martedì 29 gennaio 2013

Il fascismo e gli italiani. Per alcuni anche il consenso fu una “colpa”











di Annalisa Terranova (Secolo d'Italia)

Le parole di Silvio Berlusconi su Benito Mussolini e il conseguente dibattito che si è sviluppato sul fascismo che “fece bene” o che, per altri, “fece tutto male” non poteva essere trascurato dagli storici. Così oggi Il messaggero, nella pagina culturale, ricollega tutta la discussione al saggio dello storico fiorentino Filippo Focardi dedicato alla rimozione delle “colpe” della Seconda guerra mondiale. Il saggio s’intitola Il cattivo tedesco e il bravo italiano (Laterza) e si fonda sulla tesi che proprio Berlusconi ha in questi giorni rilanciato e che risulta essere condivisa da una larga fetta dell’opinione pubblica: il fascismo è stata una dittatura all’acqua di rose, il suo unico errore sono state le leggi razziali e l’entrata in guerra a fianco della Germania. La crudeltà di Hitler e dei nazionalsocialisti non avrebbe contagiato, secondo questa narrazione autoassolutoria, i “bravi italiani”. Una chiave interpretativa di natura quasi antropologica che si riscontra anche nel cinema (con pellicole recenti come Mediterraneo di Salvatores ma prima ancora con film come Tutti a casa di Comencini, che risale al 1960) e che si riflette inevitabilmente sulla politica e sulla storiografia con letture indulgenti del Ventennio quali quelle di De Felice, Montanelli e Petacco.

Ma è sulle cause che hanno consentito questa lettura delle colpe dell’Italia nel secondo conflitto mondiale che il saggio di Focardi raggiunge il suo punto più inquietante: sarebbe stata la mancanza di una “Norimberga italiana” a lavare la coscienza agli italiani contagiati dal fascismo, unitamente all’amnistia concessa da Palmiro Togliatti nel 1946. In pratica l’intento di questa storiografia massimalista sarebbe quello di informare di più e meglio sulle colpe degli italiani, in blocco complici del regime, per sfatare la visione che fino ad oggi si è avuta della dittatura fascista e del consenso che ricevette. Un invito contraddittorio e controproducente, oltre che fondato su premesse inesatte.

Perché? In primo luogo perché contraddice l’esito di quella necessaria pacificazione che leader lungimiranti come Togliatti vollero perseguire. Poi perché, lamentando la mancanza di una “Norimberga italiana”, non si tiene conto delle atroci e dolorose stragi del dopoguerra operate dai partigiani in modo sommario e indiscriminato e rimaste impunite. Infine, il nocciolo della questione sta tutto nel concetto di “colpa”, non individuale ma attribuibile a un intero popolo. È lecito allo storico farne uso, cioè procedere nella sua ricerca sulla base di un pregiudizio? Di certo è bizzarro che si utilizzi un concetto di questo tipo in una disciplina che esclude da sé e dal suo farsi principi assoluti come verità, male, o bene. Non esiste una verità storica, come non esistono, nella storia, il bene e il male assoluti. E non esiste neanche una direzione unica verso la quale la storia si indirizza. Il contro-revisionismo che il saggio di Focardi finisce con l’auspicare, in definitiva, rappresenta solo un cattivo servizio, di natura tutta ideologica, alla ricerca storica che (fin dalla storiografia positivista dell’Ottocento) non deve né assolvere né condannare i fatti, ma avvicinarsi faticosamente alla loro genesi.