di Mario M. Merlino
Sotto quel fanale, accanto al portone della caserma, Lili Marleen divenne il simbolo del soldato in guerra, del soldato che marcia nel fango, che vive e che muore, portandosi a fior di labbra nel portafoglio sul cuore nella mente una ragazza da amare. Nonostante che Joseph Goebbels non ne amasse il testo, ritenendolo troppo sentimentale e poco aggressivo tanto da tentare di impedirne l’ascolto. Senza prevedere che il caso, come sempre, ci mette del suo. Belgrado viene occupata dai tedeschi ai primi di aprile del 1941; la stazione radio trasmette ventiquattro ore su ventiquattro i comunicati alle truppe che dilagano nei Balcani, scendono in Grecia, si affacciano sul mare Egeo; bande e marce militari e canzoni a riempire gli spazi vuoti. Fra i dischi ecco che spunta Lili Marleen, ripetuta dieci cento volte, per poi amplificarsi sulla bocca di mille e mille fanti e carristi e aviatori e marinai, uniti nella buona e cattiva sorte, e tutti a sognare una donna di nome Marleen...
(L’amico Piergiorgio di Cagliari, accanito raccoglitore di testi e musiche tanto da essere, io credo, in testa ad ogni classifica, potrebbe raccontarci di più e di tutto su questa canzone, tratta da una poesia di Hans Leip, poco prima che partisse per il fronte russo durante la Prima Guerra Mondiale, musicata soltanto nel 1938 e interpretata dalla cantante Lale Andersen. Io cercavo solo un inizio e avevo bisogno di un richiamo all’alone giallastro e sporco di un lampione qualsiasi. Pur tornandomi a mente l’esile figura di Donatella, all’inizio degli anni ’80, e la sua voce che la sapeva rendere così bene e coinvolgente).
Piazza dei Cinquecento (il riferimento è ai caduti di Dogali di cui un brutto monumento fa fede, anche se ormai è occultato da edicole di libri vecchi cespugli e frequentato di notte da sbandati e omosessuali), inizio anni ’60, tardo pomeriggio invernale. Sono una trentina, i soliti con qualche recluta a imparare il gusto di menar le mani, che, se poi non gli regge la pompa, lo si abbandona al suo destino e che necessita altra compagnia lo capisce da sé...
Ognuno ha il suo modo di esprimere il senso dell’attesa, un ridere troppo forte, una sigaretta dietro l’altra, uno strascicare i piedi come per saggiare la consistenza dell’asfalto e le mani che vanno sotto la giacca, il giubbotto, l’impermeabile dove ci si è attrezzati chi con la spranga, chi con il tirapugni, chi con il corto tubo di piombo. Mario ha il suo fidato e complice martello con il manico disegnato di falce e martello, trofeo di guerra nella zona di Cinecittà dove un ‘compagno’, affabile e cortese, gli avrebbe voluto aprire la testa come un uovo sodo. Le cose erano andate diversamente ed ora egli se ne può far vanto…
Già, il fanale… Dalla tasca della giacca ha tirato fuori La Nausea del filosofo Jean Paul Sartre, autore e libro poco adatti alla circostanza, ma segno inequivocabile, pur se ancora inconsapevole, del gusto dell’eresia della sfida di andare oltre ogni forma di confine… Un libro, gli ha detto un amico del padre, che o si legge tutto d’un fiato o lo si chiude alle prime pagine per non aprirlo più.
‘Cosa stai leggendo?’
Marco l’interrompe, un ragazzone biondo robusto alla sua prima azione, e la tentazione è quella di rispondergli in malo modo, ma, anche qui pur in maniera confusa, egli avverte che sarà un insegnante. Colui che lascia un ‘segno’, come il vasaio che plasma le forme senza forzare la materia prima (immagine questa tratta da qualche testo buddhista). E il domandare non può restare inevaso…
‘Chi? Il filosofo frocio e comunista?’.
Gli mostra la citazione di Cèline, sotto il titolo: ‘E’ un giovane senza importanza collettiva, è soltanto un individuo’. Forse vorrà dire qualcosa. Era prigioniero dei tedeschi ed è stato Drieu la Rochelle, tramite l’amico Otto Abetz, influente responsabile della cultura germanica in Francia, a farlo liberare tanto che ha potuto rappresentare i suoi drammi nella Parigi occupata. Certo, quando Drieu si suicida, scrive un infame necrologio per compiacere i comunisti e si rifiuta di firmare la grazia per Brasillach. Non gli si può perdonare, ma certe atmosfere…
‘E allora perché lo leggi?’, l’incalza Marco.
Non c’è risposta oppure è troppo complicata anche per lui… ‘Cosa sono le mie mani? L’incommensurabile distanza fra me e le cose’. Egli sta lì, sotto quel lampione, con quel libro, così intrigante, in cui il protagonista ha rotto ogni legame con il mondo, ha abbassato la saracinesca e spento la radio perché ormai le parole gli sono divenute false ed ostili. Egli sta lì, sotto il lampione, con un martello sotto la giacca, l’adrenalina che sale, entrato a gamba tesa fra ‘i duri e puri’… Bah, Lucio Battisti avrebbe cantato: ‘Tu, chiamale se vuoi emozioni’. O forse sono soltanto contraddizioni o, infine, perché non sappiamo distinguere l’essere e il nulla di cui siamo impastati. Inquieti irriverenti ignari disattenti…