di Mario M. Merlino
(da ereticamente.net)
Devo premettere come questo mio intervento nasca da un aforisma di Nietzsche – forse a me ignoto o abbandonato dalla memoria - , che l’amico Giacinto R. ha messo su FB e dandomi così il destro a fare quattro chiacchiere a distanza con i lettori di Ereticamente. E, come ormai sanno e sopportano (mi auguro), prenderò da lontano l’argomento e, va da sè, con divagazioni dell’immarcescibile Io-Io-solo Io-sempre Io… Da bambino e, poi, da ragazzotto ardito e fiero (si fa tanto per non perdere il vizio!), ero assiduo frequentatore di tutte le sale cinematografiche ove si proiettassero film western o kolossal pseudo-storici o, ancora, di forzuti eroi mitologici. Insomma la ricerca di miti e modelli a compensare un fisico scadente e un profilo assai bruttino premessa, se vogliamo dare al destino un ruolo significativo, a quella spranga e bottiglia immortalate nel celebre poster su Valle Giulia, 1 marzo del 1968 (se avete pazienza, suvvia!, cum lento pede – suppongo pessima citazione latina – arriveremo a giustificare il suo riferimento).
Ricordo, ad esempio, Sinuhe l’egiziano, anno 1954, tratto dal romanzo dello scrittore finlandese Mika Waltari, anno 1945, di cui credo avere ancora una copia se non abbandonato, al quanto mal volentieri, insieme ad altri tre o quattrocento libri durante il trasloco di casa in casa. E, con l’ultima citazione latina, ‘omnia mea mecum porto’, attribuita da alcuni a Simonide, mi consolo, pur rosicando interiormente… Va be’, sia il libro che il film sono libere trasposizioni de Le avventure di Sinuhe, fra le più importanti opere della letteratura dell’Antico Egitto tanto da divenire oggetto di studio nelle scuole, per cui abbiamo innumerevoli reperti in cocci pietre manoscritti, pur se frammentari. Fra l’altro si narra di come gli egiziani venissero battuti dagli Ittiti, popolazione indo-europea, di certo meno raffinata e colta, ma in possesso dell’uso d’armi di ferro e del carro da guerra (si pensi a quell’episodio fondamentale all’interno del poema epico indiano Mahabharata, la Bhagavad-Gita, ove il dio Krishna parla attraverso il cuore ad Arjuna sul campo di lotta. Arjuna, valente guerriero, guida un carro da battaglia e viene descritto abile arciere. Caratteristiche, dunque, comuni alle genti Arya. Inoltre, alle esitazioni ‘umane, troppo umane’ contro l’uccidere in guerra, Krishna insegna – e anche qui siamo all’interno di quell’universo valoriale degli indo-europei – l’impersonalità dell’agire, quel senso del dovere a cui deve adeguarsi ogni giusto comportamento dell’uomo).
Ed eccoci all’aforisma di Nietzsche: ‘Solo chi ha la freccia e l’arco è capace di assidersi silenzioso: tutti gli altri sono chiacchieroni litigiosi’. Grazie, Giacinto, ma ora cammino con le mie gambe… Proverò a dare ad esso una duplice risposta così come ho rilevato, in precedenza il duplice motivo di superiorità delle genti Arya, cioè il possesso di strumenti da combattimento superiori (si pensi alla falange macedone o alla legione romana) e ad un atteggiamento di disciplina di fronte alla vita (basterà qui rinnovare l’immagine del soldato romano, tanto cara ad Oswald Spengler, rimasto fedele alla consegna durante l’eruzione del Vulcano che distrusse Pompei ed Ercolano). L’arco è arma da usare a distanza e la freccia il mezzo che colma questa distanza. ‘Prendere le distanze’, come il ‘lasciare la presa’ per gli orientali, indica una consapevolezza più grande, un’audacia più grande, una visione più grande, simile all’aquila amica di Zarathustra. Ed è il presupposto per quell’’amor fati’ con cui Nietzsche ci avverte e ci ammonisce: amare il proprio destino equivale a stare in piedi fra le rovine, danzare a passo lieve come il dio Dioniso, andare al di là del bene e del male, accettare l’esistenza quale ‘eterno ritorno’… Scegliere per non essere scelti (o, se si preferisce con maggiore correttezza filologica, dato che siamo scelti, facciamo ‘nostra’ questa scelta) e, ancor più con il merlinite linguaggio, ‘faccia al sole e in culo al mondo’…
Varrà la pena ricordarlo e farne lezione quando e se verranno ulteriori mala tempora. Se, poi, tutto questo a cui siamo sottoposti è nichilismo (‘l’oggi appartiene alla plebe’, ricorda sempre Nietzsche), noi nichilisti attivi, per cui aderimmo al Fascismo ‘immenso e rosso’ quale volontà di reazione/rivoluzione trasformando le masse in popolo, bene saremo ‘bastonate e barricate’ ideali se non abbiamo più l’età per battere ‘in piazza il calpestio delle rivolte’, per dirla con il poeta futurista russo Majakovskij.
Al convegno di mercoledì 13 marzo, all’Universale, dal titolo La lunga marcia del ’68 (ecco svelato il riferimento a Valle Giulia), parlando dell’anarcofascismo della cultura di destra, esprimevo il mio augurio che, dopo il populismo, autentico o meno che sia, del fenomeno Grillo, si aprisse la stagione dove ognuno di noi deve stabilire se stare su posizioni di retroguardia a difesa, di fatto, di banche urne borghesi timorosi magistrati inquisitori manganelli manette e lacrimogeni oppure quel ‘vivere in costante pericolo’ e, cioè, essere comunque e nonostante tutto esseri in cammino esseri contro, incuranti di chi possano essere i compagni di strada il colore delle loro bandiere magari il vetero anacronistico linguaggio, da cui non riescono a liberarsi, perché solo così incontreremo ‘in quantità di sacrificio ed amore’ il popolo…
E ancora una considerazione: se, poi, l’arco e le frecce fossero la forza con cui il potere di sempre, l’oro contro il sangue, si manifesta tramite banche ed urne, che almeno si sia capaci di guardare avanti a noi e vedere lo scoccare e il sibilo e il giungere della freccia letale senza giustificazioni lagne consolazioni (ancora una volta ho sentito dire il solito ritornello che abbiamo intuito ragionato capito, ma sono stati gli altri a scippare intuizioni ragioni capacità di tradurre in atto le nostre analisi dotte e precise!). Soprattutto evitiamo di fare come i topi che abbandonano la nave… A Campo di Fiori la cupa statua di Giordano Bruno ci ricorda come un cronista del tempo ricordasse che il filosofo accettò di essere arso al rogo nella pubblica piazza perché ‘martire e volentieri’. E noi – io credo e lo credo fermamente – siamo e possiamo essere della razza dei vincitori… nel nostro cuore, nella mente, con stile e, se occorre, in piazza.