e, va da sè, con divagazioni dell’immarcescibile Io-Io-solo Io-sempre Io… Da bambino e, poi, da ragazzotto ardito e fiero (si fa tanto per non perdere il vizio!), ero assiduo frequentatore di tutte le sale cinematografiche ove si proiettassero film western o kolossal pseudo-storici o, ancora, di forzuti eroi mitologici. Insomma la ricerca di miti e modelli a compensare un fisico scadente e un profilo assai bruttino premessa, se vogliamo dare al destino un ruolo significativo, a quella spranga e bottiglia immortalate nel celebre poster su Valle Giulia, 1 marzo del 1968 (se avete pazienza, suvvia!, cum lento pede – suppongo pessima citazione latina – arriveremo a giustificare il suo riferimento).

Ricordo, ad esempio, Sinuhe l’egiziano, anno 1954, tratto dal romanzo dello scrittore finlandese Mika Waltari, anno 1945, di cui credo avere ancora una copia se non abbandonato, al quanto mal volentieri, insieme ad altri tre o quattrocento libri durante il trasloco di casa in casa. E, con l’ultima citazione latina, ‘omnia mea mecum porto’, attribuita da alcuni a Simonide, mi consolo, pur rosicando interiormente… Va be’, sia il libro che il film sono libere trasposizioni de Le avventure di Sinuhe, fra le più importanti opere della letteratura dell’Antico Egitto tanto da divenire oggetto di studio nelle scuole, per cui abbiamo innumerevoli reperti in cocci pietre manoscritti, pur se frammentari. Fra l’altro si narra di come gli egiziani venissero battuti dagli Ittiti, popolazione indo-europea, di certo meno raffinata e colta, ma in possesso dell’uso d’armi di ferro e del carro da guerra (si pensi a quell’episodio fondamentale all’interno del poema epico indiano Mahabharata, la Bhagavad-Gita, ove il dio Krishna parla attraverso il cuore ad Arjuna sul campo di lotta. Arjuna, valente guerriero, guida un carro da battaglia e viene descritto abile arciere. Caratteristiche, dunque, comuni alle genti Arya. Inoltre, alle esitazioni ‘umane, troppo umane’ contro l’uccidere in guerra, Krishna insegna – e anche qui siamo all’interno di quell’universo valoriale degli indo-europei – l’impersonalità dell’agire, quel senso del dovere a cui deve adeguarsi ogni giusto comportamento dell’uomo).

Ed eccoci all’aforisma di Nietzsche: ‘Solo chi ha la freccia e l’arco è capace di assidersi silenzioso: tutti gli altri sono chiacchieroni litigiosi’. Grazie, Giacinto, ma ora cammino con le mie gambe… Proverò a dare ad esso una duplice risposta così come ho rilevato, in precedenza il duplice motivo di superiorità delle genti Arya, cioè il possesso di strumenti da combattimento superiori (si pensi alla falange macedone o alla legione romana) e ad un atteggiamento di disciplina di fronte alla vita (basterà qui rinnovare l’immagine del soldato romano, tanto cara ad Oswald Spengler, rimasto fedele alla consegna durante l’eruzione del Vulcano che distrusse Pompei ed Ercolano). L’arco è arma da usare a distanza e la freccia il mezzo che colma questa distanza. ‘Prendere le distanze’, come il ‘lasciare la presa’ per gli orientali, indica una consapevolezza più grande, un’audacia più grande, una visione più grande, simile all’aquila amica di Zarathustra. Ed è il presupposto per quell’’amor fati’ con cui Nietzsche ci avverte e ci ammonisce: amare il proprio destino equivale a stare in piedi fra le rovine, danzare a passo lieve come il dio Dioniso, andare al di là del bene e del male, accettare l’esistenza quale ‘eterno ritorno’… Scegliere per non essere scelti (o, se si preferisce con maggiore correttezza filologica, dato che siamo scelti, facciamo ‘nostra’ questa scelta) e, ancor più con il merlinite linguaggio, ‘faccia al sole e in culo al mondo’…

Varrà la pena ricordarlo e farne lezione quando e se verranno ulteriori mala tempora. Se, poi, tutto questo a cui siamo sottoposti è nichilismo (‘l’oggi appartiene alla plebe’, ricorda sempre Nietzsche), noi nichilisti attivi, per cui aderimmo al Fascismo ‘immenso e rosso’ quale volontà di reazione/rivoluzione trasformando le masse in popolo, bene saremo ‘bastonate e barricate’ ideali se non abbiamo più l’età per battere ‘in piazza il calpestio delle rivolte’, per dirla con il poeta futurista russo Majakovskij.

Al convegno di mercoledì 13 marzo, all’Universale, dal titolo La lunga marcia del ’68 (ecco svelato il riferimento a Valle Giulia), parlando dell’anarcofascismo della cultura di destra, esprimevo il mio augurio che, dopo il populismo, autentico o meno che sia, del fenomeno Grillo, si aprisse la stagione dove ognuno di noi deve stabilire se stare su posizioni di retroguardia a difesa, di fatto, di banche urne borghesi timorosi magistrati inquisitori manganelli manette e lacrimogeni oppure quel ‘vivere in costante pericolo’ e, cioè, essere comunque e nonostante tutto esseri in cammino esseri contro, incuranti di chi possano essere i compagni di strada il colore delle loro bandiere magari il vetero anacronistico linguaggio, da cui non riescono a liberarsi, perché solo così incontreremo ‘in quantità di sacrificio ed amore’ il popolo…

E ancora una considerazione: se, poi, l’arco e le frecce fossero la forza con cui il potere di sempre, l’oro contro il sangue, si manifesta tramite banche ed urne, che almeno si sia capaci di guardare avanti a noi e vedere lo scoccare e il sibilo e il giungere della freccia letale senza giustificazioni lagne consolazioni (ancora una volta ho sentito dire il solito ritornello che abbiamo intuito ragionato capito, ma sono stati gli altri a scippare intuizioni ragioni capacità di tradurre in atto le nostre analisi dotte e precise!). Soprattutto evitiamo di fare come i topi che abbandonano la nave… A Campo di Fiori la cupa statua di Giordano Bruno ci ricorda come un cronista del tempo ricordasse che il filosofo accettò di essere arso al rogo nella pubblica piazza perché ‘martire e volentieri’. E noi – io credo e lo credo fermamente – siamo e possiamo essere della razza dei vincitori… nel nostro cuore, nella mente, con stile e, se occorre, in piazza.

venerdì 22 marzo 2013

Guantanamo. Le bugie di Obama uccidono...

di Ferdinando Calda (Rinascita)

La Casa Bianca ha confermato che nel carcere di Guantanamo sono in aumento i casi di sciopero della fame per protesta contro le condizioni di detenzione. Anche se da Washington hanno nuovamente ridimensionato le accuse dei legali dei prigionieri, che nei giorni scorsi avevano denunciato una vera e propria protesta di massa. Nel frattempo la Nbc news ha riportato la notizia di un progetto da centocinquanta milioni di dollari presentato al Pentagono per ristrutturare Guantanamo con un nuovo ospedale, mense e alloggi per i militari. 

Una conferma che l’amministrazione Obama ha deciso di rinunciare a chiudere il famigerato supercarcere, nonostante le passate promesse del premio Nobel per la Pace.

Ieri dal Dipartimento di Giustizia statunitense hanno affermato che attualmente sono 25 (su 166) i detenuti che rifiutano il cibo, di cui otto sono alimentati in modo forzato attraverso sondine nel naso. Due sono stati ricoverati per disidratazione. Il colonnello Todd Breasseale, portavoce del Pentagono, ha sottolineato che gli scioperanti sono più che triplicati nelle ultime due settimane, passando da sette a 25.

La scorsa settimana gli avvocati dei detenuti sono intervenuti davanti alla Commissione Inter-americana sui Diritti Umani (IACHR) a Washington, denunciando che da oltre un mese circa un centinaio dei prigionieri stanno portando avanti uno sciopero della fame per protestate contro il costante controllo e la confisca di loro effetti personali, comprese le copie del Corano. Ma soprattutto contro la detenzione a tempo indeterminato. Il rappresentante della Casa Bianca, però, aveva ridimensionato il fenomeno, sostenendo che solo per un pugno di detenuti è possibile applicare la definizione di sciopero della fame. Omar Farah, del Center for Costitutional Rights (Ccr), aveva parlato di una “grave crisi umanitaria” all’interno del carcere.

A preoccupare i legali e le associazioni umanitarie è soprattutto la prolungata detenzione a tempo indeterminato che devono sopportare i prigionieri. Che li fa letteralmente impazzire e tentare più volte il suicidio. A rendere particolarmente insopportabile l’attesa dei detenuti è il fatto che molti di loro (86) hanno già ricevuto l’autorizzazione per il rilascio, ma non vengono liberati per problemi politici e burocratici. Emblematico è il caso degli yemeniti, che non possono tornare in Patria perché il presidente Obama ha imposto una moratoria sui trasferimenti in Yemen dopo che, a Natale 2009, un nigeriano addestrato in Yemen cercò di farsi saltare in aria in un aereo per Detroit con delle “mutande-bomba”. A settembre dello scorso anno Adnan Farhan Abdul Latif, uno yemenita di 32 anni rinchiuso a Guantanamo dal 2002, si è suicidato mentre si trovava in isolamento. La sua scarcerazione era stata autorizzata nel 2009 dalle commissioni di revisione istituite da Obama, e confermata l’anno dopo da una sentenza della Corte distrettuale di Washington.

“Il personale medico segue costantemente i detenuti in nostra custodia e fornisce loro eccellenti cure mediche”, assicurano dal Pentagono. Tuttavia anche i militari riconoscono che la frustrazione e la rabbia tra i detenuti è aumentata negli ultimi tempi, dopo la promessa mancata del presidente Obama, di chiudere Guantanamo. Sono “devastati” per questo motivo, ha ammesso un generale citato dalla Nbc.

Obama “non ha detto nulla nel suo discorso inaugurale, non ha detto nulla nel discorso sullo stato dell’Unione, non ha detto proprio nulla sulla chiusura del carcere”, ha sottolineato John Kelly, comandante dello U.S. Southern Command, responsabile delle attività militari statunitensi in Centro e Sud America. Inoltre, “non ha riassegnato l’incarico di inviato speciale per la chiusura del campo di detenzione”, ha continuato il generale Kelly, ricordando che Daniel Fried ha ricevuto un altro incarico, lasciando scoperto il posto.

Nel frattempo, anche in tempi di pesanti tagli alla Difesa Usa (e non solo), il budget per il carcere di Guantanamo rimane altissimo. Per quest’anno si aggira intorno ai 177 milioni di dollari (oltre un milione di dollari per detenuto), consegnando a Guantanamo il titolo di prigione più cara (pro capite) degli Stati Uniti.

giovedì 21 marzo 2013

Ma secondo me prende il nome da Francesco di Sales











di Marcello de Angelis (Secolo d'Italia)

Scusatemi ma il delirio delle folle mi lascia un po’ di retrogusto. Anche perché coincide sempre con lo straordinario entusiasmo delle prime file, traboccanti di interpreti e imbonitori di folle. Quelli che, ad esempio, entrano con gli inviti gratuiti a tutte le competizioni sportive da decenni e che con lo sport hanno fatto soldi a palate e che appena diventano “leader” del governo dello sport aboliscono gli inviti ai parlamentari per strappare l’applauso dei sempliciotti, che non sanno che in tribuna autorità ci vanno comunque gli invitati, che siano politici, diplomatici, attori o amici degli amici. Ma parliamo del Papa. Il giudizio entusiasta nei confronti di Francesco è unanime. Il che sorprende non perché non se lo meriti, ma perché nessuno è in grado, a distanza di due o tre giorni, di giudicare i suoi meriti. Tutti affermano di sentire già promanare da lui lo Spirito Santo. Il che è possibile, essendo lui il vicario di Cristo in Terra. Meno convincenti sono i panegirici di chi vorrebbe convincersi della sua santità perché prende la metro. Si ha anzi l’impressione che qualcuno voglia usare le sue parche abitudini per continuare a allapparci con la sbobba stra-riscaldata dell’anticasta in salsa grillina. Bergoglio non ama i fasti. Buon per lui, è certamente una virtù ma non un indizio di santità. Il suo pontificato, per rendergli merito, lo giudicheremo se non tra alcuni anni almeno tra qualche mese. Assegnare medaglie prima che la corsa inizi non rende giustizia all’atleta. L’umiltà cristiana, insegna la dottrina, non cerca il plauso del pubblico. L’umiltà francescana – il contrario della superbia – si nutre del dileggio e del rifiuto da parte dei superficiali e dei peccatori, non del plauso delle folle estatiche. E non è peregrino che sia ad un altro Francesco che Bergoglio si ispiri. Magari San Francesco di Sales, quello da cui prendono il nome i salesiani. Tanto per cominciare è il patrono del Piemonte, terra d’origine della famiglia del nuovo Papa, ma soprattutto è il patrono dei giornalisti e della comunicazione della dottrina. Il buon Francesco Boisy, infatti, attivo nel contrasto del Calvinismo , per raggiungere anche i fedeli più remoti con la sua catechesi inventò i “manifesti” e il volantinaggio casa per casa. Viene considerato patrono della stampa cattolica e dei sordomuti, che non potendo ascoltare le prediche possono almeno leggerle. Quindi forse l’impegno di papa Francesco nello stringere mani al popolino non ha lo stesso significato del parlare al lupo di Francesco d’Assisi, ma è piuttosto come i “manifesti” di San Francesco di Sales. Usare la comunicazione, in un’era di instupidimento da apparenza, per evocare immagini semplici e efficaci. Una buona strategia per rilanciare il dialogo tra i fedeli e la Chiesa. Meritevole e auspicabile.

mercoledì 20 marzo 2013

Eni, Morte Mattei: furono agenti segreti francesi con placet CIA?


di Daniele Chicca


Un'inchiesta apre nuova pista: il mercato del petrolio e le Sette Sorelle non c'entrano. Fu un'operazione di destabilizzazione dei servizi segreti francesi e statunitensi. La CIA non vedeva di buon occhio i rapporti tra il manager e l'Urss.

E' uno dei casi irrisolti più rappresentativi dell'Italia degli Anni 60. Un omicidio camuffato da incidente aereo su cui si e' scritto e discusso di tutto e che vede protagonisti agenzie di spionaggio e mafia, attori di una corruzione consumata ai più alti piani politici. Ora un'inchiesta appena pubblicata ne svela nuovi risvolti, tentando di rispondere a una domanda che rimane senza risposta da oltre 50 anni: chi ha messo quella bomba da 150 grammi di tritolo?

La morte di Enrico Mattei, presidente e fondatore dell'Eni non è solo un episodio come i tanti della storia italiana rimasti avvolti nel mistero della sua epoca. Inserito nel quadro delle strategie e trattative di stampo terrorista caratteristiche della Guerra Fredda e di quella fase storica che fece da apripista agli Anni di Piombo, se spiegato consentirebbe di ricostruire tutta una serie di scenari del quadro geopolitico confuso di allora, intreccio di complotti, attentati, mandanti ignoti, collaborazioni interstatali e manovre nell'ombra.

Il libro indagine intitolato Uomini Soli: Enrico Mattei e Mauro De Mauro tenta di rivelare le verità nascoste sulla scomparsa improvvisa dell'ex presidente e fondatore dell'Eni. La ricerca si basa sulla consultazione di dossier americani, fonti giudiziarie e dichiarazioni di ex componenti dei servizi segreti. Nel report sono citati anche atti di indagine. 

"Fino al 1962 - spiega Di Salvo in un colloquio telefonico con Wall Street Italia - la vicenda non si poteva ricostruire, ma dopo il 2000 grazie alle inchieste del giornalista De Mauro e agli atti processuali di quell'anno sulla sua morte (e la sentenza del 2012) emergono con chiarezza alcuni tasselli da cui è stato possibile ricercare nuove fonti e riscontri". Il puzzle incomincia a prendere forma.

Siamo negli Anni 60 e dopo oltre 50 anni le cause dello schianto vicino all'aeroporto di Linate del jet privato che portava il manager del gruppo petrolifero non sono state chiarite dalla magistratura. Tra i protagonisti della storia troviamo servizi segreti internazionali, cosche mafiose e politici di alto profilo, che grazie a operazioni di insabbiamento e depistaggio non hanno mai dovuto rispondere davanti alla giustizia.

All'epoca, il manager più rappresentativo di una generazione di dirigenti che cambiarono l'Italia - facilitandone la trasformazione da un'economia prevalentemente agricola nel Dopoguerra a un'industria sviluppata nel secondario e dando il la a un boom economico - si era creato non pochi nemici scomodi. Questo fattore, unito al complicato contesto di tensioni internazionali tipiche della Guerra Fredda, ha reso ancora piu' difficile la ricostruzione credibile della vicenda.

Per capire meglio quei fatti, bisogna inquadrarli nella cornice storico-politica di quegli anni. Mattei, ex partigiano, e' stato il leader di una generazione di manager pubblici che nel Dopoguerra rilancio' l'Italia, contribuendo all'industrializzazione del paese. Quella classe venne poi sostituita da dirigenti di calibro oggettivamente inferiore, che ricordiamo ancora oggi per una serie di mega-opere pubbliche estremamente dispendiose per lo Stato, le famigerate "Cattedrali nel Deserto", di cui e' piena la storia di quegli anni e che hanno gradualmente portato all'esaurimento della imponente crescita economica.

L'aereo I-Sap (questo il suo nome in codice) - scrive il pubblico ministero di Pavia Vincenzo Calìa nel 1994, precipito' a causa di "un'esplosione limitata, non distruttiva", occorsa all'interno del velivolo. Il magistrato fa intendere che Mattei venne tradito dalle istituzioni italiane e da soggetti interni all'azienda che guidava e che avrebbero ottenuto vantaggi dalla sua scomparsa.

"L'imponente attività di preparazione ed esecuzione del delitto, e poi per disinformare e depistare, non può essere ascritta esclusivamente a gruppi criminali, mafiosi, economici, italiani e stranieri, a sette (o singole) sorelle o servizi segreti di altri paesi, se non con l'appoggio o la fattiva collaborazione di persone e strutture profondamente radicate nelle nostre istituzioni e nello stesso Ente di Stato petrolifero, che hanno conseguito ordini o consigli, deliberato autonomamente o con il consenso e il sostegno di interessi coincidenti, ma che, comunque, dal quel delitto hanno conseguito diretti vantaggi". Le indagini di Pavia scaturirono dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta e di un pentito della "Stidda" di Gela, Gaetano Iannì.

Mentre svolgeva una ricerca sui 3 miliardi di finanziamenti pubblici Usa ai progetti per la cosiddetta guerra digitale, in particolare legati a fondazioni e grosse aziende per l'esportazione della democrazia digitale, Di Salvo si e' imbattuto in una serie di collegamenti con alcuni personaggi protagonisti della Guerra Fredda. In mesi di riscontri e verifiche incrociate è emerso uno scenario più complesso ed articolato rispetto a quanto sinora ricostruito nelle aule giudiziarie.

A compiere fisicamente l'attentato sarebbero stati agenti della Oas, passati in quegli anni attraverso alterne vicende, nell’inquadramento complessivo di quella struttura che oggi conosciamo come "NATO Stay Behind" e la cui diramazione italiana sarà nota come GLADIO. E' il nome in codice di una struttura paramilitare segreta promossa durante la guerra fredda dalla NATO per contrastare un eventuale attacco delle forze del Patto di Varsavia ai Paesi dell'Europa occidentale.

Perchè loro? Innanzitutto per la loro competenza. Il sabotatore, ad esempio, spiega Di Salvo, risulta essere lo stesso ingegnere che in Florida per conto della CIA ha addestrato emigrati cubani nel compiere attentati di simile natura (tra questi possiamo dedurre quello compiuto contro l'allora ministro della Difesa di Cuba Camilo Cienfuegos).

Ad una attenta lettura dell’inchiesta pubblicata da Di Salvo emergono chiaramente i riscontri, come se fossero stati visionati direttamente documenti incrociati sia di provenienza USA sia Francese, anche se lo stesso non ne conferma la natura ed il livello, che appare comunque decisamente molto alto. Il quadro complessivo è comunque di un’operazione di raggio decisamente più ampio, il che viene lasciato intuire chiaramente nelle pagine del libro.

L'operazione sarebbe stata strutturata lungo filoni che si trovano nella morte di Mauro De Mauro - ecco spiegato il titolo dell'ebook - giornalista di Palermo rapito dalla Mafia e il cui corpo non e' mai piu' stato ritrovato. Addirittura durante il processo un pentito ha dichiarato che i cugini Salvo erano stati incaricati di pedinare Mattei. Nessuno tuttavia, racconta l'editore e scrittore napoletano, ha voluto aprire un fascicolo a riguardo.

E' proprio il caso De Mauro - che da giornalista investigativo di razza quale era fece scomodi riscontri e parlo' con una serie di fonti non solo vicine a Cosa Nostra, ma anche legate al suo passato ed alla sua storia personale - il collante di tutta la storia. 

Siamo nel 1970 ed era impensabile per De Mauro che i servizi segreti potessero agire in territorio italiano. Avevano bisogno dell'avallo e sostegno logistico di chi aveva il potere nella regione. Quando De Mauro incomincia a chiedere informazioni sulla plausibilità di una serie di operazioni la sua posizione si fa critica. I documenti segreti diventano un'arma di ricatto micidiale. 

Bisogna ricordare che ai tempi esistevano campi di esercitazione segreti dell’Oas, più o meno direttamente (all’epoca dei fatti) finanziati dalla CIA, in cui estremisti di destra venivano addestrati in ottica anti comunista. E che identificarono evidentemente in Mattei uno dei finanziatori della fine del sogno imperialista francese in Algeria. "La CIA era ben consapevole che qualora fossero stati scoperti come francesi, questo avrebbe fatto cadere la presidenza De Gaulle", osserva Di Salvo. 

E' impossibile dare un nome all'attentatore o agli attentatori, almeno sino a quando non verrà desecretato da parte francese il fascicolo che rivela l’identità dell’"agente Laurent", ma attraverso una serie di riscontri incrociati emerge uno scenario inquietante, in cui la CIA avrebbe razionalizzato tutta una serie di operazioni in Europa creando quella che poi sarebbe diventata la GLADIO, e che questa struttura serviva, prima ed oltre che in funzione anticomunista, in chiave destabilizzante dei governi democratici europei, per scongiurare qualsiasi "indipendenza politico-economica" rispetto agli Stati Uniti.

Il processo di Pavia si chiuse nel 2005: 200 pagine di ordinanza nella quale viene alla luce di tutto e in cui si da' per scontato l'attentato ("omicidio doloso"). Ci sono le prove, secondo i magistrati, non solo gli indizi. Improvvisamente nelle carte si arriva tuttavia a un punto morto. Una svolta improvvisa della linea processuale nelle ultime righe, dove si legge che dal momento che non ci sono reati facilmente riscontrabili, va richiesta l'archiviazione. "E' un po' come se fosse stato cambiato il finale", fa notare l'autore, studioso di storia contemporanea. 

"Quelli che un domani diventeranno i capofila della corrente andreottiana in Sicilia, tra cui i cugini Salvo, ebbero l'incarico di pedinare Mattei". Dopo 10 anni riceveranno la concessione per le esattorie regionali con l'aggiunta di una maxi tangente da circa 70 miliardi che venne raccolta proprio dalla persona che a Palermo era un Senatore della Democrazia Cristiana e che aveva gestito in qualche maniera gestito tutta la vicenda Mattei. 

Chiave fu il ruolo di Graziano Verzotto, il quale casualmente, quando verrà coinvolto nella vicenda Sindona, sarà latitante proprio a Parigi. Un uomo che lo stesso Sisde evidenziò come collaboratore stretto dei servizi francesi.

Tommaso Buscetta riferì ai magistrati che la bomba sull'aereo dove perse la vita Mattei era stata messa dal boss Di Cristina, di cui il presidente dell'Ems Verzotto era stato testimone di nozze. In realtà potrebbe realisticamente aver procurato al massimo l’esplosivo necessario, secondo la ricostruzione dell'inchiesta. "Appare più probabile che la ricostruzione della partecipazione delle Cosche sia stata creata ad hoc dai servizi segreti francesi", dice Di Salvo.

Appare improbabile, infatti, che i due esecutori materiali, ossia due contadini uno dei quali Di Cristina, per le loro basse competenze in materia avessero potuto agire con tale minuzia. Il ruolo dei locali e' stato determinante, ma secondo la ricostruzione Di Salvo - e quella dell'incipit della procura di Pavia - non sono loro gli attentatori.

Ma allora come fecero i tre agenti francesi ad operare? Arrivati a Catania avevano bisogno di un tacito appoggio delle Cosche locali. A cui fecero anche pedinare Mattei.

Se cosi' andò, si dovrebbe riscrivere l'intera sceneggiatura dei tempi della GLADIO e rivedere in una chiave nuova tutta una serie di rapporti, inediti rispetto a come li conosciamo ora. Ad esempio le relazioni segrete tra Usa, Francia e Italia, così come le manovre degli ambienti dell'estrema destra dei servizi segreti francesi. Stesso discorso per l'episodio che vede i servizi di Roma dare l'input per interrompere le indagini sulla scomparsa di De Mauro. Fino ad arrivare all'omicidio Sindona e le operazioni di riciclaggio di denaro. Tutti punti del resto ripresi in questa inchiesta.

Come le personalità brillanti sanno fare, Mattei fu in grado di catalizzare l'attenzione su di sé come pochi. Per far crescere il proprio paese era disposto a tutto. Anche a farsi tanti nemici. Fu un politico, un imprenditore, un dirigente pubblico, ma soprattutto un innovatore. 

Sostenere che sia stato un incidente del pilota, Irnerio Bertuzzi - conclusione a cui arrivo' con sorprendente celerità la commissione d'inchiesta istituita dall'allora ministro della Difesa Giulio Andreotti - e' un'offesa in primo luogo contro quel gigante che era Mattei e contro i suoi familiari, ma anche contro la storia d'Italia. Ecco perché è quanto meno doveroso cercare di chiarire i tanti punti oscuri dell'intricata e tuttora misteriosa vicenda in cui ha perso la vita uno degli artefici della rinascita italiana degli Anni 60.

martedì 19 marzo 2013

A Cipro la Troika “consiglia” il prelievo forzoso sui conti correnti: scoppia il caos

tratto da Barbadillo

Salvare l’economia di un Paese sì ma con i soldi dei cittadini. Questo è il piano della troika che sarà votato domani dal Parlamento ciprioti. Un prelievo forzoso sui conti correnti (rispettivamente un’imposta del 9,9% sui depositi oltre 100mila euro e del 6,75% per quelli di importo inferiore) che dovrebbe rappresentare la contropartita per gli aiuti da parte dell’Ue: ossia il piano di salvataggio da 10 miliardi. Una proposta choc che ha gettato letteralmente nel panico gli abitanti dell’isola e i correntisti stranieri che hanno assaltato i bancomat per prelevare il proprio denaro (tant’è che la banca centrale cipriota ha dovuto ordinare la chiusura di tutti gli istituti di credito per le prossime ore).

Da parte sua, proprio il governatore della Banca centrale cipriota Panicos Demetriades, ha cercato di minimizzare: «La Bce provvederà Cipro della liquidità necessaria se il Parlamento approverà il prelievo forzoso sui depositi bancari. Le rassicurazioni che abbiamo sono che qualora la proposta di legge venga votata, ci daranno la liquidità che ci occorre». Non sembrano pensarla così, evidentemente, gli abitanti di Cipro.

Ma lo scenario cipriota ha fatto discutere, per le possibili ripercussioni ben al di fuori i confini dell’isola del Mediterraneo. Dalla Russia tanto il presidente Vladimir Putin quando il premier russo Medvedev hanno criticato l’eventualità: «La possibile tassazione dei depositi bancari a Cipro – ha affermato il capo del governo – sembra una confisca dei soldi altrui». Anche gli stessi analisti, da parte loro, non credono che il prelievo sia una scelta saggia. Anzi. «Se i politici europei stavano cercando un modo per minare la fiducia pubblica che è il fondamento a sostegno di ogni sistema bancario, non avrebbero potuto fare un lavoro migliore», ha affermato Michael Hewson, analista di Cmc Markets.

Anche il Italia non sono mancate reazioni. Per Ignazio La Russa, cofondatore di Fratelli d’Italia, «il prelievo forzato sui conti correnti dei cittadini di Cipro, imposto dalla Germania e dall’Ue, che fa presagire scenari del genere anche in altri paesi europei, è la dimostrazione che l’Europa dei banchieri non va bene e che fra i temi pressanti della politica italiana c’è quello di una ridefinizione dei rapporti europei». Sull’argomento è intervenuto anche Giuseppe Vegas, presidente della Consob, che ha invitato a non fare allarmismi in quanto «Cipro è una realtà molto piccola, particolare. Io non drammatizzerei, poi è chiaro che i mercati sono nervosi». Salvo poi, alla domanda se Cipro potrebbe essere un paradigma per Paesi più grandi, rispondere così: «Non lo so – ogni giorno e’ una sorpresa. Non credo proprio però che potrebbe succedere anche in Italia». Tutto chiaro, no?

lunedì 18 marzo 2013

La grande distribuzione strozza i piccoli negozi

Marketing supermercato

di Filippo Ghira (Rinascita)

La crisi economica ha accentuato un fenomeno che era già evidente da tempo. Quello della chiusura dei negozi che non riescono più a contrastare la concorrenza della grande distribuzione che può contare su una maggiore diversificazione dei prodotti offerti e soprattutto di prezzi più bassi grazie alla maggiore quantità offerta. Una crisi dei piccoli esercizi che comporta l’accentuarsi di un fenomeno già conosciuto, quello del trasferimento di ricchezza a favore dei grandi gruppi commerciali e allo stesso tempo del progressivo impoverimento di vasti settori del ceto medio. A fronte di una recessione che sembra non avere fine, le famiglie, in particolare quelle del ceto medio, impiegati e pensionati, sono obbligati a rivolgersi ai grandi magazzini o ai supermercati, ipermercati e discount, dove vi è la sicurezza di poter risparmiare. Addio così al vecchio e caro negozio sotto casa a conduzione familiare nel quale era possibile stabilire un rapporto umano che oggi invece si sta definitivamente perdendo. Oltretutto, la scomparsa dei piccoli negozi non comporterà necessariamente un vantaggio economico per i cittadini considerato che un supermercato, una volta costretti alla chiusura gli esercizi nelle zone circostanti, divenuto insomma una sorta di monopolista, potrebbe essere tentato di alzare i prezzi e lucrarci sopra, non essendoci più concorrenza e termini di confronto.
Per la Confesercenti oggi in Italia non è più possibile fare impresa. Solo nei primi due mesi del 2013 in Italia hanno infatti chiuso quasi 10 mila negozi con una media di circa 163 negozi al giorno. Di conseguenza, se tale tendenza non verrà in qualche modo fermata, il 2013 sarà molto peggiore di un anno già di per se stesso pessimo come il 2012.
A preoccupare è anche il calo dell’apertura di nuove attività con un meno 50%. Il record delle chiusure ha interessato due grandi città come Torino e Roma. Significativo è il fatto che al Sud, comprese Sicilia e Sardegna, il fenomeno risulti più contenuto rispetto al Centro e al Nord. Ma si tratta in questo caso di un tessuto sociale solido tenuto in piedi dalle famiglie con tutti i loro legami diffusi sul territorio.
La Confesercenti ha avvertito che si rischia per fine dicembre la chiusura complessiva di 60 mila esercizi con 200.000 addetti in meno. Una vera ecatombe accentuata dalla recessione e dal minor reddito a disposizione delle famiglie e da una tassazione eccessiva ed invasiva, la quale, soprattutto tramite l’introduzione dell’Imu, ha inferto il colpo di grazia definitivo a molti piccoli negozi. I dati ufficiali parlano di 13.755 negozi chiusi a fronte di appena 3.992 aperture. Questo saldo negativo si sta realizzando anche nel settore dei pubblici esercizi, bar, ristoranti, pizzerie al taglio.
Nel primo trimestre ne chiuderanno circa 9.500 contro 3.000 nuove aperture. In questo caso la crisi economica ha tagliato le risorse per andare a mangiare fuori casa almeno una volta al mese. Andare al ristorante o consumare un cappuccino e un cornetto la mattina al bar e divenuto un lusso. Pochi esercizi riescono a sopravvivere e sono quelli muniti di una ricevitoria dove poter giocare al Lotto, al Superenalotto e a tutti gli altri giochi spuntati come funghi negli ultimi anni. Molte chiusure sono poi determinate dalla impossibilità di pagare il nuovo canone di affitto, spesso esorbitante, chiesto dal proprietario delle mura e che non tiene minimamente conto della realtà economica nella quale ci si trova tutti immersi.
L’aspetto più inquietante di questa deriva sta nel fatto che i governi di Destra e di Sinistra hanno fatto ben poco per impedire quanto sta accadendo e che è frutto di una tendenza avviata da anni con la liberalizzazione del settore della distribuzione imposto dalle normative europee. Lo stesso Berlusconi un tempo era proprietario della Standa e questa mentalità di “tutore” della grande distribuzione deve essergli rimasta appiccicata addosso. Bersani a sua volta, come esponente del PD emiliano è condizionato nei suoi comportamenti politici dall’essere legato all’Emilia la regione nella quale le Coop rosse, con i loro grandi supermercati e grandi magazzini, costituiscono un enorme potere economico ed un collettore di voti che finiscono per fare la differenza. Le liberalizzazioni di Bersani, da ministro dello Sviluppo (2006-2008), le cosiddette “lenzuolate”, hanno avuto come effetto più eclatante quello di permettere alle Coop di aprire punti di vendita per i farmaci da banco (quelli senza ricetta) all’interno degli stessi supermercati. Una convergenza di interessi e di modi di vedere tra Destra e Sinistra che rappresenta uno dei tanti inciuci di questa Seconda Repubblica.
C’è da segnalare che questo prevalenza della grande distribuzione sui piccoli negozi, unito alla crisi economica con minore reddito disponibile per chi acquista, sta innescando lo sviluppo di canali alternativi finalizzati ad ottenere risparmi cospicui. Come gli acquisti di gruppo, quelli fatti on line o recandosi direttamente dal contadino per saltare ogni intermediazione.

domenica 17 marzo 2013

L’ultima dell’Anpi: i femminicidi sono il frutto del fascismo. Ridateci Violante, please…


di Annalisa Terranova

La notizia sta su L’Unità, né troppo né poco in evidenza. Si tratta di un convegno dell’Anpi a Milano. Titolo: “Fascismi e femminicidio, la storia delle donne”. Uno legge e si chiede: e che, il femminicidio è un’invenzione ideologica del fascismo? Certo che no, certo che no. È solo una “lieve” forzatura. Invece nel leggere la presentazione del convegno, il dubbio torna: “Si vogliono analizzare le costanti di una cultura che, pure avendo compiuto grandi passi avanti, soprattutto nelle leggi, resiste nelle pieghe della società… Un’idea della donna come proprietà che giunge persino al femminicidio”. Tutto ha origine nel fascismo e dal fascismo, dunque… E in queste ore in cui alla Camera si guardano tutti in cagnesco, con diffidenza e malcelata intolleranza, la mente non può che tornare allo storico discorso di un comunista divenuto presidente dell’aula di Montecitorio, Luciano Violante, il quale si fece carico di un appello alla pacificazione tra chi proveniva dalla storia della Resistenza e chi da quella del fascismo, un discorso in cui tra l’altro venivano citate anche le ragioni delle “ragazze (e dei ragazzi) di Salò”. Parole, si disse, ispirate dagli studi di Maria Fraddosio sui modelli femminili del Ventennio. Cui si aggiungono quelli di Marina Addis Saba sulle novità introdotte dal regime e quelli di Claudia Salaris sulle futuriste. Studi che lo scrittore Giano Accame sintetizzava così: “Immaginatevi cosa voleva dire, per gli anni Trenta, mettere le ragazze in calzoncini a fare ginnastica…”. Parole comunque, quelle di Violante, che erano frutto di un tentativo di comprendere le ragioni dell’avversario, di un’epoca in cui la destra era da poco uscita dal ghetto e ambiva a dimostrare le sue capacità come “destra di governo”, di una fase in cui si riconosceva con onestà intellettuale che la Resistenza e la sua cultura non sono mai diventate patrimonio nazionale. Bisognerebbe interrogarsi sui passi indietro fatti da allora e sul perché oggi si possano addirittura accostare fascismi e femminicidi, dimenticando che la cultura della proprietà estesa anche alle persone, anche alle donne, è semmai il connotato di una visione borghese che il fascismo intese combattere, almeno al suo esordio. E dimenticando anche che semmai il fascismo, sulla scia della nazionalizzazione delle masse studiata da George L. Mosse, fece uscire le donne di casa laddove la cultura proprietaria e maschilista vuole tenercele ben rinchiuse.

Dinanzi a quello che Giorgio Bocca indicava come pericoloso “revisionismo filofascista” certa sinistra preferisce chiudersi a riccio e lanciarsi nell’iperbolico accostamento storico producendo sul fronte contrario un analogo atteggiamento. Infine, va notato che nella persistenza del pregiudizio sul fascismo violento e antifemminista pesa anche il clichè dello stupratore nero confezionato a misura dei violentatori del Circeo. Eppure il Pd, nel 2009, incorse in un incidente poco simpatico quando si scoprì che lo stupratore seriale del Torrino, Luca Bianchini, poi condannato a 14 anni di reclusione, era il presidente di un circolo territoriale dei democratici. La cosa non fece molta impressione perché i media separarono subito le sorti di Bianchini da quelle del partito allora guidato da Walter Veltroni. Non si confezionò, quindi, il clichè dello “stupratore rosso”. Però all’Anpi, dove sono tutti così attenti alle memorie, qualcosa dovrebbero ricordare…

venerdì 15 marzo 2013

I semi in mano ai contadini...

In questo articolo uscito sul Guardian qualche giorno fa, Vandana Shiva accusa le grandi imprese multinazionali di tentare di assumere il controllo della produzione mondiale di semi attraverso l’ingegneria genetica. Ma questo è ormai il tempo del movimento «semi open source»



da una conversazione di Mark Tran con Vandana Shiva

Vandana Shiva non mostra segni di fatica malgrado una intera notte di volo da Delhi e un’ora di audienza dal Principe Carlo; arrivata nella redazione del Guardian presenta con chiarezza estrema le sue idee sull’agricoltura, il cibo, la biodiversità e la «libertà dei semi».

La fondatrice indiana della Navdanya, che ha organizzato una campagna per tutelare la biodiversità e contro il controllo delle imprese sugli alimenti e i semi, dice che l’Africa è diventata il campo di battagli tra due approcci molto diversi all’agricoltura. Il primo è l’approccio agro ecologico, basato sull’uso dei semi tradizionali, sulle produzioni differenziate, su alberi e bestiame, con contadini che dispongono di poca terra e con il diritto al cibo come problema principale. L’altro è un sistema industriale basato sulle monoculture, l’uso di fertilizzanti e di organismi geneticamente modificati, gli Ogm e dove imprese comela Monsanto, Dupont, Syngenta, Basf e Dow sono dominanti.

Non si può avere alcun dubbio da quale parte lei sia schierata, in quanto accusa queste imprese gigantesche di voler cercare di conquistare il controllo della produzione e diffusione mondiale dei semi, attraverso l’ingegneria genetica e dei brevetti scrivendo il Trattato sui diritti alla proprietà intellettuale nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio, la Wto. Cita un rappresentante della Monsanto che ha detto: «scrivendo questo trattato noi saremo il malato, il medico e il farmacista, tutti in una sola entità».

Shiva non è certo nemmeno una ammiratrice della Fondazione di Bill e Melinda Gates, che accusa di spingere in favore di una visione dell’agricoltura basata sugli Ogm e sull’uso dei fertlzzanti. La fondazione, che sostiene il sito del Guardian, «Sviluppo Globale», è uno degli organismi più attivi in agricoltura.

Gli Stati uniti spenderanno quest’anno un miliardo di dollari lottando contro la fame globale – ma questa cifra comprende anche le fattorie di grandi dimensioni- e nel 2009, Il dipartimento per lo Sviluppo internazionale del Regno Unito ha speso circa 20 milioni di sterline. Negli ultimi anni, la fondazione dei Gates ha investito più di due miliardi di dollari cercando di aiutare i contadini con poca terra in Africa e in Asia ad uscire dalla povertà.

In Africa, la fondazione finanzia numerosi enti di ricerca che fanno esperimenti genetici sulle piante e anche Agra, l’Alleanza per una Rivoluzione Verde che ha sede a Nairobi, e che ha come obiettivo di raddoppiare il reddito di 20 milioni di piccoli agricoltori e di dimezzare l’insicurezza alimentare in venti paesi entro il 2020. Anche se i raccolti di piante Ogm sono realizzati soltanto in tre paesi, ciò potrebbe probabilmente cambiare nei prossimi cinque anni.

Tuttavia Shiva è convinta che stia aggredendo la sovranità dell’Africa sui semi. «Agra in se stessa non è molto significativa. Ma a causa dell’abilità di Gates di muovere le leve giuste per ottenere fondi, Agra può avere un impatto notevole» dice Shiva, aggiungendo l’ambasciatore di Agra Kofi Annan sta cercando di ottener fondi perfino dalla Fao, l’organizzazione dell’Onu per l’agricoltura e l’alimentazione.

Sul suo sito web, Agra insiste a dire che non è soltanto un prolungamento di una grande entità filantropica come la Fondazione Gates, ma di essere una entità indipendente con un proprio comitato direttivo e una sua struttura organizzativa. «I nostri finanziamenti provengono da un gran numero di donatori internazionali, mentre la nostra base, i nostri metodi di lavoro e la nostra direzione sono interamente africani», dice Agra.

Gli argomenti fondamentali di Shiva contro gli Ogm, sono che essi rappresentano un «disco di pietra» concettuale, una macina di pietra al collo che non riesce a tenere conto della complessità del mondo reale. «L’idea che si possa avere tutto all’interno di un gene è troppo rigida per maneggiare un sistema vivente complesso – dice – Non ci si può sottrarre ai sistemi di pensiero. Gli Ogm rappresentano un tentativo di trovare una via di fuga, di pensare solo ad un gene e quindi muovere solo quello».

Vandana Shiva respinge anche il concetto che sia possibile isolare un gene per sviluppare una varietà di pianta in grado di resistere sia al sale che alla siccità. «Esistono 1.500 geni resistenti alle variazioni del clima, mentre noi andiamo alla banca dei semi per individuare i geni resistenti alla siccità e scommettiamo sulle cento varietà che dimostrano di avere le maggiori potenzialità. Però in realtà noi ancora non sappiamo che cosa contribuisce a sviluppare una resistenza alla siccità. Questa non è la via più affidabile per trovare delle varietà resistenti alla siccità. La diversità deve ispirare i metodi di lavoro, non esiste la pallottola magica. La diversità è stata la nostra collaboratrice per sviluppare l’adattamento e la resilienza».

Inoltre, dice Shiva, i contadini in India hanno già sviluppato varietà che sono resistenti alla siccità, comela Nalibakuri, la Kalakaya, la Inkiri, e varietà che tollerano il sale, come la Bhundie, la Kalambank. Nella sua campagna per salvare la diversità dei semi, Shiva spinge perché si organizzino gruppi in tutto il mondo che possano salvaguardare i semi e la sua visita in Inghilterra in febbraio faceva parte di questa linea di azione. Descrive il suo movimento come «semi open source», imitando deliberatamente l’open source del software.

Per Shiva, gli Ogm rappresentano venti anni di promesse non rispettate ed errate, che hanno portato all’emergere di piante super resistenti e di nuove malattie incurabili. In India, il cotone Bt (Bacillus Thuringiensis), venduto con il nome di Bollguard, si supponeva dovesse controllare la malattia dei vermi, ma secondo un rapporto dell’anno scorso del Seed Freedom, «l’imperatore Ogm è senza vestiti», il verme è diventato resistente al cotone Bt. Oltre a tutto ciò, nuove malattie sono apparse, e i contadini sono costretti ad usare più pesticidi.

I cambiamenti climatici, riflette Shiva, rendono la biodiversità ancora più importante. «In un periodo di modifiche del clima, il mondo ha bisogno di un sistema biologicamente diversificato – spiega – Il sistema basato sui semi per le monoculture è sbagliato e inadeguato. Il sistema biologicamente diversificato ha prodotto più cibo, e la biodiversità significa che i semi devono essere nelle mani dei contadini».

giovedì 14 marzo 2013

Il caso. Perché quattro parà vittime di una brutale aggressione a Livorno non fanno notizia

















di Michele De Feudis (Barbadillo)

Aggrediti e pestati “perché militari”, fuori ad una discoteca di Livorno, mentre erano con le fidanzate. Una vigliaccata condita dalle grida “fascisti, fascisti”. Nell’Italia buonista di Saviano-Fazio la brutale aggressione subita da quattro carabinieri paracadutisti del Tuscania non fa notizia. Repubblica dedica all’avvenimento cinque righe in cronaca. Gli altri grandi giornali nemmeno quelle.

Questa la ricostruzione delle forze dell’ordine intervenute nei pressi della discoteca livornese “The Cage”: i quattro sono stati aggrediti perché militati “dopo che uno di loro, livornese, era stato riconosciuto all’interno da un altro frequentatore del locale”. L’aggressione, hanno spiegato gli investigatori, è avvenuta all’esterno del locale: almeno 30 persone hanno accerchiato i 4 militari, che erano in compagnia delle loro fidanzate, e subito dopo li hanno colpiti con cinghie e bastoni. “Durante il pestaggio i carabinieri sono stati insultati al grido di «fascisti». I loro aggressori si sono poi dileguati appena udito il suono delle sirene, prima che le pattuglie giungessero sul posto”: così si chiude il dispaccio di agenzia.

Mazze, bastoni, insulti politici a quattro parà con le loro ragazze nella Toscana avvelenata dall’odio ideologico – per i Soloni del giornalismo benpensante – non meritano una breve. Vi immaginate le paginate e le trasmissioni tv ad hoc se un episodio di violenza gratuita e feroce come questo avesse avuto un colore politico differente? I fatti di Livorno sono invece la cifra di un’Italia che non ci piace, nella quale risuonano tetre le parole d’ordine di un pericoloso oscurantismo ideologico. Sul quale non bisogna abbassare la guardia.

martedì 12 marzo 2013

Educazione Siberiana: o tradizione o perdizione













di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale dissidente)

Educazione Siberiana è l’ultimo film del regista premio Oscar Gabriele Salvatores. Tratto dal libro autobiografico di Nicolai Lilin, la pellicola ci racconta di un mondo che secondo alcuni non ha nessun fondamento storico, e di cui la veridicità è difficile da stabilire. Lo scrittore parla di una comunità di “onesti” criminali Siberiani deportati ai tempi del Pcus staliniano in una regione della ex-Repubblica socialista sovietica moldova, in Transnistria, oggi attuale Moldova.

Oltre la dubbia ma presunta veridicità storica, la trama del film rimane incredibilmente avvincente e affascinante, e la storia si snoda attraverso le vite di due personaggi, Kolyma e Gagarin. Legati sin dall’infanzia dal nonno Kuzya, portatore e contenitore di valori e tradizioni, i due percorreranno percorsi esistenziali diversi.

Certo che “valori” e “criminalità” sembrano concetti antitetici e anche in questo caso si tende a moralizzare e a giustificare la violenza. Ma la comunità siberiana, pur essendo composta da criminali – perché fuorilegge – e assassini, non conta delinquenti, e il siberiano ha una sua antropologia particolare, non è un assassino per il piacere di uccidere, non è un libertino lascivo e drogato, ma è il rappresentante di un codice morale totalmente ribelle e fuori dagli schemi. La comunità non fa uso di stupefacenti né organizza traffici di droga, non porta i soldi – ritenuti sporchi – nella propria casa, è profondamente credente, porta rispetto per tutte le creature viventi tranne che “per la polizia, i banchieri, gli usurai” e “rubare a queste persone è permesso”. Kolyma e Gagarin nascono in questo contesto, educati rigidamente secondo la tradizione, e ricevono a dieci anni la loro prima “picca”, il coltello che per il siberiano “è come la croce” e lo accompagna per il resto della sua vita. Le strade si dividono quando i due giovani tentano di svaligiare un carico militare e Gagarin viene arrestato e condannato a scontare sette anni di carcere.
Kolyma continua a vivere a Fiume Basso, nella comunità, dove comincia a svolgere l’attività di tatuatore. “Il tatuatore è come un confessore. Racconta la storia di un uomo sul suo corpo”: queste le parole di Ink, il maestro di ago e inchiostro del villaggio.

Quando Gagarin esce di prigione il vecchio gruppo si riunisce ma le cose cambiano, L’Unione Sovietica è crollata, i traffici di droga si intensificano, la criminalità diventa sciatta e perde ogni codice d’onore, il mito Occidentale, quello del consumismo edonista, diventa un obbiettivo idolatrato da quei paesi “liberati” dal comunismo. E Gagarin, in questo lasso di tempo, aveva frequentato quelli del “seme nero” una banda rivale dei siberiani che gestisce droga, prostituzione e gioco d’azzardo. Quando torna nella comunità è sradicato dalle sue fondamenta – da quelle origini che invece guidano Kolyma – e non ha più un’idea di giusto e sbagliato, la sua “moralità” da criminale “per bene” è degenerata e il suo fine ultimo, ora, è quello di divenire ricco. Fa uso di droghe e frequenta le bische clandestine, si perde in quel mondo sotterraneo in cui la criminalità non è un mezzo e non ha fini, ma è un circolo edonista dove la giornata si misura secondo il metro della lussuria e del piacere.

O tradizione o perdizione, questo il messaggio finale di un film che seppure con qualche sparata esagerata dalle rimembranze hollywoodiane mette in evidenza il valore della vita quando si è padroni, proprietari e portatori, di un codice morale, di un sistema di valori, di punti di riferimento che pur lontani dai nostri servono da giuda spirituale nella lotta per la sopravvivenza tra i ghiacci e i freddi dell’Est.

Gagarin rappresenta l’”altro”, l’estraneo, il singolo deresponsabilizzato e alienato, che ha abbandonato ogni valore per gettarsi con foga nell’universo dell’epopea individuale: ricchezza, successo, fama, piacere, si è fatto succube di quelle istanze irrefrenabili e insaziabili che si avvicinano più all’istinto animale che non a quello umano.

La parabola del lupo, tratta dal libro di Nicolai Lilin, in cui si esplica un’interpretazione del film:

“Quella fiaba parlava di un branco di lupi che erano messi un po’ male perché non mangiavano da parecchio tempo, insomma attraversavano un brutto periodo. Il vecchio lupo capo branco però tranquillizzava tutti, chiedeva ai suoi compagni di avere pazienza e aspettare, tanto prima o poi sarebbero passati branchi di cinghiali o di cervi, e loro avrebbero fatto una caccia ricca e si sarebbero finalmente riempiti la pancia. Un lupo giovane, però, che non aveva nessuna voglia di aspettare, si mise a cercare una soluzione rapida al problema. Decise di uscire dal bosco e di andare a chiedere il cibo agli uomini. Il vecchio lupo provò a fermarlo, disse che se lui fosse andato a prendere il cibo dagli uomini sarebbe cambiato e non sarebbe più stato un lupo. Il giovane lupo non lo prese sul serio, rispose con cattiveria che per riempire lo stomaco non serviva a niente seguire regole precise, l’importante era riempirlo. Detto questo, se ne andò verso il villaggio.
Gli uomini lo nutrirono coi loro avanzi, e ogni volta che il giovane lupo si riempiva lo stomaco pensava di tornare nel bosco per unirsi agli altri, però poi lo prendeva il sonno e lui rimandava ogni volta il ritorno, finché non dimenticò completamente la vita di branco, il piacere della caccia, l’emozione di dividere la preda con i compagni.
Cominciò ad andare a caccia con gli uomini, ad aiutare loro anziché i lupi con cui era nato e cresciuto. Un giorno, durante la caccia, un uomo sparò a un vecchio lupo che cadde a terra ferito. Il giovane lupo corse verso di lui per portarlo al suo padrone, e mentre cercava di prenderlo con i denti si accorse che era il vecchio capo branco. Si vergognò, non sapeva cosa dirgli. Fu il vecchio lupo a riempire quel silenzio con le sue ultime parole:
“Ho vissuto la mia vita come un lupo degno, ho cacciato molto e ho diviso con i miei fratelli tante prede, così adesso sto morendo felice. Invece tu vivrai la tua vita nella vergogna, da solo, in un mondo a cui non appartieni, perché hai rifiutato la dignità di lupo libero per avere la pancia piena. Sei diventato indegno. Ovunque andrai, tutti ti tratteranno con disprezzo, non appartieni né al mondo dei lupi né a quello degli uomini . . . Così capirai che la fame viene e passa, ma la dignità una volta persa non torna più.”