mercoledì 28 maggio 2014

La deindustrializzazione in Italia: un’analisi


di Francesco Boezi (L'Intellettuale Dissidente)

Sono dell’autunno dell’anno scorso le notizie che ci danno in netto calo nelle classifiche europee per quanto riguarda il settore industriale, superati dalla Spagna e persino scalzata dalla Grecia del deficit per quanto attiene ad alcuni fattori di produttività. Ma proponiamo questa analisi procedendo per vie temporali: è il 1947 , col Trattato di Parigi, De Gasperi cede una parte della nostra sovranità ed ottiene di essere seguito per mano dagli USA, leggasi Piano Marshall, per far tornare questo paese in una condizione sostenibile. La situazione economica-industriale del paese è, infatti, in difficoltà nitida a causa della guerra appena combattuta ed ha così inizio il processo di ricostruzione .Al centro del tutto c’è il fattore energetico, quindi Mattei, fino al miracolo degli anni 60′, sintetizzando estremamente il processo di cui si parla. 

A questo punto il mondo si accorge che l’Italia è andata a scavalcare la Francia e insidia persino la Germania quale prima potenza industriale europea. Cosa è cambiato da quegli anni ad oggi affinchè tutto ciò venisse così profondamente invertito fino a farci restare, assieme alla Finlandia, come l’unico paese europeo che non solo non cresce a livello industriale ma decresce persino? Alcuni sostengono che non siano un caso gli episodi delle morti di Mattei e Moro e legano profondamente questi eventi da una parte al fastidio che l’Italia stava dando a grosse compagnie petrolifere, dall’altro al fatto che l’entrata dei comunisti al governo con Moro avrebbe inibito la possibiità di utilizzo del nucleare, altro grosso interesse da tenere d’occhio per capire a fondo questa vicenda. Tra i sostenitori di questo genere di tesi, va ricordato, su tutti, Nino Galloni che già nel 2007 pubblicò un libro dal titolo “Il grande mutuo.

Le ragioni profonde della prossima crisi finanziaria” e nel 2005 aveva dato alle stampe “Misteri dell’euro, misfatti della finanza”. Seguendo sempre questa linea di pensiero, arriviamo agli anni 80′, gli anni dove prevalsero le tesi supereuropeiste dei Ciampi per intenderci, cui diede seguito l’attuazione di un programma di destrutturazione del settore pubblico legato alle famose privatizzazioni che paiono proprio essere poste lungo il filone di una visione antisovranista, da alcuni chiamata, senza troppi fronzoli, antitaliana. Un vero e proprio depauperamento delle nostre industrie di stato, quelli che in gergo politico alcuni hanno osato chiamare ” i gioielli di famiglia”. Da questo punto, si va dritti fino alla costituzione dell’UE per come la conosciamo, con la BCE, la moneta unica e la contemporanea scomparsa dell’Italia industriale. Cosa ci ha ridotto così? Realmente ci fu un patto tra Kohl e Mitterand teso a far concretizzare l’unificazione tedesca in cambio dell’abbandono del marco e della deindustrializzazione italiana?

La sensazione è che, per quante tesi possano costituirsi, è consolidata l’immagine di una classe politica sin troppo stantìa dinanzi a questo processo, se non complice, quantomeno incapace di leggere a fondo le situazioni e gli esiti delle stesse, su tutte le privatizzazioni citate e le mancate liberalizzazioni susseguenti. All’interno di questo quadro, l’esecutivo Ue ci fa notare che: l’esecutivo Ue, “i salari reali sono rimasti pressoché stabili, evidenziando l’importanza di colmare il divario di produttività e nel contempo di migliorare l’allineamento dei salari alla produttività. Un ulteriore contributo – sottolinea la Commissione – potrebbe derivare da un alleggerimento del cuneo fiscale sul lavoro”. Ordini riceviamo, seppur velati ma pur sempre ordini, ed esecutori vengono piazzati sugli alti scranni della nostra Repubblica al fine di svolgere i compiti che ci vengono assegnati in una posizione politica evidentemente debole dalla quale non riusciremo ad uscire sino a quando gli agenti della nostra rinascita saranno mossi dai fili di quanti pare proprio abbiano contribuito a buttarci giù.

Abbiamo enormi risorse, legate specialmente alla sfera della qualità, sulla quale potremmo essere, se solo volessimo, spanne sopra tutti. Ed in parte lo siamo ancora. Ecco, quindi, che l’unica arma che ci resta a disposizione nell’invertibile per ora contesto di mercato globale, resta il fare ciò che meglio di altri sappiamo fare nella maniera qualitativamente migliore che conosciamo. La delocalizzazione è un altro grosso problema legato all’argomento di quest’analisi: posta l’impossibilità attuale di un’unica politica economica europea e posta un’attuazione di politiche fiscali volte alla protezione dei prodotti continentali, anche quì, l’unica arma che ci resta per risorgere o provare a farlo è la tanto agognata qualità. Qualcosa che nessun accordo sottobanco, nessun complotto o presunto tale potrà sottrarci mai. Ma per raggiungere livelli qualitativi di spicco, anzi, per tornare a raggiungerli, servirebbe un patto sociale tra politici, imprenditori e classe operaia. Un patto inossidabile di rinascita nazionale. Chimere? Probabilmente sì, questo non toglie che occorra la presunzione di indicare una strada.