venerdì 4 gennaio 2013

Obama evita il Fiscal Cliff ma è una mezza vittoria















di Filippo Ghira (Rinascita)

Le gazzette del sistema finanziario internazionale ed italiota e le tutte Borse hanno festeggiato l’accordo raggiunto al Congresso Usa per evitare il baratro finanziario (il cosiddetto “Fiscal Cliff”) e quindi la bancarotta delle casse federali. In realtà c’è poco da festeggiare e da stare allegri perché introducendo più tasse per i redditi più alti e pur rinviando i tagli alla spesa pubblica, Washington è riuscita soltanto e ancora una volta a prendere tempo e rinviare la inevitabile resa dei conti.
Sono infatti le cifre dell’economia Usa, i cosiddetti “fondamentali”, a testimoniarlo. Il livello del debito pubblico Usa, in virtù di un altro accordo nell’agosto scorso tra repubblicani e democratici è stato portato “legalmente” sopra il 100% rispetto al Prodotto interno lordo per evitare anche in questo caso la bancarotta. Un tetto “virtuale” considerato che considerando il debito dei singoli Stati della Federazione si arriva sopra il 130%. Non parliamo poi del debito commerciale che ha superato nel 2012 i 600 miliardi di dollari. Mica bruscolini! Se a questo poi si aggiunge che le famiglie sono super indebitate per i consumi primari, per pagarsi il mutuo e il college e l’università dei figli, ne esce il ritratto di un Paese i cui cittadini vivono ben al di sopra delle proprie possibilità.
La crisi finanziaria scoppiata nel 2007-2008 a causa delle speculazioni delle banche e delle società finanziarie di Wall Street ha messo a nudo una realtà che ben vochi volevano ammettere. Quella di una economia che può continuare a crescere soltanto in virtù del fatto che è stato portato alle sue estreme conseguenze il principio del “Deficit Spending”. Il principio keynesiano della spesa pubblica in disavanzo utilizzata come volano per la crescita economica attraverso l’effetto moltiplicatore degli investimenti pubblici e privati. A questo si deve poi aggiungere il fatto che la Federal Reserve continua a stampare a più non posso dollari che vengono immessi nel sistema finanziario ed accettati come moneta di riferimento nelle transazioni internazionali in conseguenza del ruolo degli Usa come prima potenza militare globale. Una moneta di occupazione quindi.
Se la moneta, come testimonia il significato latino di colei “che misura”, misura il valore dei beni circolanti all’interno di un sistema economico, questa è almeno la teoria classica, se ne deve concludere che il valore e il ruolo del dollaro sono fortemente sopravvalutati. A questo si deve aggiungere poi la crescente povertà di una larga fetta dei cittadini Usa ai quali la crisi finanziaria tracimata presto nell’economia reale, ha azzerato i risparmi, ha tolto il lavoro e in molti casi ha pure scippato la casa sulla quale avevano acceso un mutuo. Appare così evidente nelle vicende che hanno sprofondato gli Usa nella melma in cui sono immersi, quella che è la colpa originale del pensiero economico contemporaneo. La convinzione che ci possa essere sempre e comunque una crescita economica continua. Un principio semplicemente folle perché una crescita continua non esiste nemmeno in natura e perché una impostazione del genere porta inevitabilmente a mettere in atto il classico gioco del cerino nel quale l’ultimo della compagnia si trova con le dita bruciate. E nel caso della crisi ancora in corso a restare scottati sono stati soprattutto i lavoratori dipendenti e i cittadini del ceto medio. Certo, la finanza e l’Alta Finanza hanno le proprie colpe ed hanno potuto operare grazie ad un enorme potere diffuso che nei Paesi anglofoni è il frutto dell’assenza di una politica autonoma. Ma lo spazio che è stato loro concesso non sarebbe stato possibile senza questo substrato culturale nel quale all’economia, e alla finanza, è stato attribuito un ruolo salvifico unico.
L’accordo raggiunto al Congresso servirà quindi a poco perché lascia invariati i rapporti di forza all’interno della società Usa. Certo, sono stati aumentate le tasse a quei cittadini con redditi sopra i 450 mila dollari annui . Ma a ben vedere non si tratta di grossi sacrifici e in ultima analisi si tratta di una misura che pure sacrosanta sembra fatta più che altro a dare un contentino ai cittadini medi incazzati, e si tratta di decine di milioni di persone, che avevano votato Obama nel 2008 sull’onda del risentimento per l’amministrazione repubblicana uscente, quella di Bush junior, legata mani e piedi ai banditi di Wall Street. Un legame che lo stesso Obama ha fatto però di tutto per rafforzare tanto da portarlo a salvare banche come la Goldman Sachs che il cittadino medio Usa considera come l’impersonificazione della più schifosa speculazione. Gli oltre 9,5 miliardi di dollari prestati alla banca di Lloyd Blankfein sono serviti per salvarsi dal fallimento, permettendo di tornare in utile già nel 2010. A testimonianza che il crimine paga e che i criminali non sono soltanto i tipi come John Gotti, il defunto boss della famiglia mafiosa dei Gambino.
Dopo il voto favorevole del Senato è arrivato così in extremis, nella tarda serata del 31 dicembre, ultimo giorno utile, anche quello della Camera dei Rappresentanti.
Tra le misure previste, ci sono stati anche gli sgravi fiscali per le famiglie della classe media e la conferma delle aliquote della minimum tax. Sono state poi prorogate le indennità di disoccupazione di lungo periodo fino al prossimo dicembre e sono stati rinnovati per 5 anni anche i crediti di imposta per chi ha figli e per gli studenti che devono pagare il college. La tassa di successione su importi superiori a 10 milioni è passata dal 35% al 40%. Una misura a metà del guado è invece quella che alza al 20% i guadagni sulla compra-vendita di titoli (il “capital gain”) per chi vanta una retribuzione oltre i 400 mila dollari. Come quella dei crediti di imposta per le imprese che investono in ricerca e innovazione e nelle energie rinnovabili.
Una “svolta” che ha visto un accordo tra i vertici dei due partiti ma che ha visto ben 167 deputati su 435 pronti a votare no. Dei quali 151 repubblicani e 16 democratici.
Con i repubblicani che con spirito masochista insistono nel presentarsi come il partito dei ricchi e dei bianchi wasp. Ora la prossima tappa sarà quella di trovare un accordo per tagliare la spesa pubblica. Una impresa piuttosto complicata perché andrà a toccare gli interessi delle lobby delle quali tutti i parlamentari sono portatori. Il Congresso Usa è infatti la faccia ufficiale e legale del potere reale Usa, quello della Finanza e delle multinazionali che sono in grado di decidere chi ne debba fare parte e soprattutto chi debba andare alla Casa Bianca e chi debba fare il ministro.
L’accordo sul Fiscal Cliff nasce quindi dalla necessità sentita dalla maggioranza dei parlamentari di introdurre un minimo di immagine di decenza da rivendere all’opinione pubblica. Ma al tempo stesso esso non può nascondere la realtà di un mondo politico che non è in grado e non ha alcuna intenzione di imporre una politica economica che sia autonoma e svincolata dagli interessi dei grandi gruppi finanziari.