mercoledì 10 luglio 2013

Il trentennale. Vattani: “SottoFasciaSemplice musica d’acciaio contro ogni censura”...

Mario Vattani incarna la scelta di vita di un originale sperimentatore che incrocia più discipline, un viandante a cavallo tra Oriente e Occidente che dissemina il suo percorso di tracce preziose e suggestioni non conformiste. È anche un diplomatico italiano che ha ricoperto incarichi di prestigio, un candidato nell’ultima tornata elettorale delle politiche, un caso di cronaca montato strumentalmente da certa stampa. Mario Vattani è un artista a tutto tondo che ha scelto come mezzo espressivo la musica, senza mai perdere il contatto con le immagini che essa dovrebbe riuscire a evocare. Una sorta di “musica da film, utile a far emergere delle visioni”, resa inconfondibile dal timbro della sua voce, bassa e profonda, e da uno stile esecutivo più recitato che cantato. A trent’anni dalla nascita del suo progetto, i SottoFasciaSemplice, Vattani racconta a Barbadillo la sua maturazione artistica che lo ha condotto in un viaggio lungo cinque album. Un’occasione, questa, per conoscere l’artista e per l’artista di rispondere così alle accuse: «Con il sorriso, l’arma invincibile».

Oramai a distanza di tempo, cosa pensa delle polemiche che si sono scatenate intorno alla sua attività di musicista?

C’è stata un’operazione sistematica di disinformazione sulle canzoni e sul gruppo. Certamente è una musica che può non piacere al grande pubblico, pazienza. Ma il messaggio, anche se i toni sono gotici e spesso ruvidi, è positivo e solare. Invece c’è stato un vero e proprio linciaggio mediatico, fatto da persone poco informate e in malafede. Per mesi, insulti e falsità di ogni genere. Sono circolate immagini, parole volutamente travisate, testi ritagliati ad arte. Sono stati addirittura presentati come miei i testi di altri gruppi. In realtà la band è forse l’esatto contrario di come è stata descritta, e penso sia salutare, a un anno di distanza dalle polemiche, parlare della sua dimensione artistica. Anche perché questi raffinati “democratici” che mi hanno perseguitato per mesi, hanno di fatto applicato loro i metodi dei regimi totalitari: marchiare di infamia una forma artistica, travisarla, ridicolizzarla, mettere gli artisti alla gogna, imporgli l’autocensura. La musica è un’arte, esattamente come il cinema e il teatro. Può piacere o non piacere, ma non la si può censurare né tantomeno sopprimere.

Come nasce un progetto sperimentale come quello dei SFS?

Nel 1983 vivevo a Londra, e il mio contesto musicale era il rock inglese. Lavoravo in uno studio di registrazione, avevo un gruppo che faceva musica punk, totalmente apolitico, e suonavo il basso. SFS nasce allora perché volevo creare un progetto che fosse completamente mio, in italiano, e che diventasse uno strumento per raccontare ciò che mi colpiva, o mi commuoveva, usando anche immagini prese in prestito dalla storia.

Quali sono state le fonti musicali di ispirazione?

All’inizio l’heavy metal in generale, i Motorhead, gli Exploited, ma anche i Joy Division, e tutto il post punk. Poi, mano mano altre influenze fino a Tom Waits, a Trent Reznor e i NIN. La musica rock e pop italiana, invece, la trovavo sempre profondamente ottusa e schematica. Era difficile suonare qui. Molta bravura tecnica, ma poi ogni genere doveva essere incasellato. In Inghilterra c’era una libertà totale. A scuola avevamo i “music rooms”, e tutti facevano come volevano. Così si fa arte. Poi c’è anche da dire che io, cresciuto in Inghilterra, sapevo poco della musica italiana e al massimo sentivo Branduardi.

Si nasconde un’esigenza stilistica dietro la necessità di recitare, invece che cantare, le canzoni degli SFS?

All’inizio l’heavy metal in generale, i Motorhead, gli Exploited, ma anche i Joy Division, e tutto il post punk. Poi, mano mano altre influenze fino a Tom Waits, a Trent Reznor e i NIN. La musica rock e pop italiana, invece, la trovavo sempre profondamente ottusa e schematica. Era difficile suonare qui. Molta bravura tecnica, ma poi ogni genere doveva essere incasellato. In Inghilterra c’era una libertà totale. A scuola avevamo i “music rooms”, e tutti facevano come volevano. Così si fa arte. Poi c’è anche da dire che io, cresciuto in Inghilterra, sapevo poco della musica italiana e al massimo sentivo Branduardi.
Il vantaggio dell’italiano è quello delle sillabe. È una lingua che si adatta benissimo al ritmo. Persino il rap in italiano sembra venire meglio di quello in inglese. Ma per me il migliore approccio con questa lingua è quello di renderlo teatrale, quasi operistico. Difficile adeguarlo al rock semplice. Ci si deve fare qualcosa di strano. Quello che ho sempre amato e ricercato poi è la dissonanza, il suono poco definito, e spero di essere riuscito a comunicarla anche nella voce. Sembro stonato ma in realtà non lo sono, lo faccio quasi apposta. Non mi piace fare tutto pulitino, e voglio che la chitarra suoni come una sirena. Quando canto, poi, cerco la freddezza. La crudezza. Non deve esserci nulla di sentimentale. Le parole devono dire tutto, e le emozioni devono stare solo nel testo e nella musica, non nel cantato. Bisogna essere freddi per sentire il calore originale. Come descrive bene la sigla magica del gruppo: fredda, severa, cupa ma allo stesso tempo solare.

A proposito della sigla, quella come nasce?

A quei tempi tutto intorno a me parlava di occulto, di rune e di gotico. Passavo molto tempo nello studio dove registravano Death in June e Sol Invictus. Le rune SFS significavano “alla base dell’ispirazione divina deve esserci la gioia”. Concetto che si allaccia alla tematica, ricorrente in tutti i dischi, del sorriso come arma invincibile: “Due falci di luna, un sorriso d’acciaio che tutto taglia”. Mai farsi prendere dall’ira.

Da quando è nato il progetto c’è stata un’evoluzione nei testi?

C’è stata un’evoluzione personale che poi è stata anche politica, testimoniata dal susseguirsi “mishimiano” dei personaggi che danno i nomi agli album. Gambadilegno, il primo, testimonia un passato di rabbia che ricorda com’ero prima. Perseo è triste, è un disco cupo, è quello che mi piace di meno. In Crociato si cambia registro, quando l’ho scritto ero in Egitto e lì scoprivo l’islam e la dolcezza del mediterraneo. Questo appassionarsi di forme non occidentali. Il titolo Crociato viene da quello, la storia dei soldati o degli avventurieri che andavano in oriente e si innamoravano di quel mondo, senza poter più tornare a casa loro. Poi mi sono fermato per anni, ripartendo con Idrovolante, purificato. Oramai ero in Giappone da 5 anni, erano nati i miei figli e forse la mia vita si era meglio definita.

SFS è uno dei pochi gruppi di musica alternativa che non induce nel retorico e abbandona una narrazione forzatamente eroica.

Sì perché io sono ossessionato dalla realtà. Questo per esempio è uno dei motivi che mi hanno spinto verso le arti marziali e poi al kendo. Sentirsi sempre parlare intorno di cavalieri, battaglie infinite, eppoi accorgersi che bastavano pochi minuti di gara o di allenamento per restare senza fiato. Anche in canzoni come Alla prossima il facile mito della guerra a oltranza viene decomposto. Forse in SFS non si canta molto l’eroismo perché l’eroismo credo consista in una scelta iniziale, che ti costringe poi a una serie di scelte successive.

La canzone “Come mai” è diventata un manifesto politico. Era quella la sua intenzione?

È la più nota, ma non è la mia preferita, perché sembra fatta troppo a tavolino, è troppo pop. Nasce come una specie di “dono” per un ragazzo o una ragazza che a scuola o l’università si senta prendere in giro per la sua diversità rispetto alla massa, e magari esita.

E “W l’Itaglia”?

Quella forse che è più vicina alla mia esperienza, anche all’estero. La trovo attualissima, anzi profetica, nonostante sia nata prima del Governo Monti e di tutto il resto. Anche oggi con la notizia del passaggio di Loro Piana al colosso LVMH, si vede come continua pezzo per pezzo l’operazione di svendita delle nostre eccellenze.

Citando la strofa di una canzone: all’Italia di oggi “Serve un’invenzione?”

Sì. Bisogna prendersi spazio nell’unico campo in cui gli occidentali sono veramente avanti rispetto a tutti: l’arte come ricerca del sublime. Come “area” poi, occorrerebbe essere più aperti e attivi nell’arte contemporanea, ma non in modo strumentale o per strategia: serve per vivere in modo più libero la propria identità. Per questo in SFS ho utilizzato tutto quello che c’era a disposizione. La scelta è quella dionisiaca di levare i freni inibitori e raggiungere un’alba migliore e più libera.

di Federico Callegaro, per Barbadillo.it