venerdì 31 gennaio 2014

Miseria della povertà


di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

La post-modernità può essere definita come un’immensa sintesi di una serie di contraddizioni di natura economica, politica e sociale. Infatti in quella che è l’era dell’abbondanza, dell’obesità e dell’iper-consumo – fenomeni prima del Novecento sconosciuti – si è creato, paradossalmente, un movimento inverso: la miseria. In un’epoca in cui i benefici della rivoluzione industriale e della tecnica – fin troppo esaltati dai fautori spudorati del “progresso” – sarebbero in grado di saziare ampiamente i bisogni primari della popolazione del nostro continente e non solo, l’Euorpa conta 43 milioni di poveri e 4 milioni di “senzatetto”. E questo termine si aggiunge ad una lunga lista, tra cui “disoccupazione”, “precarietà”, “miseria”, che intasa quotidianamente i nostri Mass Media e che è apparsa soltanto dopo la rivoluzione industriale, apogeo dell’ideologia materialista borghese.

Prima esistevano poveri, ma non disoccupati, vagabondi, ma non “senzatetto”. La miseria fu un fenomeno del tutto sconosciuto all’Occidente pre-industriale che inseriva il povero non solo in una realtà cristianamente dignitosa ma invero nell’ambito di una solidarietà intracomunitaria di cui la famiglia allargata – antenata sicuramente più efficace del moderno welfare state – fu l’organismo portante. La povertà divenne miseria una volta compiutasi la rivoluzione industriale, quando l’esodo urbano che la succedette fu la causa dello sradicamento di intere popolazioni che volevano inseguire il mito – esclusivamente “cittadino” – sintetizzato nell’american way of life. Un sogno che tuttavia fu destinato a scontrarsi con la realtà dei fatti e che espose all’emarginazione sociale tutti quei poveri che non vi ebbero accesso. Cossicché la povertà divenne miseria quando perse la sua dimensione dignitosa – peraltro con il collasso definitivo della morale cristiana -, quando la mancata riuscita nel contesto lavorativo – divenuto luogo di alienamento della propria forza lavoro sul mercato – divenne fallimento, e, nell’etica protestante che pervase il capitalismo occidentale, il fallimento fu assunto come “peccato originiale”. Il povero divenne misero, perché totalmente situato in un luogo altro, al di là delle logiche della produzione e del consumo, dunque del tutto inutile all’organismo sociale che si autocontempla nella sola dialettica dello sviluppo: produrre per consumare e consumare per produrre. Misero perché moralmente e culturalmente privo di radici, di origini e di identità, credenziali necessarie all’individuo moderno ma che solo l’accesso al consumo può stanziare.

Così siamo di fronte ad un paradosso patologico della nostra cultura che non solo accumula una classe povera sempre più grande, ma non la rende più in nessun modo partcipe dell’attività umana e sociale della collettività, non la rende parte integrata, rappresentante almeno di sé stessa, peraltro priva di una reale coscienza di sé, e allo stesso tempo, essa viene diabolizzata perché incapace di accedere agli standard del consumo.

giovedì 30 gennaio 2014

Europa. Perché i parlamentari del M5S partecipano agli incontri di Soros?


di Eric Cantona (Barbadillo)

I pentastellati sedotti da Soros? I parlamentari del Movimento 5 Stelle hanno partecipato a due meeting lo scorso dicembre, a Berlino e Barcellona, promossi dalla fondazione tedesca Mercator che fa capo alla famiglia Schmidt e dalla Open Society del finanziere George Soros. Per il quotidiano di via Solferino, che ha pubblicato un articolo di spalla sul Corriere Economia, l’iniziativa rientra in un programma che con una parola inglese si definisce “appeasement” – in italiano significa accomodamento – per avvicinare i possibili interlocutori che verranno eletti nel fronte euroscettico alle prossime elezioni europee. Nel prossimo parlamento di Strasburgo, infatti, la terza forza sarà costituita dai movimenti critici nei confronti dell’Europa delle banche e dell’austerità: dai populisti di Grillo a Syriza in Grecia, fino alle forze di sinistra spagnole.

Agli incontri promossi da Soros e c. hanno preso parte, scrive il Corriere Economia, tra i grillini “hanno aderito l’ex candidato alla presidenza del Senato, Luis Orellana, il capogruppo in commissione ambiente, Mirko Busto”, e i parlamentari Cristina De Pietro, Manlio Di Stefano e Maria Edera Spadoni.

La domanda allora sorge spontanea: che ci sono andati a fare nel salotto intellettuale delle fondazioni ultracapitaliste i parlamentari di Beppe Grillo? Dopo gli slogan “tutti a casa”, si costruisce così una opposizione anti-sistema?

mercoledì 29 gennaio 2014

Il commento. Legge elettorale: democrazia o sovranità popolare?



di Mario Bozzi Sentieri


È veramente bizzarro un “sistema democratico” che teme i voti di preferenza, mette sbarramenti alla libera espressione politica, “premia” i partiti principali, che non hanno però la maggioranza assoluta del consenso elettorale.
È la cronaca di questi giorni, abilmente nascosta sotto l’immancabile patina della “governabilità”, malgrado, ad ogni occasione, si chieda più rappresentanza della volontà popolare, più partecipazione al voto, più impegno nel sanare la cesura tra Paese reale e Paese legale.

Ed è insieme la plastica rappresentazione di un “modello” di rappresentanza politico-parlamentare che mostra, nella sua essenza, tutte le sue debolezze e contraddizioni. Tra tanti lambiccamenti sulle leggi elettorali, di questo vorremmo vedere parlare, in un Paese in cui gli indici di gradimento verso i partiti sono ai minimi storici e la tenuta delle istituzioni sempre sull’orlo del baratro. Magari per scoprire i limiti del “sistema” e poi conseguentemente per correre ai ripari cercando forme nuove e sostanziali di rappresentanza della sovranità popolare.

Sul piano “destruens”, la letteratura è ampia. Ancorché datate, certe analisi “d’annata” continuano a conservare la loro forza. Difficile – da questo punto di vista – non vedere spicchi di verità in chi ha colto nel “sistema” democratico, quale ci è stato consegnato dalle rivoluzioni borghesi, il regno dell’individualismo e dell’astrattismo (Joseph De Maistre); la fabbrica dell’incompetenza (René Guénon); il luogo deputato della partitocrazia (Robert Michels); il dominio dell’oligarchia capitalistica sulla realtà politica (Julius Evola); la capacità di agire sull’ingenuità delle masse attraverso l’aiuto della stampa influente e di “una infinità di astuzie” (Georges Sorel).

È anche partendo dalla consapevolezza sui limiti, politici e culturali, del “sistema” che si può iniziare a cercare nuove forme di rappresentanza-partecipazione popolare alla vita nazionale.

Al di là delle dispute filosofiche, delle giuste critiche al “sistema dei partiti”, della deriva antipolitica, questo rimane il vero problema. Problema che pochi sembrano, oggi, volere affrontare direttamente, mimetizzandosi alcuni dietro un piccolo riformismo istituzionale (via il Senato e le Province, più per problemi di bilancio…), altri in una difesa formalistica dell’esistente, altri ancora guardando alla legge elettorale come alla madre di tutti i cambiamenti.

Nel frattempo il “popolo”, nel cui nome i sistemi politici occidentali dicono di operare, è “altrove”, lontano; non partecipa e non si sente rappresentato; non vive la politica, la subisce.

Nella misura in cui il senso più vero della crisi del sistema partitico-parlamentare sta nel “suicidio” culturale dei popoli d’Europa e nella loro “uscita dalla Storia” , è ad una democrazia vista come “partecipazione di un popolo al proprio destino” (Moeller van den Bruck), attivata e controllata da un’ampia e complessa trama di gruppi intermedi, di associazioni, di categorie produttive, di funzioni differenziate, di comunità, che si deve guardare e a cui si deve lavorare.

Attivando rotture con il passato, ridefinendo limiti, creando ex novo, ma anche recuperando all’attualità, alla riflessione e all’azione sociale quella critica certo non antidemocratica, ma neppure fideisticamente e formalisticamente democratica, in grado di sollecitare, su nuove basi, un rapporto originale con le tematiche della rappresentanza, del consenso e del controllo popolare.

Il resto è puro chiacchiericcio, buono per animare un dibattito politico sempre più asfittico e lontano dai reali interessi della gente. Anche quelli di vedere finalmente rappresentata la propria volontà.

martedì 28 gennaio 2014

Fronte della Gioventù, una storia a lungo attesa

fronte


di Marco Valle (Destra.it)


Un libro può diventare una trappola. Un mare procelloso e fascinoso. Se indugi un attimo in più del dovuto sulla battigia, vedi spiaggiarsi sulla scogliera della memoria manciate di ossi di seppia, ondate di “triste meraviglia, cocci aguzzi di bottiglie”. Resti di un naufragio.

Un libro può assomigliare ad un oceano profondo e impietoso. Le onde riportano, a volta, spezzoni di vita vissuta che — come Guccini insegna — ti avvolgono come miele: la nostalgia è un sentimento ambiguo e pericoloso. Da evitare. Non sempre, però, riesci a sottrarti alla malia delle maree, al loro richiamo e, allora, ti attardi sul litorale dei ricordi, dove ritrovi resti di bandiere stracciate, polene marcite, vele strappate, pennoni spezzati. Malinconia mista a tenerezza e un po’ d’incazzatura.

Un libro — centinaia di fogli, migliaia di righe, decine di capitoli — talvolta non ti risparmia nulla.Soprattutto se chi scrive ti ricorda l’affondamento del grande battello tricolore, un vascello un po’ vecchio e scassato, ma abbastanza dignitoso. All’improvviso dal gorgo riaffiorano carte, date, nomi. Volti. In lontananza scorgi nocchieri, nostromi, capitani, ammiragli che abbandonano il povero relitto incagliato sulla scogliera. I mozzi, no. Loro sono affogati mentre i marinai annaspano tra le onde, ma non importa. È il destino della “bassa forza”, quelli che faticano e sgobbano. Le scialuppe — poche, come quelle del Titanic — sono piene di gallonati comandanti, incapaci e impomatati come uno Schettino qualsiasi. Un tempo, affollavano la plancia e applaudivano il grand’ammiraglio — l’infallibile che ha fallito —; oggi tutti, compreso il navarca supremo, asciugano i loro panni sulla spiaggia e fissano l’orizzonte con occhi liquidi.Disorientati. E disoccupati.

Un libro così ti obbliga a riflettere. Intanto sulle sabbie umide si accumulano bottiglie senza messaggi. Contenitori vuoti. Nemmeno i fratelli Grant saprebbero ritrovare “l’isola misteriosa” di verniana memoria. Onda dopo onda, il mare cancella le tracce sulla sabbia e tutto rischia, nel tempo dell’effimero e del provvisorio, di sparire. Eppure c’è ancora — riprendendo Montale — “un filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità”. E allora usciamo dalla poesia e dalle metafore.

Punto di partenza, il naufragio della destra politica italiana: un dato devastante e incontestabile. Un disastro senza onore e senza gloria. Inutile e noioso ripercorrere le tappe, stucchevole e ipocrita far finta di cercare i colpevoli. Tutto è noto, tutto è chiaro. Tutto è scritto. Nessuno è innocente, nessuno è senza colpa. Chiunque abbia avuto responsabilità è corresponsabile. Ma — domanda centrale — un’altra narrazione, un’altra storia e, soprattutto, un altro finale erano possibili?

Su questo nodo irrisolto, questo interrogativo sospeso si sviluppa il lavoro di Alessandro Amorese dedicato al Fronte della Gioventù. Un libro importante che ricostruisce — con organicità e onestà intellettuale — un’esperienza complessa, scomoda, contradditoria ma anche terribilmente generosa, che coinvolse negli anni decine di migliaia di ragazzi italiani. Con stile asciutto e scansando ogni trimpellio retorico, l’autore ha riunito con minuzia le tessere disperse di quel mosaico frantumato che un tempo componeva “la destra che sognava la rivoluzione”, cercando di riannodare percorsi interrotti e/o rimossi, dando voce ai protagonisti più o meno noti ma soprattutto, come Bloch e Le Goff insegnano,“interrogando i documenti”, esplorando archivi, ritrovando materiali, indagando in modo critico i contesti.

Su queste coordinate il ricercatore toscano ha costruito un lavoro ben più solido dai precedenti tentativi — pensiamo, ad esempio, al libro di Marco di Troia, interessante ma incompleto, e all’imbarazzante opuscolo apologetico di Tatarella Fabrizio… — e ha focalizzato la sua attenzione sul periodo più fecondo e meno conosciuto del Fronte della Gioventù, ovvero al ciclo 1982-1995. Una scelta temporale a nostro avviso corretta. Forse a caso o forse no, la narrazione s’incastona e diparte dalle ultime pagine de “La rivoluzione impossibile – dai campi Hobbit alla Nuova destra”, il fondamentale libro di Marco Tarchi dedicato all’esperienza del FdG (e non solo) tra il 1977 e il 1980. Mentre il pensatore fiorentino ritenne dopo ’80 conclusa la possibilità “d’aiutare la destra a pensare” e decise di intraprendere nuovi percorsi, nei primi anni Ottanta prese forma un’altra vicenda. Ed è la storia narrata da Amorese.

Tutto iniziò (o ricominciò) nel 1982. Dopo la fuoriuscita di Tarchi e dei suoi amici, Gianfranco Fini, convinto d’avere nuovamente in mano lo strumento, accettò la convocazione di un’assemblea nazionale e l’indizione di assemblee provinciali che (per la prima volta) potevano eleggere il segretario. Un calcolo sbagliato, poiché contro ogni previsione l’opposizione interna si rianimò e strappò agli almirantiani oltre la metà dei delegati insidiando pesantemente la segreteria uscente. Alla plumbea assemblea di Milano, Gianfranco riuscì a farsi rieleggere solo grazie ad un accordo in extremis con la pattuglia romualdiana, uno dei tanti inutili giochetti interni. In ogni caso, all’indomani della riconferma del segretario nazionale, si affacciò sulla scena un nuovo personale politico (Andriani, Pasetto, Raisi, Marzio Tremaglia, Valle, Zanon, Granata, Perina, Sangiuliano, Frassinetti, Buttafuoco e altri amici) e per il FdG iniziò una fase di rilancio, d’entusiasmo. Al centro come in periferia. Si trattò di un fenomeno inatteso che stupì avversari e osservatori esterni e spiazzò il notabilato missino — tutto intento a festeggiare il centenario mussoliniano e curare le candidature parlamentari — ed invero poco entusiasta di un “revival” del mondo giovanile, considerato da sempre un’“eterna fonte di guai”.

L’autore intelligentemente analizza quest’accelerazione imprevista proponendo una lettura del clima culturale e politico del tempo e ne fissa le ragioni nell’intrecciarsi di fattori diversi — la crisi dell’Unione Sovietica (i fatti polacchi, l’Afghanistan, la guerra cino-vietnamita), il reaganismo, il nuovo pontefice e (perché no?) i fenomeni televisivi e le nuove mode giovanili — la cui somma determinò uno scenario post-ideologico penalizzante per la sinistra e, al tempo stesso, favorevole alla destra giovanile. Un approccio corretto: tra “Happy Days” e “Il Cacciatore”, il neoedonismo reganiano e l’eclisse del gramscismo, prese forma il nuovo inizio del FdG. Non era la marcia su Roma o il palazzo d’Inverno ma non sempre si può scegliere e, in ogni caso, tanto ci bastò.

Come ricorda Amorese in quegli anni, più o meno confusamente, ovunque avvertimmo una nuova sintonia con la galassia giovanile e, consci dell’obsolescenza dei messaggi di ieri, tentammo di tracciare categorie innovative, immaginando percorsi differenti. Penso alle battaglie del FdG per l’indipendenza nazionale, le denunce — in anticipo su Cossiga e Priore — delle responsabilità straniere nelle stragi italiane, a Fare Fronte e il protagonismo studentesco, alle prime riflessioni sul pluralismo e la democrazia. Ricordo le iniziative per il “superamento” degli anni di piombo (i convegni di Roma e Milano, ma non solo), il primo filo di dialogo con settori cattolici (CL) e spezzoni di sinistra (i radicali, i socialisti autonomisti), il coraggioso impegno del Fronte siciliano contro la mafia, l’ipotesi di un movimento giovanile europeo, l’adesione ai referendum craxiani e le battaglie (da me, ieri come oggi, non condivise…) contro il nucleare. Ma non solo. Il FdG fu anche uno sguardo inedito verso la rivoluzione tecnologica (il saggio di Gasparri e Urso su “L’Età dell’intelligenza”, il convegno su “Il muro del tempo” a Milano), la riscoperta del Futurismo grazie a Pietrangelo Buttafuoco e la critica all’americanismo, culminata nella festa nazionale di Siracusa. Insomma, intelligenze disordinate, dibattiti furibondi, letture confuse, tanta curiosità e buone energie: un “mutamento antropologico” e un netto salto di qualità (disomogeneo ma concreto) rispetto al primitivismo politico missino e al cupo settarismo extraparlamentare.

Raccontare la storia del FdG senza però evidenziarne le criticità e le mancanze è inutile. L’autore lo sa bene e, fortunatamente, non indulge in manierismi rassicuranti. Con lucidità il ricercatore individua nel correntismo il punto di crisi principale. Concordiamo con lui: il frazionismo è una vecchia malattia dell’ambientema nella prima fase (1982-87) riuscimmo a sopirlo e innescare un circolo virtuoso tra le diverse sensibilità. Dal 1988, il fenomeno, esasperatosi dopo il congresso di Sorrento, diventò devastante: nell’indifferenza dei leader del MSI, il Fronte si balcanizzò, amicizie e collaborazioni trasversali s’interruppero e ogni dibattito si trasformò in una assurda polemica. Nonostante qualche iniziativa interessante (come le feste di Assisi, Spoleto e Siracusa e le mobilitazioni contro la droga), ci rinchiudemmo — quasi senza accorgercene — in una bolla di autoreferenzialità, slegata ed avulsa dalla società italiana. Smarrimmo così la capacità di leggere e interpretare il nuovo, la contemporaneità — requisito fondamentale per un movimento politico alternativo — e i messaggi si fecero sempre più deboli se non talvolta incomprensibili. Come annota Michele Facci parlando di Bologna (ma la riflessione è generale) “certe idee e certi atteggiamenti volutamente provocatori, altro non facevano che isolarci e a renderci incomunicanti”. Le responsabilità ancora una volta sono di tutti, nessuno escluso.

Va aggiunto anche un altro dato, consequenziale del primo, un problema che Amorese sfiora in più punti: l’esasperazione del c.d “comunitarismo”. Senza scomodare i maestri di sociologia è noto che i gruppi chiusi sono limitanti ed incapaci di aggregazioni vaste; non a caso le realtà cintate diventano inevitabilmente il triste rifugio di elementi caratterialmente deboli o problematici e la fucina di settarismi imbarrazzanti. Fu questa la sorte, dopo il 1988 di diverse situazioni locali (con l’eccezione, va riconosciuto, del laboratorio di Colle Oppio). Con alcune differenze sostanziali. L’ala “finiana” — salvo le solite eccezioni, Padova ad esempio — fu travolta da una deriva iper identitaria che la inchiodò in un lungo ripiegamento culturale mentre una parte, purtroppo consistente, della componente “rautiana” rivelò una subalternità psicologica (e, spesso, estetica…) alla sinistra, una vocazione pauperista e un’insana passione per ogni sorta di “pensiero debole”. In ogni caso, ogni cultura di Partito svanì dai nostri orizzonti e il mesto epilogo dell’incolore segreteria Rauti frantumò ogni ulteriore ipotesi di ricomposizione.

Accanto a queste valutazioni, l’autore più volte sottolinea e documenta — sono pagine che le tante prefiche della Fiamma che ci affligono tutt’oggi dovrebbero leggere e meditare… — l’atteggiamento guardingo del gruppo dirigente del MSI verso i quadri giovanili. Volutamente il FdG fu lasciato dalla Segreteria in una sorta di limbo giuridico e i fondi erogati furono sempre terribilmente limitati. Negli anni, mentre si finanziavano generosamente i Comitati Tricolori dell’intero globo terracqueo — i risultati sono noti…—, Almirante, Fini e Rauti centellinarono ogni contributo, ogni appoggio. Non deve quindi sorprendere la mancata immissione di quadri negli organi elettivi e non valorizzazione del gruppo dirigente giovanile. Ad Almerigo Grilz, il migliore tra noi, il partito offrì la rappresentanza dei volumoni della Dino editori…

Fortunatamente, Amorese non si limita alla rivisitazione dei momenti attivistici e alle problematiche interne, ma restituisce vivacità e luce anche a tante storie apparentemente minori che dalla Sicilia al Piemonte hanno segnato una generazione di ragazzi entusiasti e allegri. Bene. Vi è però un punto che meno ci convince ed èil capitolo dedicato all’editoria. La scolastica romana — imperniata sulla “formazione spirituale del militante” e mutuata dall’extraparlamentarismo —, non riassume ne rappresenta il forte fermento che attraversò il FdG nazionale. Non molti tra noi prestarono attenzione ai “codreanisti integrali” capitolini e alle loro dogmatiche letture di Degrelle e del tercerismo. In tutt’Italia, con diverse sensibilità e profondità, il dibattito — come si può ricavare all’ottimo libro di Bozzi Sentieri “Dal neofascismo alla nuova destra, le riviste”, edizioni Nuove Idee — si inanellò su due coordinate principali. In primo piano vi fu l’influenza della Nuova Destra e della Nouvelle Droite francese. Nonostante le distanze sempre più marcate di Tarchi dal mondo giovanile, il lavorio degli anni Settanta aveva penetrato profondamente l’ambiente; sempre più distanti dall’evolismo, proseguimmo ad approfondire e riprendere categorie e schemi della ND calandoli, con grande sconforto (almeno apparente) di Marco, nell’impegno politico.

In quegli anni, oltre ai testi citati di De Benoist, Locchi e Veneziani etc, le letture si ampliarono notevolmente. Quindi Junger, Schmitt, Weber, Sombart, Heidegger, Faye, Cardini, Freund e Miglio e la riscoperta dell’avventura con Langendorff, T.E Lawrence, Saint Euxpéry e, ovviamente, i fumetti di Hugo Pratt. Nel frattempo scoprimmo grazie a Beppe Niccolai il Fascismo di Berto Ricci. La lettura del fiorentino ci riconciliò con l’esperienza del Ventennio — ridotta dal neofascismo a “legge e ordine” — e ci diede spunti per studiare con occhi nuovi De Felice e la sua opera e aprire un rapporto fruttuoso con Giano Accame sul pensiero economico di Pound e sul “socialismo tricolore”.

Torniamo all’oggi. Come sopra accennato “Fronte della Gioventù” non è un mero “amarcord” o un racconto consolatorio e nostalgico. È un libro importante che pone domande importanti. Sul passato prossimo e anche e soprattutto sul presente e sul futuro. Al netto delle nostre ingenuità e di tutti gli errori commessi, la piccola grande storia del FdG indagata da Alessandro Amorese dimostra che a destra, nonostante lo scetticismo di Tarchi, era possibile riflettere, pensare e, soprattutto, costruire buona politica.

Da Milano a Roma e Siracusa, da Padova a Bologna e Cagliari, in modi e forme diverse intuimmo i tempi nuovi e rifiutammo il piccolo cabotaggio nostalgico, inoltrandoci spensieratamente verso il mare aperto. Purtroppo le nostre scialuppe erano troppo piccole e fummo ributtati a riva. Fallimmo, certo. Per presunzione, per stanchezza. Poco importa. Ma la rotta era quella giusta.

Speriamo che qualcuno, leggendo questo libro, trovi un sestante, aggiorni le coordinate e, con spalle forti e schiena dritta, intraprenda un nuovo viaggio. Abbandonando gli inzuppati navarchi sulla spiaggia dell’oblio.

lunedì 27 gennaio 2014

Un giorno i giapponesi getteranno 30 Atomiche su New York


di Massimo Fini

Caroline Kennedy, figlia di JFK, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi "profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell'uccisione dei delfini" e ricordando che "il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica". La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e "come la signora ambasciatrice deve sapere noi viviamo di questa attività" ha detto il capo dei pescatori di Taiji.

Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla 'chi cojo cojo', con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini. Il governatore di Wakayama, Yoshinobu Nisaka ha replicato "La cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda. Ogni giorno vengono abbattuti maiali e vacche per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini?". E il governo nipponico ha tenuto il punto: "Questa forma di caccia è una tradizione culturale".

E' il secondo incidente diplomatico che, in soli due mesi, la signora Kennedy provoca in Giappone. A dicembre si era detta "delusa" perché il primo ministro Shinzo Abe si era permesso di visitare il sacrario di Yasukuni dove sono onorati "anche 14 leader politici e militari giapponesi", condannati per crimini di guerra nel 1946 (nei processi di Tokyo, l'equivalente nipponico di quello di Norimberga. Nel settembre 1986 il ministro dell'Educazione giapponese, Masayuki Fuijno, sollevò un putiferio ponendo l'elementare domanda: "Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?").

In realtà dietro queste schermaglie c'è qualcosa di molto più profondo. Qualche anno fa mi recai in Giappone invitato dall'università di Kyoto (nemo propheta in patria) a tenere una conferenza su "Americanismo e antiamericanismo. Il ruolo dell'Europa". In apparenza i rapporti fra Stati uniti e Giappone, che nel Pacifico è 'la quarta sponda' degli Usa, erano ottimi, i rapporti commerciali intensissimi. Ma nell'animo dei giapponesi cova un sordo rancore, anche se, chiuso nel loro impenetrabile formalismo, non viene mai espresso. Lo si può notare solo da dei dettagli. Nel periodo in cui ero in Giappone c'era stata una partita di baseball fra americani e giapponesi, che in questo sport sono assai forti, vinta dai primi 4-3 con un punto contestatissimo. Ebbene per giorni e giorni lo Yumiuri Shimbun e l'Asahi Shimbun, giornali serissimi, che parlano solo di economia e di politica internazionale, sono andati avanti a polemizzare su quel punto a loro dire 'rubato'. La partita era solo un pretesto. I giapponesi non hanno mai digerito l'Atomica su Hiroshima e Nagasaki e, ancor meno, anche se a noi può sembrare strano, che gli americani, vinta la guerra, gli abbiano imposto di 'dedivinizzare' l'Imperatore. L'Imperatore è la simbolica e intoccabile anima del Giappone, non è un uomo in carne e ossa (tanto che il mio giovane interprete, Ken, non ne sapeva nemmeno il nome, non per ignoranza, ma perché non ha importanza). In tanti secoli non c'è stato un solo tentativo di attentato all'Imperatore. Eppure le mura del palazzo imperiale di Kyoto, in legno, sono così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle agevolmente. Attraverso la 'dedivinizzazione' dell'Imperatore gli americani, col consueto tatto da elefanti in un negozio di cristalli, hanno cercato di uccidere l'anima stessa del Giappone. I giapponesi non glielo hanno mai perdonato. E sono convinto che verrà il momento in cui getteranno una trentina di Atomiche su New York.

domenica 26 gennaio 2014

25/01/2014: presentazione del libro "Le mie ragioni" all'insegna della continuità ideale


Ieri abbiamo ospitato nella nostra sede la presentazione del libro "Le mie ragioni",scritto dall'architetto Enzo Contini.
Nel libro l'architetto oltre a raccontare la propria esperienza nella Repubblica Sociale,quando giovanissimo si arruolò volontario nel battaglione Fiamme Bianche,all'età di 16 anni,racconta del padre che venne ucciso dai partigiani senza alcuna ragione,ed unisce ai racconti autobiografici tutta una serie di riflessioni sul perchè tanti giovani decisero di lottare per una causa ormai persa e quello che era stato per loro il ventennio fascista.
Un libro che tocca tematiche importanti ma molto scorrevole,corredato di documenti e sentenze non facili da reperire.
Quella di ieri è stata una giornata che ha unito la generazione di coloro che per l'onore sfidarono la morte a coloro che nel mare del nulla e della banalità continuano a lottare per un'Italia migliore.
Oggi come ieri sempre dalla stessa parte!

venerdì 24 gennaio 2014

Putin sotto assedio… degli U$A?

                  ribelli-siria
 fonte: Azione Tradizionale
 
Presunti e sedicenti jihadisti minacciano di compiere attentati durante le prossime olimpiadi invernali di Sochi. E gli U$A si scandalizzano, denunciano la propria seria preoccupazione. Il solito tempismo… Verrebbe da pensare che si vuole mettere in cattiva luce il Presidente Putin, amato dal suo popolo, ma non dai democ-ratti occidentali. E questi jihadisti magari sono al soldo delle solite potenze occulte, chissà.
(Repubblica.it) - Quando mancano soltanto due settimane all’inizio delle Olimpiadi di Sochi, è stato pubblicato un video indirizzato a Vladimir Putin in cui alcuni jihadisti del Caucaso del nord ammettono di essere i kamikaze che hanno colpito Volgograd a fine dicembre in due attentati, causando 34 morti.
Nel filmato due attentatori si rivolgono direttamente al presidente russo, minacciandolo di un “regalo per tutti i turisti che verranno ai Giochi, in nome dell’innocente sangue musulmano versato nel mondo”.
Gli Stati Uniti si sono detti “molto preoccupati” di questa minaccia che hanno classificato come “reale”. Micheal Mccaul, presidente della Commissione di sicurezza Usa, ha comunicato che “si stanno intensificando gli sforzi di collaborazione con la Russia, tanto che due decine di agenti dell’Fbi sono stati inviati al servizio di sicurezza per le Olimpiadi”.
A fargli eco il presidente della Commissione intelligence, Mike Rogers: “C’è una certa riluttanza dei russi a condividere informazioni con i servizi americani. C’è pertanto un gap, che si spera i russi colmino, prima che succeda qualcosa durante un evento così importante come i Giochi olimpici”.
Gli Stati Uniti, comunque, sono pronti a schierare forze aeree e navali, tra cui due navi nel Mar Nero, per aiutare la Russia a garantire la sicurezza delle Olimpiadi di Sochi. Lo ha annunciato ieri sera il Pentagono. “Gli Stati Uniti sono pronti ad offrire il loro pieno sostegno al governo russo per i preparativi della sicurezza in vista dei Giochi olimpici “, ha detto il portavoce del Pentagono controammiraglio John Kirby in un comunicato.
“Le risorse aeree e navali, tra cui due navi della Marina nel Mar Nero, saranno disponibile se richiesto per qualsiasi emergenza in sostegno e in consultazione con il governo russo”, aggiunge

giovedì 23 gennaio 2014

Mangi caramelle Haribo? Sei razzista!

tratto da Azione Tradizionale


I clienti dei Paesi settentrionali dell’Europa, soprattutto Svezia e Danimarca, palesemente politically correct, hanno gridato “al lupo, al lupo!” e la casa tedesca delle liquirizie Haribo, portatrice dal 1945 del “peccato originale”, come tutto il popolo tedesco, ha immediatamente ritirato le nuove caramelle raffiguranti le conosciutissime maschere tribali africane e sudamericane… Ormai il razzismo è psicosi collettiva.

(Il Giornale) - Così la Haribo, famosa casa dolciaria tedesca, ha deciso di propria iniziativa di ritirare dal mercato svedese e danese le sue caramelle di liquirizia, ovviamente di color nero, della forma incriminata. È essenziale ascoltare la voce dei consumatori, ha detto in tutta serietà il signor Ola Dagliden, responsabile di Haribo in Svezia. Questa voce, che è più che probabile rappresenti una minoranza insignificante ma appunto vociante, aveva cominciato a farsi sentire il mese scorso contro il contenuto della confezione «Skipper mix», le cui caramelle gommose ritraggono maschere tribali africane, asiatiche e sudamericane: l’idea, semplice e innocente, è quella di evocare i Paesi esotici toccati dal capitano di una nave («skipper», appunto) in giro per il mondo. Ma in Paesi come la Svezia e la Danimarca, dove il «politically correct» di sinistra è ormai una nuova religione puritana, c’è chi riesce a vedere in queste caramelle un bieco intento razzista. Così le Skipper Mix continueranno a essere vendute, ma senza più le liquirizie della discordia. E la pace sociale sarà salva.

mercoledì 22 gennaio 2014

Foibe. Roma con il sindaco Marino cancellerà i viaggi del ricordo in Istria e Dalmazia



di Martina Bernardini (Barbadillo)

Iniziano le strumentalizzazioni politiche da sinistra per delegittimare il ricordo dell’esodo istriano dalmata e la tragedia degli italiani ammazzati a migliaia nelle foibe dai partigiani comunisti slavi. Barbadillo.it oggi vi racconta la piega deprecabile che la celebrazione del “Giorno del Ricordo” sta prendendo a Roma, con la giunta di centrosinistra di Ignazio Marino.

“Roma è medaglia d’oro per la Resistenza, ha subìto il fascismo e il nazismo, la deportazione del ghetto. È quella la nostra memoria. Le Foibe, le ricorderanno altre città”. Sono parole dei nostri giorni, pronunciate lo scorso agosto dal vicesindaco di Roma Capitale, Luigi Nieri. A queste parole, si aggiunge la presentazione di un documento, depositato in Commissione Scuole, che prevede il dimezzamento del viaggio ai campi di concentramento nazisti, e la cancellazione di quello in Istria e Dalmazia. La denuncia è partita da Fabrizio Ghera, capogruppo di Fratelli d’Italia in Campidoglio. “Marino ignora che Roma – ha dichiarato Ghera – non solo accolse i profughi istriani, giuliano e dalmati in fuga dal dramma delle foibe , ma che esiste anche una legge dello Stato (n. 92 del 2004, ndr) che dispone l’obbligo per le scuole e le istituzioni di onorare e far conoscere la tragedia italiana degli infoibati per decenni nascosta e mistificata dalla storiografia di sinistra”.A seguito della denuncia di Ghera, la voce si è ben presto diffusa e la levata di scudi è stata immediata.

Il Comitato 10 febbraio ha dichiarato di aver appreso “con sconcerto, ma, purtroppo, con poca sorpresa” la notizia relativa alla “decisione di dimezzare i fondi per i viaggi della Memoria e l’annullamento dei viaggi alla Foiba di Basovizza e in Istria”.

“Il viaggio sui luoghi dei principali crimini del ‘900 – aggiunge il Comitato – non è solo un atto di tardiva giustizia e riconoscimento ma anche e soprattutto un insegnamento per le giovani generazioni. Fa specie, in particolare, osservare come il tema del Ricordo dell’Esodo degli italiani dalle terre istriane, fiumane, dalmate e delle Foibe, nonostante una Legge che dovrebbe impegnare le istituzioni a preservare e a promuoverne la conoscenza, sia sottovalutato e addirittura nascosto da figure istituzionali che in maniera miope lo riducono a episodio “di parte” e che dovrebbero invece comprendere l’importanza della memoria per ciascun cittadino. Non vorremmo che dietro questa scelta ci fossero motivazioni ideologiche che speravamo appartenessero al passato”.

Gli fanno eco Matteo Guidoni e Pierpaolo Ceci della Giovane Italia: “Se come sembra – dichiarano in una nota congiunta – in Commissione è stato un documento che dimezza i viaggi organizzati per le scuole ai luoghi della memoria dell’Olocausto e elimina completamente quelli destinati al ricordo dell’eccidio delle Foibe, non esitiamo a dire che questa volta il sindaco Marino ha davvero superato ogni limite, politico, amministrativo e di buon senso”.

“Vietare alle scuole di Roma la commemorazione del “Giorno del Ricordo” – proseguono – è un affronto inaccettabile che calpesta una legge dello Stato e offende la memoria storica degli italiani. Inoltre salta subito all’occhio come questa amministrazione non abbia a cuore la formazione dei giovani della nostra Città, e come non abbia alcun interesse ad essere un’amministrazione rispettosa nei confronti di tutti i suoi cittadini ma piegata solo ai propri interessi di parte”.

“Prendiamo atto – concludono – che la giunta Marino non ha intenzione di prendere parte al processo di pacificazione nazionale che, anzi, crede di poter calpestare senza nessun ritegno”.

Da parte del Campidoglio è giunta una pseudo-smentita. Alessandra Cattoi, assessore alla Scuola ha affermato che non è intenzione dell’amministrazione capitolina dimezzare i fondi per il viaggio ad Auschwitz per il 2014. Per quanto riguarda le Foibe, ha invece affermato che è in atto un confronto con la Società di Studi Fiumani per riflettere “sulle modalità più opportune per celebrare il Giorno del Ricordo”. Ma la cosa più opportuna da fare, sembra una: ricordare, con rispettoso silenzio.

martedì 21 gennaio 2014

15 MARZO: GRANDE CORTEO TRICOLORE A FIRENZE...


Come ogni anno la destra fiorentina, composta di tutte le sue anime e unita dal tricolore, sarà in piazza nella settimana della ricorrenza dell’UNITA' D'ITALIA. Ci saremo per ricordare i MARTIRI DELLE FOIBE: migliaia di innocenti trucidati e dimenticati dall’odio comunista perché italiani. Manterremo viva la loro memoria e, partendo da quel sacrificio, lanceremo un messaggio al paese e torneremo a parlare del FUTURO DELLA NOSTRA NAZIONE

E’ necessario tornare a presidiare le strade in un momento di crisi. Crediamo che occorra ribadire con forza l’importanza della nostra IDENTITA’ DI POPOLO E DI NAZIONE: occorre farlo adesso, prima che sia troppo tardi. Qui e ora, perché stiamo subendo i colpi della speculazione finanziaria che sta divorando la nostraSOVRANITA’ MONETARIA; perché stiamo accusando l’assenza di un governo eletto e abbiamo perso la nostra SOVRANITA’ POLITICA; perché stanno smantellando la nostra SOVRANITA’ CULTURALE per lasciare il posto a modelli multietnici che non ci appartengono; perché hanno minato le basi della GIUSTIZIA SOCIALE anteponendo il profitto alla solidarietà e la massa informe alla comunità; perché stanno uccidendo ilFUTURO DEI NOSTRI FIGLI rendendolo precario, fiscalizzato, privatizzato e omologato. 

Essere in piazza, il 15 MARZO, è un dovere etico: significa accendere una fiaccola e illuminare il buio di questo tempo. Significa riaccendere simbolicamente la fiamma dei valori che hanno animato la nostra Civiltà. Esserci: per ricordare e costruire, per continuare a sperare, per riconquistare quello che ci spetta. Con noi, assieme ai tanti ospiti nazionali che interverranno, ci saranno tutti i movimenti politici del territorio che difendono l’identità di questo paese e hanno a cuore il suo futuro. Non ci saranno simboli di partito, ma solo vessilli tricolore: perché non ci interessa il destino di una parte, ma quello di un Popolo.


GRANDE CORTEO TRICOLORE
SABATO 15 MARZO ORE 15
PIAZZA SAVONAROLA - FIRENZE
CON OSPITI NAZIONALI E TUTTI I MOVIMENTI

Filosofia e sapere sacro



Di Mario M. Merlino (Ereticamente)


All’origine d’ogni cosa Talete pose l’acqua. Forse guardando il mare dove Mileto attingeva la ricchezza e la libertà, minacciata dai persiani per via di terra. Politico era, dunque, il suo pensiero, orgoglioso d’appartenere alla città-stato. E fu così che, abbandonando lo spazio angusto del mito, nacque la filosofia. Presunzione ed arroganza. Dalla meraviglia (il ‘divino stupore’ l’aveva definito Platone), che suscita il domandare, pensò Aristotele, e con il domandare e il conseguente tentativo di darsi risposta, espresso tramite il lògos, quel linguaggio che sa elevarsi a necessario e universale.

E, dopo Talete, venne Anassimene che, di fronte alla difficoltà di trovare ovunque e comunque lo stato umido in ogni cosa, volse attenzione e studio all’aria che protegge e avvolge il mondo e dentro di noi è vita. Pneuma e, come tanti termini dell’antica Grecia, ancora in uso. E, di fronte alla morte, esalare l’ultimo respiro… Il poeta Bione descrive come la dea Afrodite si chini sul corpo, dilaniato dal cinghiale, di Adone semplice mortale e gli chieda l’estremo bacio affinché l’anima di lui si trasferisca in lei. Nel letto di ospedale di Riccione, tenendogli la mano, con gesto caro e inutile, mio padre se ne andò con un piccolo sbuffo, quasi un soffio di troppo…

(Qui non dirò di Anassimandro che parla di una materia primordiale, da lui chiamata a-peiron, cioè priva di limiti e determinazioni né di Pitagora di Samo che, per primo, si fregiò del titolo di filosofo e utilizzò l’armonia dei numeri per descrivere uomini e cose né di Parmenide di Elea, ‘venerando e terribile’ secondo la lapidaria definizione di Platone, che distinse l’essere dalle opinioni mutevoli e fallaci, aprendo così quella ‘via del giorno’ ove s’incamminarono i costruttori di ardite visioni sistematiche).

Ed ecco Eraclito, conosciuto fin dall’antichità con l’epiteto di ò skoteinòs, cioè il tenebroso, per il suo esprimersi in brevi sentenze, quella forma in aforismi tanto congeniale a Nietzsche. Nella natura senza principio né fine vige la legge dell’eterno divenire, il mutare incessante di tutte le cose, ‘dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame’. Quel suo ‘tutto scorre’ che lo ha reso famoso così come l’altro suo detto ‘la guerra è madre di tutte le cose, di tutte le cose regina; essa rivela gli uni dei, gli altri uomini, gli uni fa liberi, gli altri schiavi’. Come raffigurare, dunque, questa mutevolezza? Con la sostanza, la meno consistente, cioè il fuoco – esso si muta in aria e con la pioggia in acqua e sulla terra per divenire nuovamente fuoco. Il fuoco che arde sotto gli altari degli dei…

Acqua ed aria e fuoco…e della terra ove l’uomo misura il passo e l’aratro? Nel Timeo Platone torna più volte su questi tre elementi, ricordando come essi si modifichino l’uno nell’altro, abbiano fra loro stretto rapporto, siano di quell’essere originario somiglianza e radice comune (ciò è riscontrabile nel linguaggio, tutti e tre essendo di genere ‘neutro’). Diversamente, e a sè stante, si pone la terra quasi fosse reietta indegna ad elevarsi a sostanza primigenia, subendo dagli altri ostracismo e solo, passivamente, subendo su di sé l’altrui violenza (che, in greco, è al femminile come in molte delle lingue indo-europee). La terra s’identifica con la materia, informe magma, ‘massa visibile, che era in continua agitazione e che si muoveva senza misura e senza ordine’, a cui il Demiurgo, il sommo artista, dà equilibrio e l’avvicina al modello ideale secondo il mito, di cui Platone è insuperabile creatore.

E di materia è l’umano corpo, subendo dunque anch’esso la medesima condanna, lo stesso disprezzo (dalla Repubblica: ‘In ciascuno di noi, anche in quelli che sembrano più padroni di sé, vive un mondo di crudeli desideri e di passioni brutali e sfrenate’. Da cui si ricava come la modernità, Freud e dintorni, nulla di nuovo hanno estratto dal cilindro di prestigiatori, di mediocri illusionisti). Con Socrate, che si rallegra di morire in quanto si libera dalla prigione della carne in cui l’anima s’è trovata ristretta, si parte – e il cristianesimo vi contribuirà prepotentemente – la lunga inimicizia tra lo spirito (sovente identificato con la ragione) e il corpo, luogo dell’umano limite ed errore.

(Solo Empedocle, agrigentino, mago e taumaturgo, convinto sostenitore della metempsicosi – ‘perché fui un tempo fanciullo e fanciulla, arbusto ed uccello e muto pesce che salta fuori dal mare’ - l’accomuna agli altri tre nel darsi a ulteriori forme e disgregarsi. E Amore e Discordia regolano e impongono lo star insieme o, al contrario, il loro disperdersi. Di lui, però, resta solo un calzare al bordo della bocca dell’Etna… precipitatovi dentro, secondo i suoi detrattori, o portato in cielo dagli dei per i suoi discepoli, e ciò non lo sapremo mai. Certo rimane che neppure il materialismo dei secoli successivi seppe o volle nobilitare la terra fino a quando il padre di Zarathustra intimò ai fratelli di restare ad essa fedeli, rinunciando ad ogni pretesa e inganno metafisico…).

C’è da chiedersi, allora, se la filosofia, consapevole o meno, si sia posta a servizio del mito primordiale, svolgendo il ruolo di severo giudice e boia, ed abbia inteso così vendicare il cielo, Urano, privato dei genitali, da Gaia (questo il nome della dea che, poi, andò mutandosi in Gea). Se il nostro affabulare è arditamente possibile, beh, allora è vero come il filosofare non è altrimenti che un laico depotenziamento del sapere sacro…

lunedì 20 gennaio 2014

L'Europa che non c'è e il lievito russo


di Pietrangelo Buttafuoco - Giacomo Guarini

Domenica 12 gennaio è stato presentato presso il Caffè Letterario di Roma l’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco, “Il dolore pazzo dell’amore” (Bompiani, 2013). Buttafuoco, giornalista e scrittore, è stato anche conduttore televisivo, portando sulla tv italiana il primo e a oggi ultimo programma espressamente dedicato alla geopolitica (“Il Grande Gioco”). Giacomo Guarini lo ha intervistato per noi.


Una prima domanda che vorrei farle è sulla Russia, come realtà antropologica. Cosa dovrebbe attingere, a suo parere, l’Occidente dalla cultura russa, anche nell’espressione religiosa del Cristianesimo ortodosso?

Il lievito. La cultura russa o, meglio ancora, lo spirito russo è il lievito fondamentale che un’aggregazione continentale quale è l’Eurasia può avere attraverso meccanismi di uno sviluppo spirituale, culturale e non ultimo anche politico; è quel sentimento di radicamento in un’identità forte, che non preclude altre possibilità ma anzi apre alla possibilità universale. Molto più di quanto possa fare la Chiesa cattolica che invece è estenuata dal morbo cosmopolita, dalla fatica di dover essere considerata sempre alla stregua di un ufficio di servizio sociale e da quella malattia che una volta si chiamava filantropia e che oggi è una forma di umanismo che degenera nelle espressioni del pop. Tant’è vero che l’attuale pontefice Bergoglio non sembra più un capo spirituale ma un collega del Dalai Lama.

Con i tentativi di dialogo con Teheran da parte di Washington, l’Iran sembra aver in parte perso quella connotazione mediatica di ‘mostro’ sullo scacchiere internazionale. Quali opportunità sul piano politico, geopolitico e culturale potrebbero derivare per l’Europa da una distensione con Teheran?

L’Europa non esiste, perché se per Europa intendiamo l’Unione Europea, l’elemento fondamentale che manca all’Unione Europea è proprio l’Europa. Non esiste. Esistono singole realtà che possono invece avere interessi geopolitici diversi, ma per poterli perseguire è necessario che abbiano un margine di sovranità molto più ampio di quanto sia dato dall’attualità. Per l’Italia, con la sua storia millenaria, con la sua identità è ovvio e naturale aprire un canale di contatto, un flusso vero e proprio, perché è pur sempre la patria della Via della Seta. Il concetto di Via della Seta ci è comune, all’Italia tanto quanto alla Cina, per andare ai due poli opposti. E l’Iran di oggi non è diverso dall’Iran di ieri. Oserei dire che l’Iran della Repubblica Islamica è ancora una volta lo stesso Iran di quello precedente alla rivoluzione, che è ancora una volta uguale alla sua tradizione millenaria. Tant’è vero che non è stato cancellato niente di quella che era la presenza stessa della specificità persiana. Sono tutti elementi più che positivi, che per essere svegliati ad una consapevolezza necessitano però di una precisa volontà politica, che ancora una volta si riferisce alla necessità di un agglomerato continentale eurasiatico.

Passiamo infine al Mediterraneo ed alle destabilizzazioni che lo hanno attraversato da tre anni a questa parte e che avevano preso inizialmente il nome di “Primavere”. A cosa possono portare simili processi: ritiene che siano atti a dividere e a tracciare un solco ancora più profondo fra le diverse sponde del Mediterraneo oppure dagli sconvolgimenti occorsi possono nascere delle nuove opportunità per l’integrazione dell’area?

Rispondo con un dato apparentemente lontano ma secondo me inequivocabile. Dobbiamo aspettare la fine dei giochi invernali olimpici, perché quello è il vero terreno dove assisteremo ad una partita a carte scoperte. Perché l’accusa precisa che Putin ha rivolto all’Arabia Saudita deve essere svelata attraverso quello che succederà ai giochi olimpici invernali. Per quanto siano distanti quelle nevi, ci portano inevitabilmente alle sabbie del Maghreb. Solo lì capiremo qual è il gioco e fino a che punto si spinge il progetto di destabilizzazione. Perché non c’è alcun dubbio su questo, se facciamo testo della denuncia di Putin che ci sia il tentativo di foraggiare un terrorismo fondamentalista che nulla ha a che fare con l’Islam, e nulla a che fare con le esigenze, il progetto e la volontà del Mediterraneo.

sabato 18 gennaio 2014

Perché l’Occidente post-moderno deve liquidare il concetto di famiglia?



di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

A tale proposito cercò di rispondere, attraverso gli strumenti e le soluzioni freudiane, il filosofo Herbert Marcuse (1898 – 1979) nel suo saggio Eros e civiltà. Partendo da un’analisi storica, già intrapresa da Freud, è necessario comprendere in che modo la famiglia tradizionale non rappresentò mai un organo perfetto, ma propriamente il luogo del conflitto edipico. Un luogo dunque dove le soggettività si scontrano, dove la figura paterna e autorevole influenza, assieme agli altri fattori istituzionali del principio di realtà, la creazione del Super-Io, quell’istanza intrapsichica che regola la vita morale dell’individuo e la adegua ai valori della società. Ogni generazione, dunque, si faceva latrice di un conflitto, una lotta contro il padre, a cui seguiva la relativa uccisione di questo. Ma questo conflitto, ci dice Marcuse, era frutto di una “storia” individuale, e la stessa formazione del Super-Io, ovvero la modificazione repressiva degli impulsi primordiali, divenne un’esperienza tipicamente personale. La famiglia era dunque il luogo di creazione (o repressione in vista di un adeguamento) della persona in seno alla società e, allo stesso tempo, il luogo attraverso cui l’individuo si libera e trasforma privatamente le regole ed i valori in un “destino individuale”. Questo fenomeno di individualizzazione è ben lontano dall’odierno individualismo.

Un cambiamento strutturale dell’attività economica ha tuttavia generato una regressione del ruolo della famiglia. Infatti una volta avvenuto il passaggio da capitalismo “libero” o famigliare e individuale, a capitalismo “organizzato”, le unità del sistema sociale furono assorbite da “gruppi e associazioni impersonali di proporzioni più vaste”. La post-modernità si viene dunque a caratterizzare da un governo monopolistico e centralizzato dell’economia, della politica e della cultura, cosicché la repressione degli istinti e la formazione del Super-Io, non sono più delegati alla famiglia, e vengono bensì subordinati, in maniera collettiva, ad un intero sistema di “fattori e influenze extra-famigliari”. L’istituzione famiglia non poté più competere con la televisione, il cinema, la radio, la pubblicità ed i diversi mezzi tecnici d’influenza delle masse: i nuovi canali di trasmissione di modelli, norme e valori. La conseguenza fu che il conflitto edipico, così come lo intese Freud, si spense, poiché il padre non meritò più di essere ucciso, e il figlio si erse sin da subito a rappresentante di una cultura nuova e già matura rispetto alle antiquate forme paterne: “il padre ha meno da offrire, quindi meno da proibire”. A punire ora sono i fenomeni sociali, quali l’esclusione dalla vita di gruppo, o l’impossibilità del riconoscimento e dell’accettazione. La post-modernità è un’epoca in cui i conflitti classici tra Es, Io e Super-Io si esprimono secondo dinamiche diverse.

La famiglia a questo punto diventa un organo di creazione di individualità, di insubordinazione nei confronti di una società totalizzante e spersonalizzata, e si pone in quanto alternativa alla centralizzazione delle “istituzioni repressive” che determinano, soddisfano e controllano i bisogni dell’individuo.

venerdì 17 gennaio 2014

Sofri e Calabresi, vi racconto la storia


di Massimo Fini

Nel serial documentaristico Gli anni spezzati (gli anni di piombo) Rai Uno si è anche occupata dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio del 1972. Quella mattina mentre il commissario usciva di casa, in via Cherubini 6, e stava per salire sulla sua 500, fu avvicinato alle spalle da un uomo che sparò due colpi di pistola, uno alla nuca, l’altro alla schiena, poi risalì su una 125 blu guidata da un complice e sparì nel traffico.
É CURIOSO che in questo documentario, nel complesso abbastanza sgangherato non si facciano mai i nomi degli assassini (se non nei titoli di coda): Adriano Sofri, il leader carismatico di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, il suo braccio destro, condannati a 22 anni di carcere come mandanti, di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino esecutori materiali del delitto (il primo sparò, il secondo guidava la 125 blu). Come se si volesse rimuovere dalla memoria dell’opinione pubblica non solo i responsabili di quel delitto ma anche l’ambiente in cui maturò. É strabiliante che si tenti questa obliterazione mentre, pur essendo quei fatti assai lontani, molti testimoni del tempo sono ancora vivi.
Io sono fra questi. Nel 1972 facevo il cronista all’Avanti! e abitavo in via Verga a non più di duecento metri da via Cherubini. Fui uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto. Il corpo di Calabresi era già stato portato via, ma sull’asfalto c’erano ancora pozze di sangue mentre qualcuno stava spazzando via, mischiandoli a della segatura e buttandoli in una di quelle palette che servono per sbarazzarsi della spazzatura, brandelli di cervello.
Lotta Continua e il suo settimanale, di cui erano o erano stati o sarebbero stati direttori-prestanome intellettuali di più o meno chiara fama, da Piergiorgio Bellocchio a Pio Baldelli, Pasolini, Adele Cambria, Pannella, Giampiero Mughini, aveva condotto una feroce campagna contro il commissario Calabresi accusandolo di essere il responsabile della morte dell’anarchico Pino Pinelli “caduto” nella notte fra il 15 e il 16 dicembre dal quarto piano della Questura di Milano dopo tre giorni di interrogatori in seguito alla strage di Piazza Fontana avvenuta pochi giorni prima (12 dicembre).
Conoscevo bene gli ambienti anarchici. Nel 1962 quando facevo la prima liceo al Berchet, un gruppo di giovanissimi anarchici aveva rapito a Milano il viceconsole spagnolo (a cui peraltro non verrà torto un capello) per cercare di impedire la condanna a morte di un antifranchista, Conill Valls. Alcuni di quel gruppo venivano dal Berchet, ne erano usciti da pochissimo. Altri giovani anarchici, Tito Pulsinelli, Joe Fallisi, Della Savia li avevo conosciuti in seguito in uno dei bar di Brera, frequentato anche da Calabresi, poliziotto moderno, abile e accattivante, che girava in maglione, avevo incontrato anche Pino Pinelli, più anziano degli altri, sulla quarantina, che faceva il ferroviere. Pinelli era il classico anarchico d’antan, lo era culturalmente e sentimentalmente, ma come uomo era mitissimo, uno che non avrebbe fatto del male a una mosca. Che si fosse gettato dal quarto piano gridando “É la fine dell’anarchia! ” andandosi a spiaccicare nel cortile della Questura, che era la versione della polizia, pareva a tutti inverosimile. Da qui la campagna contro Calabresi (che verrà poi assolto da ogni addebito perché al momento del volo di Pinelli non era nella stanza, c’erano altri poliziotti) condotta da Lc ma anche, sia pur con toni meno accesi, dall’Espresso e dall’Avanti!. Le indagini invece di puntare su Lotta Continua, il cui giornale nel titolo e nell’editoriale di Sofri aveva sostanzialmente plaudito all’omicidio (c’era stata anche una riunione del Direttivo di Lc in cui si era discusso se attribuirsene anche materialmente la paternità) si diressero a destra. Perché in quegli anni postsessantottini in cui quasi tutti i giornali e i giornalisti se la davano da rivoluzionari era un delitto di lesa maestà indagare a sinistra, anche se la stella a cinque punte delle Br aveva già cominciato a brillare. Mi ricordo il tempo che si perse a seguire le piste di un giovane estremista di destra, Gianni Nardi, figlio di una facoltosa famiglia di San Benedetto del Tronto. Passarono così inutilmente gli anni e alla fine l’omicidio Calabresi fu archiviato fra i tanti casi irrisolti della recente, e torbida, storia italiana.
SEDICI ANNI DOPO, nel 1988, Leonardo Marino, un ex operaio della Fiat, ex militante di base di Lc, che vendeva frittelle in un baracchino ambulante di Bocca di Magra, mentre molti suoi compagni di origine borghese, Sofri compreso, si erano ben sistemati nei giornali, nell’editoria, nella politica e, più in generale, nell’intellighentia, si autodenunciò per l’omicidio Calabresi: lui e Ovidio Bompressi erano stati gli esecutori materiali, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani i mandanti. Marino non era un pentito, diciamo così, classico, non era in prigione, non era indagato, nessuno lo cercava, viveva tranquillo a Bocca di Magra, non aveva nessun interesse a confessare un omicidio che gli sarebbe costato undici anni di galera (anche se poi, grazie proprio alla capacità degli altri imputati a portare il processo per le lunghe, la sua pena cadrà in prescrizione, ma al momento della sua confessione Marino questo non poteva saperlo).
Al processo, iniziato nel novembre del 1989, Sofri e gli altri si difesero malissimo. Negando anche l’evidenza. Negando che esistesse un secondo livello di Lc dedito agli “espropri proletari”, cioè alle rapine. Una di quelle rapine fu compiuta con la mia macchina, una Simca coupè rossa che un mio amico, Ilio Frigerio, militante di Lc, mi aveva chiesto per uscirci, disse, con una ragazza, la sera. Me l’avrebbe riportata la mattina dopo. E in effetti la mattina la macchina, intatta, era nel mio garage. Qualche tempo dopo Ilio mi confessò che aveva dato la mia macchina ad altri militanti di Lc che avevano bisogno di un’auto “pulita” per fare una rapina. In quanto a Pietrostefani dalle sue dichiarazioni sembrava che in Lc fosse stato solo di passaggio. Mentre tutti sapevano che se Sofri era l’ideologo Pietrostefani era il capo dell'organizzazione. “Chiedilo a Pietro”, dicevano i militanti di Lc quando c’era un problema di questo genere da risolvere.
DURANTE I VARI processi che si conclusero nel 1997 con una condanna definitiva della Cassazione, e anche dopo, venne fuori tutto il ripugnante classismo dell’entourage degli ex Lotta Continua (Roberto Briglia, Gad Lerner, Luigi Manconi, Marco Boato, Paolo Zaccagnini, Enrico Deaglio, Guido Viale): la testimonianza di Leonardo Marino non valeva niente, perché era un venditore di frittelle, un ex operaio, un plebeo, niente a che vedere con la raffinatissima intelligenza di Sofri. Una degna conclusione per chi era partito per buttare giù dal trespolo i padroni.
SOFRI HA AVUTO otto processi, due sentenze interlocutorie della Cassazione, una assolutoria (la cosiddetta “sentenza suicida” perché il dispositivo era volutamente in stridente contraddizione con la motivazione), quattro condanne. Ha goduto anche di un processo di Revisione, a Venezia, cosa rarissima in Italia che probabilmente nemmeno Silvio Berlusconi riuscirà a ottenere. E anche il processo di Revisione ha confermato la sentenza definitiva della Cassazione del 1997. Nessun imputato in Italia ha mai avuto le garanzie di Adriano Sofri. Nonostante tutto ciò la potente lobby di Lotta Continua, divenuta trasversale e incistata in buona parte dei media, ha continuato a proclamare a gran voce la sua innocenza e a pretenderne la scarcerazione per grazia autoctona del Capo dello Stato. Nel frattempo Sofri è diventato editorialista principe del più venduto settimanale di destra, Panorama, e del più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica. Per meriti penali, suppongo, perché in tutta la sua vita Sofri ha scritto solo due pamphlet, mentre proprio la prigionia gli avrebbe dato la possibilità di scrivere, perché il carcere è un posto atroce ma ha infiniti tempi morti (Caryl Chessman, Il bandito della luce rossa, condannato a morte per dei presunti stupri, scrisse in galera quattro libri, fra cui due capolavori: Cella 2455 braccio della morte e La legge mi vuole morto). Quando, a volte, un’università o qualche liceo mi invitano a tenere lezioni di soi-disant giornalismo e, alla fine, i ragazzi mi si affollano attorno e mi chiedono come si fa a diventare giornalista, rispondo: “Uccidete un commissario di polizia o, se non avete proprio questo stomaco, prendete tangenti come Cirino Pomicino”.
Indubbiamente Adriano Sofri, da giovane, aveva un indiscutibile carisma. Anche un uomo di forte personalità come Claudio Martelli ne subiva il fascino se ha chiamato Adriano uno dei suoi figli in omaggio all’amico. Io questo fascino non l’ho mai capito. Era piccolo, mingherlino, il mento sfuggente del prete, l’aspetto molliccio per nulla virile. Ma, si sa, le vie del carisma sono misteriose. Il giornale di Lotta Continua pubblicava le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di fascisti o presunti tali, alcuni dei quali aggrediti sotto casa, specialità della ditta, sono finiti in sedia a rotelle. Almeno questo dovrebbe far riflettere i difensori d’ufficio di Adriano Sofri.

giovedì 16 gennaio 2014

“Genitore 1 e 2″? Anche gli studenti dicono no, la sinistra se ne faccia una ragione



di Antonio La Caria (Secolo d'Italia)

La parola ai giovani. La sinistra si è illusa di vivere ancora negli anni Settanta, con i “collettivi rossi” che manipolavano le masse studentesche in nome di un non meglio identificato anticonformismo. Bastava una parola d’ordine e tutti a diffondere il Verbo, senza neppure porsi il problema se fossegiusto o sbagliato. E ancora oggi, in molte occasioni, c’è stato il tentativo di mettere le mani sul mondo scolastico, facendo infiltrare nelle manifestazioni i militanti dei centri sociali o ricreando quella figura-totem del responsabile d’istituto capace di orientare il pensiero degli studenti. L’importante era dare l’idea dell’essere alternativi, figli di una modernità dai contorni fumosi, dire qualcosa di diverso dalla logica borghese, anche se è una logica che non esiste praticamente più. Ma le idee scarseggiano. Cosa c’era di meglio che frantumare l’idea della famiglia classica, dei “matusa”? Ma i tempi sono cambiati e nessuno è disposto a farsi prendere per i fondelli. Ed ecco che la grande innovazione di alcuni esponenti del governo Letta e della sinistra è stata respinta al mittente: la dicitura “Genitore 1″ e “Genitore 2″, in luogo di padre e madre? Ma non scherziamo. Il 47% dei ragazzi – secondo quanto emerso da un sondaggio on line condotto dal portale Universinet.it attraverso un breve questionario a cui hanno risposto oltre duemila studenti – si è detto contrario a cambiare la dicitura sui moduli scolastici. Una percentuale quasi doppia rispetto a un misero 28% che invece vede con favore questa nuova formula. C’è poi un 20% degli intervistati che considera il tutto un falso problema. «Se proprio dovete – commenta il direttore di Universinet.it, Renato Reggiani – lasciate solo la parola genitore, senza quei numeri che offendono prima di tutto la nostra ragione». E se si dovesse ritenere di cambiare comunque, nonostante le perplessità dei più, allora – suggerisce Reggiani – scriviamo «persone responsabili», come hanno fatto in Belgio. «O – si domanda – questa parola antica “responsabilità” spaventa troppi nel 2014?». Una domanda probabilmente fondata, perché, da che mondo e mondo, responsabili dei figli sono il padre e la madre, e non il “genitore 1″ o il “genitore 2″. La sinistra se ne faccia una ragione.

mercoledì 15 gennaio 2014

Carlo Mazzantini e l’epica dei giovani fascisti e i ragazzi di oggi...



di Renato de Robertis (barbadillo.it)


I romanzi della fine di un’epoca sono l’esperienza letteraria più vera. Sono un bilancio storico-artistico per mettere ordine alla nostra idea di letteratura. E’ il momento di rileggere quelle opere che raccontano la fine di una civiltà, per ricordarsi anche del ‘romanzo dei vinti’. Qui il problema critico è interpretare diversamente i sentimenti dei vinti o la loro vita divenuta letteratura. Per tutto ciò è tempo di ripartire dal binomio arte/vita, per riposizionare la letteratura oltre la fiction narrativa di moda.

Carlo Mazzantini (1925/ 2006) dedica ai ragazzi della fine del fascismo il romanzo A cercar la bella morte (1995). E non si tratta oggi di un argomento da fascistume, in quanto, con le vicende dei giovani repubblichini di Mazzantini, si insegue un’idea di arte letteraria; si alimenta il bisogno di rileggere i romanzi di ambientazione storica;si rabbrividisce ancora una volta per le fucilazioni pazzesche; e, nello stesso momento, si riscopre il dolore per i corpi dei fascisti e dei comunisti crivellati. In questo romanzo dimenticato – tutto “brutale poesia” come scrisse Giordano Bruno Guerri – si esprime una vivente letteratura storica, quasi segnata da cenni di scrittura espressionistica. Oggi saremmo tentati di chiamarlaletteratura cannibale – e Aldo Nove non sarà d’accordo. Ma nell’opera di Mazzantini, così vera, si respira l’odore del sangue, “Era incredibile che quell’ammasso di carni sanguinolenti avesse tanta forza per soffrire e urlare in quel modo. Erano riusciti a legargli i tronconi delle gambe coi cinturioni e sull’asfalto c’erano brandelli di tela bruciata e di carne.”(pag. 232)

Questo non è solo il romanzo dei fascisti della guerra civile. Questo è il romanzo della morte o di una specie di esistenzialismo non di sinistra. La morte come avventura o come ‘presunzione ideologica’, “Siamo sempre quelli! i mai morti! i sempre pronti!” (pag. 158) Ma, per questa idea, la retorica del morire per la patria non prevale sempre. Nel romanzo la morte qualche volta è anche un evento semplice, “…ti apposto dietro un albero e tratratrà: steso… Uno di meno: fai una tacca sul calcio e te ne vai. Tutto quello che ci spettava.”(pag. 166)

Sicuramente è una morte che non fa paura ai ragazzi, alla gioventù illusa dalla dittatura e dai miti romantici, ai ragazzi che non hanno più nulla e conoscono solo il ‘tempo della fine’. Cioè la fine di un’epoca: la morte di un’Italia..,“L’Italia?.. Sotto quei monti, il vento che infuriava fuori, la catasta dei faciloni, l’odio, la disperazione, la sconfitta, quelle nostre uniformi sdrucite, tutta quella miseria… L’Italia?” (pag. 125)

Professori, siate coraggiosi! Leggete in classe tale romanzo! Sarebbe una scossa elettrica nelle teste dei ragazzi dellagenerazione Facebook. Fatelo leggere per dimostrare che i giovani, di ieri e di oggi, sono i veri ingannati dalla storia. Come i giovani garibaldini che, nell’Ottocento, vanno a braccetto con la morte, mentre gli anziani notabili già siedono in Parlamento senza ricordarsi dei diritti dei giovani patrioti con le ‘camicie rosse’. Nel disordine della storia, tutti sono contro tutti. E tutti sono sconfitti, “Ecco, tutti divenuti più piccoli, vulnerabili: un senso di miseria, di essere più niente, alla mercé di ciò che succede, senza poter più opporre un gesto, un parola un nulla.” (pag. 17)

I giovani repubblichini de ‘la bella morte’ creano un racconto epico. Entrano nella perenne sciagura della storia, con gli adulti che svendono e distruggono un paese e con i giovani che invece si ammazzano nelle strade. Perciò i giovani fascisti di questo romanzo pretendono l’ultima parola. E non si battono contro gli americani, ma contro tutte le autorità,“I grandi non esistono più!” proclamavano. “La disfatta li ha aboliti. Siamo tutti eguali! Che non ci vengano a rompere i coglioni!” (pag. 38)

Qualcuno ha detto che i repubblichini sono come i rivoluzionari del ’68, questi ultimi vittime dell’ideologia, della società bloccata e gerarchizzata. Vittime che vivono con le loro parate o con i loro cortei. E tutti uniti, purtroppo, da una triste illusione: la rivoluzione, “Questa è la rivoluzione, volete capirlo? Le rivoluzioni non si fanno con i guanti bianchi. No! Stavolta non si ripetono gli errori del ’21! Stavolta si fa piazza pulita! Pietà l’è morta!” (pag. 129)

Le frasi del romanzo di Mazzantini scattano come molle tese. Consegnano, al lettore, una visione infiammata di quei ventenni del 1945, di quei ragazzi che sbagliano e sono travolti dagli eventi della guerra civile. Con il passare degli anni, tuttavia, l’opera si mostra artisticamente completa. La mirata assenza di piani temporali narrativi; il realismo acuto; le pagine che sembrano sussurrare: Stai attento, sta per accadere qualcosa nella pagina seguente!Il che genera il bisogno di leggere subito un romanzo storico con questi caratteri.

E per il dibattito sul cosiddetto romanzo neo-storico contemporaneo, la rilettura critica di ‘A cercar la bella morte’assume un preciso significato. Cioè, si provi a riattualizzare questo passato italiano per collegarlo idealmente alla sconfitta delle giovani generazioni, a tutte le generazioni che perdono l’innocenza, “Già noi non eravamo più innocenti. No, certo non lo eravamo più! Avevamo ucciso, violentato… Ma quanti lo erano allora?” (pag. 313) Allora, con le naturali differenze tematiche e creative, è il momento di auspicare opere narrative utili ad un riesame della relazione passato/presente, perché no… ripartendo anche da un romanzo sui fascisti degli anni settanta o sui miti tragici delle gioventù.

Ora, dopo anni dalla sua pubblicazione, l’opera narrativa di Mazzantini indica una ‘rotta’ per uscire dal mare della letteratura di plastica; indica che è possibile ritrovare il gusto della ricerca storica e le ragioni per narrare, rimanendo distanti dalla dimensione letteraria odierna fatta di entertainment diffuso.