“Osserva dell’alba il primo baglior/che annuncia la fiamma del sol/ ciò che nasce puro più grande vivrà/ e vince l’oscurità”. Cantano questi versi i giovani che, a metà degli anni settanta, si iscrivono al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del MSI. Cantano “il domani appartiene a noi” anche Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, due ragazzi come ce ne sono a decine in quegli anni, diventati martiri loro malgrado. L’avrebbero intonata anche quella sera del 7 gennaio, al concerto de “gli amici del vento”, gruppo alternativo milanese di destra (una vera rarità per l’epoca). Ma non ci sono mai arrivati, uccisi su un marciapiede del quartiere Appio Latino, quando l’aria fredda dell’inverno sa ancora di Natale.Francesco e Franco, insieme Maurizio Lupini, Vincenzo Signeri e Giuseppe D’Audino, stanno chiudendo la sede della sezione di via Acca Larentia.
Un nome che, per più di duemila anni, ha riportato alla memoria esclusivamente la figura di una donna romana, la madre adottiva di Romolo e Remo. Un nome ricoperto da un alone di mistero, fra mito e leggenda. Questo fino a quel pomeriggio di gennaio del 1978. Sono le 18.23, minuto più, minuto meno. La scrupolosità di risparmiare un po’ ha spinto i cinque ragazzi a spegnere la luce prima ancora di sprangare la porta. Sul tavolino hanno lasciato una nota per avvisare gli altri camerati: “siamo a Prati. Ci vediamo domani. Franco”. Letto con il senno di poi, quel biglietto, sembra uno di quei macabri scherzi che il destino fa, per lasciare una traccia di se in grado di raggelare il sangue di chi resta a piangere i morti. Franco e Francesco guardano dentro, spalle alla strada, gli altri stanno uscendo. Non sanno che sono i loro ultimi istanti di vita.
Non sanno che i “compagni” hanno già scritto la loro condanna. All’improvviso, sei o sette figure scure, con dei cappelli colorati calcati sugli occhi per nascondere alla bell’e meglio la faccia, compaiono in fondo alla strada. Nessuno capisce cosa stia per succedere. Poi, una raffica di spari. Uno dietro l’altro. Senza motivo. Un urlo. Bigonzetti che cade a terra. Ciavatta lo segue immediatamente dopo. A coprire quell’orrore c’è la notte scura che è calata su Roma.D’Audino, di quella serata di gennaio ricorda molto. Ha raccontato quell’incubo surreale a Luca Telese, in un’intervista per il libro Cuori Neri. “Qualcuno mi tira dentro (la sezione, ndr). Io tiro dentro qualcun altro. La porta, bisogna chiudere la porta! E altri spari. Passi fuori, nuove urla. Poi il buio della sezione che ci avvolge e il silenzio che cade improvviso su di noi”.
Aggiunge anche un’altra cosa, Giuseppe. “Io ne sono certo: se prima di uscire non avessimo già spento la luce, per l’ossessione della bolletta, sicuramente oggi non sarei vivo”. E che cosa ha significato riaccendere quell’interruttore, lo può capire solo chi era lì, in quel momento. “Io non posso togliermi dagli occhi quell’immagine. Noi eravamo ancora per terra e da sotto la soglia della porta entrava un lago di sangue che si allargava lentamente, come se si stesse avvicinando a noi”. Una scena surreale. Da film.Giuseppe, Mario e Vincenzo (che è stato colpito di striscio) escono per provare a capire che cosa sia successo. Il sangue che hanno visto è quello di Franco. Ha il volto devastato dai proiettili. Irriconoscibile. E quel corpo dilaniato da una inspiegabile follia omicida sarà offerto alla mercè di tutti “grazie” alla foto di un giornalista de “L’Espresso”, che la pubblicherà una settimana dopo l’eccidio.
A pochi passi da Franco, c’è Francesco. È ancora vivo, lui. Si sforza di parlare, altruista fino in fondo, eroe suo malgrado: “Non pensate a me. Pensate a Franco che sta messo peggio”. Non lo sa, non ha potuto rendersene conto, ma il suo amico non ce l’ha fatta. Non lo sa, non se ne rende conto, o forse sì, ma sono anche i suoi ultimi respiri. Riesce a solo a sussurrare con un filo di voce: “aiuto, mi brucia tutto, aiuto”. Poi più niente. La corsa disperata in ospedale è inutile. Arriveranno entrambi cadaveri.Viene portato via da un’ambulanza anche Signeri. E la sua foto, sulla barella, mentre tenta di fare il saluto romano (trattenuto con violenza degli infermieri) prima di entrare in Pronto Soccorso, urlando di rabbia, è il simbolo di quelle ore drammatiche e assurde.L’azione verrà rivendicata poco dopo da una sigla semisconosciuta e dal nome che vuol dire tutto e niente: “Nuclei Armati per il contropotere territoriale”, i NACT.
Di gruppi così, di questi tempi, ce ne sono a dozzine. Sparano e ammazzano senza pudore, senza pietà. Gli omicidi hanno uno scopo, però. Sono i cosiddetti “battesimi di sangue” che servono per fare il “salto di qualità” ed entrare nelle Brigate Rosse. È bene non dimenticare mai che, quel 1978, è l’anno che segnerà per sempre la storia d’Italia. È l’anno dell’assassinio di Aldo Moro e le BR sono il gruppo di riferimento fra i nuclei della sinistra extraparlamentare che hanno deciso di votarsi al terrorismo.I NACT, anche se poco conosciuti, sono molto ben organizzati. Hanno uomini (e donne). Hanno armi. Ad Acca Larentia vanno preparati, vogliono ammazzare e sanno come si fa. Alcuni dei 7 che compongono il commando sparano con pistole a canna corta calibro 9, che di solito ha in dotazione l’esercito.
Ma i colpi che uccidono Franco e Francesco partono da un revolver calibro 38 e da una mitraglietta Skorpion. Un’arma micidiale, in grado di sparare più di venti colpi al secondo. La nota che rivendica i due omicidi, letta a 35 anni di distanza, fa ancora rabbrividire: “Un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga”. “Le parole sono pietre”, scriveva Primo Levi ed è bene ripeterle, perché il tempo non ne cancelli il peso e non faccia scomparire il ricordo delle vittime.Sì, le vittime. Franco e Francesco. Due missini ragazzi, con la faccia pulita e la testa ancora china sui libri. Uno -di 19 anni- al primo anno di medicina a “La Sapienza”, l’altro -appena maggiorenne- studente dell’istituto tecnico industriale “Tiziano”. La furia omicida dei NACT li ha strappati via alle famiglie senza nessun motivo. E, come spesso accade, c’è chi non riesce a sopportare di sopravvivere ad un figlio morto così.
È il caso del padre di Ciavatta, portiere in un condominio di via Deruta, zona Tuscolano. Un uomo del popolo, cui i borghesi (autonominatisi) difensori del proletariato hanno portato via il sangue del suo sangue. Non ha retto, il papà di Francesco, che pochi mesi dopo la strage di Acca Larentia si è suicidato bevendo una bottiglia di acido muriatico.E non è questa l’unica tragedia seguita alla folle azione dei NACT. Sì, perché la morte di Franco e Francesco si portata dietro una scia di sangue, finita solo un anno dopo quel maledetto 7 gennaio del 1978.
La sera stessa degli omicidi di Ciavatta e Bigonzetti, sull’asfalto di via Acca Larentia cade un altro ragazzo. Stefano Recchioni. Questa volta non sono i “compagni” a sparare. È un carabiniere, Edoardo Sivori. Uno di quelli chiamati per sedare la folla di camerati inferociti che si è radunata davanti alla sezione dell’Appio Latino. Poi, un’altra vittima. Un altro ragazzo. Un altro missino. Un anno dopo. Questa volta a Centocelle. Alberto Giaquinto viene ammazzato come un cane da un poliziotto in borghese, durante i tafferugli scoppiati mentre si sta ricordando quella tragica giornata di gennaio del ’78. Le loro storie, quelle di Stefano e Alberto, meritano di essere raccontate a parte e “il Giornale d’Italia” lo farà, nei prossimi giorni. Queste morti, per mano di uomini dello Stato, non devono essere confuse con l’azione punitiva messa in atto dai terroristi. Vicende diverse, unite da un unico, orribile, fil rouge.
C’è una canzone che ricorda i fatti di Acca Larentia. Tutti, senza distinzione. S’intitola “generazione ‘78” e nel testo ci sono due frasi che racchiudono il nonsenso di quel freddo pomeriggio d’inverno: “Poi una sera di gennaio resta fissa nei pensieri, troppo sangue sparso sopra i marciapiedi e la tua generazione stagliò al vento le bandiere, gonfiò l'aria di vendetta senza lutto, né preghiere.”Questa è la storia di Franco e Francesco. Ed è solo l’inizio…
da Il Giornale d'Italia, di Micol Paglia