martedì 20 maggio 2014

Buon compleanno Barone, sono ben 116! Julius Evola nel ricordo di Giano Accame


tratto da Destra.it

Franco Volpi, stretto collaboratore di Adelphi e di Repubblica, va ormai considerato – specie per gli approfondimenti nella cultura tedesca da Schopenhauer a Heidegger e Schmitt – come il più interessante studioso italiano di filosofia. Nella puntata su Evola della serie sulle Intelligenze scomode del Novecento per Rai Educational, con Sergio Tau ho trasmesso di Volpi questa dichiarazione:
Quando realizzai il Dizionario delle opere filosofiche, prima in Germania e poi in Italia, uno dei problemi più spinosi fu quello riguardante la filosofia italiana. Quali autori, quali filosofi, oltre agli scontati Croce e Gentile, andavano inseriti in questo Dizionario per avere una scelta sufficientemente rappresentativa? La mia prima idea fu quella di inserire come terzo grande pensatore del Novecento italiano Julius Evola.
Ne risulta che tutti e tre gli autori più rappresentativi del Novecento italiano erano di destra. Croce, beninteso, come Einaudi, apparteneva alla destra antifascista (mentre erano filofascisti tra gli economisti Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni). Se partiamo da questo primo dato per un breve giro del mondo arriviamo alla conclusione che un’assai larga parte dell’intelligenza del secolo scorso fu di destra. E con qualche eccezione, come Croce o Borges (antiperonista), lo fu d’una destra fascista o accusata di fascismo.

Ma nell’ambito della destra non fascista vanno ricordati per importanza nella cultura mitteleuropea gli scrittori austriaci, in gran parte ebrei, nostalgici dell’impero asburgico: da Stefan Zweig, suicida nel ricordo de Il mondo di ieri, a Franz Werfel che si convertì al cattolicesimo, a Joseph Roth con La cripta dei cappuccini e La marcia di Radetsky, a Lo Stendardo di Alexander Lernet-Holenia (non ebreo), a Hugo von Hofmannsthal, lo scrittore d’una grande famiglia ebraica assimilata che formulò l’espressione “rivoluzione conservatrice”.

Fu accusato di nazismo Martin Heidegger, considerato a livello mondiale il maggiore filosofo del secolo. E se Heidegger fu solo epurato, Carl Schmitt, maggiore politologo del Novecento, venne imprigionato per un anno dagli americani a Norimberga sotto accusa d’aver collaborato coi capi nazisti che nello stesso carcere furono impiccati. In realtà né Heidegger, né Schmitt, né Ernst Jünger, l’anarca di destra che con Schmitt e Heidegger scrisse libri a quattro mani, né Oswald Spengler, autore del Tramonto dell’Occidente, né Werner Sombart, geniale storico dell’economia, condivisero gli orrori del nazismo.

Col nazismo vennero confusi per la loro appartenenza alla composita galassia della “rivoluzione conservatrice” di cui il nazismo fu la componente più volgare e perciò vincente. Tratto comune a tutti loro fu il pensiero della crisi, da cui anche il fascismo era reattivamente germinato. Fu vicino al fascismo romeno Mircea Eliade, il maggior studioso del fenomeno religioso, ed è stato seppure impropriamente avvicinato al nazismo lo studioso svizzero della psicologia del profondo e degli archetipi, Carl Gustav Jung, secondo solo a Freud (con cui finì in polemica) nella psicanalisi. Nell’edizione italiana un saggio dell’americano Richard Noll è stato addirittura intitolato Jung, il profeta ariano (Mondadori 1999).

In Psicologia e alchimia del 1944 Jung citava Evola e da accuse d’antisemitismo si difese così nel 1934: “L’inconscio ariano ha un potenziale maggiore di quello ebraico; questo è il vantaggio e lo svantaggio di una giovinezza non ancora completamente sfuggita alla barbarie. Nella mia opinione è stato un grande errore di tutta la psicologia medica precedente applicare categorie ebraiche, che non sono nemmeno vincolanti per tutti gli ebrei, indiscriminatamente a cristiani, tedeschi o slavi. Così facendo la psicologia medica ha dichiarato che il segreto più prezioso dei popoli germanici – la profondità creativamente profetica dell’anima – è un garbuglio infantile e banale, mentre per decenni la mia voce ammonitrice è stata sospettata di antisemitismo. L’origine di tali sospetti è Freud. Non conosceva l’anima germanica più di quanto la conoscano i suoi imitatori tedeschi. La potente apparizione del nazionalsocialismo, che tutto il mondo osserva con occhi stupiti, ha forse insegnato loro qualcosa di meglio?”.

Il carattere reattivo accomuna il romanziere e premio Nobel norvegese Knut Hamsun, filonazista, e il romanziere giapponese Yukio Mishima, tre volte candidato al Nobel e “fascista di ritorno”: omosessuale (o bisessuale, perché ebbe anche moglie e figli) e contento d’esser stato riformato evitando i rischi della guerra, ottenne successi in Occidente come scrittore decadente; ma avendone compresa poi la vanità, tornò alle tradizioni degli antichi samurai, creò una formazione paramilitare, il Tate no Kai, Società degli Scudi, e in polemica contro l’asservimento del Giappone agli Stati Uniti si suicidò col rito del seppuku a 45 anni.

Anche gli scrittori fascisti francesi, da Pierre Drieu la Rochelle, suicida, a Robert Brasillach, fucilato per collaborazionismo, a Lucien Rebatet, lungamente carcerato, sorsero per reazione alla decadenza del loro paese, che di lì a poco a perse l’impero coloniale. È riconosciuto fra i geni del secolo l’anarchico Céline, imprigionato per collaborazionismo e antisemitismo, che fu lo straordinario innovatore della prosa narrativa francese; così come Ezra Pound, sbattuto dagli americani in una gabbia e poi tredici anni in manicomio criminale per il suo filofascismo, fu l’innovatore del modo di fare poesia in lingua inglese (influenzando l’irlandese Yeats e Eliot, entrambi premi Nobel e con inclinazioni fascistoidi, così come nel mondo inglese ebbero tratti fascistizzanti sia T.E. Lawrence (Lawrence d’Arabia), autore del classico I sette pilastri della saggezza, che D.H. Lawrence, autore del Serpente piumato e di Lady Chatterley); e Filippo Tommaso Marinetti, fondatore col futurismo della più completa fra le avanguardie del Novecento, giacché comprese poesia, prosa, pittura, scultura, musica, teatro, cucina, ecc., che poté vantare d’aver superato per primo le regole sintattiche con cui per secoli s’era fatta poesia, da Omero a d’Annunzio (altro precursore del fascismo).

Non solo quindi tre eccezionali maestri nell’arte della parola, ma anche punte avanzate nelle più ardite espressioni d’avanguardia. Inizialmente futurista e poi creatore d’una sua forma espressiva volta all’interpretazione grafica della rivoluzione fascista fu Mario Sironi, ormai considerato il maggior pittore italiano del Novecento. E se Sironi fissò l’immagine del fascismo nella pittura murale, Leni Riefenstahl, che rimane la maggior regista di documentari, filmò l’immagine del nazismo riprendendone nel Trionfo della volontà un congresso di partito a Norimberga.

L’elenco dei geni di destra potrebbe allungarsi includendovi altri premi Nobel, da Guglielmo Marconi, fascistissimo presidente dell’Accademia d’Italia, a Luigi Pirandello, a Konrad Lorenz, il maggior studioso di comportamento animale. Ma non fu tipicamente di destra l’inventiva tecnico-scientifica da cui sorse la radio, anche se il Duce si avvalse tra i primi della possibilità di comunicare col popolo via etere; né l’etologia di Lorenz si presta a essere rigidamente etichettata. Il relativismo pirandelliano venne invece assimilato al fascismo da Adriano Tilgher ottenendo il consenso di Mussolini, che nel recensirne i Relativisti contemporanei nel novembre 1921 aveva scritto:
La definizione è esattissima. Il Fascismo è stato un movimento super-relativista, perché non ha mai cercato di dare una veste definitiva programmatica ai suoi potenti stati d’animo, ma ha proceduto per intuizioni frammentarie. Se per relativismo deve intendersi il dispregio per le categorie fisse, per gli uomini che si credono i portatori di una verità obiettiva immortale, per gli statici che si adagiano, invece che tormentarsi e rinnovellarsi incessantemente, per quelli che si vantano di essere sempre uguali a se stessi, niente è più relativistico della mentalità e dell’attività fascista. Se relativismo e mobilismo universale si equivalgono, noi fascisti abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e di dirci volta a volta: aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti – noi siamo veramente i relativisti per eccellenza.
Insomma: nessuno in politica era mai stato così… pirandelliano come Mussolini. E Pirandello, ostentatamente iscrittosi al Partito fascista dopo l’assassinio di Matteotti, aveva in tante novelle e opere teatrali temi di critica non marxista, non economicista, al costume borghese, alla corruzione liberaldemocratica ne I vecchi e i giovani e scritto in Berecche e la guerra un racconto interventista. Furono inoltre di destra alcuni geni dell’organizzazione, come Henry Ford (autore tra l’altro d’un libro antisemita, che dovette ritirare dalla circolazione per evitare boicottaggi alle vendite delle sue automobili), che segnò lungo quasi tutto il secolo nel mondo per milioni di operai il modo di lavorare in fabbrica. O come in Italia Italo Balbo, che a capo dell’Aeronautica militare realizzò voli transoceanici in grandi formazioni, mentre prima di lui queste prodezze erano affidate a prove di coraggio solitario. O come Renato Ricci, che assunto il compito d’organizzare la gioventù italiana si recò in Inghilterra da Baden-Powell, fondatore degli scouts, che gli diede preziosi consigli, e in Germania da Walter Gropius, del movimento architettonico Bauhaus. Creata l’Opera Nazionale Balilla, fece costruire 890 Case del Balilla, 1.470 palestre, 2.568 campi sportivi, 40 teatri, 22 piscine, 520 ambulatori, una quantità di locali per biblioteca e una dozzina di Collegi, fra cui l’Accademia di educazione fisica al Foro Mussolini, l’Accademia femminile di Orvieto, i Collegi navali di Venezia e Brindisi, il Collegio aeronautico di Forlì, le Scuole marinaretti di Sabaudia e Cagliari e mise in mare la nave scuola Palinuro per educare gli scugnizzi napoletani. Gandhi venne a visitarlo. Con 12mila dirigenti Ricci mise 6 milioni di ragazzi a far ginnastica, tra cui 2 milioni e mezzo di Balilla, oltre 2 milioni di Piccole italiane, 960mila Avanguardisti, quasi mezzo milione di Giovani italiane.

Ricci aveva 28 anni quando Mussolini gli affidò quell’incarico e non volle avvalersi di collaboratori più vecchi di lui. Fece quindi realizzare il Foro Italico, rimasto tra i capolavori mondiali dell’architettura sportiva, da architetti giovanissimi, tra cui Luigi Moretti, che affermatosi tra i grandi architetti del Novecento in età matura fu chiamato negli Stati Uniti a progettare il complesso del Watergate. Accanto a Moretti altro genio dell’epoca fu Giuseppe Terragni, a cui si deve, tra altre opere entrate nella storia dell’architettura, la Casa del Fascio di Como. Ma ecco come il figlio di Renato Ricci, architetto Giulio, ha raccontato i criteri selettivi usato da suo padre per il Foro Italico: “Il primo che chiamò fu Del Debbio, che aveva 28 anni, e gli fece fare l’Accademia, lo Stadio dei Marmi e il primo piano regolatore del Foro Mussolini. Poi venne Costantini, che aveva 25 anni. Lo conobbe premiandolo a una gara di sci. Disse che aveva bisogno di lavorare. Mio padre lo chiamò a Roma e lui fece l’obelisco, le piscine, il tennis. Giulio Pediconi si presentò al Ministero e chiese del lavoro. Ricci gli domandò: “Quanti anni ha?”. “23″. “Quanto lavoro ha fatto?”. “Niente”. “Allora venga a lavorare per me”. L’architetto Pediconi ha fatto la Fontana della Sfera. Poi ha chiamato l’architetto Pintonello, che aveva collaborato con Costantini alla realizzazione del monolito e gli diede l’incarico dello Stadio Olimpico. Anche Moretti fu chiamato a collaborare al Foro quando aveva poco più di 23 anni: predispose il piano regolatore definitivo del Foro, che susseguiva quello precedente di Del Debbio. Moretti ha progettato la Casa delle Armi e altri lavori che avrebbero dovuto essere realizzati, compreso uno stadio per 400mila persone. Rimase legato, come del resto gli altri architetti e artisti, a mio padre fino all’ultimo giorno. E il giorno che mio padre uscì, nel 1950, di prigione, trovò sulla porta di Regina Coeli Moretti commosso, che piangeva, e lo portò con la sua macchina a casa”.

Il Novecento è stato connotato dal particolare valore politico attribuito proprio dal fascismo alla cultura. Renzo De Felice, descrivendone l’uscita con pochi compagni da partito socialista per aderire alle agitazioni interventiste, disse che Mussolini aveva scelto il “partito della cultura”. Era infatti interventista la cultura delle riviste del primo Novecento: quella più di destra, fiorentina, con Papini, Prezzolini, Soffici, ma anche quella che era inconsapevolmente una “sinistra della destra” con le pubblicazioni futuriste e del sindacalismo rivoluzionario, due movimenti d’avanguardia destinati a confluire nel fascismo. Poté sembrare sulle prime una scelta perdente rispetto alla posizione di prestigio goduta da Mussolini in casa socialista, eppure la via della cultura fu una scorciatoia verso la conquista del potere e l’estensione dei consenso.

Ci ripensò Gramsci, tormentandosi in prigione. Dal marxismo aveva appreso che la cultura era sovrastruttura: fu l’esempio di Benito Mussolini a suggerirgli l’importanza dell’egemonia culturale nella società per giungere al potere e conservarlo. Solo un vecchio trombone come Norberto Bobbio poté teorizzare stupidaggini secondo cui dove c’era cultura non c’era fascismo e viceversa. Una sinistra salottiera, sempre più vuota d’idee ma supponente, di queste cretinate si compiace da decenni, senza rendersi conto d’aver solo imitato tecniche usate dal fascismo per l’estensione del consenso attraverso eccezionali promotori di cultura come Giovanni Gentile con l’Enciclopedia italiana e la Normale di Pisa, organizzazioni come i Littoriali, i Guf, le riviste dei Berto Ricci, ancora le riviste e i premi d’arte di Bottai, la legge Bottai del 2% da destinare alle arti sul costo degli edifici pubblici, ma soprattutto la piena libertà di scelta stilistica, dai classicisti sino agli astrattisti, garantita agli artisti durante tutta la durata del regime.

L’imitazione ha giovato elettoralmente alla sinistra, meno alla cultura italiana e anche mondiale, la cui creatività nella seconda metà secolo fu meno brillante che non tra le due guerre.
Per vie molteplici, oggi, si fa sempre più preciso il senso, che una minaccia oscura incombe sull’intera civilizzazione d’Occidente. Nella crisi, investente non questa o quella forma speciale, ma la compagine dell’intero mondo moderno, sembra che si preannuncino i sintomi della fine di un mondo, del tramonto di una cultura.