domenica 28 luglio 2013

Il caso. Quando per i britannici il fascismo non era né di destra né braccio armato del capitale

di Luca Gallesi

Quando si parla di fascismo inglese, generalmente si pensa a qualche isolato ed eccentrico gentleman come Sir Oswald Mosley, oppure ci si immagina una banda di rozzi hooligans, più propensi ad alzare il gomito e le mani piuttosto che a leggere e a pensare. Ebbene, nulla è più lontano dal vero, come dimostra uno storico inglese, Tom Villis, già apprezzato autore di studi sul «protofascismo» britannico come Reaction and the Avant-Garde (Tauris Academic Studies, 2006), che ha appena licenziato per i tipi di Palgrave-MacMillan British Catholics and Fascism (pagg. 280, £ 60), un documentato saggio che fa piazza pulita di stereotipati luoghi comuni, riaprendo la discussione sull’essenza del Fascismo, che sembra ben lungi dall’essere chiusa. Villis non affronta il fascismo inglese nel suo complesso, ma approfondisce i rapporti tra Fascismo e Cattolicesimo, che ebbero più di un punto in comune, a partire dall’importanza dell’idea di Roma, mito fondante fascista e sede del Vaticano, per finire sullo stesso fronte anticomunista nella Guerra civile di Spagna.
Discriminata, quando non perseguitata, fino al 1829, anno di approvazione dell’Emancipation Act, quella cattolica nel Regno Unito è una minoranza perennemente all’opposizione e costantemente critica verso le ingiustizie palesi del capitalismo finanziario. La dottrina della Chiesa cattolica, soprattutto con le encicliche Rerum Novarum e Quadragesimo Anno aveva analizzato la crisi del liberalismo, con una diagnosi non molto lontana da quella del fascismo italiano, come cercano di dimostrare i due intellettuali cattolici più rappresentativi: G.K. Chesterton e Hilaire Belloc, che ebbero entrambi incontri personali con Mussolini, verso cui non risparmiarono elogi, arrivando ad appoggiare e difendere la conquista italiana dell’Abissinia.
Sempre a proposito di intellettuali, Villis fa notare che furono molte altre le brillanti penne a subire il fascino della tentazione fascista, a cominciare dallo studioso A.J.Penty, che vide nell’Impresa di Fiume il primo tentativo di mettere in pratica la Rerum Novarum, passando per lo storico Christopher Dawson, definito da T.S.Eliot nel 1930 «l’intellettuale più influente d’Inghilterra», che vide nel Fascismo un’ordine spirituale superiore e uno «spiritualismo dinamico», per finire con James Strachey Barnes, prototipo dell’eroe dannunziano, che dopo aver frequentato l’intellighenzia britannica, da Bertrand Russell a J.M.Keynes, e da Henry James a T.E.Lawrence, abbracciò così entusiasticamente il Fascismo da essere nominato da Mussolini direttore del Centre International d’Etudes sur le Fascisme di Losanna, mentre la sua autobiografia ebbe l’onore di una prefazione del Duce.
Per quello che riguarda l’essenza del fascismo, invece, stupisce come in Inghilterra, almeno negli ambienti colti e minoritari presi in considerazione, la rivoluzione italiana non è minimamente considerata di destra né, tantomeno, il braccio armato del capitalismo. Riviste come Order e The Colosseum, diretta da Bernard Wall, aprirono le loro pagine al dibattito sul Fascismo come fenomeno originale a respiro europeo, ospitando interventi di Giovanni Papini e Robert Brasillach.
Quello che colpisce, nel libro, è la varietà delle simpatie britanniche verso il Fascismo, che qui sono considerate soltanto da parte degli intellettuali cattolici, escludendo quindi la maggioranza protestante degli inglesi, che a sua volta non fu affatto immune dalla tentazione fascista o addirittura nazista, come, ad esempio, accadde al celebre P.G.Wodehouse. Le soprese toccano anche il campo della morale. Villis ci ricorda che, tra le adesioni entusiastiche di inglesi al fascismo, ci furono anche quelle di sorprendenti figure di lesbiche dichiarate, come l’importante scrittrice Radclyffe Hall, meglio nota come John, e la sua amante Una Troubridge, che negli anni Trenta si trasferirono in Italia per meglio manifestare la loro purissima fede fascista.