di Massimo Fini
Dai e ridai ci sono finalmente arrivati. L'ambizione della scienza moderna e della medicina tecnologica è di farci sapere, con largo anticipo, la data della nostra morte. Adesso, a quanto pare, ci siamo. Gli autorevoli scienziati dell'Università di Lancaster hanno messo a punto uno studio sulle cellule endoteliali, "il serbatoio di tutte le potenziali cellule staminali" come scrive Edoardo Boncinelli sul Corriere della Sera. Da questo esame si può misurare, con buona approssimazione, la loro durata e quindi la durata della nostra vita. Per ora la cosa riguarda il ristretto cerchio degli adepti che ci stanno lavorando, ma nel giro di due o tre anni, assicurano gli scienziati di Lancaster, il metodo sarà perfezionato, riproducibile su larga scala e a dispozione di tutti.
Ma che bella festa. Noi uomini, fra gli animali del Creato, siamo i soli ad avere lucida consapevolezza della nostra fine, ma Madre Natura, pietosamente, ha fatto in modo che non si sappia quando arriverà. In 'De senectute' Cicerone dice, una volta tanto giustamente, che "non c'è uomo, per quanto vecchio e malandato che non pensi di poter vivere almeno ancora un anno". Toglierci queste illusioni è devastante (la pena di morte, sia detto per incidens, è inaccettabile non perché si uccide un uomo - durante le guerre, le insurrezioni, le rivoluzioni se ne fanno fuori a decine, a centinaia di migliaia, a volte a milioni - ma perché è una tortura dato che il condannato è l'unico a sapere l'ora precisa della sua morte). Se si dicesse a un ragazzo di trent'anni che morirà ad ottanta, costui vivrebbe cinquant'anni di angoscia, un'angoscia crescente e insopportabile man mano che si avvicina la data fatidica.
Una volta a 'Sottovoce' Gigi Marzullo mi chiese: "Se sapesse di avere ancora poche ore di vita come le impiegherebbe?" "Mi sparerei" risposi. E al cosiddetto 'Questionario di Proust' che viene sottoposto a intellettuali, a scrittori, ad artisti, a personaggi di vario genere, alla domanda "Di che morte preferirebbe morire?" risposi: "Violenta". Perché la morte violenta è affidata al Caso, sfugge alle certezze di quella biologica e frega i sinistri vaticinii degli scienziati della morte. Ha detto l'entusiasta Boncinelli a Fahrenheit, la bella trasmissione di Radio 3: "Sapere la data della nostra morte ci consentirebbe di assaporare ogni giorno che manca a quel fatidico appuntamento". Se fossimo tantino saggi noi dovremmo vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo, ma senza sapere che lo è. Dice Friedrich Nietzsche: "Amleto, chi lo capisce? Non è il dubbio ma la certezza che uccide".
I Greci, che avevano una concezione tragica dell'esistenza, pensavano che al Fato non si può sfuggire. Molti loro Miti sono centrati su questa fatalità (da Fato, appunto). Ma non si sono mai sognati di credere che fosse individuabile l'ora in cui la mannaia sarebbe caduta. I Latini, che erano un po' più solari, lasciano ampi margini di incertezza ai vaticinii dei loro àuguri. "Ibis redibis non morieris in bello" profetizza la Sibilla Cumana ad un soldato che le era andato a chiedere se sarebbe tornato vivo dalla guerra. Tutto dipende da dove si mette la virgola, se dopo 'redibis' o prima. In un caso la frase suona: "Andrai ritornerai, non morirai in guerra". Nell'altro: "Andrai, non ritornerai ('redibis non') morirai in guerra".
La scienza moderna invece rifiuta le incertezze, il dubbio, il Caso. I profeti di sventura di oggi, gli scienziati, non si limitano a dirci che moriremo - questo lo sappiamo tutti, anche troppo bene, non abbiamo bisogno di loro - ma pretendono anche di fissare il quando. A costoro auguro di sperimentare innanzitutto su di sé il loro metodo demenziale. E di morire, di paura, molto prima della data, scientificamente accertata, dei propri mostruosi vaticini.