Dedicato a tutti coloro che sognarono d'essere dei rivoluzionari e trasformarono il loro sogno in incubo... a tutti coloro che si sono fatti lesti a prendere le distanze e a proteggersi con distinguo e dimenticanze... a tutti coloro che dicevano essere pronti al momento giusto e il momento giusto era sempre il giorno dopo... a tutti coloro che non si erano neppure accorti che l'asfalto s'era bagnato e non di pioggia...
Di Mario M. Merlino
Devo ringraziare Angelo che mi ha invogliato ad andare a teatro. Uno spettacolo realizzato da detenuti della Compagnia Stabile Assai della Casa di Reclusione Rebibbia di Roma (autore Antonio Turco, nell’accento e nella passione per l’attività teatrale come strumento educativo, meridionale verace). Titolo dell’opera La fine all’alba. Cinque rapinatori, di cui uno poi risulterà essere un infiltrato, sono rimasti chiusi in una banca e con loro tre ostaggi. Una rapina andata a male o la ricerca di un palcoscenico, tragico e naturale (quattro di loro sono ‘vecchi arnesi’ del crimine) per una estrema rappresentazione dall’atmosfera crepuscolare? Il tutto, della durata di circa un’ora e mezza, accompagnato da intervalli musicali dal vivo e dalla viva voce di una brava cantante di soul. Cinque rapinatori, arco di quell’essere al di fuori delle istituzioni delle regole di una vita normale e, quando anche viene loro restituita, impossibile. C’è chi faceva parte della banda della Magliana – e attrae e intriga la giovane presa in ostaggio –: c’è l’affiliato alla camorra facile ad accendersi d’ira e nelle minacce verso il direttore di banca; c’è il narcotrafficante di statura internazionale, che il mondo gli ha regalato emozioni esperienze ed intuito; infine un ex terrorista, reintegrato quale professore universitario, che va ‘a cercar la bella morte’.
Già, la morte… E lo spettacolo ha, quale premessa e sua conclusione, il richiamo esplicito ad Il settimo sigillo, il coinvolgente e inquietante film di Ingmar Bergman, là dove la morte è sfidata ad una partita a scacchi da un cavaliere, tornato nelle terre del Nord dopo anni in cui si è battuto contro gli ‘infedeli’, ma perdendo egli stesso la fede dopo i troppi orrori a cui ha partecipato. Premessa e conclusione sull’ineluttabilità della fine nonostante l’uomo si rifiuti di dialogare con essa quasi ad esorcizzarne la presenza. E qui – nello spettacolo – emerge la vena didattica dell’autore, una sorta di io narrante, di voce fuori campo. Tecnicamente necessaria o, in qualche modo, un imporre allo spettatore la risposta e privarlo di farsene da sè un senso? Nella parte del ‘cavaliere’, tutta vestita di bianco a contrapporsi al nero della morte, Patrizia Patrizi, professoressa all’Università di Sassari, che ebbi occasione di conoscere in casa di Angelo insieme ad Antonio Turco.
Parentesi doppia, ad uso dei lettori che – ne sono certo (!?) – non possono fare a meno delle ‘storie’ del professor Merlino… Anno fatidico 1968, in televisione hanno trasmesso Il settimo sigillo. Fabrizio de Andrè pubblica l’album Tutti morimmo a stento. Presentazione alla libreria Rinascita, in via delle Botteghe Oscure, proprio sotto il palazzo sede del PCI, acquistato con l’oro di Dongo. Non ricordo come e perché ne ebbi notizia e vi andai. Pubblico ridotto, forse a causa di un difetto di comunicazione. La serata si trasformò in una sorta di conversazione salottiera e proseguita davanti ad una pizza e un bicchiere di vino. Si venne a parlare proprio del film del regista svedese. E Fabrizio ci raccontò della sua paura verso la morte, di quel suo anarchismo inquieto ed esistenziale che, per dirla con Céline, ‘è uno dei tanti falsi simulacri’ con cui l’uomo s’adopera ad evitare appunto di giocare con la morte sapendo bene che sarà lui condannato a subire scacco. Diversi anni dopo, sia a scuola che in altra occasione, realizzai un breve ciclo di proiezioni proprio sul tema: Il settimo sigillo, Fuoco fatuo e Mishima…
Patrizia Patrizi non ha conosciuto Marcello Lelli, arrivata ad insegnare in Sardegna, dopo che egli era deceduto in Brasile per un infarto. Però il suo nome, l’insegnamento della sociologia, una certa influenza sono ancora presenti. Egli era malato di cuore già quando frequentammo nella stessa classe la scuola media al Daniele Manin. Poi egli entrò nel PCI, che gli trovò lavoro e formazione politica, fece carriera, divenne segretario della Federazione giovanile (fu destituito quando, alla morte del Che Guevara, la manifestazione davanti all’ambasciata americana degenerò in aspri scontri… Ne ho parlato in E venne Valle Giulia), fu fra i fondatori de Il Manifesto, assistente di Sociologia e poi titolare di cattedra appunto a Sassari. Ci ritrovammo nel clima della contestazione e, nel pomeriggio del 12 dicembre ’69, dovevo recarmi da lui in facoltà per discutere della mia tesi su le componenti anarchiche nel pensiero di Jean Jacques Rousseau. Le cose andarono diversamente e, la sera stessa, mi ritrovai in Questura per finire, pochi giorni dopo, nel carcere di Regina Coeli. Giudici e stampa cercarono di dimostrare che l’appuntamento con Marcello era un tentativo di alibi, di coinvolgere un nome della sinistra nelle mie ‘provocazioni’… Ebbene, pur dovendosi scontrare con tanta parte dei suoi compagni, egli testimoniò sempre il vero su quel mancato incontro. E fu per questo, nel rispetto della diversità nostra e della sua onestà intellettuale, che mi recai al suo funerale, all’aeroporto di Fiumicino, in camicia nera…
La fine all’alba… Non sono un esperto di copioni teatrali di qualità della voce di sceneggiatura; le mie esperienze si esauriscono in incontri di parole e musica su Robert Brasillach, sulla XMAS, su Mishima Yukio e su Céline (questi due ultimi autori con spettacolo vero e proprio). Ne vado sì fiero, ma anche consapevole del carattere artigianale ed episodico. Quindi non entro nell’ambito tecnico dello spettacolo. Mi preme rilevare altro; un altro dal carattere di reazione emotiva e di riflessione personale. Ho scritto come, fra i cinque rapinatori, vi sia un ex esponente del terrorismo (di sinistra probabilmente visto il suo reinserimento nell’ambito universitario, ma in fondo ciò non è essenziale. Meglio, lo è, ma in una analisi di come la borghesia con la classe politica usò un metro di valutazione consolatorio e giustificante verso quelli che ha sempre considerato i propri figli un po’ scapestrati avventati ed esaltati e ciò a danno di quei giovani nazional-rivoluzionari a cui va, quale titolo di merito, aver pagato un prezzo ben più alto).
Ecco: pur consapevole del rischio d’essere frainteso, avverto come quella vicenda, che fu parte di una generazione successiva alla mia, mi manca – manca quel di più – rispetto alla piazza ai bastoni alla molotov all’odore aspro dei lacrimogeni al gusto un po’ scanzonato di correre inseguito dai caroselli della celere i manganelli le bandoliere. Troppo poco rispetto agli anni che sarebbero seguiti e di cui, nostro malgrado, fummo determinanti nel loro tragico disperato inutile feroce scatenarsi… Non fu quello quanto avremmo voluto vedere ed essere partecipi e rimango fedele alle ragioni di una lotta gioiosa diretta del cambiamento, una lotta ove le idee si levano dall’urlo e dal calpestio delle forze in campo rispetto al cupo tunnel di una metropolitana ove i binari conducono al nulla, rischiarato dal vivido lampo della P38 e delle bombe… quel nulla che, in ciascuno di noi alberga e che rendo visibile in me senza illusioni o inganni, ma che è privo di bandiere mani levate sogni ad occhi aperti tramonti per consentire a nuove aurore di sorgere (Trotskij diffidò subito del Viaggio al termine della notte perché ben intuì che in Céline mancava ‘la speranza’). Altro, però, è la carne le ossa il sangue, altro rispetto alle parole dette e a quelle scritte… in un alberghetto nei pressi della stazione di Torino (ed anche, qui, non sia, mi auguro, frainteso) ‘Non più parole. Un gesto’, Alain che cerca nel gelido contatto del metallo la risposta ultima ed estrema del senso dell’esistenza. Ecco: La fine all’alba… e, non quando cala la sera ed il sipario…
(Esco dal teatro, sta imbrunendo, grigio, cade una pioggia lieve, mi affretto verso la fermata dell’autobus, vivo e, nonostante tutto e comunque, sono io qui e, in piedi fra le rovine di un mondo non mio, mi muovo a passo di danza… come il dio Dioniso.