lunedì 3 dicembre 2012

Dopo l'ennesimo rogo in Tibet

Il canto dei monaci - I monaci tibetani in preghiera per le vittime del terremoto che ha colpito la provincia cinese di Qinghai. I corpi di almeno 700 vittime sono stati  cremati in una grande cerimonia alla periferia della città di Jiegu,  una delle più colpite dal sisma. Un migliaio di monaci buddisti ha cantato inni sacri durante il rito. Secondo quanto riferisce la Bbc, la tradizione locale di questa  popolazione di etnia tibetana prevede che i corpi dei morti siano posti su elevate piattaforme e lasciati agli avvoltoi. Ma dato l'alto  numero di vittime si è preferito ricorrere alla cremazione per paura  di epidemie. L'ultimo bilancio del sisma del 14 aprile è di 1.144  morti e 11.744 feriti, dei quali 1.192 sono gravi (Reuters/Stringer)

di Mario Bozzi Sentieri


La monaca tibetana Sangay Dolams è morta domenica scorsa dopo essersi data fuoco presso il monastero di Mindrol Thagyal Ling, nella contea di Rebgong. Kunchok Tsering, 18 anni, è morto lunedì a Achok mentre l’ex monaco Wang Gyal, 20 anni, si è dato fuoco sempre lunedì a Serthar, nel prefettura autonoma tibetana di Kardze. Le autorità l’hanno portato via immediatamente: non si sa dove sia ora, se sia morto o vivo. Sempre lunedì, infine, Gonpo Tsering, 24 anni, è morto bruciato nella prefettura di Kanlho. 

Dal marzo scorso, dopo il primo caso di suicidio a Kirti, l’esercito cinese ha inasprito la repressione, circondando i monasteri “ribelli”, mentre continuano le deportazioni dei religiosi. Il rischio è una sorta di sacrificio di massa, quale estrema protesta contro la colonizzazione cinese. Il popolo tibetano non sembra insomma essersi abituato alla “liberazione pacifica” maoista, imposta, a colpi di baionetta, dal 1950.

Il gesto dei monaci buddisti riporta alla memoria altri gesti estremi, recenti e passati. 

E’ stato il suicidio del tunisino Mohammed Bouazizi, datosi fuoco nel dicembre 2010, a innescare la “rivoluzione dei gelsomini”, che ha portato alla cacciata di Ben Ali, espandendosi poi agli altri Paesi arabi. Risale al gennaio 1969 il gesto estremo dello studente Jan Palach, che, a Praga, in Piazza Venceslao, si trasformò in una torcia umana per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Otto anni dopo, nel febbraio 1977, a Parigi, analoga sorte toccò al giovane Alain Escoffier, immolatosi davanti all’Aerflot, l’agenzia aerea sovietica, per protestare contro l’Urss e le dittature comuniste. Tra gli episodi più emblematici quello dei bonzi vietnamiti che, nel 1963, si diedero fuoco a Saigon per protestare contro il governo filoamericano di Diem.

Le loro immagini, riprese dalle tv di tutto il mondo e diffuse dai giornali occidentali, contribuirono non poco a fare crescere, nell’opinione pubblica americana ed europea, il rifiuto nei confronti della guerra nel Vietnam.

In prima fila molti intellettuali italiani, che di quel sacrificio fecero oggetto di cronache appassionate e di campagne di protesta. Italo Calvino vide in quei monaci, insieme agli “uomini giusti e pazienti di Hanoi” (sic) e alla guerriglia dei Vietcong, simboli estremi “che per gridare la parola pace più forte dei rumori della guerra”, fanno parlare “le fiamme dei loro corpi irrorati di benzina”. Aldo Capitini, l’organizzatore, nel 1961, della prima “marcia della pace” Perugia-Assisi, commentando il rogo dei bonzi vietnamiti, scrisse che “il suicidio diventa l’estremo tentativo di protesta scegliendo tra la morte dell’altro e la propria – come se al sommo una morte ci voglia per mutare la situazione – la propria morte”. Parte dal sacrificio dei bonzi vietnamiti l’indignazione contro la guerra nei Vietnam, segnata da decine di appelli, sottoscritti da centinaia di uomini di cultura, dalle opere dei vari Guttuso, dall’indignazione del mondo accademico.

Ed oggi ? Di fronte ai recenti roghi dei religiosi tibetani qualcuno vuol farsi avanti ? C’è spazio per le “urla dal silenzio” asiatico in lotta contro il genocidio culturale del Tibet ?

L’anno scorso la polizia cinese ha arrestato cinquanta fra scrittori e artisti, per il loro ruolo nelle proteste anti-governative avvenute in Tibet e nelle province cinesi a maggioranza tibetana. I cinquanta intellettuali fermati, spiega ad AsiaNews una fonte locale, “sono coloro che hanno dimestichezza con il computer e che hanno qualche contatto con l’Occidente. Buona parte dei tibetani non soltanto non parla inglese, ma non conosce neanche i caratteri occidentali: loro, invece, sono stati in qualche modo il megafono delle proteste locali. Proteste che il governo cinese dimostra di non aver ancora dimenticato”.

Di fronte a questa realtà, le anime belle della cultura italiana non sembrano essersi preoccupate più di tanto. Non ci risulta che certa stampa patinata, sempre pronta per qualche campagna ad effetto, si sia mossa. Non abbiamo notato né special televisivi, né dibattiti sul tema. Non sono stati sottoscritti appelli al riguardo. Nessuna Università si è mobilitata contro l’attacco alla cultura e alla libertà.

Una volta, si diceva “la Cina è vicina”. Oggi, il Tibet appare drammaticamente lontano, almeno dalla sensibilità di molti.