mercoledì 26 novembre 2014

Le start-up come mito: una riflessione politicamente scorretta



di Benedetta Scotti (L'Intellettuale Dissidente)

Milano. In un rinomato collegio universitario, un gruppo di ingegneri in erba, affiancati dall’immancabile consulente (in erba anche lui), presenta ad una platea di studenti entusiasti e ambiziosi una nuova e brillante idea di business: una piattaforma che, raccogliendo e combinando le informazioni personali presenti sulla rete, ricostruisce gusti e preferenze degli utenti per aiutarli a compiere una scelta spesso dura, sofferta, drammatica: dove andare in vacanza. Dopo attimi di interdetto e imbarazzato silenzio, la platea scroscia in calorosi e convinti applausi. Istantanea di una scenetta (reale) che rappresenta il tripudio del contemporaneo: la noia esistenziale (pardon, lo stress!) di una società opulenta sfruttata a fini affaristici dal genio “imprenditoriale” di una, per così dire, innovativa -e quindi, per definizione, buona e giusta- start-up.

Dalla leggendaria Silicon Valley ai tavoli delle renziane Leopolde, uno comune sentire informa gli aspiranti e gli affermati, tali o presunti, innovatori di mezzo globo: giovanilismo, dinamismo, tecnologismo, ambizione sfrenata al limite dell’arroganza. Poco importa, sovente, la plausibilità dell’idea o il suo contributo fattivo al tessuto produttivo del sistema economico: lo startupper è diventato un mestiere in sé a tutti gli effetti, manca solo l’albo. Fa molto più cool della vetusta figura dell’imprenditore che costruisce in decenni di lavoro la sua attività o, ça va sans dire, della tradizionale gavetta in azienda. Lo startupper si costruisce da sé la propria esperienza ed è orgogliosamente, sin dal vero principio, homo faber fortunae suae o, per rispettare la vocazione anglofona della categoria, un puro e genuino self-made man. I suoi miti sono i vari Jobs (Apple), Brin e Page (Google), Gates (Microsoft), Zuckerberg (Facebook), i cui giganteschi imperi sono sorti nel giro di pochi anni. Confida di trovare prima o poi un business angel che metta sul piatto conspicui capitali per farlo uscire dall’anonimato e lanciarlo nell’Olimpo dei grandi innovatori.

Ma lo startupper quante possibilità ha di realizzare i suoi sogni milionari? Purtroppo molto poche. Le statistiche sono spietatamente contro di lui. Secondo uno studio di CB Insights (relativa alla realtà statunitense), solamente il 4% delle startup che ricevono fondi di capitale si trasformano in galline dalle uova d’oro, contro una probabilità di fallire del 75%. I sogni dello startupper si infrangono contro il muro della crudele realtà, negletta e dimenticata nell’era digitale: fare impresa (startuppare è oltremodo cacofonico) è un mestiere duro, spesso gramo, dove il pericolo è sempre in agguato. La rivoluzione di Internet non lo ha reso più facile: il Web e le nuove tecnologie hanno sì aperto nuovi scenari e nuove opportunità, ma caratterizzati da una concorrenza più agguerrita e aggressiva che mai, pronta a sfruttare la minima defaillance. La mortalità per lo startupper resta elevata anche nel Belpaese nonostante la proliferazione di un vero e proprio ecosistema pensato per la sua sopravvivenza, costituito da incubatori, acceleratori, eserciti di mentori, tutors e consulenti pronti a elargire consigli agli aspiranti innovatori. Un vero e proprio business lucrante sulla travolgente mania startuppara. Se poi lo startupper nostrano effettivamente non ce la fa, gli imputati sono molteplici: l’infame burocrazia, il maledetto nanismo dell’impreditoria italiana, il governo ladro che non investe nei suoi talenti. Cause potenzialmente vere. Eppure ce ne potrebbe esserne un’altra, altrettanto vera ma scomoda, politicamente scorretta e, per questo, tacitata. Ha avuto il coraggio di parlarne quell’improbabile esempio di “imprenditoria” italiana che è Flavio Briatore il quale, durante un’affollatissima conferenza presso l’Università Bocconi lo scorso maggio, osò dire, senza peli sulla lingua, che le startup sono, in fin dei conti, “una fuffa”. E, rincarando la dose, suggerì agli indignati bocconiani, accorsi ad acclamarlo, di cercarsi un lavoro normale: “Magari apritevi una pizzeria. Così se fallisce almeno vi mangiate una pizza. Se fallisce la startup non vi rimane neppure quello”.
L’affermazione irriverente e tranchante, pur scadendo nella generalizzazione, induce ad una riflessione critica e lucida sulla divinizzazione delle startup, troppo spesso trappola per talenti che si perdono nel mito di Zuckerberg, per mancanza di esperienza, lucidità e realismo, in idee di dubbia utilità e concretezza (vedi il caso dei giovani ingegneri e la piattaforma sulle scelte vacanziere). Dinamismo, tecnologismo e giovanilismo fanno uno startupper, ma non necessariamente fanno un imprenditore. “L’Italia può essere la startup più bella del mondo” proclamava Renzi, allora sindaco di Firenze. Considerata la mortalità dello startupper, c’è da sperare che l’auspicio renziano non si avveri.