di Gloria Sabatini (Secolo d'Italia)
La perfida Albione scopre il fascista Mario Sironi, il grande pittore amico di Mussolini che nel 1915 si arruolò nel Battaglione Volontari Ciclisti insieme a Boccioni, Marinetti e Sant’Elia. Il 30 dicembre, con raro spregio del “pericolo”, il Financial Times ha dedicato un lungo articolo di Rachel Spence al grande Maestro del Novecento che, dopo vent’anni di silenzio, è tornato a Roma con una grande retrospettiva (fino al 9 febbraio) nel complesso del Vittoriano.
Ingiustamente trascurato
«Oggi, il nome di Mario Sironi è a malapena conosciuto fuori d’Italia. Anche lì, la sua reputazione di artista è stato “sporcata” dalla sua politica fascista» è l’incipit della recensione dal titolo “Mario Sironi 1885-1961 Il complesso del Vittoriano, una mostra sterling” (genuina, pura, ndr) di opere di questo artista italiano ingiustamente trascurato”. Novanta dipinti, bozzetti, riviste, e un importante carteggio con il mondo della cultura del Novecento mettono in chiaro la statura europea di Sironi, dal simbolismo degli inizi alla stagione futurista e metafisica fino alla pittura murale degli anni Quaranta (Il lavoratore e L’Impero del 1936). «Evviva allora – scrive il quotidiano londinese – per questa mostra che raccoglie dipinti, opere su carta, studi per i murales pubblici che sono stati commissionati dal regime di Mussolini, e, soprattutto, gli ultimi, meravigliosi, dipinti del dopoguerra».
Mussoliniano doc
«Sironi è stato mussoliniano – spiega la curatrice della mostra romana, Elena Pontiggia – ma, per parafrasareVittorini, non ha mai suonato il piffero della rivoluzione fascista perché la sua arte, intrisa di dramma, era più funzionale alla verità che alla propaganda». Ma insomma, si chiede il Ft, quanto la politica ha influenzato l’opera di Sironi? «Una volta ha detto di aver trovato la politica “indigesta” e ha dichiarato che il lavoro del gruppo di Novecento era privo di “intento politico”. Inconsciamente, però, sembra aver intuito la miseria latente del credo fascista…», scrive il giornalista timoroso di spingersi troppo in là nella fascinazione per il grande pittore-architetto dalla vocazione sociale. E allora arrivano i “necessari” chiaroscuri: «Una serie di paesaggi urbani – “Paesaggio urbano con camion” (1920), “The Tram” (1920), “Il Duomo” (1921) – mostra un mondo spogliato fino all’essenziale più tetro. In grigi scoscesi e marroni di fango, Sironi dipinse strade vuote fiancheggiate da edifici angolari, senza luce. Qua e là, la presenza di umanità anonima – un cavaliere solitario, un autista in una berlina nera, un camion senza finestre – aggrava lo stato d’animo di perdita esistenziale».
Il fascismo di sinistra
Per Sironi, invece, come si deduce dai suoi scritti, il fascismo significa «il sogno di una rinascita dell’Italia, e quindi dell’arte italiana». Ma anche il desiderio di «andare verso il popolo», per usare l’espressione del Duce, dunque il sogno di un’arte destinata non ai salotti e ai facoltosi collezionisti, ma alle piazze e ai muri degli edifici, per tutti. Quando Arturo Martini, nel 1944, diceva che Sironi «credeva di essere fascista, invece era d’animo bolscevico e quasi abissale» voleva indicare il senso del fascismo sironiano, un fascismo “immenso e rosso” per dirla con Brasillach. Ma questo il quotidiano della City non poteva saperlo.