di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)
La post-modernità può essere definita come un’immensa sintesi di una serie di contraddizioni di natura economica, politica e sociale. Infatti in quella che è l’era dell’abbondanza, dell’obesità e dell’iper-consumo – fenomeni prima del Novecento sconosciuti – si è creato, paradossalmente, un movimento inverso: la miseria. In un’epoca in cui i benefici della rivoluzione industriale e della tecnica – fin troppo esaltati dai fautori spudorati del “progresso” – sarebbero in grado di saziare ampiamente i bisogni primari della popolazione del nostro continente e non solo, l’Euorpa conta 43 milioni di poveri e 4 milioni di “senzatetto”. E questo termine si aggiunge ad una lunga lista, tra cui “disoccupazione”, “precarietà”, “miseria”, che intasa quotidianamente i nostri Mass Media e che è apparsa soltanto dopo la rivoluzione industriale, apogeo dell’ideologia materialista borghese.
Prima esistevano poveri, ma non disoccupati, vagabondi, ma non “senzatetto”. La miseria fu un fenomeno del tutto sconosciuto all’Occidente pre-industriale che inseriva il povero non solo in una realtà cristianamente dignitosa ma invero nell’ambito di una solidarietà intracomunitaria di cui la famiglia allargata – antenata sicuramente più efficace del moderno welfare state – fu l’organismo portante. La povertà divenne miseria una volta compiutasi la rivoluzione industriale, quando l’esodo urbano che la succedette fu la causa dello sradicamento di intere popolazioni che volevano inseguire il mito – esclusivamente “cittadino” – sintetizzato nell’american way of life. Un sogno che tuttavia fu destinato a scontrarsi con la realtà dei fatti e che espose all’emarginazione sociale tutti quei poveri che non vi ebbero accesso. Cossicché la povertà divenne miseria quando perse la sua dimensione dignitosa – peraltro con il collasso definitivo della morale cristiana -, quando la mancata riuscita nel contesto lavorativo – divenuto luogo di alienamento della propria forza lavoro sul mercato – divenne fallimento, e, nell’etica protestante che pervase il capitalismo occidentale, il fallimento fu assunto come “peccato originiale”. Il povero divenne misero, perché totalmente situato in un luogo altro, al di là delle logiche della produzione e del consumo, dunque del tutto inutile all’organismo sociale che si autocontempla nella sola dialettica dello sviluppo: produrre per consumare e consumare per produrre. Misero perché moralmente e culturalmente privo di radici, di origini e di identità, credenziali necessarie all’individuo moderno ma che solo l’accesso al consumo può stanziare.
Così siamo di fronte ad un paradosso patologico della nostra cultura che non solo accumula una classe povera sempre più grande, ma non la rende più in nessun modo partcipe dell’attività umana e sociale della collettività, non la rende parte integrata, rappresentante almeno di sé stessa, peraltro priva di una reale coscienza di sé, e allo stesso tempo, essa viene diabolizzata perché incapace di accedere agli standard del consumo.