mercoledì 30 maggio 2012

Mercato del lavoro,così gli uomini diventano merce

di Massimo Fini

Oggi si parla tranquillamente e impunemente di mercato del lavoro". Neppure i sindacati si scandalizzano che l’uomo (le sue energie, fisiche e intellettuali) sia considerato una merce. Ma prima della Rivoluzione industriale, nella società contadina e artigiana, l’uomo non era mai stato una merce. È il diverso modo di pensare, di concepire e di sentire il lavoratore che fa la differenza fra le società cosiddette "tradizionali" e quella che si afferma con la Rivoluzione industriale. Il signore, il maestro artigiano, il padrone della bottega non considerano i propri dipendenti una merce nè essi si sentono tali. I rapporti sono talmente intrecciati, complessi e personali che il valore economico delle reciproche prestazioni ne rimane inglobato e non può essere enucleato. Il feudatario può considerare il servo casato addirittura una sua proprietà, ma sempre come persona, non come cosa, oggetto, merce. L’attività del dipendente è incorporata nella sua persona.

Quando con la Rivoluzione industriale, si stacca concettualmente e fittiziamente il lavoro (cioè l’energia umana) dalla persona che lo compie e lo si oggettivizza, allora, il lavoro diventa effettivamente una merce che può essere comprata e venduta o anche considerata scaduta, come tutte le altre e che, come le altre, è sottoposta ai meccanismi e alle regole del mercato. Fra queste c’è quella, molto attuale in tempi di "licenziamenti per motivi economici", che si chiama "produttività marginale del lavoro" che è l’accrescimento del prodotto conseguente all’aumento di una unità lavorativa.

Nell’attuale economia se questo accrescimento è nullo o insufficiente il lavoratore viene, prima o poi espulso e deve cercarsi un altro posto, se lo trova, dove la sua produttività marginale è remunerativa. Che cosa sarebbe successo nell’economia tradizionale se su un campo sul cui rendimento vivevano dieci persone ci si fosse accorti che il lavoro di due era superfluo essendo sufficiente quello degli altri otto a mantenere tutti? Avrebbero cacciato i due a pedate nel sedere? Proprio no. Si sarebbero divisi il lavoro in dieci, approfittando del maggior tempo a disposizione per andare in osteria, a giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa. A quegli uomini premeva soddisfare il fabbisogno una volta assicurato questo tanto meglio se spartendosi il lavoro fra molti, ci si dedicava ad altro. Era gente, in genere legata da vincoli di parentela e comunque da relazioni strettissime, che stava insieme sulla base di un progetto esistenziale comune dove "l’economico", purché fosse garantita la sussistenza, aveva una valenza secondaria rispetto agli altri elementi della vita (P. Fitoussi, Il dibattito proibito).

Oggi siamo degli "schiavi salariati",degli oggetti, delle merci. Non dipendiamo più da uomini ma da imprese che dipendono dalle banche che dipendono dal denaro. E nel complesso dipendiamo tutti, anche le "mosche cocchiere" che si illudono di guidar la carrozza e ne sono al massimo dei profittatori, dalla più spietata delle dittature, un meccanismo anonimo, senza volta che viene chiamato, senza che ciò provochi un qualche trasalimento, mercato, anzi "i mercati".