di Angelo Maggio
“Inquietum est cor nostrum donec non requiescat in te” (il nostro cuore non ha pace, finché non riposa in te). Sant’Agostino
Ritorno al bosco… Queste tre parole racchiudono il programma e il testamento di Ernst Jünger. La metafora del bosco serve a comprendere che, come una foresta è selvaggia, intricata, segreta, piena di “sentieri interrotti” (ossia quei sentieri che solo i boscaioli esperti conoscono bene fino in fondo e che comunque sembra non portino mai da nessuna parte), allo stesso modo il nostro “cuore”, il nostro “petto”, ha di per sé una natura caotica, primordiale, selvatica che non va assolutamente repressa o soppressa, ma anzi salvaguardata ed esplorata con lo spirito di avventura e sacralità che contraddistingue il nostro rapporto con la natura. Ma ascoltiamo le parole stesse di Jünger: «il bosco è segreto. Heimlich, segreto, è una di quelle parole della lingua tedesca che racchiudono in sé anche il proprio contrario. Segreto è l’intimo, ben protetto focolare, baluardo di sicurezza. Ma nello stesso tempo è anche ciò che è clandestino, assai prossimo, in questa accezione all’Unheimliche, l’inquietante, il perturbante… » (da “Il trattato del Ribelle”).
L’atteggiamento e il contegno che deve tenere il “Ribelle” ( non si intende certo la ribellione sessantottina o quella adolescenziale alla Fabrizio Corona! ), ossia colui che decide di ritornare al bosco, può essere definito come “Realismo eroico”, nel senso che si sceglie in prima persona di affrontare la realtà , gettandosi a capofitto in questa ricerca mettendo in conto delle spiacevoli conseguenze, senza tuttavia farsi impietrire dalla paura che tutto disperde. Ecco, la realtà… In che cosa consiste in ultima istanza questa realtà? Compiendo una attenta disamina del pensiero di Dostoevskij, Nietzsche e di buona parte del pensiero filosofico, politico e letterario dell’occidente moderno, il nostro autore giunge alla conclusione che il processo che sta alla base della realtà, di tutta la realtà, sia un fenomeno di “dissolvenza verso il punto zero”, una tendenza verso il Niente vuoto, una Nullificazione. Da qui giunge l’aver con troppa fretta tacciato il pensiero jungeriano di “nichilismo”. Eppure, a differenza di molti pensatori contemporanei (per esempio Umberto Galimberti, secondo il quale il nichilismo è un “ospite inquietante” che non si può in alcun modo scacciare, ma con cui bisogna fare i conti ) il nostro autore è convinto che il mare del nulla possa effettivamente ritrarsi, lasciando sulle bianche rive tesori inaspettati. Esiste, in buona sostanza, una via d’uscita alla dissolvenza? Ci si può sottrarre all’inabissamento verso il Meridiano Zero? Certo che sì, e questa certezza è il nocciolo del Realismo eroico: « Il proprio petto. Qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso» (da”Oltre la Linea”).
Siamo di fronte a una lotta e il terreno in cui si combatte questa lotta è il “proprio petto”. Il nemico, invece, è il Niente. All’interno del proprio petto, ciascuno combatte la sua lotta contro il niente. In questo contesto di “Lotta Spirituale” è davvero significativo e voluto il richiamo al Deserto e alla Tebaide, il luogo in cui si forgiarono nei primi secoli dopo Cristo gli asceti e gli eremiti che, sull’esempio di Antonio il Grande, si ritiravano in solitudine per combattere in prima persona contro i demoni e contro le proprie inclinazioni malvagie. Il deserto, l’èremos, racchiude in sé due importanti significati: è innanzitutto luogo solitario per eccellenza ed è anche il posto più arido che si possa immaginare. Si combatte il niente affrontandolo nel suo luogo originario, nel suo elemento fondativo. D’altra parte, nel deserto anche Gesù ha dovuto affrontare la sua lotto contro il maligno, ben sapendo che era proprio e solo lì che lo avrebbe incontrato in tutta la sua “realtà” (cfr. Matteo 4, 1-11; Luca 4, 1-13; Marco 1, 12-13).
Guardare in faccia il nemico e affrontarlo, è l’inizio della più grande ascesi, di ogni ascesi! Il realismo eroico è lo spirito della lotta che si combatte nel nascosto, nel solitario, nell’arido e inesorabile deserto. Il deserto è anche la sede del pericolo estremo, ossia il pericolo di annientamento. Ora, concludiamo questa breve disamina, riecheggiando il pensiero del grande Hölderlin e riportando un sua aforisma tanto caro anche al filosofo tedesco Martin Heidegger (entrambi hanno spesso collaborato e il frutto più bello di tale confronto reciproco è il saggio Oltre linea), altro grande interlocutore di Jünger: “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. In questa frase vi sono due verbi che indicano differenti modi di essere: il pericolo c’è, semplicemente, mentre la salvezza cresce. Il pericolo si aggira come un leone in cerca di chi sbranare, è presente e s’insinua dappertutto, ciò che salva invece va fatto crescere con pazienza, con il lavoro sapiente del contadino, oppure con la tenacia e lo spirito di avventura di chi si addentra in un bosco per farvi legna o un’escursione.